Laura non condivideva tutto l’entusiasmo del padre per la visita del Duca. Le pareva eccessiva e non aveva mancato di rimarcarlo.
“E’ un uomo pieno di fascino” diceva fra sé e sé. “Ma perché dovrei volare alta? Mi ha osservato per bene, quasi spogliandomi. Anzi spogliandomi completamente come se volesse valutare come sono. Però lui è il Duca e io Eustochia. Cosa posso pretendere? Che lui ripudi la bella Duchessa, quella Borgia, di cui raccontano meraviglie? Io sono nulla al suo confronto”.
Seduta vicino al tavolo di lavoro, continuava a cucire un berretto rosso con la stessa cura con la quale curava la sua persona. Muoveva con grazia e decisione un ago ricurvo di legno ormai consunto dall’uso. Non si decideva a gettarlo e sostituirlo con uno nuovo. Sembrava che fosse affezionata come se fosse una persona.
La madre, Paola, era accorsa alle grida del marito e girava inquieta e agitata per la stanza che funzionava da laboratorio.
“Dimmi, Francesco” diceva scossa dall’emozione. “Dimmi, Francesco. Sei sicuro che fosse il Duca in persona? Non era forse la sua controfigura, che voleva prendersi gioco di te?”.
Il padre in preda ancora all’emozione per quella visita inaspettata balbettava confuso delle parole senza senso.
“Calmati!” implorò la moglie. “Calmati! Non si capisce nulla”.
L’uomo, afferrata la brocca dell’acqua fresca, ne versò un po’ in un boccale di stagno prima di cominciare a parlare.
“Certo che sono sicuro, Paola! Era lui in persona accompagnato dalla sua scorta personale. E poi dopo avermi richiesto un cappello da sfoggiare per l’imminente carnevale, dovevi vedere come adocchiava la nostra Eustochia. E lei ..”.
“E lei cosa ha fatto? Come si è comportata? Dimmi, Eustochia ..” volgendo lo sguardo verso la figlia. “Cosa avete detto al nostro Duca?” ripeteva come un mantra la madre.
Laura alzò gli occhi dal berretto, rimase con l’ago a mezz’aria e inspirò tutto quello che poteva entrare nei polmoni. Poi sospirò come per giustificare quello che stava dicendo.
“Nulla. Assolutamente nulla. Cosa dovevo fare o dire? Mi ha chiesto ..” replicò la ragazza spalancando gli occhi.
“Cosa vi ha chiesto? Non farmi morire per il non sapere”.
“Cosa ho detto? Laura Dianti detta Eustochia. Che altro dovevo dire?” ammise sconcertata.
La madre alzò gli occhi al cielo e, accasciandosi su uno sgabello ingombro di stoffe e pelli, rimase senza parole. Rifletté che il Duca aveva rivolto la parola alla figlia che aveva risposto semplicemente col proprio nome senza rendergli omaggio o tentare di mostrarsi gentile.
“Non avete reso omaggio al nostro Duca che è entrato nella nostra umile dimora? L’avete forse irritato? Vi sarete dimostrata scorbutica come al solito, immagino. Non vi capisco. Non accettate le proposte di matrimonio che facoltosi commercianti vi fanno. Siete fredda col nostro Duca! Pensate di diventare novizia come Lucrezia, vostra sorella?”.
“No, madre” replicò pacata la ragazza. “Non penso di diventare novizia come mia sorella ma di trovare un buon partito che mi voglia bene. Di certo questo non sarà il Duca che è maritato con la Duchessa”.
Paola stava replicando, quando Antonio, il ciabattino della bottega accanto, mise la testa dentro la stanza.
“Dimmi, Francesco. Era il nostro Duca quello che è sceso dalla carrozza ducale pochi istanti fa? E’ entrato qui?” domandò curioso di conoscere i motivi della visita, provando un filo di invidia.
“Certamente. Mi ha ordinato un cappello per il prossimo carnevale” replicò soddisfatto, sperando di avere accontentato la morbosità di sapere.
Il ciabattino mosse un passo verso l’interno osservandoli bene in viso alla ricerca di altre informazioni, che la risposta aveva taciuto.
“E come lo vuole?” incalzò deciso a conoscere tutti i dettagli.
Nel mentre anche il fratello, Bartolomeo, fece irruzione nella bottega.
“Padre ..” disse concitato. “Padre, tutto il quartiere parla che il nostro Duca ha fatto visita alla nostra dimora. E’ vero? L’hai visto da vicino? Com’era?”.
Francesco preso tra due fuochi non sapeva cosa rispondere, mentre altri popolani entravano nella stanza che ben presto fu incapace di contenerli tutti.
“Calma! Calma!” urlò Paola per sovrastare il rumore delle parole di tutti quegli abitanti della via.
Laura, impaurita da tanto affollamento, guadagnò in fretta le stanze più interne per sottrarsi alla curiosità popolare.
“Tra non molto dovrò sottostare al fuoco delle domande delle amiche che vorranno sapere, conoscere e punzecchiarmi, perché l’invidia sarà forte” rifletteva mentre si sedeva in cucina.
La stanza guardava un piccolo orto bruciato dal gelo, accessibile da un ingresso che dava su un viottolo che conduceva alle mura cittadine. Udì un picchiare deciso sulla porta che si apriva sull’orto.
“Eccole che arrivano!” disse rassegnata la ragazza, alzandosi malvolentieri ad aprire l’uscio.
“Dimmi, Laura”. Furono le prime parole che la investirono, mentre il solito gruppetto di amiche faceva irruzione nella cucina senza aspettare di essere invitate a entrare.
“Non farci morire dalla curiosità!” implorò Giulia, la figlia del maniscalco.
“Se fosse vero!” pensò la ragazza. “Non sareste qui a domandare per soddisfare la vostra invadenza morbosa di sapere come è andata”.
“Non essere reticente!” incalzò Eleonora. “Ci hanno detto che sei stata invitata a corte per carnevale!”.
“E’ vero che il Duca ti ha baciato la mano?” continuò Anna, girandole intorno.
“Tra un po’ scoprirò che ho fatto anche sesso col Duca..” rifletteva infastidita Laura.
“Dicono che ti sei appartata con lui nel retrobottega. E’ un grande amatore?” chiese in maniera sfrontata Marfisa, quasi arrossendo per l’audacia delle sue parole.
“Come voleva dimostrarsi. Sono già stata a letto col Duca” pensò ridendo.
“Non essere muta. Vogliamo conoscere tutti i particolari” ricominciò Giulia.
“Domani ti presenterai a Palazzo Ducale per prendere servizio?” sbottò come ultima Violante. “A che ora ci vai? Posso accompagnarti?”.
Laura cominciò a ridere senza ritegno, gettando nello sconforto le amiche.
“Ma vi sembro una che ha fatto tutto quello che si mormora? Nessun invito a Corte né a Palazzo Ducale! Semplicemente ha ordinato a mio padre un berretto carnevalesco!”.
La delusione si dipinse sul volto delle ragazze.
La bambina dei sogni di Carlo Menzinger [O.T.]
«La bambina dei sogni» è l’ultimo romanzo di Carlo Menzinger, che dimostra ancora una volta il suo eclettico stile di scrittore.
E’ un romanzo dal genere incerto o, per meglio chiarire il concetto, è un multigenere. Potrebbe essere un urban fantasy, perché contiene elementi tipici del fantasy come Oberon, il re delle fate, oppure Elena, una bambina dai poteri sopranaturali, condito da pizzichi di thriller-mystery per le situazioni usuali del genere, con larghe parti di introspezione psicologica dei personaggi. Insomma molti ambienti mescolati tra loro che possono piacere a una grande platea di lettori dai gusti dissimili.
Curato nei particolari e nei dettagli, gli avvenimenti si susseguono secondo un preciso filo logico e, bella sorpresa, sempre credibili pur in presenza di eventi non spiegabili razionalmente. In ogni momento del romanzo è in grado di catalizzare l’attenzione del lettore, tenendo desta la loro attenzione col ritmo incalzante della narrazione. Ma quello che riesce bene all’autore è quel senso di sospensione tra sogno e realtà, dei quali si fatica a riconoscere la sottile linea di confine.
Lascio al lettore curioso di scoprire il finale, per non togliere il gusto di conoscere e di capire il senso dell’intero romanzo.
Carlo Menzinger ha Avuto la felice idea di affiancare al classico libro cartaceo, che sponsorizzo in pieno, perché è veramente ottimo da tutti i punti di vista, il formato elettronico (epub e pdf) con la formula del copyleft.
Questo è l’indirizzo per saperne di più del romanzo
https://sites.google.com/site/carlomenzinger/home-1/home/la-bambina-dei-sogni
Il petalo e la rugiada
Capitolo 7
Giacomo, dopo essersi accomiatato da Giulia e Ginevra, dandosi appuntamento per la sera, cominciò a girare per le vie intorno alla Cattedrale.
Era smarrito perché non riconosceva quasi nulla né vie né abitazioni. Una carrozza chiusa lo attendeva nei pressi di Palazzo Paradiso per riportarlo a casa.
“Quale casa?” si domandò perso mentre percorreva via Gorgadello facendo attenzione ai numerosi rigagnoli che come torrentelli scorrevano verso il Palazzo Ducale.
“E a casa chi troverò? Una moglie? Dei figli? Fratelli e sorelle?” continuava a riflettere un po’ angosciato.
Il timore di non sapere cosa avrebbe trovato, la quasi certezza di non conoscere il proprio cognome erano il viatico che gli faceva compagnia in questo girare in una città che non riconosceva come propria, almeno in gran parte. Percorse un tratto di strada verso la chiesa di San Francesco, che scorgeva in lontananza. Qualcosa di familiare finalmente gli rischiarò la vista.
“Quale palazzo mi ospiterà stasera? Qui sembrano tutte nuove costruzioni. Giulia ha parlato di quello che occupa un isolato in Voltapaletto. Però qui sono tutti immensi e freschi di calce. Il cocchiere saprà condurmi sicuramente a quello giusto. Mi sento fuori posto, anche se pare che tutti facciano a gara per mettermi a mio agio”.
La sera declinava rapidamente e le strade diventavano buie in fretta. Giacomo si affrettò a tornare dove stazionava la carrozza. Non si sentiva sicuro nell’oscurità incipiente.
“A casa” disse una volta salitovi mentre si abbandonava sul comodo sedile di raso rosso. “Tanto lui sa dov’è la mia casa in questa epoca. Io no”. Era una sensazione strana quella di non conoscere chi era in questa epoca.
Lentamente si avviò verso la Zuecca che risalì per uscire da Porta San Giovanni. Quello che lo stupiva era che la strada era più stretta di quel che ricordava. Adesso era un immenso cantiere sia a destra che a sinistra, che confondeva i suoi ricordi. Raggiunse la porta che era già chiusa e vigilata dal corpo di guardia. All’imbrunire dunque le porte cittadine venivano sprangate fino al sorgere del nuovo sole. La carrozza si fermò, mentre il cocchiere confabulò col capitano. Un lento cigolio avvertì Giacomo che i soldati stavano aprendo il portone per consentire l’uscita. Percepì che si era rimessa in moto dall’andamento saltellante delle ruote sul terreno irregolare.
Scostò la tendina per scrutare fuori ma osservò solo buio e un accenno di bruma che si levava dai campi. Le strade gli erano sconosciute o quanto meno non identificabili con quelle che conosceva. Qualche misera abitazione sorgeva qua e là ai bordi ma su tutto regnava oscurità e foschia.
Si domandava come il cocchiere riuscisse a guidare senza perdersi ma in particolare si chiese con quale coraggio avrebbe affrontato il percorso inverso per raggiungere il luogo del convivio.
Lui continuava a sentirsi fuori posto ma scacciò questo pensiero, perché voleva scoprire le motivazioni per le quali era piombato in un secolo che non gli apparteneva. Si concentrò sui rumori che ascoltava. Per le azioni ci sarebbe stato tempo.
Il lento battere degli zoccoli del cavallo, il cigolare delle ruote sul terreno irregolare, gli sbalzi della carrozza sulle asperità della strada furono i compagni di viaggio di Giacomo, immerso nei suoi pensieri.
Avvertì che la carrozza si era fermata di nuovo.
“Siamo arrivati?” rifletté scrutando fuori. La sagoma di una chiesetta compariva alla sua destra, mentre in lontananza si vedevano dei fuochi tremolanti che illuminavano un viottolo.
Il cancello cigolante si aprì e la marcia fu ripresa.
“Messer Giacomo, siamo arrivati” udì la voce ormai familiare del cocchiere mentre si apriva la porta per scendere.
Giacomo osservò la facciata della sua abitazione senza riuscire a memorizzare nulla.
“Ci sarà tempo per osservarla meglio. Ora le ombre impediscono di vederne i contorni”.
Accompagnato da un domestico con un grande candelabro raggiunse quella, che suppose, fosse la sua stanza.
Una graziosa serva gli portò dell’acqua calda e gli disse: “Madonna Isabella vi aspetta nelle sue stanze”.
L’informazione lo fece riflettere.
“Dunque sono sposato”. Era una nuova indicazione che si aggiungeva alle altre. Lentamente il mosaico avrebbe mostrato il disegno complessivo.
La ragazza, vestita con panni di lana ruvida, l’aiutò a togliersi il mantello e il farsetto. Poi versò l’acqua in un bacile elegante e dai riflessi metallici, invitandolo a immergervi i piedi che strofinò con forza.
Giacomo si domandò chi fosse questa serva e le chiese chi era, perché gli sembrava un viso nuovo.
“Sono Ghitta, messer Giacomo, per servirla” rispose pronta mostrando un viso furbo e pulito.
“Zucola mi ha assegnato a lei in sostituzione di Lorenzo, che è stato arruolato nell’esercito del Duca”. Precisò con una punta di orgoglio.
“Zucola? Lorenzo? E chi sono costoro? Servi? Domestici? Qui tutto si complica e si fatica a capire il nesso tra nomi e mansioni” rifletteva Giacomo, sbottonando un corpetto con le maniche.
La ragazza continuò a parlare, a spiegare mentre l’aiutava a togliersi gli indumenti.
“Sono la figlia di Antonio, un contadino di messer Ercole, vostro fratello. Oggi è il mio primo giorno. Sarò la vostra cameriera personale”.
Giacomo si fermò un istante a riflettere perché oltre che a una moglie aveva anche un fratello.
Ghitta afferrò la calzamaglia per sfilarla e nel farlo toccò le parti intime emettendo un gridolino tra lo stupore e la gioia.
“Quanti anni hai?” le chiese, un po’ infastidito, anche se quel tocco aveva risvegliato qualcosa di sopito.
“Diciotto, messer Giacomo. E non sono ancora maritata perché mio padre non ha i soldi della dote” rispose pronta.
Raccolse tutti gli indumenti e sparì velocemente in una porta.
C’era qualcosa che non quadrava mentre era rimasto praticamente solo con un camicione di lana.
Ma il tempo scorre
Ma il tempo scorre
Mostrador de um relógio Foto de Jose Goncalves D
Released into the public domain (by the author)
Il tempo scorre
tra le mani,
scivola via
veloce
così il presente
è già passato,
come il futuro
si fa presente.
Vorrei fermare
il tempo,
ma non posso.
Vorrei retrocedere
il tempo,
ma non riesco.
Così in un soffio
scappa
e mi lascia qui
senza te.
Capitolo 6
Castello Estense, salotto ducale. Vespro stesso giorno
Alfonso entrò nello studio ducale per vedere lo stato dell’arte. Era rimasto solo la sua sedia “Savonarola” nella stanza. Ponteggi e pitture ovunque, il salotto ducale era un cantiere aperto. Una squadra di pittori era all’opera per affrescare il soffitto. Si intravvedeva il disegno, appena abbozzato. Tutta l’area intorno alla torre Marchesana e nella via Coperta era un laboratorio, una fucina per ridisegnare i suoi appartamenti.
Si sedette a contemplare l’opera, che prometteva bene, ma la mente era occupata da un altro pensiero: Laura, la figlia del berrettaio.
“E’ una donna che emana forza e tranquillità. Nessun timore. Ha tenuto sempre gli occhi puntati verso di me senza mai abbassarli. Mi ha stregato”.
Si stupiva nel formulare questi pensieri. Era la prima volta che una donna generava in lui queste riflessioni.
Il Duca guardava il soffitto senza vedere niente mentre la mente associava Lucrezia.
“E’ sempre stata disponibile ma ora dopo otto gravidanze e faticose maternità la sua salute è sempre più un’incognita e fatica a riprendersi. E’ ancora una bella donna ma va declinando. Non riesco a comprenderla perché ha abbracciato il terz’ordine francescano, legandosi ai seguaci di San Bernardino e Santa Caterina. Sembra che voglia espiare delle colpe delle quali sicuramente si è macchiata nel passato, ma che non mi interessano”.
I suoi pensieri erano rivolti solo all’unione carnale, a tenerla occupata nel governo della famiglia e del ducato, quando lui si doveva assentare per seguire una guerra o perorare una causa dei suoi possedimenti. Un sorriso comparve sul viso bruciato dal sole, mentre ricordava che in quasi quindici anni di matrimonio aveva generato quattro figli ancora in vita, l’ultimo dei quali era nato solo l’anno prima. Il ducato era salvo, perché la discendenza era assicurata: il papa, del quale era feudatario per Ferrara, non poteva revocare l’investitura agli eredi naturali, anche se era in corso un nuovo braccio di ferro con Clemente VII per i possedimenti modenesi. La scomunica era stata tolta ma stava ancor lottando per riottenere i territori di Modena e Reggio.
Dunque non era il pensiero di Lucrezia che lo tormentava ma la caparbia volontà di opporsi alle mire del Papa sul suo ducato.
“Ho accettato di sposare Lucrezia perché era la figlia del potente Papa Borgia ma in verità non ne ero molto felice. E’ vero che ha portato in dote una montagna di fiorini d’oro ma la sua bellezza è stata come un fiore che attrae le api. Ora questi pensieri sono svaniti perché non temo più che si svii. L’ho domata, imbrigliata ma è diventata passiva, Non c’è più gusto di passare le notti con lei. Devo ammettere che mi ha concesso un bel erede”.
La fugace immagine di Ercole, il primogenito passò nella sua mente. Lo vide, nonostante i suoi otto anni, forte e robusto, dal carattere risoluto e già sufficientemente scaltro nel farsi valere. “Sarà il mio successore alla guida del ducato quando Dio mi avrà richiamato a sé”.
Si domandò meravigliato le motivazioni di queste associazioni, che erano state avviate dal solo pensare alla donna vista nella mattinata, neppure logicamente correlate tra loro. Era un vagare saltando da una considerazione all’altra sul filo della ragione.
Adesso però i suoi pensieri erano tornati a concentrarsi su Laura, la giovane dalla personalità forte e indipendente, che in qualche modo l’aveva attratto. Era titubante nel lanciarsi in questa nuova avventura.
“Perché?” si domandò mentre continuava a fissare inutilmente il soffitto.
Doveva riconoscere che Lucrezia aveva dimostrato delle capacità politiche, insospettate in una donna ed era molto amata dai ferraresi che vedevano in lei oltre la bellezza anche la bontà d’animo verso i poveri.
“Abbiamo gusti differenti in tema di arte. Lei si è circondata di poeti e letterati mentre io ho chiamato grandi pittori e scultori per abbellire i camerini del mio appartamento sopra la via Coperta. Io preferisco l’arcigno Cosmè Tura, lo scarno e rarefatto Ercole de’ Roberti, il potente Dosso Dossi, il sereno ma maschio Lorenzo Costa, mentre lei adora le dolci pennellate del Garofalo per decorare le sue stanze. Ma perché mi ritrovo a rincorrere questi pensieri?”.
Tutti questi turbinii di considerazioni avevano travolto Alfonso distraendolo dalla visione di come procedeva l’affresco del soffitto.
Però tornava con la mente alla mattina quando si era recato da Francesco, il berrettaio, con la scusa di ordinare un cappello da usare nelle prossime feste di carnevale.
Dunque era Laura il centro dei suoi pensieri, mentre il divagare su Lucrezia era solo un diversivo. Doveva rifletterci ma percepiva di essere stranamente incerto, lui che non aveva minimamente disdegnato di accoppiarsi anche con donne del mestiere.
Ancora una volta gli tornò prepotente alla mente Lucrezia e decise di rendergli omaggio prima di coricarsi.
Percorsi i corridoi che lo conducevano all’appartamento della moglie, la trovò intenta a giocare coi tarocchi nella sala dei Giochi.
“Madonna Lucrezia” esordì Alfonso sedendosi tra lei e Laura Rolla.
“Come state? Mi pare che abbiate una buona cera. Chi vince? E quale premio toccherà in sorte alla vincitrice?”.
“Va meglio, mio Signore” replicò serenamente la duchessa.
“Nulla. Giochiamo per ingannare il tempo prima di coricarci per il riposo notturno. Ma ora scusatemi” e si alzò diafana uscendo dalla sala.
Il duca rimase pensieroso faticava a comprenderne l’atteggiamento. Il suo temperamento robusto gli impose di salutare la compagnia delle donne che stavano con Lucrezia e rientrare nel proprio appartamento senza attenderne il ritorno.
Il campo
Hai sognato questo libro?
Di solito non faccio pubblicità a qualcosa, ma a questo romanzo edito da pochi giorni sì. L’ho letto quando ero ancora un manoscritto grezzo, ho discusso con l’autore su quello che secondo me non andava. Adesso è un qualcosa di concreto e sono lieto di spendere queste poche righe perché qualcuno lo compri.
un romanzo politico di oroscopi e tarocchi.
Il romanzo surrealista di un premier travolto dagli scandali e di un’opposizione imbelle. La ribellione del ragazzo autistico che si sbava addosso. L’antiutopia di una misteriosa città sconosciuta le cui arterie si chiamano Prenestina e Lungotevere, e secoli prima vi erano state costruite, in vista di un Giubileo, chiese dove oggi si ritrovano gli scoppiati e si tengono performance di artisti visionari.
L’evoluzione della psicanalisi in un futuro in cui il concetto di persona non è più legato a quello di individuo. Un gattopardo del futuro in cui imprese multinazionali e servizi deviati vogliono cambiare tutto per non cambiare niente.
Sono le prime frasi della prefazione scritta da iQuindici per il romanzo La Comunità dei Sogni di Daniele Vazquez, appena uscito in libreria per i tipi di Gilgamesh Edizioni, piccola e coraggiosa casa editrice mantovana di qualità che ha incrociato la nostra strada nel fortunato momento della scoperta di questo romanzo.
A noi il racconto di Daniele è piaciuto moltissimo: 380 pagine che filano via lisce come l’olio, spiazzandoti di continuo per la loro visionaria verosimiglianza paradossale . Ed è piaciuta moltissimo la scelta sua e dell’editore di pubblicare sotto licenza Creative Commons!
Per questo a breve sarà scaricabile dalla nostra Biblio Copyleft, ma nel frattempo vi invitiamo a comprarlo: dall’editore non avrete nemmeno il fardello delle spese di spedizione!
E allora che aspettate? La traiettoria di una fuga non è falsificabile: e tu scappi o resti?!
Capitolo 5
Ferrara, mattina del !6 Gennaio 1517
A metà della strada in leggera salita, che da Piazza di Porta Paola portava verso il Baluardo di Santa Maria, c’era una bottega bassa dove un berrettaio di nome Francesco fabbricava copricapo per nobili e popolani con l’aiuto della figlia Laura.
La stanza dava direttamente sulla strada, riparata solo da una pesante tenda. Spifferi e odori maleodoranti entravano a gelare lui e la figlia intenti a preparare un cappello per le feste del prossimo carnevale.
Laura era una giovane donna di circa sedici anni, allegra e vivace, che per alleviare gelo e fatica canticchiava uno scioglilingua
I luin a tel dag mi
par ca se ta ti to ti
ti ta ti to tutti ti ta ti to.[1]
Era una bella ragazza dai lunghi capelli corvini, che erano raccolti sulla testa secondo le tradizioni delle donne di basso rango, e dalle guance perennemente rosse per il freddo. Stava accanto a un braciere per meglio riscaldarsi, facendo attenzione di non bruciacchiare la stoffa con qualche favilla sprigionata dalla legna.
Vestita rozzamente come una popolana con una pesante zimarra bianca di lino grezzo senza maniche sopra una tunica di panno di ruvida lana colorato, metteva in risalto la delicatezza del viso, il corpo minuto e il seno appena pronunciato.
Era riuscita a non diventare una sposa bambina, come molte altre coetanee che adesso erano sfiorite da gravose gravidanze e da una faticosa conduzione della casa.
La fama della sua bellezza circolava per il ducato, tanto che qualche nobile con la scusa di assumerla tra i domestici ci aveva provato con qualche avance, ottenendo il fermo diniego suo e del padre.
“Piuttosto che finire come Anna entro in convento come mia sorella!” diceva sempre alle amiche, che ridevano delle sue affermazioni. Erano convinte che alla fine avrebbe ceduto finendo in qualche casa patrizia come l’amante di un ricco nobile.
“Sei troppo bella per rimanere libera in attesa dell’uomo dei tuoi sogni” replicavano ironicamente.
Lei era determinata nel suo obiettivo: sposare una persona che l’avrebbe trattata come un essere umano.
Suo padre preferirebbe che rimanesse nella bottega, perché era veramente abile nel cucire insieme i vari pezzi che formavano il copricapo. Per questa sua abilità il lavoro non mancava, anche se i guadagni erano scarsi. C’erano sempre in cassa qualche diamante o delle mezze lira di Ferrara per le necessità correnti ma niente di più. Se arriva uno scudo o un fiorino d’oro, era festa grande ma erano una rarità. Vivevano modestamente coi pochi soldi che ricavavano dalla confezione di berrette secondo la moda francese o di feltri di velluto spagnoleggianti.
Laura continuava a modulare la filastrocca come se fosse una dolce ninna nanna, quando emerse dalla tenda che divideva la stanza dalla strada un uomo vestito elegantemente con un vestito di raso rosso e blu e una cappa di ermellino bianco per proteggersi dal freddo.
Il padre si alzò immediatamente in segno di deferente ossequio. Aveva riconosciuto immediatamente che la persona, entrata nella sua bottega, era il Duca di Ferrara.
“Mi hanno detto che qui preparate i migliori berretti del ducato” disse senza troppi preamboli osservando la figura minuta di Laura che continuava il suo lavoro senza degnarlo di uno sguardo.
“Se vi hanno detto così, me ne compiaccio. Come posso servirvi, mio amato Duca?” domandò Francesco non dissimulando imbarazzo e deferenza.
“Dunque è questa giovane dama, quella dalle mani d’oro?” proseguì ignorando la risposta del berrettaio, mentre concentrava la vista sulla ragazza.
Laura sobbalzò e rimase muta, sbiancando in viso prima di imporporarsi per il turbamento che le parole avevano provocato. Il freddo era sparito sostituito dal caldo dell’emozione per la presenza del Duca e perché si rivolgeva a lei senza mezzi termini. Lo guardò con attenzione perché era la prima volta che poteva osservarlo da vicino. Un uomo, senza dubbio affascinante, con una folta barba ben curata e un viso abbronzato e duro che emanava una forte virilità. Il suo cuore prese a battere furiosamente, perché aveva compreso che la visita era per lei e non per l’attività che svolgevano.
Si alzò, avvicinandosi per inginocchiarsi come deferente omaggio alla persona.
Il Duca rise, alzandole il viso con la mano guantata. La fissò negli occhi scuri, invitandola a mettersi ritta.
“Dunque siete voi, la fanciulla della quale mi hanno decantato le doti. Come vi chiamate?”
“Laura. Laura Dianti detta Eustochia, mio signore”.
Alfonso aggrottò un sopraciglio per la risposta senza approfondire il motivo di quel sopranome. La trovava fresca e bella, risvegliando in lui delle sensazioni che parevano affievolite dopo quindici anni di matrimonio con Lucrezia.
“Mastro Francesco vi ordino di preparare un cappello a falda larga per le cerimonie del carnevale che cominciano tra venti giorni. Verrò tra due giorni per la prima prova” disse continuando a fissare la ragazza senza lasciarle la mano.
“Che tipo di cappello, mio signore?” replicò timidamente l’uomo.
“Quelli dell’ultima moda, alla francese. Per il colore mi fido della sensibilità di questa fanciulla” e si girò dirigendosi verso l’apertura.
Dalla tenda svolazzante Laura vide Alfonso circondato da un drappello di soldati che si stavano allontanando verso una carrozza che stava aspettando.
La mente era in subbuglio, il cuore continuava a battere impetuosamente, al freddo era subentrato un calore in tutto il corpo tanto che, se avesse potuto, si sarebbe tolte le vesti.
“Il Duca ha messo il suo occhio su di me” si disse mentre il padre in agitazione parlava e si muoveva con frenesia.
“E’ un uomo affascinante che strega chiunque lo avvicini”.
Il berrettaio chiamò ad alta voce la moglie.
“Paola. C’era il Duca nella mia bottega!”
Laura nel mentre percepiva sensazioni contrastanti senza riuscire a collegarle logicamente tra loro.
“Oggi è accaduto qualcosa di straordinario. Un incontro che lascerà un’impronta nella mia vita”.
Rifletteva ignorando le voci concitate dei genitori.
I lupini te li do io,
perché se te li prendi tu
tu te li prendi tutti,
tu te li prendi.
Arcobaleno
Arcobaleno
Nella magia dell’arcobaleno,
che colora
il cielo ancora imperlato di pioggia,
vado alla ricerca
della radice della vita.
Inseguo un sogno,
la fantasia vola,
ma la radice non si trova.
Sfuma sull’orizzonte,
là dove declinano i campi,
tra alberi e campagna,
appena accennato.
Ma il sogno resta
e le radici della vita
si trovano,
là dove nasce l’arcobaleno.