Elisa 2

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Elisa uscì, nel vapore del mattino d’aprile, già toccato dai primi raggi di sole. Si diresse in campagna. In poco più di trenta minuti di cammino raggiunse attraverso un sentiero una collina bassa circondata da vigne. A quell’ora la radura era silenziosa di voci umane. Spesso la tranquillità di quel luogo accoglieva i suoi passi in ogni stagione dell’anno.

Elisa osservava ogni dettaglio. Il fruscio di qualche piccolo animale nell’erba, gli uccelli che cominciavano i loro canti nascosti tra le fronde degli alberi. Godeva del respiro della collina sul viso, ancorché freddo quella mattina. L’inverno era finito ma i suoi occhi non erano ancora sazi di guardarlo.

Amava il freddo e le dispiaceva che il clima fosse divenuto più mite negli ultimi tempi, sottraendole in parte la possibilità di ammirare le opere d’arte che la natura scolpiva nel gelo.

Negli anni della maturità aveva riscoperto la sua passione più antica, messa da parte in quelli che lei chiamava gli anni dell’inganno.

Quella mattina voleva fotografare l’erba bagnata, la nebbia vinta dal sole. Lasciò che la bellezza di quel luogo le si dischiudesse in particolari che mai aveva notato.

La collina era ricoperta di vegetazione spontanea, e appena si scendeva un poco, si aprivano le vigne e semplici giardini. C’erano ancora dei ricci di castagno in terra, caduti nell’autunno passato, e le foglie nocciola li coprivano e li rivelavano, attraverso il suono che emettevano sotto i suoi passi delicati.

Era stata su quella radura in cima alla collina un giorno in cui aveva nevicato. Si sentiva quasi un lupo nella neve. La sua mente era silenziosa e piena di pace.

Quella mattina scattò duecento fotografie. Era stata ben contenta di passare alla fotografia digitale. Non era una purista, e seppure aveva iniziato con quelle tradizionali, non capiva per quale motivo non doveva accettare quell’innovazione tecnologica che consentiva di studiare più agevolmente le inquadrature in centinaia di scatti, per poter scavare in un soggetto fino ad avvicinarsi alla sua anima.

Silvia l’aveva vista uscire con un semplice cappello di feltro, guanti leggeri e stivali per non affondare nella neve e le augurò sorridendo «Divertiti, mamma».

Conosceva l’abitudine di sua madre una volta a casa: avrebbe scaricato le immagini sul computer dicendo, come sempre «Sono tutte brutte, solo qualcuna un po’ carina». Talvolta l’invitava a esaminare gli scatti con lei, ma succedeva di rado. Silvia non osava domandare alla madre di farla assistere alla “scoperta” delle foto, come era solito chiamare questo rito.

Elisa amava fotografare la campagna, ma soprattutto aveva la passione del disegno utilizzando le foto come rilievi al servizio di quello che aveva immaginato. Non aveva reale necessità di un supporto fotografico, la sua manualità e creatività erano eccellenti fin dai tempi della scuola, ma per lei si trattava di una specie di esercizio di precisione, che si basava sul riprodurre con esattezza l’immagine.

La sua passione per la fotografia era nata negli anni Ottanta, quando un amico di famiglia le aveva insegnato i rudimenti dell’arte, che in seguito aveva approfondito con corsi specifici durante gli anni di accademia.

In quel periodo la fotografia la aiutava a ritrovare serenità nei momenti in cui sembrava che nessuno, al di fuori della sua famiglia, la capisse o la tenesse in considerazione.

Oltre alla fotografia disegnava moltissimo. Se in gioventù amava molto il rosso pastoso e forte della sanguigna, negli anni della maturità aveva preferito i toni morbidi dell’acquerello e della tempera. Creava paesaggi con tinte soffuse e delicate ricavando l’ispirazione dalle sue fotografie.

A sua insaputa Silvia entrava nel laboratorio che Elisa aveva allestito in una piccola dependance accanto alla casa.

Prima di diventare la sua ‘officina’, l’area era stata utilizzata da Riccardo come locale di appoggio alla propria attività di vivaista.

Molti mesi dopo che l’ex marito se n’era andato, Elisa sentì che era giunto il tempo di ricostruirsi una vita propria. Nel silenzio aveva cominciato a lavorare alla dependance per renderla confortevole. Aveva imbiancato le pareti e ripulito il pavimento dai residui della vecchia attività. Aveva collocato un vecchio divano in pelle recuperato dalla casa dei genitori, sistemato un tavolo da lavoro su cui poneva i colori e quanto le serviva per dipingere. Talvolta si fermava lì a dormire.

Silvia sapeva dove trovare sua madre e immaginava che forse nella quiete della dependance sarebbe riuscita a trovare quella pace interiore perduta al tempo della rottura con Riccardo.

Dopo la separazione Elisa si era presa un breve periodo di aspettativa per assorbire tutte le amarezze subite, poi aveva ripreso il lavoro come schedatrice presso la Sovrintendenza ai Beni Artistici. Il fatto di spostarsi per raggiungere la località in cui erano conservate le opere e il trovarsi sovente a lavorare sola nelle antiche chiese favoriva la sua concentrazione. Amava quel lavoro, che non la occupava molte ore al giorno e la metteva a contatto con opere d’arte quasi sconosciute, che le sue analisi contribuivano a riportare alla luce.

Durante il ritorno dalla passeggiata mattutina rifletteva sulla sua situazione e sulle tante insoddisfazioni che aveva dovuto sopportare.

Sono stata troppi anni lontana da me. Presa dal piacere ad altri, che fossero quegli odiosi compagni di scuola, che fossero gli uomini più grandi ai quali mi sono concessa per sentire che potevo piacere, che fosse pure Riccardo, a cui non interessava nulla di me, di come stavo, di come vivevo la nostra relazione, la nostra vita insieme. Gli uomini credono che i problemi sessuali nascano in camera da letto. Chissà perché non riescono a vedere la sofferenza che ci fa ripiegare su noi stessi. All’inizio Riccardo sembrava interessato. Mi parlava con amore, mi ascoltava. Non potevo credere di aver conquistato un uomo così bello e affascinante. Invece non era vero nulla di tutto questo. Mi aveva presa per una lupa, come gli altri prima di lui. A me non interessava solo la sua carne, avevo bisogno di sentire l’importanza che avevo per lui. Ho compreso troppo tardi che non era disposto a nessun sacrificio per starmi vicino. È stato un buon padre, glielo devo riconoscere. Pieno di gioia con le bambine, un po’ troppo poco severo, forse. Silvia è come me, è introversa, non gli somiglia e non lo capisce. Sofia lo adora, e non farò mai nulla perché questo loro rapporto cambi. Sofia ha presa bene la nostra separazione. Almeno lei. Io non l’ho aiutata. Io non ho aiutato nessuno. Ne avevo appena per me. Non so se sono stata, e se sono una buona madre. Non credo. Specialmente per Silvia, che ha bisogno di qualcuno vicino, che le spieghi quello che vede succedere, anche adesso che è grande. Ma ancora non ho la forza per farlo”.

 

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I due Giovanni

In risposta al blog della Grazia che salutava l’arrivo del solstizio d’estate, ho scritto che il 24 giugno si festeggia San Giovanni il corto e questo ha suscitato la sua curiosità se esiste anche il lungo.

Se avesse comprato e letto il mio romanzo Una notte magica San Giovanni avrebbe trovato soddisfatta la sua curiosità.

Quindi vedo di spiegare anche a qualche altro curioso il motivo di queste definizioni.

Premesso che l’agiografia dei santi e beati della chiesa cattolica è zeppa di Giovanni, ma due sono quelli che sono più importanti: il Battista e l’Evangelista.

Il primo è festeggiato il 24 giugno e il secondo il 27 dicembre. Del primo si celebra la nascita, del secondo la morte. Ci vuole molta fantasia pensare che queste due date rappresentino in effetti questi due momenti, visto che non esiste certezza nemmeno sugli anni.

In realtà queste due date sono rappresentative due momenti clou dell’anno: il giorno più corto e quello più lungo. I più svegli avranno già capito il senso di corto e lungo attribuito ai due santi.

Però fingiamo che nessuno abbia compreso e proseguiamo. La chiesa cattolica all’inizio non poteva inventarsi delle festività che la popolazione che adorava ancora gli dei e legata alle sue tradizioni non avrebbe compreso. Quindi ha preferito la scorciatoia: fare sue le tradizioni romane e celtiche, per citare quelle dominanti. Tanto per esemplificare. Per i celti il primo novembre era per tradizione la festa dei morti che la chiesa ha dedicato a tutti i santi. Prendiamo il Natale e il periodo che finisce col sei gennaio. Dovendo festeggiare la nascita di Gesù quale periodo era migliore di quello tra il 25 dicembre e il 6 gennaio? Nessuno tenendo presente a Roma tra quelle due date si tenevano i Saturnalia, una specie di carnevale pazzesco dove gli schiavi erano liberi e tanto altro ancora. I romani celebravano la festa del Natalis Solis Invicti, associata alla rinascita di Apollo (e del Sole) dopo il periodo più oscuro dell’anno. Da questa festa prese spunto l’idea del 25 dicembre come data di nascita di Gesù. Quindi visto che fino al IV secolo d.C. non si celebrava la nascita ecco il periodo dove collocarla. Potrei andare avanti con altre feste pagane che sono diventate feste cristiane.

Però torniamo ai nostri due Giovanni, il corto e il lungo. Per i celti il 24 giugno e 27 dicembre rappresentavano due punti fondamentali nella loro vita. Il 24 giugno era la data d’inizio dei raccolti, che sarebbero finiti il primo novembre. Quindi per la chiesa rappresentava la nascita del Battista che coincideva col la notte più breve dell’anno. Ancora per i celti il 27 dicembre coincideva con la notte più lunga dell’anno e dal giorno dopo la luce avrebbe guadagnato tempo sulle tenebre della notte. Quindi idealmente per la chiesa avrebbe rappresentato la morte dell’Evangelista, perché poi avrebbe goduto il regno dei cieli.

Ancora una volta la chiesa si è appropriata di tradizioni pagane per celebrare questi due santi.

Ora se il 27 dicembre è meno sentita come festività, considerate quelle che la precedono e quello che seguono, il 24 giugno è un misto tra festa cristiana e pagana con un gran fiorire di saghe e tradizioni magiche, un po’ come la festa del sei gennaio coi suoi falò notturni.

Una notte magica San Giovanni la potete trovare

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Oggi lunedì

Come di consueto ogni lunedì Eletta Senso promuove un gioco linguistico. Oggi ha scelto un tautogramma in forma di lettera usando la C.

La trovate qui ma la potete leggere anche su questo blog.

Carlotta! Che cortesia ci concedi col contatto cordiale del calore del corpo.

Certo ci convinci con classe e centri il cuore al cento per cento.

I concetti calano con un capolavoro di chiarezza come la chiaroveggenza corrisponde alla consapevolezza della tua coscienza.

Centellini cognizioni calibrate per il conforto della compagnia.

Ci congediamo coi complimenti dei tuoi compagni di classe

Cloe Carlo Clelia Cecilia Clara Chiara Claudia Camilla Cristian Corrado Cesare

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Elisa

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Krimhilde e le fanciulle scomparse

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Elisa, una donna di statura media, aveva i capelli ricci e scuri. Gli occhi non erano molto espressivi per l’azzurro chiaro slavato senza luce che si smorzava sul viso troppo bianco. Ai tempi della scuola non aveva corteggiatori e questo l’aveva infastidita non poco. Mentre le compagne avevano nugoli di ragazzini brufolosi intorno, lei era sempre sola. Il seno era stato un altro suo cruccio. Era minuscolo, quasi invisibile, diversamente dalle compagne che ne avevano in abbondanza. In quel periodo faticava a comprendere quali sensazioni provassero a essere palpeggiate, perché lei non era l’oggetto del desiderio dei compagni.

Il suo carattere scontroso non aveva favorito i rapporti coi compagni. I maschi non la degnavano di uno sguardo. «È uno scorfano» era il loro migliore complimento. Le ragazze la snobbavano trattandola con superiorità. Per questi motivi aveva iniziato a guardare con attenzione al mondo degli adulti che le sembrava più interessante rispetto a quello dei coetanei. Non aveva mai visto un corpo nudo né femminile né maschile. Le uniche nudità erano le foto e i giornaletti hard che circolavano numerosi tra i banchi di scuola. I genitori erano stati discreti sia nei rapporti di coppia sia nel girare nudi per casa per non turbare la figlia e non avevano mai parlato con lei di sesso. Quello che sapeva l’aveva appreso dagli altri ragazzi senza comprenderne i meccanismi.

Elisa aveva fantasticato come avrebbe potuto essere un uomo adulto nudo e avrebbe voluto vedere suo padre se corrispondeva alle sue fantasie. La sua curiosità venne soddisfatta a quattordici anni una sera di fine giugno particolarmente calda. Non riusciva a prendere sonno, quando sentì dei rumori provenienti dalla stanza dei genitori, si alzò e non vista poté osservare prima la madre poi il padre che nudi andavano nel bagno. Il membro del padre la colpì perché non aveva immaginato che potesse essere così grosso e lungo. Tornata in silenzio a letto aveva cominciato a sognare in maniera confusa di essere posseduta da un uomo che aveva le sue sembianze. Alla mattina si era svegliata coi capezzoli turgidi e duri, con le mutandine bagnate e odorose di un profumo strano.

Continuò a sognare amplessi impossibili perché non aveva idea in quale posizione una donna doveva stare durante un rapporto sessuale finché un giorno non aveva sorpreso Angela, una ragazza di ventidue anni abitante nel suo caseggiato, negli scantinati con un uomo. Era sdraiata su un tavolo basso con le gambe aperte a penzoloni, con la gonna sollevata e gli slip su un piede. Era sovrastata da uno, che riconobbe come un vicino sposato con figli: aveva i pantaloni e le mutande abbassate. Aveva osservato con curiosità Angela e come lei assecondava l’andirivieni dell’uomo, inarcando la schiena. Era affascinata e non aveva staccato gli occhi dai loro movimenti. Adesso sarebbe stata in grado di trasformare i suoi sogni in qualcosa di reale. Ebbe modo di studiare altre volte questi amplessi. Sempre più spesso si trovava alla mattina bagnata e sempre con quell’odore strano. Capì che erano gli umori che la sua vagina emetteva durante i sogni notturni. Elisa in quell’estate si era trasformata da adolescente acerba a ragazza, mentre agli occhi dei coetanei rimaneva un’estranea, sempre più diversa.

Finite le medie, era il tempo d’iscriversi alle scuole superiori. Doveva operare una scelta. Era attratta dai monumenti antichi, dai ritrovamenti di reperti e amava il bello. Essendo brava a disegnare scelse l’Accademia di Belle Arti. In quel ambiente meno conformista, rispetto alla scuola frequentata fino allora, acquisì un’aria di mistero e divenne più impenetrabile ed enigmatica, sfuggente e sensuale. Il suo corpo emanava un odore mascolino che le donava un fascino tutto particolare. Gli occhi chiari senza luci si illuminavano nel momento in cui incrociava un uomo che le piaceva e come un’ammaliatrice catturava la loro attenzione con il suo sex appeal.

A sedici anni sembrava più matura della sua età. Attirava l’attenzione di uomini adulti o molto maturi che desideravano o speravano di avere rapporti sessuali, che lei riusciva a evitare all’ultimo momento per paura.

Quasi tutte le notti esplorava il monte di venere coperto da pelli soffici e serici per poi scendere con le dita tra le grandi labbra fino al imene che avvertiva elastico e morbido. Provava piacere nel sentire quella membrana flettersi dolcemente sotto la pressione delle sue dita. Si sentiva pronta a stare fra le braccia di uomo.

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Lipogramma in G

Oggi è lunedì ed Eletta Senso propone come gioco un lipogramma in G.

Ecco quello che ho pensato.

Il cofanetto di Puzzone

Sono belli i momenti che passiamo insieme a trastullarci con parole, articoli e lemmi. Aspetto con ansia mista a diletto per conoscere cosa proponi tutti i lunedì.

È un divertimento inventare storie, haiku, poesie che stimolano la mia fantasia.

Complimenti Eletta.

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Mattia

Questo racconto è stato pubblicato da pochi minuti su Caffè Letterario ma lo potete leggere anche qui.

Mattia come di consueto si recò nel suo ufficio, ubicato nella Milano che conta, nella zona di Piazza Affari. Era la mattina del 15 aprile 2006.

Questo si trovava in un edificio ristrutturato da pochi anni al secondo piano che si affacciava sulla piazza. La stanza ampia e spaziosa di forma quasi quadrata era arredata con gusto. Gli piacevano circondarsi di mobilio sobrio ma bello e costoso, un mix tra il moderno e qualche pezzo di antiquariato.

La grande scrivania di radica stava al centro della stanza davanti alla porta. Era un pezzo unico, perché era stata costruita per lui su misura da Cassina, come il mobile basso posto alle spalle della comoda poltrona Frau Forum Collection President di pelle nera. Mattia l’aveva vista su una rivista di interior design e l’aveva fatta fabbricare secondo le sue specifiche: gli era costata un’autentica fortuna, ma l’effetto visivo era straordinario.

Davanti alla scrivania stavano due poltroncine in pelle nera J.J. di B&B Italia dove faceva accomodare i clienti.

La stanza prendeva luce da un’immensa vetrata posta alla sinistra della scrivania, attraverso la quale si accedeva al terrazzo pieno di piante ben curate. La vista nelle rare giornate di cielo terso, che consentivano di osservare le montagne come se fossero lì, vicinissime da afferrare con le mani, era stupenda. Un tappeto persiano di lana dell’antica manifattura di Kum annodato a mano faceva bella mostra sotto la scrivania coprendo il pavimento di rovere non trattato. Era un autentico pezzo di antiquariato tanto che più di un amico scuoteva il capo vedendolo calpestato e offeso da tanti piedi. «Sei matto» dicevano, «vale una fortuna e tu lo usi come uno zerbino qualsiasi!»

Un lampadario Esprit di Venini, tutto cristallo e metallo, pendeva imponente dal soffitto al centro della stanza. Quando tutte le lampade erano accese, facevano brillare il disegno a forma di stelline.

Nell’angolo a destra stava un tavolo rotondo di noce col piano intarsiato a formare una scacchiera con quattro poltroncine di legno ricoperte di raso rosso. Tavolo e poltroncine erano della seconda metà dell’ottocento, acquistati per pochi soldi da un antiquario di Arezzo insieme al quadro di scuola bolognese del seicento appeso sulla parete accanto alla porta. Quest’ultimo era stato un autentico colpo di fortuna, perché al momento dell’acquisto in apparenza appariva a una crosta, mentre in realtà era autentico e di valore. L’autore era ignoto ma una perizia l’aveva attribuito a un allievo uscito dalla scuola dei Carracci. Dopo un accurato restauro coi colori tornati allo splendore originale, un amico antiquario, uno dei tanti che aveva, era arrivato a offrire per tutti i pezzi oltre 100.000 euro, ma lui li aveva rifiutati. «Questi pezzi li ho comprati col primo bonus dell’IBM e ormai fanno parte della mia vita. Non riuscirei a distaccarmene».

Alle sue spalle stava appeso un grande quadro moderno dai colori forti, a cui era particolarmente affezionato. Conosceva l’autore, Gabriele Amadori, quando era alla ricerca dell’affermazione artistica. Era quasi di famiglia. C’erano in casa diversi quadri, compreso questo, che suo padre gli aveva donato in occasione del matrimonio. A Laura non piaceva, perché diceva: «Mi mette angoscia ogni volta che lo guardo». Fu il primo pezzo con il quale arredò l’ufficio, togliendolo dalla parete di casa con grande sollievo della moglie.

Non aveva una segretaria personale ma una che condivideva con altri professionisti sistemati al suo piano.

Mattia era un professionista di successo e ricercato da tutti, tanto da non avere problemi economici, perché le commesse non mancavano. In realtà poteva permettersi di selezionare quelle che più gli piacevano, scartando il resto.

Seduto alla scrivania guardò le fotografie di Laura e Michela contornate da una cornice d’argento e rifletté sulla vita che stava conducendo. Avvertì un senso d’angoscia. Doveva meditare sulla propria famiglia e cosa voleva aspettarsi da loro. “Forse avrei dovuto farlo prima” pensò, mentre sollevava il telefono. «Anna» disse alla segretaria quando sentì la sua voce, «per un’ora non vorrei essere disturbato».

Anna era la segretaria che aveva trovato quando aveva aperto l’ufficio una decina d’anni prima. Fin da subito era entrato in sintonia con lei. All’incirca dell’età di Laura era di corporatura minuta, non appariscente. Nonostante qualche capello bianco mascherato da colpi di sole aveva fatto la sua comparsa, suscitava gli sguardi ammirati dei clienti. Per lui era una persona fidata a cui non avrebbe rinunciato tanto facilmente. Quando anni prima rimase incinta, aveva perorato la sua permanenza con gli altri colleghi con cui la condivideva ed era riuscito a convincerli a non licenziarla. Poté annunciarle che dopo la nascita del figlio non ci sarebbero stati problemi a ritornare al suo posto in segreteria.

Per questo lei aveva ripagato Mattia con una devozione fuori del comune, forse ne era anche segretamente innamorata.

«Signore» rispose Anna interrotta subito da Mattia.

«Quante volte te lo devo dire che non voglio essere chiamato signore?»

«Mi scusi, Mattia, ma è più forte di me. Si ricorda che alle 10 ha l’appuntamento con il Dottor Rimessi? Alle 11 con l’Ingegnere Monaco e a mezzogiorno con Alberto, con cui deve fare il punto sul progetto ‘Rischio’?»

«Sì. Quando arriva il Dottor Rimessi, lo fai attendere nel salotto rosso con una scusa qualsiasi. Telefona all’Ingegnere Monaco, chiedendo di spostare l’appuntamento alle 12. Se non può, fissane un altro per una giornata diversa. Per Alberto organizza un pranzo di lavoro, al quale desidero che partecipi anche tu, se non hai altri impegni. Se Alberto non può, prenota ugualmente un tavolo per noi due».

Anna rimase in silenzio. La proposta l’aveva colta di sorpresa. Era la prima volta che Mattia l’invitava. “Sono oltre dieci anni che lavoro con lui e non mi ha mai invitato a pranzo”. La proposta le aveva fatto piacere. Rifletté che non aveva impegni da costringerla a tornare a casa. In effetti non c’era nessuno da accudire. Quindi accolse con gioia il pensiero di trascorrere la pausa pranzo con lui.

«Ho recepito le sue disposizioni. Prenoto al Don Giovanni. Va bene o desidera un altro ristorante?»

«Va benissimo. Quindi niente telefono, né persone. Fino alla dieci e trenta non ci sono per nessuno».

Tornò a guardare le fotografie appoggiandosi al comodo schienale della poltrona.

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Silvia

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Silvia si appoggiò allo schienale della sedia, dopo aver inviato il messaggio. Lo visualizzò e aprì l’allegato. Era un fiore rosa a forma di imbuto doppio con le foglie ovate di colore verde chiaro.

Le tornò alla mente il nome latino di quel fiore, che il padre le aveva insegnato tanti anni prima: era Petunia hybrida.

Sorrise, perché in effetti era in grado di conoscere anche il nome scientifico di quasi tutte le piante che avevano popolato la casa e il vivaio che il padre aveva creato sulle colline della Brianza non molto distante dalla città.

Lo sguardo corse verso la scrivania. Qui teneva un bonsai, un minuscolo acero rosso. Da tempo non gli dedicava un po’ di cure e solo ora notava che era stato potato. Doveva essere stata sua sorella Sofia, perché di sicuro sua madre non si sarebbe preoccupata della vita della pianta.

Elisa, la madre, si era chiusa a riccio in un silenzio quasi assoluto dopo l’abbandono del marito una decina di anni prima. Si occupava solo in apparenza delle due figlie, Sofia la maggiore e Silvia la minore, nella realtà di tutti i giorni. Tuttavia da tempo si era allontanata da loro come da chiunque altro gravitasse intorno a loro.

Ai suoi occhi Sofia aveva un carattere simile a quello di suo padre: solare e ricca d’idee, creativa e piena di fantasie. Secondo lei era stata la figlia più amata. Silvia col tempo aveva accettato la separazione del padre, vivendola come un distacco dalla madre invece che da loro, senza perdere la speranza di vederlo di nuovo sereno come era sempre stato. Però quando se ne andò di casa, lei aveva solo tredici anni. Quella sparizione era stata per lei molto traumatica all’inizio ma la superò in fretta.

Tuttavia ricordava quel periodo nero della sua esistenza con rabbia sorda. “Allora non avevo accettato la separazione tra i miei genitori. È stato per me un tradimento. Quel abbandono mi ha colpito in prima persona alle spalle con l’inganno. Nonostante ogni due settimane lo incontrassi per passare il fine settimana con lui, non è stato più come prima, quando allegro e sorridente entrava in casa e mi prendeva in braccio facendomi volare e mi baciava”.

Avvertiva dentro di sé una ferita non sanata dalle parole che non le erano state dette, perché era troppo piccola per capire. Come la madre, scelse il silenzio e la solitudine lasciando dentro di sé quell’amore mozzato e smozzicato a macerare l’anima. Negli anni aveva imparato a parlargli del nulla. Aveva deciso di parlare solo del vento e della pioggia, aveva racchiuso in sé il desiderio di essere solo se stessa. Raggiunti i diciotto anni, aveva smesso di passare i weekend con lui. Da quel momento aveva interrotto ogni rapporto. Per lei aveva cessato di esistere. L’aveva dimenticato o meglio aveva preso la decisione di non pensare più a lui.

Tuttavia quegli anni dell’adolescenza stavano presentandole il conto, sia pure sotto altre forme, per emergere alla luce adesso che era adulta.

Piccola e schiva aveva attraversato il liceo senza che nessuno la notasse. In fondo non le era dispiaciuto sparire nell’anonimato. Aveva scelto il liceo artistico, come la madre. I suoi disegni parlavano per lei attraverso i suoi fogli di colore avorio, i tratteggi perfetti delle forme, il rosso pastoso della sanguigna. Si era iscritta l’università per diventare una grafica, ma aveva capito fin da subito che non era la sua strada.

A ventuno anni incontrò Laura e il teatro per la prima volta. Subito intuì che era quello il suo mondo.

Era una domenica pomeriggio quando Silvia vide Laura per la prima volta. Aveva organizzato uno stage gratuito per far conoscere la nuova scuola di teatro che dirigeva. L’aveva notata tra gli aspiranti attori, mentre si era soffermata a osservarla per un attimo. Era stato quel volto pallido senza sorriso con i suoi occhi nocciola a colpirla.

Silvia amava le attività artistiche in generale. Era alla ricerca della sua via da seguire insoddisfatta degli studi universitari che aveva intrapreso. Quando aveva letto il volantino rosso mattone, dove emergeva la foto di una signora che guidava un gruppo in quello che sembrava un esercizio di espressione corporea, capì che anche il teatro poteva essere lo sbocco cercato.

Conosceva qualche rudimento di terminologia di tecnica teatrale, legata alle materie del corso di grafica che frequentava. Però non si era mai accostata in prima persona al teatro come protagonista. Era stata solo una spettatrice dello spettacolo. Del volantino la catturarono la foto, le espressioni sui visi di quel gruppo di persone. Le era stato detto che, quando disegnava, aveva un’espressione concentrata e serena. Come loro. Così decise di partecipare a quell’incontro.

«Il teatro è letteratura scritta nella carne, nella parola e nel corpo. Per arrivare a esprimerci attraverso la parola lavoreremo sulle emozioni, sullo sguardo, sul contatto. Il teatro senza il corpo sprigiona solo una piccolissima parte della sua forza. Cercheremo in noi stessi e nel gruppo che si sta formando, anche se ancora non potete rendervene conto, l’espressione di quella forza». Queste erano state le prime parole pronunciate da Laura in quell’incontro.

Silvia aveva eseguito con paura mescolata a curiosità gli esercizi di fiducia e di contatto che servono a creare il gruppo. Non amava tenere lo sguardo fisso negli occhi del compagno, e mentre l’altro, per la sua tensione, scoppiava a ridere, lei distoglieva subito lo sguardo.

Quando Laura aveva dato inizio agli esercizi di movimento a occhi chiusi, Silvia, che fino a quel momento si era cimentata in tutti quelli proposti, aveva cominciato a posizionarsi sempre vicino a lei, per seguire meglio le sue istruzioni. Appena iniziato, qualche secondo dopo Silvia li aprì con l’affanno nello sguardo, poi guardò Laura, che sorrise e fece cenno di chiuderli con fiducia. Lo aveva fatto e aveva cercato di portarlo a termine.

Qualche altro movimento, il sentire opprimente della perdita dei punti di riferimento visivi, quella sensazione sconvolgente di buio e di perdita di orientamento l’avrebbero fatto riaprire gli occhi, quando aveva avvertito la mano della sua guida che la teneva saldamente, l’accarezzava, le massaggiava la fronte. Era riemersa nella realtà con lo sguardo di chi aveva provato a sfidare se stesso e aveva fallito.

Laura le aveva detto di sedersi e di aspettare il prossimo esercizio, se si fosse sentita in forze per eseguirlo.

«Riuscirò mai a farlo?» Aveva chiesto con l’occhio sbarrato ma di nuovo il sorriso di Laura l’aveva rassicurata. Era un esercizio di contatto di gruppo dove tutti corpi avrebbero respirato all’unisono per sprigionare calore. Era stata la sensazione di questo esercizio che la convinse di non potersene andare. Aveva chiuso gli occhi e si lasciò trasportare dalla sensazione di essere protetta. Si era appoggiata a quell’intrico di braccia e gambe. Aveva percepito che sarebbe stata protetta. Si era annullata, ascoltando il proprio respiro e quello dei compagni. Alla fine dell’esercizio con spontaneità abbracciò la compagna più vicina che l’aveva sorretta.

Aveva cominciato a piangere dopo tanto silenzio.

Lo stage fu talmente entusiasmante che decise d’iscriversi per le sensazioni ricevute da quella figura che l’aveva avvinta e stregata. Sentiva che non avrebbe potuta rinunciare alla sua vicinanza.

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Metagramma

Come ormai sapete tutti, e chi non lo sa lo apprende adesso, Eletta Senso promuove ogni lunedì un gioco linguistico, che Luisa Zambrotta replica qualche giorno dopo.

Questo lunedì la proposta era un metagrammo. Cos’è un metagrammo? Lo sanno tutti, ma per chi non lo sa lo spiego – malamente . Scelta una parola e cambiando una lettera si comincia  a scrivere un piccolo racconto o una poesia che contengono i vari lemmi modificati come detto.

Faccio un esempio. Supponiamo di partire con SERENA. Cambiamo la E con la I e otteniamo SIRENA, poi sostituendo I con F si ottiene SFRENA e così di seguito. Vi risparmio il raccontino 😀

Tornando a noi per Eletta ho scelto due liste di parole e composto due miniracconti. Per Luisa solo uno.

Eletta Senso

BOTTE BITTE BATTE BATTI BASTI BUSTI

La BOTTE scende dalla nave ormeggiata alle BITTE. Il vento BATTE le vele il cui suono sovrasta i rumori del porto. Tu BATTI le mani contento osservando mettere i BASTI ai muli che porteranno il vino in cima alla collina. Poi entri nel bar a guardare la televisione dominata dai mezzi BUSTI.

PORTO POSTO POSSO PASSO LASSO LASCO BASCO BASSO

Gigi va ogni mattina al PORTO a osservare l’arrivo dei pescherecci. È il POSTO giusto per lui. Non POSSO lasciargli il PASSO, perché sono LASSO per la lunga camminata. Gigi invece è LASCO e sorridente col BASCO sulle ventitré Gli dico in un orecchio di volare BASSO, perché rischia di avere delle amare sorprese.

Per Luisa queste

CASTO COSTO CORTO CORVO CERVO SERVO SERTO

Il CASTO giovane andava per il bosco sapendo dei pericoli. A ogni COSTO, incurante del buio, camminava a passo CORTO. Sentì un gracchiare. «È un CORVO di sicuro!» Poi udì il bramire sordo del CERVO e sorrise spensierato. «Stasera ascolto tutte le voci del bosco!» E accelerò il passo, sperando che il suo SERVO gli andasse incontro. Lo vide col SERTO in mano. Era per lui.

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Laura

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Laura era seduta davanti al suo portatile, quando un breve suono le annunciò l’arrivo di un nuovo messaggio di posta.

Continuò nelle sue occupazioni. C’era tempo per leggerlo e non voleva essere distratta, perché stava preparando la prossima prova del “Romeo e Giulietta”. Voleva essere accurata e non tralasciare nessun dettaglio, perché quel giorno le prove erano state poco attendibili per via delle molte imprecisioni degli interpreti e anche, doveva riconoscerlo, dell’allestimento della scena, che aveva gestito in prima persona. Non voleva che questo si ripetesse, perché le provocava tensioni e stress correggere in continuazione gli interpreti e cercare la risistemazione della scena quasi brancolando nel buio.

Era così intenta al suo lavoro che si dimenticò del messaggio arrivato, anche quando terminò le note operative per l’indomani.

Si allungò sulla poltrona. Ripensò alla giornata ormai agli sgoccioli, agli imprevisti in scena e agli eventi che erano accaduti dopo, che erano riusciti a stemperare la tensione accumulata.

Sì, c’era stato un piacevole e sorprendente fuori programma, che l’aveva lasciata di buon umore, come di rado era accaduto negli ultimi mesi.

La sua esistenza fino a questo momento non era trascorsa eccitante, tanto da indurla a gettarsi a capofitto nel suo lavoro, trascurando marito e figlia. Sentiva dentro di sé un rancore sordo, un distacco da quella vita familiare che le andava stretta. Da tempo non aveva rapporti col marito e non desiderava averne nemmeno con altri uomini.

Rifletteva, quando un nuovo segnale le interruppe i pensieri. Altri messaggi erano arrivati.

Si riscosse, aprì il programma di posta e cominciò a leggerli.

La sua attenzione cadde su quello inviato da Silvia.

Mia Laura,

so che non posso chiamarti o scriverti un messaggio, con le parole che vorrei. Ho bisogno di dirti ancora che mi manca il tuo abbraccio. Non credevo fosse possibile quanto abbiamo vissuto oggi. Parlavamo del teatro, come sempre, della teoria e della carnalità del teatro, del poter essere in scena il traditore e il bambino, e ci siamo trovate vicine nei sensi e nelle parole, sempre più in profondità, fino alle corde inespresse. Già, le corde inespresse, come dici tu. Non sapevo cosa sarebbe successo, non ho pensato, ti ho solo desiderata e mi sono lanciata nel vuoto avvicinandomi a te, portata da non so quale forza. Sì, lo so quale forza, ma ho paura di dirtelo. “Sulle ali leggere dell’amore ho superato queste mura: non ci sono limiti di pietra che possano impedire il passo all’amore, e ciò che l’amore può fare, l’amore osa tentarlo. Ecco perché i tuoi parenti non mi possono fermare”… Romeo. In scena interpreto con tutto il mio cuore Nutrice, ma avrei voluto essere Giulietta, tu lo sai. E mi innamoravo sempre di più vedendoti insegnare a Giulietta come muoversi in scena. E io, Nutrice, dovevo portarla via, ma in realtà l’assecondavo nel suo rubare un attimo per godere ancora della vicinanza del suo giovane amore. E ora sono io, forse, quel giovane amore… Amore. Parola grande e infinita, così difficile da pronunciare per chi ne conosca il peso. Come sempre con te perdo il filo dei pensieri, ma forse mai come ora lo ritrovo. Oggi ti ho sentita, finalmente. Ho sentito che non è solo un mio delirare, vano. Che ci sei anche tu, a dibatterti in questo sentirci, che ora è di entrambe, a non volerlo accettare del tutto, ma a sentirlo sempre più forte crescere dentro. La tua bocca, Laura, il tuo respiro, la tua pelle. Avrei pianto tra le tue braccia, ma le lacrime non mi escono. Poter piangere tutta la mia sofferenza tra le braccia di chi sente, capisce, conosce il mio cuore. E i tuoi occhi non erano asciutti oggi, dopo che ci siamo strette, e finalmente baciate, delicatamente, mentre le braccia si stringevano quasi ancorandosi al corpo dell’altra, e poi unite in un bacio vero. Ci siamo aggrappate l’una all’altra in quell’immenso bisogno di noi. Ho imbevuto la mia bocca, le mie mani di donna nella tua essenza. Ho sentito, come un lampo dentro, il tuo gridare con me. Con me. Con me. Accucciata sul tuo piccolo seno, quasi da adolescente, mi sono colmata del tuo sorriso, del tuo tenermi con te. Poi la tua voce. Per me è un canto. Mentre mi accarezzavi il viso mi hai parlato. Hai ragione, sai. Io lo so. E io posso stare in un angolo, felice se rubiamo un’ora per noi. Mi basta sentire che non è solo desiderio, non è follia quella che cantava oggi nei tuoi occhi.

Ti mando un’immagine di noi, un fiore rosso.

Silvia

Lei era una donna di 45 anni, non molto alta, con gli occhi azzurri e capelli castano scuro, che nascondevano qualche filo bianco.

Amava il suo lavoro, al quale dedicava molto tempo, seguendo una piccola compagnia teatrale, che girava quasi esclusivamente nei teatri della regione.

Adesso insegnava recitazione con altri colleghi a un gruppo di giovani attori, come muoversi sulla scena, come parlare. Stavano preparando il saggio che avrebbe concluso il corso del secondo anno: un’opera impegnativa sia per la recitazione, sia per la scenografia.

Quel martedì le prove erano state un disastro, c’era tensione tra loro e nessuno sembrava prestare attenzione. Tutti sembravano presi da altri pensieri, svagati come se la primavera li avesse svegliati dal sonno invernale. Aveva dovuto urlare e riprendere mille volte Giulietta, che sembrava avere la mente troppo deconcentrata e poi Romeo che era troppo caustico e pungente, per non parlare delle scene, tutte approssimative e imprecise. Sapeva di avere delle grandi responsabilità nel caos generale, perché le sue note non avevano saputo segnare al gruppo la strada da seguire. Avevano così poco tempo per la messa in scena del saggio e dovevano correre per rispettare i tempi.

Però quell’incontro fortuito e appagante con Silvia, la sua allieva, aveva cambiato il volto alla giornata.

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Il tramonto

da pexels-pixabay

Su Caffè Letterario ho pubblicato un nuovo post.

Lo potete leggere anche qui.

Il tramonto l’aveva sempre affascinata. Si perse nell’assistere allo spettacolo del sole che calava dietro quel boschetto nella campagna piatta della pianura.

Camilla si era fermata sul ciglio della strada per fissare nella retina quel disco rosso che imporporava il cielo ricoperto da nuvole.

Era un fermo immagine che voleva conservare nella mente, mentre le ombre della sera diventavano lunghe e scure.

Riavviò la macchina e riprese il tragitto verso casa. Lo stradone era deserto, mentre i fari dell’auto tagliavano l’oscurità del giorno morente.

Spense la radio. Non voleva interrompere il flusso dei pensieri. La giornata odierna per Camilla era stata pesante e solo la visione di quello spettacolare tramonto aveva avuto il potere di spezzare la spirale negativa della sua mente.

Era cominciata male al risveglio. Carlo era indisponente più del solito. Non andava bene nulla. La camicia stirata, i pantaloni in tintoria, come se fosse colpa sua se lui li sporcava a tavola, la giacca sgualcita. Sembrava che volesse attaccar briga su ogni cosa.

«Sei noioso» aveva esternato Camilla, sbuffando, mentre davanti allo specchio modellava le labbra col rossetto. «Non sono la tua schiava».

Carlo urlò qualcosa che lei non capì a pieno o forse finse di non sentire. Alzò le spalle. “Urla quanto vuoi” pensò, mentre finiva di cotonarsi i capelli.

«Il caffè è freddo» gridò con voce stridula.

«Dovevi alzarti prima, anziché poltrire nel letto» rimbeccò Camilla, che cominciava a manifestare insofferenza alle parole del compagno.

«Ma io esco un’ora dopo di te» precisò Carlo.

Camilla sorrise e si morse il labbro, contando fino a dieci. Tutte le mattine era una replica dei suoi lamenti per il caffè. “Beato te, che puoi startene sotto le coperte un’ora in più” pensò, osservando con la coda dell’occhio la sveglietta sul ripiano di cristallo del bagno. Erano le sette e se non si sbrigava sarebbe arrivata tardi in ufficio. Doveva percorrere un bel tragitto. Almeno un’ora di viaggio. Questo tutte le mattine. Doveva tenersi almeno venti minuti di margine, perché un ingorgo o un incidente avrebbe allungato i tempi di percorrenza.

«Ciao» disse Camilla, afferrando le chiavi e la tracolla prima di uscire.

Carlo grugnì qualcosa come il solito.

Camilla viveva in coppia con lui da cinque anni ma il loro rapporto tendeva a deteriorarsi un giorno dopo l’altro. Il grande amore iniziale stava lasciando il posto alla freddezza di sopportarsi a stento. Quello che li teneva uniti al momento era il mutuo della casa ma presto anche questo pretesto sarebbe caduto. Almeno era la convinzione di Camilla, che doveva decidere se comprare l’altra metà dell’appartamento oppure vendere tutto e trasferirsi vicino al lavoro. Tutti i giorni doveva farsi una cinquantina di chilometri per raggiungerlo e questo cominciava a pesarle.

Se poi ci aggiungeva la difficoltà a trovare un parcheggio comodo vicino, il pensiero di trasferirsi diventava quasi certezza. Le piaceva l’idea di andarci in bicicletta o a piedi e tornare a casa durante la pausa pranzo. “Anche oggi devo sostare lontano” sbuffò, mentre infilava la sua Toyota tra due suv.

Camilla era interior designer senior in uno studio di architettura, dove progettava gli interni di appartamenti e uffici. Nonostante avesse poco più di trent’anni, aveva fatto carriera in fretta per la sua capacità di coniugare raffinatezza e praticità in maniera funzionale alle persone che dovevano vivere o lavorare in quei locali. Una dote professionale che era stata apprezzata dal capo dello studio.

Entrando nell’ufficio, aveva trovato un appunto del suo capo: una grossa grana da risolvere in fretta.

Il cliente Amos non è rimasto soddisfatto del lavoro di Anna. Puoi dare un’occhiata?

Un modo elegante per dire che il progetto era da rifare. Sbuffò indispettita perché la giornata minacciava a proseguire male dopo i prodromi del risveglio.

Se c’era un aspetto del suo lavoro che la innervosiva era dover intervenire sull’operato di qualche collega con gli inevitabili peggioramenti dei rapporti interpersonali. Nello studio oltre a lei c’erano altri tre che operavano nel suo campo e ognuno aveva la propria sensibilità e il proprio tocco personale nella progettazione. Agire su questo le creava ansia, perché si rischiava di rendere disomogeneo il colpo d’occhio complessivo oltre al loro astio.

Con Anna non c’era sintonia. Estrosa e innovativa badava poco al funzionale con ricadute negative sull’uso della concreto dell’ambiente da progettare. Camilla aveva convenuto che fosse stato un azzardo affidare il progetto del loft ad Anna, conoscendo come Amos fosse poco incline alle stravaganze moderne della collega. Ne aveva parlato con Marco ma lui era stato irremovibile, perché Anna aveva delle buone qualità potenziali ma doveva maturare nella sensibilità di adeguare le sue idee al cliente.

Adesso puntuale era scoppiata la grana e lei doveva metterci una pezza. Stava seguendo un progetto di riqualificazione urbana impegnativo e delicato, perché l’opposizione politica aveva gridato all’inciucio, quando l’amministrazione comunale aveva affidato allo studio tutti i lavori. Quindi sotto i riflettori mediatici il team, del quale faceva parte, doveva rispettare tempi e costi per non finire sulla graticola delle polemiche politiche. Staccarsi dal progetto, anche solo per mezza giornata, rischiava d’innescare dei problemi nella tempistica delle attività. Il percorso da seguire era stretto e loro non potevano uscire dai margini imposti dal bando.

Camilla non aveva un’idea né delle rimostranze di Amos né del progetto di Anna. “Mi scoccia un po’ andare a parlare con lei su questo” rifletté, sedendosi alla sua scrivania. Era consapevole che alla fine si sarebbe tramutato in un corpo a corpo l’intervento. Con Anna che difendeva le proprie scelte e lei che doveva trovare la quadratura del cerchio.

Si massaggiò le tempie per scaricare la tensione che in poche ore aveva accumulato, prima di cominciare la discussione.

Camilla fu un facile profeta. Dopo otto ore di estenuante battaglia riuscì a convincerla a modificare parzialmente il progetto per renderlo più funzionale e adatto alle esigenze del cliente.

Alle diciassette, quando uscì dallo studio per tornare a casa, aveva un grosso cerchio alla testa, che pareva scoppiarle, come regalo della battaglia con Anna. A questo si aggiungeva il pensiero di vedere Carlo, che faticava a sopportarlo. Avrebbe preferito rimanere in ufficio tutta la notte anziché sentire la sua voce.

La visione del tramonto ebbe il potere di sciogliere lo stress accumulato per affrontare una nuova serata col compagno.

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