Il Viaggio – 6

Camminò a lungo, tornando spesso sui suoi passi alla ricerca del paese. Tutti gli incroci sembravano uguali, tutte le strade avevano una singolare comunanza familiare, come se avesse abitato sempre in quel posto, ma alla fine stabilì che si era perso.
Rise di gusto, perché il fasullo gli aveva giocato un bello scherzetto, cancellando ogni ricordo del pomeriggio.
“Segui l’istinto” gli raccomandò il malinconico e girò a sinistra, poi a destra, poi ancora a sinistra e vide le strade ingombre di macchine: “Sono arrivato”.
La chiassosa vitalità di giovani ed anziani gli infuse nuova linfa a gettarsi nella mischia della sagra tra mille odori sgradevoli di olio bruciato e suoni sgraziati di chi arringava la fiumana a comprare lozioni miracolose.
Un certo languore lo informava che lo stomaco reclamava la sua parte, perché l’aveva tenuto a digiuno. Si guardò intorno alla ricerca di qualcosa che non fossero wurstel bruciacchiati con cipolla stracotta e stantia o patatine in stick unte e bisunte finché non scorse un chiosco assediato da una moltitudine di giovani dove veniva cotta della piadina.
Fu un nuovo tuffo nel passato, quando trascorreva qualche settimana in tenda con gli amici sulla riviera romagnola. Piadina a mezzogiorno, piadina alla sera erano i suoi pasti, perché riempiva lo stomaco togliendo il senso della fame e perché doveva risparmiare per allungare la permanenza nel campeggio. Quando voleva fare bisboccia, sostituiva la piadina con fagioli borlotti semiliquefatti e tonno scadente in scatola. Però erano tempi dalla felicità irriflessiva ed istintiva che lo riempiva di gioia e voglia di vivere sopra e sotto le righe, ma si sarebbe rifatto nel mangiare una volta che sarebbe tornato a casa, mentre il desiderio di divertirsi sarebbe stato soddisfatto lì.
Nuovi ricordi lo assalirono a tradimento, mentre la mente ritornava a quando aveva diciotto anni. Aveva terminato la maturità scientifica superata brillantemente nonostante la cornacchia del prof di lettere, che aveva faticato a dargli la sufficienza in italiano. Il risultato fu una bella media del sette, non male per quell’epoca, quando il sette era l’eccellenza. Partì il primo di agosto, dieci giorni dopo la fine degli esami, su un vecchio treno a vapore, che costringeva a tenere chiusi i finestrini per non finire affumicati dalle polveri di carbone.
L’arrivo al campeggio avvenne su una carrozzella, perché un taxi era troppo costoso, ma era più dandy ed eccentrico scaricare tenda e borsone da questa piuttosto che da un’anonima vettura verde di piazza. In una delle tante balere scalcinate e chiassose della costa incontrarono un gruppo di ragazze francesi con le quali fecero subito comunella e coppia fissa. A Luca venne da sorridere per questo ricordo, perché ovviamente gli toccò in sorte la più scorfano o meglio gli era rimasta di scegliere solo quella. Era il più imbranato del gruppo e quando vedeva una ragazza andava in tilt e la mente segnalava ‘Game over’. Dunque passavano gli anni ma le regole erano sempre le stesse.
Il fasullo maliziosamente gli chiese il nome, che aveva regolarmente dimenticato. Che importanza poteva avere un nome per un’effimera storia, che morì con la partenza di lei per Parigi? Piccoli brandelli di memorie riaffioravano qua e là dal pozzo dei ricordi: un viso sempre sorridente, un carattere dolce e tranquillo, chiacchierate con un mix di lingue improbabili e ridicole e l’ultima notte trascorsa nella sua tenda teneramente abbracciati. Un velo di malinconia scese per un attimo sugli occhi, subito spazzato via dal ricordo di Ersilia nuovamente incrociata dopo il ritorno dal campeggio con ben altri risultati. Era stato forse l’effetto vacanza? Non lo sapeva, ma ricordava tutto perfettamente.
Mentre questi ricordi lontani emergevano e poi sfumavano nel buio della notte stellata di luglio. stava sgranocchiando una piadina con spinaci, niente male diceva a se stesso, quando una voce familiare gridava “Luca, Luca!”.
Si guardò intorno, ma non vide nessun volto familiare e tornò alla piadina, convinto di essere stato suggestionato in quel bailamme di suoni cacofonici e sovrapposti. Un’ombra si materializzò dinnanzi a lui, mentre alzava gli occhi per mettere a fuoco l’immagine.
“Simona” fu l’unico rumore che la sua bocca emise, perché adesso ricordava che si era scordato di lei. Era troppo distratto dai molteplici ricordi, che affioravano ovunque come i funghi nel bosco dopo un violento temporale estivo, per tenere a mente l’appuntamento con la ragazza. Mentre il malinconico si affannava ad estrarre dal cilindro tanti scampoli di vita vissuta, il fasullo malignetto e geloso dell’altro si divertiva a confondere le idee a Luca.
“Ti ho aspettato dinnanzi al bar dove lavoro” disse tutto d’un fiato come se avesse corso la maratona.
“Sono mortificato” riuscì solo a dire contrito ed imbarazzato “ma mi sono perso” ed ordinò una piadina per la ragazza, che si accomodò felice davanti a lui.
Cominciarono a chiacchierare come se fossero due vecchi amici che si ritrovavano dopo molti anni, mentre finivano le piadine ordinate innaffiate dall’albana secco. Luca ascoltava ed annuiva alla valanga di parole che Simona riversava su di lui come una grandinata fuori stagione. Però la sua mente era altrove, perso nei ricordi di Ersilia e rammaricato che il viaggio si stesse consumando con l’assenza della moglie.
Si domandava se lei avesse accettato un lungo viaggio senza mete e senza obiettivi, solo guidato dal suo istinto, perché per lui era la traversata sul lago della memoria alla ricerca del tempo passato.
“Ma un passato esiste ancora?” si domandò incuriosito, mentre la ragazza narrava di come avesse smarrito molti anni prima le proprie radici.
“Andiamo a fare un giro tra i banchi” gli disse alzandosi allungando le braccia, come se volesse prenderlo stretto a sé.
Lei gli prese la mano facendola passare sulla spalla. Sembravano padre e figlia che passavano in rassegna bancarelle e stand di giochi in attesa dei fuochi di mezzanotte.

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Il viaggio – 5

“A destra”, “A sinistra”, “Prenda quella stradina stretta”, “Siamo quasi arrivati” diceva la voce garrula e squillante di Simona nel dare le indicazioni del percorso.
Luca era sovrastato da quel fiume improvviso di parole esuberanti ed incoscienti, che lo riportavano indietro nel tempo, tornava a riflettere sugli anni giovanili, sulle speranze, che avevano riempito di luce le sue giornate, su Ersilia, sempre lei, su Gloria, della quale aveva perduto le tracce senza rimpianti.
Si domandava perché adesso ricordava con un pizzico di malinconia Gloria, che era stata solo una compagna di giochi e di avventure più con la fantasia che nella realtà, ma non sicuramente un amore. Allora non si era posto nemmeno il problema, perché vedeva in lei una bambina cresciuta giorno dopo giorno insieme a lui. Era vero che si sono scambiati le prime prove di baci, che aveva presente per la goffaggine di entrambi. Che splendida emozione aveva provato, quando le aveva sfiorato quelle minuscole protuberanze sul petto, mentre imporporava il viso e ritraeva veloce la mano per aver osato tanto. Allora non si era posto per nulla la domanda se quell’atto le avesse trasmesso qualche sensazione. Adesso si interrogava senza avere alcuna risposta certa, ma forse allora lei si sarebbe aspettata qualche ardimento più temerario.
“Attento” udì una voce un po’ stridula proveniente da destra, mentre scacciava quei ricordi lontani persi nel tempo infinito e si concentrava sulla guida.
Aveva guidato come un automa e di certo non avrebbe saputo ritrovare la strada per ritornare in paese o allontanarsi da questi luoghi.
“Sono arrivato fin qui seguendo l’istinto. Da qui ripartirò con lo stesso spirito” si disse per nulla inquieto.
“Siamo arrivati” lo avvertì Simona, che aveva descritto ogni angolo, ogni casa, ogni via con entusiasmo e passione senza che Luca avesse ascoltato una sola parola.
Frenò dolcemente mentre lo sguardo spaziava verso l’alto e verso il basso, inspirando profondamente l’odore della ginestra fiorita.
Era un vecchio casale consunto dal tempo abbarbicato al termine di una ripida salita, circondato da cespugli di ginestra e lavanda, con un maestoso noce che ombreggiava la facciata.
Simona fece strada annunciando l’arrivo di un nuovo ospite.
“Maria” chiamò forte affacciandosi alla porta su cui stava scritto ‘PRIVATO’ “Hai una stanza per …” e si interruppe perché non sapeva come si chiamava l’uomo che era con lei.
“Luca. Luca D’Astolfi” le suggerì senza imbarazzo ridacchiando per la strana situazione che si era creata.
Una donna, avanti negli anni e un po’ sfiorita dal tempo, uscì dalla porta abbracciando la ragazza.
“Certamente” e rivolgendosi a Luca chiese: “Partite domani?”
“Non so” rispose “Potrei anche fermarmi qualche giorno”.
“Una stanza c’è sempre per le persone che Simona accompagna” e cominciò a registrare i dati anagrafici di Luca.
La stanza era luminosa e guardava verso il mare che in lontananza cominciava a tingersi di rosso. Era arredata semplicemente con un piccolo bagno ricavato in un angolo, ma era calda ed accogliente come la padrona di casa e quella minuscola ragazza che con tanta incoscienza e fiducia si era incaricata di accompagnarlo senza sapere nulla di lui.
Era venuto il tempo di accendere il telefono per far sentire la sua voce ad Ersilia, che lo rimproverò aspramente per il lungo silenzio.
“Dove sei?” gli chiese addolcendo il tono della voce.
“Sono a …” ma il fasullo astutamente aveva cancellato il nome dalla lavagna della memoria per farsi beffe del malinconico.
“La vista è meravigliosa, ma il nome non lo ricordo” ammise imbarazzato e contrito Luca, mentre si aspettava l’ennesima strigliata di capo dalla moglie, che stranamente non aggiunse nulla.
Parlarono a lungo, come se quella separazione avesse sciolto loro la lingua. Erano anni che vivevano di monosillabi e frasi smozzicate dettate più dalla rabbia che dalla voglia di comunicare. Però quella sera sentivano il bisogno di trasmettere le emozioni che salivano dal cuore, come se fossero tornati ai primi tempi del loro amore.
“Ci sentiamo domani, Ersilia” concluse rilassato e felice Luca “e sono pentito di non averti trascinata con me”.
“Fai il bravo, stasera!” replicò lei con la voce incrinata dalla malinconia.
Spento il telefono, doveva ragionare sul come organizzare la serata.
Dalla valigia tolse un paio di pantaloni chiari e una maglietta fucsia, che dispose sul letto, e dei mocassini leggeri.
Sotto il getto di una doccia tiepida strofinò con vigore il corpo per togliere ogni residuo di stanchezza e di caldo, mentre canticchiava un vecchio motivetto “All fruit”.
Sorrise, perché l’istinto l’aveva guidato con giudizio ancora una volta. Però adesso doveva concentrarsi su quello che gli aveva detto Simona prima di sparire nel portone d’ingresso.
Un vago senso di incertezza affiorò nella mente sospinto dal fasullo, ma subito il melanconico lo scacciò come a suo tempo lo furono i mercanti dal tempio.
Nel vago chiarore dove tutti i gatti sono grigi e bigi si incamminò verso il paese alla ricerca dell’angelo custode.

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Il Viaggio – 4

Luca si fermò un istante nell’osservare quello che accadeva intorno a lui, mentre sorseggiava il vino bianco ormai riscaldato dall’aria rovente.
Lo schiamazzo dei bambini rompeva il silenzio infuocato del pomeriggio, mentre si domandava ancora una volta perché aveva intrapreso quel viaggio.
Ersilia qualche mese dopo quell’incontro, nel quale lui era rimasto senza voce e senza pensieri, perché erano fuggiti timorosi di farsi udire chiaramente sparì con gli esami di maturità nella calura di un mese come quello che stava affrontando sudato e asfissiato in quel momento.
Era entrato in una veloce spirale che lo trascinava verso l’abisso senza speranze, perché aveva sprecato l’unica cartuccia per colpire la preda agognata, che era scappata a gambe levate, mentre lui era rimasto a masticare amaro la sua timida dabbenaggine.
Finì l’anno scolastico con una materia da portare a settembre. Era un ulteriore tassello del disgraziato innamoramento per Ersilia, che vedeva allontanarsi all’orizzonte senza speranza di riacciuffarla in extremis. Lei ormai era una donna matura che avrebbe affrontato il mito dell’università; con altre prospettive, mentre lui era un ragazzetto immaturo ed incostante, che avrebbe continuato il percorso al liceo. Due percorsi e due mondi distinti erano sotto gli occhi grigio-verde di Luca, che non capiva la sua infatuazione per una donna più vecchia di lui, più alta, più, più … più in tutto.
Adesso comprendeva che senza quel incidente fortuito di percorso non sarebbe maturato pronto a cogliere la mela matura, che qualche anno dopo sarebbe stata appesa al suo albero lesta nel cadere ai suoi piedi, rimanendo l’eterno bambino sognante e sognatore, che albergava comodo e soddisfatto dentro di lui.
La ragazza dai capelli raccolti girava inquieta tra i tavoli vuoti, sbirciando Luca, che aveva davanti da sé un mezzo panino ormai sfatto dal caldo, un liquido biondo nel bicchiere e la bottiglietta dell’acqua appena sorseggiata. Non osava avvicinarsi, perché lo vedeva assorto nei pensieri incurante dell’afa asfissiante e dei rumori che lentamente animavano la strada, ma lei tra qualche minuto terminava il suo turno e doveva incassare il conto prima di andarsene. Era indecisa, perché servire i clienti ai tavoli non le piaceva, le sembrava di rubare loro il tempo delle meditazioni.
Il fasullo richiamò l’attenzione di Luca, che domandò discreto: “Mi sono perso nei meandri della mente e non so dove sono”.
La ragazza si avvicinò rinfrancata e gli disse che a pochi chilometri c’era il mare, ma adesso si trovava sulle colline tra Appennino e mare Adriatico, “un posto meraviglioso”  ed aggiunse arrossendo “Tra qualche minuto è finito il mio turno e dovrei incassare il conto. Spero di non avere rotto l’incantesimo che aleggiava su di lei come un’aura di serenità”;.
“No, sono io in debito” le replicò mentre metteva sul piatto venti euro, accennando a tenere il resto.
“Come si chiama?” le chiese con dolcezza inaspettata osservando quegli occhi verdi da gatta. Si sorprese di tanto ardimento e ripensò che avrebbe dovuto averne altrettanto quella volta con Ersilia, ma invece era rimasto muto come un pesce che guizzava smarrito nell’acquario gorgogliante.
Si aspettava una risposta stizzita ma quando udì “Simona” sobbalzò sulla sedia perché si era rotto il silenzio dentro di lui.
“Pensa di fermarsi qui, stasera?” gli chiese Simona curiosa di conoscere questo sconosciuto che le sembrava che vivesse in un mondo incantato.
“Non so, Non ho ancora deciso”
“C’è festa stasera per il santo Patrono. Fuochi d’artificio a mezzanotte e tante bancarelle nel sagrato della chiesa” proseguì incalzante per convincerlo a rimanere.
Luca sorrise, perché erano suoni familiari, quando a maggio si festeggiava nella sua città, ma il sorriso sparì in fretta, perché non avrebbe saputo dove fermarsi per la notte.
“Le posso indicare un bed and breakfast  appena fuori dal paese, Anzi se aspetta qualche minuto la posso accompagnare io” continuò la ragazza sorridente e sparì velocemente dalla vista.
Lui era ancora incerto tra il fasullo che gli diceva di riprendere il viaggio verso l’ignoto e il malinconico felice che lo incitava a raccogliere l’invito, insperato quando Simona comparve dinnanzi in jeans e camicetta pronta a condurlo in posto sconosciuto.
“Andiamo”; le disse d’istinto, avviandosi verso la macchina, mentre lei lo seguiva spensierata incurante degli sguardi del gestore del bar.

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Il Viaggio – 3

Adesso aveva sei anni e vedeva la corte irregolare sommersa da assi e legname recuperato dalle vecchie case. C’erano due pezzi di marmo tondeggianti un tempo bianchi, ma adesso inscuriti dal tempo e dalla polvere. Forse facevano parte di vecchie colonne, che non sapeva dove fossero collocate.
“Erano la parte superiore o inferiore?” si interrogava senza troppa fretta, né curiosità, perché erano il mondo dei giochi assieme a due sedili di marmo rosato butterati dal tempo e dagli uomini.
Salire, scendere, saltare era il mondo della fantasia di bambino, che immaginava quali avventure doveva affrontare. Un lampo, un urlo di dolore era uscito dalla bocca, mentre la gamba sanguinava come una fontana. La corsa disperata al pronto soccorso, i pianti e le paure erano immagini vivide e reali, che scorrevano in sequenza sullo schermo in tre dimensioni della mente.
Il fasullo se ne stava in un cantuccio ben nascosto, ma pronto ad uscire allo scoperto infingardo ed falso, quando la malinconia avrebbe finito la pellicola.
Il filmato era irregolare, a strappi quasi singhiozzante, perché era consunto ed annerito dal tempo. Stava su un lettino guardando fuori dalla finestra un giardino ricco di magnolie imponenti dalle foglie verdi lucide, mentre piangeva in silenzio. La ferita era infetta, perché nella fretta avevano lasciato dentro una garza, mentre un uomo vestito di bianco scuoteva la testa e diceva “Speriamo”.
Avrebbe rivisto quelle magnolie altre volte, mentre lentamente la ferita diventava una lucida cicatrice ben evidente nel ginocchio.
I fotogrammi scorrevano veloci davanti agli occhi, mentre Luca bambino scendeva in strada dalla finestra della camera o scivolava incosciente sul corrimano delle scale. Era un discolo irrequieto sempre pronto ad arrampicarsi ovunque pensando a Tarzan e trascinava con se Gloria, che lo ammirava con due occhi dolci ed immensi.
Era solo nel dehor immerso nel caldo asfissiante di luglio e si concesse un intervallo per mangiare qualche boccone del panino che aspettava nel piatto.
Si chiese perché si era immerso nel flusso dei ricordi, che gorgogliavano sicuri nella mente, mentre il fasullo timidamente si affacciava fuori dal luogo segreto nel quale si era rintanato.
“Vergogna!” gli gridò il malinconico stizzito per la codardia dell’altra parte.
“Avete finito di litigare?” li riprese Luca irritato del continuo battibeccare delle due personalità che albergavano dentro di lui “Voglio ricordare e basta”.
La pellicola si era spezzata e doveva riattaccarla se voleva proseguire a vedere il prosieguo del film della sua vita. Non era facile, ma testardamente ci provava.
Il suo occhio stanco per il viaggio e per il sudore, che scivolava umido tra le ciglia, vide in lontananza dei bambini che disegnavano qualcosa sul marciapiede infuocato prima di iniziare un gioco chiassoso ed allegro.
Come per magia si sentì trasportare nella corte senza erba con un sicomoro frondoso e qualche aiuola maltenuta addossata ai muri. Era il suo regno da maggio ad ottobre con i giochi aiutati dalla fantasia, annaffiati da secchi d’acqua gelida, che dalle finestre venivano gettati con abbondanza per raffreddare la turbolenta gioiosità dei ragazzini.
Poi si concentrò su quel gioco tanto affascinate quanto inadeguato per le dimensioni della corte.
“Come si chiamava?” chiedeva aiuto al malinconico, perché il fasullo si era nuovamente nascosto.
“Ah! Bac e Pandon!” replicò con immediatezza la parte presente.
Era un gioco ricavato da un elemento povero: un vecchio manico di scopa, messo in un angolo in attesa di finire nella caldaia in minuscoli pezzi. Il pandon era una piccola scheggia di legno appuntita, che doveva essere colpita dal bac, il manico tagliato. La scheggia si alzava roteando prima di essere colpita al volo e mandata lontana. Però, c’era sempre un però nel gioco, perché se finiva su un vetro erano dolori.
Luca sorrideva beato e felice, ma era tempo di tornare ad Ersilia.

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Il Viaggio – 2

La parte esteriore cominciò a sbuffare, perché quella malinconica non prestava attenzione alla strada. Stava dicendo che, se non fosse stato per lui, ora sarebbero finiti in un bel pasticcio.
La via era ingombra di persone e detriti, come una discarica dove volteggiavano gabbiani grigi che stridevano felici per il lauto pasto che li aspettava.
Si era fermato appena in tempo per non finire nel caos.
Luca osservò distratto quel disastro, perché la mente continuava a volteggiare a cinquanta anni prima, quando aveva conosciuto Ersilia, ma si sentiva riarso dentro, perché la fiumara della memoria era un letto essiccato dal sole di agosto cosparso di sassi levigati dal tempo.
Udì dei clacson suonare impazienti, ma lui non aveva voglia di muoversi o meglio pensava di indugiare un po’ lì. Si mosse cautamente mentre un vigile nervoso gli faceva segno di andare più svelto agitando la mano destra con frenesia.
Trovò un riparo sotto gli alberi, mentre si domandava cosa stava facendo il quel posto che non conosceva, diverso da tutti quelli conosciuti finora.
“Non ha importanza” disse all’irrequieta personalità esteriore, che premeva per chiedere, per sapere, per decidere.
“Cosa devo decidere” ripeté stanco ed annoiato, mentre tentava di insinuarsi nella terra arida alla ricerca del suo fiume scomparso.
Guardò l’ora e ammise che era venuto il momento di fare una sosta, di vedere qualche faccia non più di sfuggita, ma fissa e parlante.
C’era all’ombra dei tigli un dehor, che sembrava ammiccare con l’occhio destro, mentre attraversava la strada deserta.
Si soffermò un attimo per capire dove era finito seguendo l’estro del momento, ma tutto sembrava congiurare per nascondere il luogo. Non c’erano persone, né cartelli, né indicazioni alcuna, la toponomastica della strada era parzialmente coperta dal glicine fiorito che si inerpicava sinuoso ed intrigante sull’angolo.
“C…. Ma…..i” era il poco che si leggeva, mentre immediatamente la parte nascosta cominciò a fantasticare sulle lettere celate.
“Ma non immaginare quello che non sai!” rimbeccò pronta l’alter ego manifesto, che rideva frustrato sulla fantasia della metà malinconica.
“Avete finito di beccarvi?” disse Luca, mentre si accomodava sulla sedia nel dehor, aspettando l’arrivo di qualcuno che tardava ad arrivare.
Erano sempre quei giorni di beata incoscienza che occupavano lo spazio e il tempo di Luca, perché era stato il primo e grande amore, che poi era diventato molti anni dopo realtà.
Prima c’era stata Gloria, una ragazzina magra come uno stecchino, che per anni era stata la compagna di giochi e di avventure, inseparabile fino a quando a tredici anni non aveva cambiato casa. I primi baci furtivi, le prime carezze audaci erano state strappati nella buia penombra dello stretto corridoio che dal cavedio interno portava nella corte.
I ricordi erano confusi, offuscati da una coltre di polvere, che rendevano incerti contorni. Eppure erano lì, pronti a balzare fuori, ma lui non riusciva a vederli, a rinfrescare la memoria. Stavano in un limbo di indeterminatezza, di non vuoto, di non pieno senza tempo e senza spazio.
Provò a concentrarsi, ma erano ricacciati indietro da qualcosa più forte della sua volontà.
“Signore! Signore!” sentiva in lontananza una voce gentile fuori campo “Desidera ordinare qualcosa?”.
La parte malinconica strizzò gli occhi per mettere a fuoco l’immagine di una ragazza giovane coi capelli raccolti sulla testa, mentre quella fasulla ghignava per la pessima figura.
“Solo io riesco a far squillare il dring, dring del campanello d’allarme” diceva beffarda e velenosa all’area sognante e romantica di Luca.
“Un panino al prosciutto crudo, una bottiglietta d’acqua naturale fresca e un calice di vino bianco” ordinava alla ragazza dopo avere ascoltato la lunga litania del mangiare disponibile.
L’osservò che ancheggiante tornava al riparo del bancone, mentre come per incanto lei aveva rotto le catene dell’oblio.
Adesso i ricordi tornavano gorgoglianti alla luce del sole, riemergendo nella pozza limpida e poco profonda della mente.
“Hai visto menagramo” diceva il malinconico al fasullo “I ricordi ci sono e sono limpidi”.
Ed erano lì, sul tavolo, evidenti e chiari, Era sufficiente chiudere gli occhi per osservare lo scorrere della pellicola in bianco e nero di molti anni fa.

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Il viaggio – 1

Luca spense il telefono, perché non voleva essere disturbato. Poi chi lo avrebbe chiamato, si domandava, attento al traffico nervoso che scorreva impetuoso attorno a lui. A parte Ersilia, che di certo non voleva ascoltare, non c’erano altre voci note da incrociare via etere. Quindi era meglio che tacesse muto e silenzioso.
Aveva preso una strada che non conosceva o quanto meno ne ignorava l’esistenza, perché aveva deciso in un momento di lucida follia che avrebbe inseguito quello che per quaranta anni non aveva fatto: seguire l’istinto ed abbandonarsi all’oblio.
Lui si sentiva profondamente malinconico, ma doveva per forza di cose essere allegro ed estroverso. Così la sua personalità si era scissa in maniera dicotomica in due parti: quella da mostrare al mondo intero e quella che cullava armoniosamente durante i sogni notturni.
Lui amava la seconda, quella vera, quella che gli dava tutte le soddisfazioni, che la prima gli negava. Durante il sonno immaginava di inseguire la Gloria, non quella dolce ragazza che aveva amato segretamente da ragazzo, ma la prima pagina della rivista letteraria “Il sabato”, dove gli autori famosi venivano intervistati. Però si domandava incerto e dubbioso se sarebbe riuscito rispondere alle varie domande, perché un conto era sognare, ben diverso era rispondere a tono su qualcosa che non conosceva.
Quali domande gli avrebbero potuto rivolgere, continuava ad interrogarsi, perché lui in quaranta anni non aveva scritto un rigo di nulla. Lui sognava ad occhi aperti che avrebbe vinto il premio Pulizter o il Nobel per la letteratura con un romanzo grosso come una torta nuziale dal titolo indefinito e dalla trama inconsistente.
Era un autentico sogno il suo, nel senso che sarebbe stato irrealizzabile.
“Non ha importanza” diceva sempre a quella parte di Luca, che svegliatasi con quella esterna e fasulla si abbandonava alla malinconia del nuovo giorno.
Però era bello lasciarsi cullare nel sonno da quelle visioni piene di luccicanti mondi da prime pagine anziché stare accanto alla grigia Ersilia, che ronfava pesante e senza luci vicino a lui.
Era affezionato alla moglie, che lo sopportava da molti anni.
Mentre guidava guardingo, attento ai cartelli e alle trappole del traffico, ripensò con malinconia a quanti tempo era passato quando l’aveva conosciuta.
“Sono passati troppi anni” disse alla sua controfigura mentre la musica dei Rolling Stones invadeva il suo spazio mentale entrando in contesa con la concentrazione.
Era a quell’epoca un giovane di belle speranze, neppure troppo bello, un po’ grassoccio ed imbranato quel tanto che bastava per sembrare a volte un tontolone. Lei, sicuramente, era una bella ragazza, leggermente più alta di lui e più vecchia di un paio d’anni, longilinea dalle lunghe gambe dritte come un fuso.
Mentre armeggiava impaziente e smarrito con l’autoradio alla ricerca di qualcosa di piacevole da ascoltare, si domandava perché tornava sempre a quel punto di cinquanta anni prima, quando aveva solo sedici anni.
La parte simulatrice di Luca fingeva di non saperlo, perché era talmente abituata a fingere che il vero gli pareva falso.
“Come puoi non conoscere i motivi?” gli rinfacciava il brandello malinconico, che già si inumidiva l’occhio al semplice ricordo di quegli anni dorati.
Luca era in terza liceo con viso butterato da una fastidiosa acne e gironzolava speranzoso nei paraggi della V A, la classe dove Ersilia imponeva la sua bellezza. Ci voleva poco, perché le altre ragazze erano meno di due mani tanto scorfani quanto secchione da fare invidia a Pico della Mirandola. Insomma erano tanto brave quanto inversamente erano graziose, beh!, dei mostri inguardabili proprio no, ma non facevano di sicuro concorrenza a Miss Italia. Magre, ossute, con seno inesistente, qualche brufolo mal coperto dalla cipria erano il campionario migliore del loro aspetto. Dunque Ersilia era la Nefertiti della classe, che attirava i compagni come il fiore era preso d’assalto da api e farfalle.
Luca non aveva speranze di essere notato perché, quando lei gli rivolgeva la parola, lui diventava rosso come un gambero e si impappinava come un principiante. Tutti i discorsi che aveva preparato con cura, qualora l’agognata preda si fosse degnata di un uno sguardo o di una parola, finivano in monosillabi incomprensibili e balbettanti, mentre la testa si svuotava d’incanto come un cestello saccheggiato dall’orso Yoghi.
Rimaneva lì impallato a bocca semi socchiusa con l’occhio spento e perso nel vuoto, finché Ersilia ridendo non si allontanava sotto braccio a quell’antipatico di Roberto. Allora si ridestava come la bella addormentata nel bosco mentre tutti i pensieri che erano fuggiti o si erano nascosti tra le pieghe della mente ritornavano allegri e beffardi a popolare la sua testa. Era un copione quotidiano, al quale non riusciva a trovare un rimedio.
Quello che più lo feriva erano i commenti dei compagni che riferivano come il tontolone di Luca aveva fatto girare la testa alla maliarda, così era chiamata la bella Ersilia, ma che quell’imbranato restava muto come un pesce, anzi farfugliava parole senza senso.
I sensi suonarono un campanello per avvertirlo che c’era un pericolo imminente.
Il fiume dei ricordi si essiccò o meglio sparì tra le rocce carsiche della memoria in attesa di ricomparire spumeggiante e limpido dopo il percorso sotterraneo.

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Il viaggio

Si chiamava Luca D’Astolfi, ma era conosciuto da tutti come Ninì al Ros. Non c’era speranza di chiedergli il motivo, perché non lo sapeva nemmeno lui. I capelli, prima di perderli, erano quasi neri tanto erano scuri e non schiarivano nemmeno col sole. Quindi da questo versante il sopranome non era pervenuto.
Le sue tendenze politiche non viravano a sinistra, ma lui si era sempre professato come apolitico, perché andava a votare quando ne aveva voglia e di solito metteva la crocetta su quei partitini curiosi ed impossibili da essere seri. Quando era dentro quei squallidi gabbiotti di legno, che stavano su per miracolo, con una tenda dal colore indefinito per votare, era preso dalla voglia irresistibile di cercare il simbolo più insolito ed improbabile da contrassegnare con una bella X. Si diceva sempre che non c’era gusto di votare Democrazia Cristiana o Partito Comunista, perché erano i più gettonati, ma doveva aiutare quei minuscoli partitini che alla fine ottenevano qualche migliaia di preferenze da persone come lui.
Ricordava con una punta di malinconia che nel 1968, una delle prime volte che andava a votare, aveva contrassegnato con una bella ed evidente ics il partito “PAPI”. “Eh! Sì quelli erano dei bei tempi” diceva sempre al bar della piazza vicino a casa tra i sorrisi ironici degli amici e conoscenti.
C’era una particolarità che lo incuriosiva parecchio ed era questa. Scorrendo le preferenze ai singoli candidati, leggeva accanto al nome dei più sfigati, di solito quelli che stazionavano sul fondo della lista, un bel zero ovvero nessuno si era degnato di segnarlo sulla scheda elettorale. Ebbene lui si domandava sempre: “Se mi candido, almeno metto il mio nome, perché sarebbe vergognoso che accanto a Luca D’Astolfi compaia un bel zero. Poi bastonerei mia moglie, i miei figli, gli amici più fidati se non facessero altrettanto”. Eppure questa vergogna era sotto gli occhi di tutti e lui non riusciva a comprenderla. Dunque nemmeno le inclinazioni politiche svelavano il mistero.
In conclusione il sopranome era un enigma che Luca non aveva mai voluto conoscere, perché c’era poco capire. Da quando aveva la memoria, aveva all’incirca sei o sette anni, si era sempre sentito chiamare così in casa e fuori e lui rispondeva a tono.
Aveva sessantasei anni quando andò in pensione dopo una vita di lavoro dentro e fuori da quel capannone sulla via del mare. La moglie, Ersilia, ma che razza di nome le avevano appiccato si domandava spesso, si sentiva in ansia al pensiero di trovarselo tra i piedi tutto il giorno. La figlia, Ofelia, in questo caso l’errore era stato suo, perché aveva litigato per il nome con Ersilia e per dispetto l’aveva chiamata come la tragica protagonista di Amleto, aveva già trentacinque anni e zero matrimoni. Il figlio, Mario, finalmente un nome serio, se ne era andato da diversi anni per la sua strada e faceva la vita da single incallito nonostante la corte assidua di una fanciulla, della quale non ricordava nulla né nome né viso. Però non gliene importava nulla se il bambinone non voleva crescere in coppia. Era affari suoi, perché lui l’errore l’aveva già commesso.
Due giorni dopo avere raggiunto l’agognato traguardo decise che era venuto il momento di fare un bel viaggetto tutto solo. E lo disse ad Ersilia: “Domani parto per il mondo. Mi vedrai al ritorno”.
La moglie lo guardò stralunata e di sbieco, pronta a squartarlo vivo se avesse osato mettere in piedi quel subdolo piano.
“Ho capito bene?” rimbeccò acida la donna.
“Vado a preparare una borsa con le mie cose” rispose soave e serafico Luca, per nulla intimorito dall’atteggiamento bellicoso e pronto alla rissa della moglie, e sparì nella camera.
Così disse e così fece.
Il giorno dopo stava facendo discorsi infervorati ad un gestore di una pompa di benzina, dove c’era anche una minuscola officina, su viaggi, lavoro e pensioni da fame, ma anche su donne, politica e calcio.
Il gestore alto, ossuto, peloso e sporco di grasso e di benzina lo ascoltava non troppo convinto ed un tantino infastidito, perché non gli andava di parlare di determinati argomenti con uno sconosciuto. Mentre riempiva con la verde il serbatoio della Fiat un po’ anzianotta e scrostata del tempo, pensava che i clienti volevano parlare solo di donne, di politica e di calcio e non stavano mai zitti. Il flusso delle parole lo investiva come raffiche di libeccio freddo che nonostante la calura di Giugno gli provocava dei brividi nel corpo.
“Il pieno sono 45€” disse a Luca, sperando che la mitragliatrice, che l’uomo aveva in bocca, cessasse di sparare parole che lui non raccoglieva ed ignorava.
Lui imperterrito continuò a parlare di Ibra e Kakà, di veline e altre donne uscite alla ribalta del gossip nei giorni precedenti, di elezioni e governo come se fosse un esperto in materia, senza prestare orecchio alle richieste dell’uomo in tuta giallo sporco. Non aveva ancora compreso che era in pensione da tre giorni, mentre nessun collega di lavoro lo stava ascoltando, come era normale quattro giorni prima.
Adesso il gestore era visibilmente contrariato, perché quell’uomo non solo parlava di temi che non lo affascinavano, ma stava facendo crescere la coda dei clienti in attesa.
“Mi dia 45€. E sposti la macchina, perché c’è coda dietro di lei” ribatté irritato e seccato con un mozzicone di sigaretta spento e unto di grasso, che faceva capolino tra le labbra serrate, senza prestare la minima attenzione al fiume che sgorgava senza posa dalla bocca di Luca.
Luca D’Astolfi era un piccoletto, che tendeva alla pinguedine dei suoi sessantasei anni, stempiato, ma forse sarebbe più corretto dire calvo, e tutto eccitato per aver raggiunto la pensione. Portava sul naso un paio di occhiali dalla montatura chiara, benché lui sostenesse che ci vedeva benissimo anche senza, mentre in realtà faceva fatica a distinguere un tre dall’otto.
A quella richiesta brusca la fonte cessò di colpo di zampillare parole, come se si fosse inaridita per un qualche accidente di imprevisto. Pagò in silenzio e se ne andò tutto offeso.
Il viaggio non era iniziato sotto i migliori auspici.

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La prima guida

Avevo quasi diciotto anni quando ho imparato a guidare l’auto con tutta l’incoscienza di quell’età.
Erano i primi anni sessanta; le vacanze estive iniziavano all’incirca a metà giugno per terminare ai primi di ottobre, quasi quattro mesi senza fare niente. Era un tempo infinito tra calura e noia. Così molti noi si erano trovati un’occupazione estiva che da un lato riempiva una parte del tempo, dall’altro  permetteva di mettere in tasca qualche liretta, che non faceva mai male.
Anch’io non ero sfuggito alla regola. Mentre molti amici andavano in campagna a raccogliere la frutta ed altri partecipavano alla campagna bieticola nello zuccherificio della zona, io andavo a lavorare nel distributore di benzina di zio Lino, che in realtà non si chiamava così. Però per me era sempre stato lo zio Lino, anche se scopersi quando morì che il suo vero nome era un altro: Olindo.
Dalle mie parti è sempre esistita una curiosa usanza, che consisteva nel dichiarare all’ufficiale dell’anagrafe un nome, del quale appena il padre era uscito se ne perdevano le tracce. I nomi non erano i soliti comuni, ai quali eravamo abituati, come Paolo, Mario, Anna, e così via, ma bensì reminiscenze scolastiche Penelope, Laerte o melomani Aida, Radames oppure esotici Widmer, Wilmer. Questa era una semplice casistica, perché la fantasia non aveva limite. Come d’incanto i neonati assumevano sembianze umane e da quel momento in poi credevano di chiamarsi coi nomi standard, come tutti i comuni mortali, finché non scoprivano il loro vero nome, che ignoravano tranquillamente fino al momento nel quale compariva nel necrologio: Ferrari Radames detto “Gino”. Quindi anche lo zio Lino non era sfuggito a questa consuetudine. Per me era rimasto sempre lo zio Lino.
Accanto a questa curiosa abitudine ce ne era un’altra quella degli Scutmâj ovvero di identificare una persona con un sopranome, il più delle volte curioso ed inspiegabile. Anche in questo caso il vero nome, di norma tradizionale e banale, si perdeva nella notte dei tempi per riaffiorare come d’incanto sull’annuncio funebre affisso all’angolo della strada.
Il distributore dello zio Lino era situato in una posizione altamente strategica: da lì passava tutto il traffico dei turisti tedeschi, austriaci, olandesi che dal Brennero e dal Tarvisio raggiungevano i luoghi di villeggiatura lungo l’Adriatico, perché le autostrade sarebbe venute molti anni dopo. Quindi in luglio ed agosto il lavoro non mancava, anzi spesso c’era un ingorgo pauroso.
Naturalmente mi facevo bello col mio tedesco scolastico, distante anni luce da quello parlato realmente, mentre loro rispondevano in un italiano degno di Sturmtruppen del mitico Bonvi  Sembrava di assistere alle comiche di Ridolini. Però in compenso sganciavano sempre la mancia dopo ogni rifornimento con mia grande soddisfazione per questo guadagno extra.
Il distributore aveva un enorme piazzale sempre ingombro di auto e camion ed aveva un punto per il lavaggio delle autovetture. Un uomo mingherlino e minuto, chiamato “Pipi” era l’addetto a lavare le macchine. Il suo vero nome non l’ho mai saputo, perché l’ho sempre sentito chiamare Pipi.
Confinante c’era una baracchina di legno verde dove si vendevano gelati Alemagna confezionati, granite colorate e angurie, di modeste dimensioni, rotonde, che adesso sono state sostituite da quelle oblunghe enormi senza sapore. Le granite erano preparate all’istante macinando pezzi di ghiaccio staccati da enormi stecche che un camioncino portava due o tre volte al giorno. Poi venivano colorate con gli sciroppi Toschi alla menta, al lampone o al limone. Io preferivo quella alla menta, che trovavo dissetante.
Pipi era un lavoratore infaticabile, perché a volte sembrava un automa. Prendeva la macchina da lavare tra quelle parcheggiate sotto il sole implacabile di luglio, la metteva sull’elevatore all’interno del modulo in muratura, la lavava, la riportava nel punto dove io e l’altro ragazzo provvedevamo ad asciugarla, non prima di una sgommata e relativa brusca frenata per asciugare i tamburi dei freni. E questo decine di volte al giorno con regolarità da cronometro svizzero,
Un giorno mancavano poche settimane ai diciott’anni mi disse: “Metti questa al posto di quella che prendo” e mi allungò le chiavi. Io lo guardai sgomento, mentre le chiavi sembravano di fuoco sulla mano e la testa cominciava a ribollire come un pentolone sulla fiamma per l’agitazione di fare quei cinque metri che dividevano i due posti. Sono stati i cinque metri più lunghi della mia vita, perché sembravano cinquemila chilometri. Comunque avviato l’auto, a balzelloni, come se stesse facendo la danza del ventre, parcheggiai la cinquecento rossa nel posto designato, Avevo fatto un’autentica doccia di sudore, tanto ero sudato per il terrore di sfasciare qualcosa. Dopo tre o quattro tentativi l’operazione si svolse liscia come l’olio, mentre la macchina docile come un agnellino percorreva quei pochi metri prima di essere parcheggiata.
Il passo successivo fu quello di portare fuori dal lavaggio l’auto per portarla nel buco lasciato libero da quella prelevata da Pipi: un’operazione svolta con precisione e sicurezza. Le vampate di calore per l’agitazione stavano diventando un pallido ricordo.
Infine il ciclo completo: prelevavo l’auto da lavare, la mettevo sull’elevatore, avendo cura di centrare con precisione i bracci retrattili, la riportavo fuori ad asciugare.
A parte le prime volte che sentivo il cuore battere come la grancassa della marcia di Radetzky, poi percepivo un senso di appagamento, di essere leggero come una piuma, di non provare emozione alcuna.
Pipi possedeva una vecchia Topolino, che adesso farebbe la gioia di molti collezionisti, sempre perfetta ed oliata e mi consentiva nei rari momenti di relax di fare qualche giretto nel piazzale sempre guardato a vista per non combinare guai.
Un giorno disse: “Vieni con me. Andiamo al deposito a prendere delle lattine di olio” e mi mise in mano le chiavi della Topolino, mentre si sedeva lato passeggero. Lo guardai storto e preoccupato, perché un conto era girare in un piazzale fra macchine ferme a bassa velocità, ma fare una decina di chilometri in mezzo al traffico era ben altro affare. Inoltre non avevo un benché minimo straccio di documento che mi autorizzasse a circolare su strade pubbliche.
Nonostante le mie rimostranze fu irremovibile e molto incosciente, perché non aveva la minima idea di come avessi potuto reagire di fronte ad una situazione di pericolo o intricata.
La Topolino aveva la particolarità che per cambiare marcia serviva la famosa “doppietta” ovvero un leggero tocco dell’acceleratore per consentire agli ingranaggi di sincronizzarsi senza udire quel terribile rumore di ferraglia detta in gergo “grattata”. Eseguita senza l’assillo del traffico mi riusciva abbastanza bene in virtù di una certa sensibilità uditiva e tempismo coordinato frizione – cambio. Però adesso ero ansioso e nervoso con la testa in fiamme, un senso di angoscia che mi premeva sul petto per la paura che un vigile mi fermasse per un controllo, mettendomi in galera.
Fatte poche centinaia di metri tutte le ansie e le paure erano svanite, dissolte come la neve al sole, mentre con somma incoscienza andavo verso un punto critico che non avevo preso in considerazione ancora. C’era da passare un sottopasso, dove al termine della risalita era posto un favoloso semaforo, che creava code infinite. Se avevi fortuna, trovavi il via libera senza fermarti, ma poiché la sfiga ci vedeva benissimo, apparve un bel rosso fuoco con l’auto a metà salita. Panico, nervosismo, angoscia erano solo le prime avvisaglie che penetravano nella mia testa, perché sapevo che col verde sarebbe stata la catastrofe.
Lo guardai con aria interrogativa, mentre lui disse serafico: “Tacco e punta. E tutto andrà bene”.
“Tacco e punta?” replicai con la bocca secca ed arida come il deserto del Sahara.
“Si” proseguì tranquillo e sereno “Tieni pigiata la frizione con la marcia innestata, metti la punta del piede destro sul freno e il tacco sull’acceleratore. Quando viene il verde lasci la frizione dolcemente e accelera col tacco, prima di togliere la punta dal freno”.
Detto così sembrava tutto facile, ma per me che ero in preda al panico e con le mani appiccate al volante era come scalare l’Everest a mani nude. Naturalmente fu un flop colossale, perché riuscì a spegnere anche il motore con il concerto di clacson dietro di me che non finiva più. A balzelloni e a strattoni dopo due verdi persi per colpa mia riuscì a superare l’ardua salita, accompagnato da insulti e maledizioni di decine di automobilisti inviperiti.
Arrivati a destinazione senza altri inconvenienti di rilievo, mi sembrava di essere uscito dalla doccia senza asciugarmi tanto ero sudato per l’agitazione, con la testa svuotata da ogni pensiero, che si erano nascosti subdolamente in qualche angolo remoto, e con la pressione arteriosa a livelli pericolosi. Però tutto questo svanì come per incanto, perché la soddisfazione intima di avere guidato senza provocare danni, salvo le maledizioni di qualcuno, e per giunta in maniera impeccabile era veramente enorme.
Il viaggio di ritorno filò tutto liscio, perché il terribile sottopasso, affrontato in senso inverso, era totalmente innocuo per l’assenza di un odioso semaforo nella rampa di risalita.
Per quell’anno non ci furono altri esperimenti di guida senza rete, né a rischio di infarti, a parte i soliti giretti nel piazzale. Coi soldi guadagnati sotto il sole cocente a riempire di super tanti serbatoi o asciugare faticosamente delle auto lavate mi ero pagato l’autoscuola e le relative lezioni di guida, molto più rilassanti, con l’appendice di un documento rosa che mi abilitava a condurre un’auto.
L’idea di guidare significava molto per me, perché ero convinto che avere la padronanza di un’auto mi aiutasse a crescere e maturare psicologicamente e di avere maggiore consapevolezza dell’importanza della propria vita. Non potevo permettermela, perché costava troppo, ma per la guida dovevo ringraziare Pipi, che consciamente o incoscientemente mi aveva consentito di memorizzare movimenti e di valutare spazi e tempi nel condurre una macchina.

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Disegni e arabeschi

Sopra di te il cielo
disegna figure
col ritmo della fantasia,
che si striano di luci e ombre.
Guardi e osservi,
ma non provi niente.
Pensi e rifletti,
 e senti un canto corale
che esce dalla mente.
Disegni e arabeschi si intrecciano
ora lenti ora veloci
seguendo il ritmo della fantasia.
Ti domandi:
‘Chi sei?’
e nulla è la risposta.
Chiudi gli occhi
e volano via
le nuvole striate di grigio e di bianco,
sfilacciate nel cielo azzurro
che imbrunisce
nello spirito.
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Micol e Konnie

Konnie era un ragazzetto di sei o sette anni, quando lo conobbe, frequentava la scuola elementare, dove aveva imparato qualche rudimento di italiano, che non aveva avuto molte occasioni di usare prima dell’arrivo di Micol.
Era biondissimo con occhi azzurri slavati, molto più alto di lei, che era di statura bassa e fragile come una sopramobile di cristallo. Lei aveva i capelli nerissimi con due splendidi occhi verdi che davano luminosità ad un viso anonimo.
Suo padre, Rubens, si domandava da quale componente della famiglia avesse acquisito quegli occhi, poiché loro e i parenti li avevano nocciola o una tonalità leggermente più scura. Rideva quando diceva questo a Vittoria, sua madre, che si rabbuiava in viso prima di esplodere come un vulcano in eruzione. Micol allora non capiva perché la madre alzasse il tono della voce prima di andarsene di sopra nella sua stanza sbattendo le porte.
Adesso che era vecchia, ripensando a quelle esplosioni di ira, capiva che suo padre pensava che lei avesse un genitore sconosciuto, perché la madre avrebbe avuto una relazione con un altro uomo. Eppure ritornando su questi episodi vecchi di molti anni, era convinta che il suo vero padre fosse proprio lui, perché aveva percepito sempre, fino a quando non l’aveva lasciata per sempre, un amore autentico, intenso ed incondizionato. Inoltre doveva riconoscere che molti tratti della sua personalità si combinavano alla perfezione con quelli di lui, come aveva ereditato dalla madre la determinazione a raggiungere gli obiettivi prefissati.
Quando Micol arrivò in paese, Konnie la adottò immediatamente e la impose agli altri bambini, che vedevano in lei un’intrusa, un corpo estraneo alla loro cultura.
Lei lo ricambiò con altrettanta devozione e pur essendo piccola in tutti i sensi lo difendeva dagli attacchi verbali di chi lo canzonava, perché si sforzava di parlare in un italiano corretto e decente.
Divennero presto due compagni inseparabili: dove c’era l’uno, c’era anche l’altra. Si divertirono a sfidare il vecchio Kurt salendo sul melo posto nell’orto per rubargli le poche mele agre e piccole che produceva. Micol stava di vedetta per avvertire Konnie, quando avvistava il vecchio che urlando ed agitando un bastone nodoso minacciava chi sa quali supplizi per i due bambini, perché lei sentiva solo strepiti inarticolati senza capire una sola parola.
Come due gnomi dispettosi sparivano col loro carico di mele rubate nel bosco, che circondava la parte bassa del paese, dove non visti ridendo per avere beffato ancora una volta Kurt le mangiavano tutte con voracità e soddisfazione.
Più di una volta vide il vecchio bussare alla porta di casa per parlare animosamente con sua madre, che rispondeva con altrettanta fermezza, mentre Micol, non vista, sbirciava curiosa attraverso la fessura dell’ingresso, cercando di cogliere inutilmente qualche frammento. Parlavano un linguaggio sconosciuto per le sue orecchie, mentre loro si capivano perfettamente. Poi sua madre, ancora rossa in viso ed alterata nella voce per la litigata feroce sostenuta e combattuta senza esclusione di colpi, le diceva che avrebbe fatto i conti con suo padre, perché rubava le mele di Kurt. Non aveva mai capito se lo diceva per incuterle paura o per burlarsi di lei, perché l’argomento non veniva più ripreso fino alla prossima visita del vecchio.
Tra i due bambini cominciò un gioco strano diverso da quello che facevano con gli altri bambini, ma era molto divertente, perché consisteva nel trovare il vocabolo giusto per ogni oggetto che avevano in mano. Naturalmente Konnie doveva pescare dal suo dizionario di italiano scarso e sdrucito, Micol da quello di tedesco parimenti deficitario. E il pegno da pagare per ogni errore era una manciata di liquerizie, che abbondavano sempre nelle loro tasche, mentre il premio consisteva in un casto bacio sulle labbra. Questo permise di migliorare la conoscenza della lingua più ostica per loro e di far sbocciare un tenero amore infantile.
Micol cresceva ed era sempre più integrata nel tessuto del paese, perché non era considerata più una forestiera venuta dal profondo sud, ma una di loro che ragionava in tedesco e parlava la loro lingua. Per i paesani tutto quello che stava al di sotto delle montagne verso sud erano persone che minacciavano la loro tranquillità, che li volevano italianizzare, quindi erano i nemici da combattere, da tenere lontani dalle loro case.
Micol faticava ad inquadrare i motivi di tanto astio, non tanto verso lei o i genitori, che dopo un primo approccio di diffidenza erano entrati a far parte della comunità a pieno titolo, ma verso i turisti che nel periodo estivo sciamavano nei boschi rumorosi e chiassosi lasciando dietro di sé carte e altro sudiciume.
I due bambini d’estate avevano il loro punto segreto d’appuntamento: il nocciolo enorme posto sulla biforcazione tra il sentiero 1 e 1b. Lì pazientemente aspettavano l’arrivo dell’altro, prima di correre felici per mano tra rovi di more selvatiche e grandi felci verdi alla ricerca di una spiazzo al sole, dove potevano distendersi e chiacchierare spensierati su cosa fare il giorno dopo.
Micol quando era con Konnie si sentiva librare leggera come un pappo dondolante nell’aria, mentre lo osservava dal basso verso l’alto. Percepiva sicurezza e serenità, esattamente come all’interno della sua casa, era pronta a seguirlo in qualsiasi prova temeraria nella quale lui voleva cimentarsi. Lo seguiva scalando con incoscienza alberi che si piegavano pericolosamente sotto il peso lieve dei due bambini, scendendo per dirupi sdrucciolevoli per il fitto muschio verde ed umido fino sul limitare del ruscello che scorreva placido nella forra.
Una lacrima salata scivolò lieve sulla guancia di Micol, mentre ricordava Konnie e lei bambina quel giorno di agosto di molti anni prima, quando aveva sette od otto anni senza rammentare quanti erano con precisione.
Come tutti i giorni lei aveva raggiunto quel misterioso posto segreto, che poi segreto non era, ma per loro era come se lo fosse, ed aveva atteso con pazienza l’arrivo dell’amico.
Passò del tempo, che sembrò una giornata intera, mentre lei era seduta su un piccolo masso sporgente ad osservare i movimenti del bosco. Si sentiva inquieta perché era la prima volta che Konnie tardava ad arrivare, quando sentì in lontananza portata dall’eco la voce angosciata e stridula della madre “Micol! Dove sei?”.
Nessuno sapeva, tanto meno sua madre, che loro si incontravano il quel punto del bosco e si domandava perché la cercava con tanto impeto ed affanno. Si alzò per andare incontro a quel suono, che non sapeva con precisione da dove provenisse, perché ogni anfratto, ogni roccia rifletteva quel rumore di parole affannate e dolenti in tutte le direzioni.
Dopo aver vagato alla ricerca della sorgente per il bosco, la vide in una radura che correva ad abbracciarla. Non comprendeva il senso di quell’agitazione e il motivo per cui la stringeva al petto come se avesse il timore che volasse via col primo refolo di vento.
Le lacrime adesso scendeva sfacciatamente copiose e numerose sul viso di Micol, mentre riandava col pensiero all’atmosfera di casa tesa, nervosa ed agitata, alla cappa di inquietudine che aleggiava fra le abitazioni del paese, al andirivieni di persone note e sconosciute che si affacciavano sull’uscio.
La madre la teneva abbracciata, mentre suo padre, insolitamente tornato presto, le accarezzava i capelli neri, senza che lei comprendesse il motivo di tutte le premure ed attenzione di cui era oggetto. Aveva la testa confusa perché Konnie aveva mancato l’appuntamento, perché i suoi genitori la coccolavano in maniera inusuale, perché percepiva un silenzio carico di dolore.
Frastornata ed intimidita prese il coraggio di chiedere: “Konnie doveva venire..”, ma la madre le chiuse la bocca e disse:”Micol, sii forte. Konnie è volato via..” prima che la voce si incrinasse per l’emozione.
Si divincolò, urlò e si rifugiò nella sua stanza nel sottotetto, mentre in Micol adesso il singhiozzo divenne un urlo di dolore.

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