Giacomo era ancora confuso e allo stesso tempo eccitato per l’avventura notturna della quale non ricordava nulla o solo qualche brandello piuttosto sbiadito. Anche il risveglio era stato sulla falsariga della notte. Quello di cui aveva certezza erano una donna al suo fianco della quale non rammentava il nome, un letto non suo e tanti interrogativi non risolti.
“Chi è?” si domandava al termine dell’eccitante amplesso. “La contessa Giulia o la vedova Ginevra? Oppure quell’altra misteriosa donna che si era unita a loro?”
L’unica evidenza era il tatto. Percepiva forme rotonde e una carne soda, compatta, mentre il resto era avvolto nella nebbia.
Della sera precedente rammentava con chiarezza l’arrivo, l’accoglienza e i sottili giochi, intrecciati a tavola con Giulia e Ginevra, sui comportamenti sessuali degli invitati e nel proseguimento della serata più esplicitamente sui loro. Poi i fumi delle abbondanti libagioni con quel vino bianco ambrato e apparentemente innocuo, che hanno accompagnato il pantagruelico pranzo, l’hanno fatto scivolare in un limbo indefinito, composto da tanti piccoli scampoli di rara lucidità.
Adesso che la sbornia era passata, lasciando solo un pesante cerchio alla testa, si domandava dov’era. Questa sembrava una domanda ricorrente, che lo ossessionava dal giorno precedente, senza che riuscisse a dare una risposta coerente al suo stato. Quello che non comprendeva era se fosse il frutto di un incubo più o meno felice oppure fosse una realtà alquanto romanzata.
“L’unica certezza è che sono in una camera del tutto sconosciuta insieme a una donna della quale posso percepire i contorni senza conoscerne il volto. Invero assai poco per potermi destreggiare senza rischiare di smascherare le mie mancanze”.
La campagna di letto era nuda come lui d’altra parte. Respirava serena dopo aver fatto all’amore, assopita e tranquilla. Presumeva che fosse anche appagata, almeno questo era il suo convincimento. Giacomo allungò le mani esplorando nuovamente il corpo con circospezione. Il seno al tocco gli appariva florido, duro, che immaginò che restasse in posizione anche senza altri sostegni. Fece scivolare discreta e leggera la mano sinistra verso il basso che sentì sodo e compatto. Questi movimenti lo eccitarono nuovamente, mentre la donna mugolava come se provasse delle emozioni di piacere.
Si fermò e attese che desse qualche cenno di risveglio. Doveva essere già mattina inoltrata dal leggero chiarore che filtrava attraverso i pesanti tendaggi davanti alle finestre. Gli occhi cominciarono a intravedere le forme. Un naso regolare e un viso rotondo erano quello che poteva osservare, mentre il resto era nascosto dalla coperta di lana e agnello, sotto la quale erano rintanati per proteggersi dal freddo piuttosto pungente. La donna adesso era sveglia e vigile.
“Messere Giacomo, aveva ragione mia cugina ..” disse stringendosi nuovamente a lui. “Siete un amatore eccezionale”.
“Quale cugina?” si chiese stupito. “E poi fino a ieri non conoscevo nessuna donna, all’infuori di quelle della mia epoca! Come possono conoscere le mie doti amatorie, se per me erano delle illustre sconosciute?”. Però conservò gelosamente dentro di lui questi pensieri.
“Ma anche voi avete dimostrato una passione ardente e una natura focosa” replicò l’uomo con dolcezza.
“Siete galante e discreto, messere!”
Rifletté che doveva essere Ginevra, la vedova, la donna che gli stava accanto.
“Madonna Ginevra, vedo che la vedovanza non ha smorzato i vostri ardori” azzardò Giacomo, sperando di avere eseguito l’azzardo giusto.
Una gaia risata, che lo rincuorò, risuonò sotto le coperte.
“No! Era tempo che provassi nuovamente i piaceri della carne” replicò senza imbarazzo e con naturalezza.
Un sospiro di piacere mascherò il sollievo nell’avere indovinato chi era la compagna. Un veloce flash gli sovvenne, ricordando gli ultimi istanti del banchetto prima dell’oblio notturno.
Era ormai la fine del convivio, quando una terza donna giovane e sfrontata si unì a loro, proponendo una gara alle altre due.
“Vi propongo un gioco. Il premio è messer Giacomo. Chi vince ha diritto a passare la notte con lui” disse sistemandosi vicino a loro.
“E perché dovremo eseguire questo gioco?” domandò scocciata Giulia. “Nessuno vi ha invitata a aggregarvi a noi. Il messere è nostro ospite. E poi non è detto che noi abbiamo questi pensieri. Siamo ..”.
“Suvvia, dame! Lo sanno tutti che gli ospiti sono tali e vanno onorati al termine del convivio!” replicò scanzonata e pungente.
I fumi del vino fecero il resto. Ricordò che fece da paciere nel litigio, del quale era l’involontario protagonista, e accettò di essere l’oggetto della scommessa. Brandelli confusi del gioco e di come terminò veleggiavano nella mente. Infine il buio inghiottì tutto e con esso anche chi era risultata la vincitrice.
“Dunque ha vinto Ginevra. Mi domando se avesse vinto una delle altre due come sarebbe stata la notte” si chiese, mentre si stringeva alla donna.
Come se gli avesse letto il pensiero, Ginevra cominciò a parlare..
“Avrebbe vinto sicuramente Costanza, se la cugina non avesse fatto in modo che io risultassi la vincitrice. Quella donna non perde occasione nei banchetti di scegliere l’uomo col quale vuole trascorrere la notte. E’ sfrontata e priva di morale e tradisce il marito con tutti”.
“E lui cosa fa?” chiese curioso.
“Come tutti gli altri mariti. Tradisce la moglie, andando a letto con le amiche” rispose ridendo. “Perché voi non fate lo stesso?”.
Giacomo stava per replicare che non avrebbe tradito la moglie, quando si ricordò che in questa epoca ne aveva una, rimasta a casa.
“Sì, avete ragione, Madonna Ginevra. La mia era una domanda oziosa. Ma vi chiedo come siete riuscita a sconfiggere Costanza, la rivale”.
“Vedete la scommessa verteva se fosse entrato per primo una donna o un uomo oppure nessuno. Ella aveva puntato su una donna mentre io su nessuno e dama Giulia su un uomo. Quell’intrigante si era accordata con l’amica compiacente e avrebbe vinto di certo, se la cugina non avesse fatto un cenno al servitore per bloccarla. Così è andata. Non saprò mai ringraziarla per quello che ho provato stanotte”.
Aveva appena finito di mormorare le ultime parole, quando un bussare discreto e qualche colpetto di tosse annunciarono l’arrivo di qualcuno. Giacomo avrebbe voluto porre altre domande ma non c’era tempo, perché la porta si aprì mentre una donna scivolava furtiva dentro.
“Vi ho svegliato?” chiese una voce divertita. “E’ tempo di fare colazione. Fuori imperversa una bufera di neve che sta bloccando tutta Ferrara. Qui si muore dal gelo! Il fuoco è morto da un pezzo ma forse non ne avete avuto necessità”. E un risolino irriverente e vagamente geloso accompagnò quest’ultima affermazione.
“Neve? E come faccio a rientrare?” chiese sbigottito Giacomo, senza raccogliere la non troppo velata frecciata.
“Già stanco di Madonna Ginevra, Messer Giacomo?” replicò ironica Giulia.
“No, anzi .. Ma mi chiedevo come potrei raggiungere la casa fuori città”.
“Spedite il vostro staffiere. Però io sto gelando, mentre voi siete al caldo sotto le coltri”.
“E la colazione?” rimbeccò l’uomo, mentre Ginevra si stringeva con passione al suo corpo.
“Aspetta solo un mio cenno. Mi fate posto o non sono gradita?”
“Cosa dite, Madonna Ginevra? L’accogliamo qui o la lasciamo al gelo?”.
La donna sbuffò indispettita, senza dire nulla, lasciando il compito al compagno di decidere sulla risposta. Era chiaro che non desiderava la presenza della cugina.
Giacomo era preso tra due fuochi e avrebbe scontentato o l’una o l’altra con qualsiasi decisione che avrebbe preso. Decise di giocare la carta di fare colazione intorno al tavolo che stava accanto al camino, spento e gelato. Sicuramente avrebbe deluso entrambe ma almeno avrebbe avuto il tempo per ricucire, visto che era rimasto bloccato dalla neve.
“Accendo il camino e facciamo colazione attorno a quel tavolo” esclamò deciso, mentre incurante del freddo si precipitò verso gli indumenti ammonticchiati alla rinfusa ai piedi del letto.
“Siete impazzito?” urlarono all’unisono vedendolo nudo armeggiare con calzamaglia e corsetto. “Morirete dal gelo”.
“Se sarà così, sarà dolce dopo una notte fantastica” replicò battendo i denti.
“Ma perderete l’occasione di altre notti straordinarie” disse Ginevra, rimasta al caldo sotto le coperte.
“Per il momento sono sopravvissuto” e cominciò ad armeggiare col camino con scarsi risultati.
“Messere Giacomo, lasciate perdere. Chiamo la cameriera che in un attimo lo accenderà” e battè le mani.
La giornata prometteva bene.
Capitolo 14
Laura Dianti lavorava alacremente ma continuava a rimuginare quanto aveva ascoltato dalla madre. Era una ragazza giovane ma aveva ben chiaro quello che voleva. Assecondare le voglie del Duca senza opporre resistena non erano questi gli obiettivi in cima alla scala dei desideri. Trovare un bel giovane, che le volesse bene, era un’aspirazione difficile da conquistare, anche perché la città non godeva di un grande credito morale. Ascoltando le amiche, pareva che ci fossero più bastardini che abitanti. Naturalmente sapeva che erano esagerazioni, ma un sottofondo di verità c’era. Un bel dilemma si annidava nella mente della ragazza tra sogni improbabili e realtà non lusinghiere.
Un senso di gelo percorreva le mani che faticavano a muovere l’ago con destrezza. Le accostò al braciere che emanava un caldo tepore che mitigava solo in parte l’aria circostante. Un breve sollievo irruppe dentro di lei, mentre un senso di calore rimetteva in circolo i pensieri. Si alzò per riattivare il sangue che pareva essersi congelato per il freddo, coagulandosi nelle vene, e guardò la strada dalla porta.
La neve turbinava in fiocchi ampi come una mano e tutto era bianco immacolato. Nessuno aveva osato uscire di casa o dalla bottega. Il silenzio era opprimente e affascinante.
Laura rimase immobile a osservare lo spettacolo, inalando il profumo della neve fresca.
“Se continua così, domani non possiamo uscire di casa” udì la voce del padre che commentava la spettacolare nevicata.
“Come facciamo?” replicò la ragazza per nulla entusiasta dell’idea.
Un lieve sorriso increspò il viso dell’uomo che continuò a parlare.
“Come facciamo? Come negli inverni passati. Restiamo chiusi nelle nostre case finché le scorte di legna e di cibo ce lo consentono. Poi ..”
“Poi, padre? Siamo nella strada dei commerci. La Calle di Ripa Grande. Nessuno fa nulla? Dobbiamo restare barricati in casa, finché il sole non tramuta neve in acqua?”.
L’uomo allargò le braccia e aggiunse. “Qualcuno libererà il portone d’ingresso del proprio negozio, qualche altro davanti a casa. Ma la strada rimane bloccata e nessuno oserà avventurarsi fuori”.
Alla ragazza non sembrava una buona giustificazione ma doveva accettarla. Tornò al posto di lavoro per riprendere a cucire il berretto iniziato il giorno precedente. Si era appena seduta e aveva ripreso l’ago che manovrava con rapidità e abilità, quando udì entrare la madre con una tazza di latte bollente in mano. Volute di vapore si levavano dalla scodella come tanti piccoli serpentelli.
“Ecco la vostra tazza con qualche piccola ciambella dolce appena cotta” e osservò lo stato del braciere.
Ormai le braci erano diventate cenere calda e non scaldavano più di tanto. Lo raccolse per mettere nuovi tizzoni ardenti, perché l’aria era veramente gelida e il fiato si condensava in minuscole gocce di ghiaccio.
Laura era ghiotta di quelle ciambelle che parevano sia nella forma sia nella sostanza minuscole brazadele, che la madre preparava con grande abilità di arzdoura. Ne prese una che ammorbidì nella scodella fumante e rifletteva ancora una volta sugli eventi del giorno precedente. Più mandava giù, più svaniva un po’ di consapevolezza e di sicurezza che aveva alimentato con l’uomo ideale, anche se non si era mai fatta illusioni. Era come se ingoiasse speranze friabili, che venivano dimenticate in fretta. Mangiava con calma, assaporando il gusto e il profumo delle ciambelle appena sfornate. Però il senso di colpa saliva insieme a quella folle, insana sensazione che stava effettivamente concretizzando ma che non aveva ancora focalizzato nella sua interezza.
Sul piatto di metallo, leggermente ammaccato sul bordo, stavano invitanti le ultime ciambelline che parevano suggerire che tutto sommato non avrebbero rovinato nulla, se ne avesse presa un’altra
“Non sono una gran bellezza, non sono neanche così donna, come molti credono. Sono una ragazzina invecchiata con l’aria innocente” si disse, mentre ne intingeva un’altra nel latte ormai intiepidito.
Il pensiero scivolò leggero nella bocca piena di briciole di ciambella e poi giù senza rimorsi verso lo stomaco. Si rendeva conto che nonostante tutte le smentite pubbliche un pensierino al Duca l’aveva fatto. Era un affascinante connubio tra sogno e realtà ma poi ripensandoci bene tornò coi piedi per terra. Tutto sommato era un’insignificante e semplice ragazza, magari anche noiosa e soprattutto inesperta. Quindi volare troppo alti non era mai un aspetto positivo, perché rischiava di passare il suo tempo a metà nel confronto con le altre e il resto nella ricerca di nascondersi agli occhi della gente.
“Lo pensano tutte, quando mi vedono. Segretamente e alle mie spalle confabulano ponendosi delle domande simili alle mie. «Perché lei e non io?» Allora mi comincio a chiedere cosa c’è nel mio aspetto, nel mio modo di agire che possa dare l’impressione che ci sia qualcosa che abbia attirato il Duca. Lentamente acquisto la consapevolezza che in realtà lo sto facendo per una scelta precisa, quella classica «voglio uscire da questa vita di rinunce». Però non mi renderò conto di avere la sensazione di ballare su una corda tesa a 10 m dal suolo. Il risveglio potrebbe essere amaro”.
Laura era immersa in questi pensieri, mentre senza accorgersene aveva finito le ciambelle. Eppure c’era qualcosa che la rendeva nervosa, restia a lanciarsi in un’avventura dai contorni incerti. Forse era l’istinto di conservazione, che la frenava, perché percepiva di essere meno amabile o appetibile. Avrebbe desiderato essere amata e riamare a sua volta, ma era la sensazione di lasciare tutto al caso che non la convinceva. Doveva prendere in mano il suo destino e decidere cosa fare del suo futuro. Capiva di essere ancora una ragazza po’ timida ma non quella solitaria e superba di un tempo. Non si era spaventata, quando il Duca le aveva rivolto la parola, perché nel bene e nel male aveva un’idea sufficientemente precisa e chiara di quello che voleva. Doveva trovare solo la strada per raggiungere l’obiettivo che aveva in mente per poter dire a se stessa che se lo era guadagnato. Desiderava costruirsi un percorso per diventare una nuova donna senza aspettare che qualcuno le desse valore.
“A cosa state pensando” le chiese la madre vedendola assorta con la scodella del latte ormai freddo.
“A nulla, madre. A nulla” rispose pronta, riprendendo il lavoro interrotto.
Capitolo 13
Alfonso si aggirava inquieto nei suoi appartamenti. Fuori fioccava con grande intensità e tutto quello che vedeva attraverso le finestre era bianco. Il giardino ducale aveva assunto un aspetto allegro. Non certamente era così il suo umore.
Chiamò il cameriere personale per farsi aiutare a vestirsi e il maestro di casa per controllare gli appuntamenti nella giornata odierna.
“Al tocco Rinaldo Costabili. Poi il segretario Bernardino de’ Prosperi e Boezio de’ Silvestri .. Ma chi è costui?” si chiese vedendo questo nome. Gettò la carta sul tavolo, mentre andava a controllare alla finestra. La nevicata era diventata un diluvio per l’intensità. Finora il tempo era stato clemente. Un po’ di nebbia, qualche pioggia, freddo ma non eccessivo e pochissima neve. Adesso sembrava che volesse mostrare il suo vero volto invernale, arcigno e per nulla rassicurante. Per qualche mese tutte le attività sarebbero state ferme o si sarebbero mosse al rallentatore.
“Circolare con la carrozza sarebbe pressoché impossibile. A piedi estremamente pericoloso”. Esclamò ad alta voce.
Come un leone in gabbia si trasferì nello studio ducale per leggere alcune carte e scrivere qualcosa per i giudici dei savi e il segretario.
Era da poco seduto sulla sua Savonarola, quando udì un bussare discreto alla porta.
“Avanti” urlò più per rabbia che per farsi sentire.
Il maestro di casa gli annunciò la visita dell’ambasciatore di Firenze.
“Eppure non l’avevo in lista per oggi” rifletté scorrendo velocemente la lista.
“Fattelo entrare” gli confermò di malagrazia. “Se devo ricevere qualcuno, non è certamente costui”.
L’ambasciatore entrò accompagnato dal maestro di casa e porse i suoi omaggi al Duca, che a denti stretti gli rispose in maniera poco ortodossa.
“Volevo salutarvi, Eccellentissimo Duca, perché sono di partenza per Firenze”.
“Ma sperate di mettervi in viaggio con questo tempo da lupi?” replicò divertito Alfonso.
“Devo farlo, perché sono stato richiamato con urgenza. Il governo della città è dilaniato da molte fazioni. Spero di partire oggi o domani al massimo”.
“E come credette di procedere? Il tempo è pessimo e le strade sono piene di neve ..”
“Con qualunque mezzo: la carrozza, il cavallo o la slitta. Ma devo raggiungere Firenze il prima possibile. Prendo commiato da voi e spero che rivederci tra qualche mese” tagliò corto l’ambasciatore.
“Che la fortuna vi assista” rispose asciutto e ironico il Duca.
Mentre l’ambasciatore prendeva congedo e spariva oltre la porta, Alfonso pensò che dovesse essere un temerario per affrontare un viaggio in quelle condizioni. Il Duca ricordò come in maniera rocambolesca era riuscito a ritornare nelle sue terre dopo essere stato ostaggio del Papa Giulio II.
“Sono stato fortunato, tutto sommato e me la sono cavata con poco” commentò la partenza dell’ambasciatore fiorentino. Però adesso doveva concentrarsi, perché tra non molto Rinaldo Costabili, nominato giudice dei Savi qualche anno prima, sarebbe venuto per discutere un’ordinanza che regolava le azioni in caso di incendi.
“Ma sarebbe riuscito a raggiungere il Palazzo Ducale?” era questo il pensiero.
Però c’era un altro punto che premeva urgentemente, relegando in un angolino Laura Dianti. Con la mediazione di Carlo V aveva versato al Papa una bella somma in fiorini d’oro per riconquistare i territori di Modena e Reggio. Leone X, un Medici, aveva accettato il pagamento ma aveva fatto orecchie da mercante perché aveva altre mire su quelle terre. Questo gli dava un senso di frustrazione e impotenza contro il quale non poteva fare nulla ma solo aspettare gli eventi.
Puntuale Rinaldo Costabili si presentò nello studio ducale. Era stato il consigliere segreto del padre di Alfonso, Ercole d’Este, mentre adesso ricopriva il ruolo di giudice dei dodici Savi. Questi amministravano il ducato imponendo gabelle e tasse, ma soprattutto rappresentavano la mano armata del Duca in tema di giustizia. Loro si riunivano in alcuni locali posti al piano terra del cortile Ducale, ma avevano anche un ingresso da via Cortevecchia accanto all’Osteria del Cavaletto.
“I miei omaggi, eccellentissimo Duca” esordì con un inchino Rinaldo. “Oggi il tempo non è clemente e presto la città sarà bloccata dalla neve”.
Alfonso annuì replicando al saluto, mentre consultava gli appunti che i Savi gli avevano sottoposto nei giorni precedenti.
“Dunque. Voi scrivete che i pompieri «devonsi recare sul luogo dell’incendio accompagnati da fabbri ferrai, legnaioli e muratori. I negozi di droghieri, cerchiari e mastellai devono essere aperti. I massari dei rioni devono nominare, a loro cogniti per onestà, delle persone, che devono correre sul luogo al suono delle campane. Loro ne saranno i responsabili, giacché si era veduto per esperienza che concorrevano anche i cattivi per rubare anziché per aiutare. Il massaro di San Romano dovrà indicare venti persone, sedici quello di Boccacanale e dieci quelli per i restanti rioni. Le nomine sono annuali ed eseguite il primo di ogni anno». Sì, mi pare un’ordinanza equilibrata. Pertanto completatela e sarà pubblicata col mio sigillo”.
Parlarono poi di giustizia e tasse. Il Duca doveva raccogliere molti fiorini per estinguere il debito contratto per il riacquisto di Modena e Reggio.
“Messer Rinaldo, restate mio ospite a colazione?” chiese Alfonso.
“Grazie, mio Duca” rispose pacato. “Un impegno gravoso mi attende. Dobbiamo valutare come punire i riottosi, affinché non ci siano più tumulti di piazza”.
E uscì dalla stanza dopo avere reso omaggio al Duca.
A Gigliola
Non ci sono parole,
non ci sono verbi
per quello che vorrei dirti.
Difficile e parlare,
ancora più difficile è esprimere
quel che penso di te.
Le parole escono veloci
come l’acqua impetuosa del fiume
ma non riesco a trasmettere
le sensazioni che sento per te.
I pensieri sono entità impalpabili,
come l’aria immota,
che grava su noi,
per esprimere quel che non riesco farti comprendere.
Tra noi c’è il dialogo
che esiste tra il muto e il sordo,
dove io sono il muto
e tu la sorda.
Capitolo 12
Le prime luci dell’alba accolsero Laura con un cielo imbronciato che preannunciava neve. La ragazza rimase al caldo sotto le coperte, ripensando al sogno della notte. C’era qualcosa di strano che la turbava, perché raramente aveva visioni oniriche così ricche di particolari. Era questa la stranezza che la faceva riflettere.
Due erano i dettagli che erano rimasti impressi: la localizzazione sconosciuta e il misterioso personaggio che era apparso prima del risveglio quando quel «No!», che inizialmente le era morto in gola ma che poi era uscito di prepotenza nel silenzio della notte, aveva destato tutta la famiglia.
Si domandava quale era il reale significato del sogno e quale messaggio recondito voleva trasmettere.
“Quel labirinto verde, dove mi sono persa angosciata, non l’ho mai potuto ammirare. Chissà se esiste realmente. Era un posto meraviglioso e, allo stesso tempo, inquietante. Giravo e mi rigiravo in continuazione senza trovare la strada per uscire. Ad ogni passo cresceva l’inquietudine fino a diventare terrore. Che senso ha tutto questo? E poi quell’uomo misterioso, che è comparso all’improvviso, chi è? Cosa voleva da me?”.
Il dubbio non si era sciolto ma continuava a tormentarla. Doveva alzarsi ma inquieta e ansiosa titubava a uscire dal caldo rassicurante del letto come se fuori ci fosse l’ignoto, pronto a fagocitarla. Raccolse tutte le sue forze e, sospirando, uscì nel gelo della stanza. Velocemente si tolse il pesante camicione della notte per infilare i gelidi abiti da lavoro. Brividi di freddo attraversarono il corpo senza che Laura riuscisse a dominare ogni parte del corpo. Rapidamente raggiunse la cucina, dove la madre stava ravvivando il focolare per riscaldare la stanza.
“Buongiorno, madre” disse entrando, mentre si avvicinava al fuoco, che stava spandendo i primi tepori, per riscaldarsi.
“Buongiorno, Laura. Oggi la giornata sembra grigia. Il cielo non promette nulla di buono. Se volete, sulla madia c’è qualcosa avanzato da ieri sera. Più tardi scaldo una scodella di latte fresco”.
Poi Paola le domandò perché aveva urlato nel cuore della notte svegliando tutti i componenti familiari. Laura era incerta nella risposta perché non la conosceva neppure lei. Non poteva accampare come scusa che qualcosa era rimasto sullo stomaco a provocare un incubo, visto che si era ritirata a cena appena iniziata, mangiando poco o nulla.
“Niente, madre, niente. Solo un cattivo sogno che mi ha spaventato da morire” replicò la ragazza, per chiudere l’argomento.
Laura tagliò una fetta di pane, ormai avvizzito e secco, che cosparse con una cotognata di prugne. Aveva fame, perché la sera precedente non aveva assaggiato nulla o quasi nulla. Doveva tacitare lo stomaco, che brontolava per essere rimasto vuoto.
L’aria era diventata meno gelida, mentre il corpo aveva acquistato un po’ di calore. Aprì l’uscio dell’orto per sbirciare fuori. C’era ancora buio ma il cielo era chiaro, lattiginoso. Una raffica di vento la spinse a chiudere in fretta quella fessura e tornare al caldo accanto al camino.
“Fuori c’è aria di neve. Avete ragione, madre. Fra non molto cadranno i primi fiocchi”.
Preparò una grossa bugia con un cero nuovo, svuotò il braciere dalla cenere del giorno precedente prima di riempirlo con i tizzoni ardenti del focolare. Si avvolse nel pesante scialle di lana grezza colorata vivacemente e si preparò a trasferirsi nella stanza laboratorio. C’era molto lavoro arretrato, perché la visita del Duca aveva scombussolato tutte le loro attività.
“Io vado, madre. C’è molto lavoro da completare oggi”.
“Quando il latte sarà caldo, ve lo porto” aggiunse la donna, mentre la ragazza spariva nell’altra stanza.
Posata la bugia sul tavolo e il braciere sotto di esso, vicino ma non troppo alle gambe, cominciò a lavorare di cucito in maniera meccanica. Negli occhi c’era ancora la visione di quelle siepi, ben più alte di lei, dalle quali non riusciva a venirne fuori.
«Ma chi era quell’uomo, sbucato all’improvviso?» era la domanda ricorrente alla quale non trovava una risposta soddisfacente.
Alfonso si svegliò nel grande letto e rimase a mirare il baldacchino che stava sopra di lui. Aveva ancora nitida la visione notturna. Lui e Laura nel grande giardino del Verginese. Avevano giocato a lungo a rincorrersi nel labirinto verde, prima che lui l’afferrasse e la trasportasse nella stanza da letto preparata per l’occasione.
Era stato un momento magico possedere quella fanciulla. Il ricordo di quel momento era ben fisso nella mente. Scacciò questi pensieri con forza, perché non poteva essere stato attratto da una ragazzina ancora acerba come lei. Eppure lo tormentavano come una spina infilata tra la pelle e il corsetto senza che lui riuscisse a porre rimedio.
“Io sono il Duca e non devo chiedere nulla a nessuno. Tutto è mio”.
Però quel viso continuava a galleggiare dinnanzi ai suoi occhi, Nella giornata odierna doveva sbrigare molte questioni politiche e risolvere diversi problemi relativi alla giustizia. Queste considerazioni gli fecero svanire tutto l’entusiasmo che il sogno notturno aveva acceso A malincuore tirò il cordone vicino al letto. Aveva fame.
Il cameriere personale si precipitò e chiese cosa desiderasse.
“Ho fame” rispose asciutto, mentre si era appoggiato con la schiena alla spalliera del letto.
Un altro servo, piuttosto giovane, era intento a riattivare il fuoco del camino per riscaldare la stanza. Le pesanti tende cremisi furono spostate dalle finestre per far entrare la luce del nuovo giorno. Questa era debole, offuscata da cristalli di ghiaccio depositati sulle vetrate colorate del finestrone di sinistra.
“Nevica” annunciò il cameriere personale mentre deponeva un tavolino sul letto.
Alfonso fu contrariato da questa informazione, perché complicava tutti i suoi progetti. C’era stato bel tempo fino al giorno precedente, mentre adesso il maltempo la faceva da padrone. Significava che tutti gli spostamenti sarebbero stati difficoltosi per non dire impossibili. Il solo pensiero di restare vincolato agli appartamenti ducali senza possibilità di muoversi liberamente lo rendeva irascibile.
“Oggi devo ricevere i rappresentanti dei Savi per stabilire le pene di alcuni condannati. Se nevica salta tutto. Poi devo incontrare gli ingegneri per le nuove fortificazioni .. Invece dovrò rimandare tutto!”. E non erano i soli appuntamenti della giornata odierna.
Però era il pensiero di Laura che lo rendeva di cattivo umore, perché il segretario, Bernardino de’ Prosperi, non sarebbe stato in grado di eseguire i suoi ordini.
Il profumo del pane appena sfornato dalla cucina ducale lo distolse momentaneamente da queste meditazioni cupe.
Giacomo si svegliò chiedendosi dove era, Percepiva al suo fianco la presenza di una donna sconosciuta, che non era sua moglie. Almeno quella che ricordava nella sua epoca. Poi il letto era più duro di quello nel quale era abituato da una vita a dormire. Aprì un occhio e notò che per tre lati cadeva un pesante tendaggio. Tutto gli appariva insolito come se fosse ancora in braccio a Morfeo tra sogni e fantasie.
“Ma dove sono finito?” si chiese muovendosi con cautela per non destare chi dormiva vicino a lui. Poi come un raggio di sole squarcia il muro di nebbia, rammentò che era stato proiettato in un’altra dimensione, che faticava non solo a comprendere ma anche ad adattarsi.
“In questa vita profondamente differente da quella nella quale ho vissuto fino a ieri non riesco ancora a capacitarmi in quale spazio temporale sono finito. Ma in particolare stento a calarmi nel nuovo ruolo, di ingegnere del Duca. Ma quale Duca?”.
Allungò una mano tastando la presenza di una donna che dormiva profondamente al suo fianco. Al contatto ella si girò, accovacciandosi su di lui soddisfatta.
“Ma chi è costei?” si domandò. La sua nuova esistenza era tutto un indovinello del quale doveva trovare le risposte giuste per non incappare in pessime figure.
Ricordi confusi vennero a galla senza che Giacomo riuscisse a distinguere quelli recenti da quelli passati. Ricordava vagamente che nella giornata precedente si era recato in biblioteca per consultare un vecchio libriccino, che non aveva ancora visto. In compenso era finito nel periodo storico del ducato estense. Per questo motivo tutti i suoi guai nascevano da questo improvviso e non voluto salto indietro nel tempo, perché non era in grado di governare le sue azioni quotidiane per la mancata conoscenza delle circostanze che lo riguardavano. Un senso di incertezza unitamente ad ansia accompagnava i suoi pensieri, rischiando di creargli seri problemi.
“Quale duca?” si domandò ancora una volta. “Presto lo scoprirò. Almeno questo è il mio auspicio”.
Però adesso era impellente scoprire chi era la misteriosa donna che stava accoccolata su di lui. Nebulosamente altri frammenti tornavano a galla: aveva fatto all’amore con una passione insospettata, perché nella nuova dimensione era ringiovanito miracolosamente. Almeno questo aspetto della nuova esistenza era stato piacevolmente gradito e apprezzato da Giacomo.
“Ma chi è costei?” si chiese per l’ennesima volta. “Come sono finito a letto con lei? E’ stato sicuramente piacevole ma ..” e la domanda sfumava.
Provò a ricordare cosa era successo la sera precedente. La mente era ancora annebbiata dalle molteplici libagioni, accompagnata da una feroce emicrania che gli martellava la testa.
“Ero fra due splendide donne, Giulia e Ginevra, che facevano a gara per conquistarmi ..Ah! che mal di testa!”. Una fitta lancinante lo distolse dal ripercorrere la serata precedente.
“Sei stato magnifico” udì mugolare dalla donna che si stringeva a lui. Questo aggettivo lo rese euforico, mentre percepiva delle labbra incollarsi sulle sue e un movimento del corpo che non si prestava a equivoci.
“Ma chi sei? Giulia o Ginevra?” si domandò quasi implorando, mentre ricambiava il bacio.
Qualche altro frammento si ricompose nella mente ma era insufficiente a svelarne l’identità. Ricordò che due o forse tre donne fecero un gioco dove Giacomo era il trofeo in palio. Però non rammentava come era finita la gara, salvo che adesso si ritrovava in una stanza buia a letto con una sconosciuta. Al vago ricordo un sorriso gli increspò le labbra, perché tutto sommato aveva avuto un epilogo molto felice e gradevole.
“Era una delle due oppure una terza persona che non conosco?” rifletté, mentre le mani della donna frugavano il suo corpo in maniera impertinente.
Rimase passivo per un lasso di tempo non troppo lungo ma ben presto divenne attivo, dimenticando tutti i dubbi che lo avevano assalito dal momento del risveglio.
E fu un altro tripudio dei sensi.
A Elena
Capitolo 11
Giacomo, salito sulla carrozza che l’attendeva sul viale principale illuminato da numerose torce, disse al cocchiere: “Alla casa della contessa Giulia” con la speranza che questa indicazione fosse sufficiente.
Mentre udiva lo scalpiccio confuso dei cavalli che trottavano lenti verso Ferrara, cullato dal dondolio un po’ scomposto della carrozza, si abbandonò a mille pensieri.
“Ghitta mi sembra troppo impertinente e poi mia moglie ..” e un largo sorriso affiorò sul viso su questo aspetto. “E poi Isabella mi sembra un po’ acida. Se non voleva correre rischi, sostituiva Lorenzo con un altro servitore. Invece mi ha fornito una giovane ragazza come domestica personale. Valle a capire le donne. Però devo ammettere che è meglio una serva disinibita a un servitore dalle tendenze non chiare”.
Un leggero sorriso increspò le sue labbra, subito smorzato da altri ragionamenti. La mente corse alla contessa Giulia e alla giovane vedova della quale aveva già dimenticato il nome. Però era un pensiero che frullava subdolo nella testa. “Sono l’ingegnere del Duca”. Quale era il significato di questa affermazione non l’aveva ancora scoperto.
Un brivido percorse la schiena di Giacomo riflettendo che non era assicurato che fosse all’altezza dei compiti richiesti. Scacciate queste considerazioni moleste, si concentrò sulla serata che si annunciava interessante, molto di più di quella che avrebbe condiviso, rimanendo a casa con la moglie saccente e per nulla attraente.
Il tempo volò e si ritrovò, quasi senza accorgersene, nel cortile del palazzo, illuminato dalle molte fiaccole poste sulle colonne che lo delimitavano. Un servo l’aiutò a scendere, mentre un altro prese il mantello prima di indicargli la scalinata di marmo che portava al piano nobile. Giacomo si fermò un attimo per imprimere nella mente lo spettacolo offerto dalle luci delle candele che in gran numero rischiaravano i gradini rosati. «Sono di marmo di Verona» concluse mentre affrontava i primi scalini.
Prima di avviarsi fece un ultimo paragone tra il palazzo che ricordava dei suoi tempi e la visione attuale, ammettendo che il confronto dello stato presente era vincente. Dopo pochi passi udì un suono familiare, una voce femminile che lo salutava con calore
“Messer Giacomo!”.
“Dama Giulia” rispose al saluto con un largo sorriso, alzando lo sguardo verso di lei.
Una splendida donna, al cui fianco stava una signora vestita di nero che lo lasciò a bocca aperta per la bellezza che spandeva, lo aspettava in cima alla scalinata. Riconobbe immediatamente nella vedova, la persona che nella mattinata era la compagna della contessa.
Questa vista accese il desiderio di Giacomo che si affrettò a raggiungerle. Un pensiero passò veloce nella mente dell’uomo. «Sono solo sogni incantati oppure è una realtà concreta?». Era un dubbio legato al fatto che si era ritrovato in un secolo che non gli apparteneva e che doveva esplorare istante per istante per ricomporre la propria identità, del tutto differente da quella che aveva conosciuto fino a poco tempo prima.
Dunque quella sottile eccitazione che la visione delle due donne aveva originato era un aspetto che doveva tenere sotto controllo per non incappare in brutte sorprese.
Si affrettò a salire, percorrendo i pochi gradini che lo dividevano dalla padrona di casa per rendere omaggio a entrambe.
“Dama Giulia. Siete uno splendore, se non fosse che ..”.
“Che cosa messer Giacomo? Volevate dire che, se non foste sposato, mi corteggereste?” disse con un tono che non lasciava dubbi. Trasmetteva un messaggio inequivocabile «Fattevi avanti, senza remore o tentennamenti. Accetterò la vostra corte. Non m’importa se siete sposato».
L’uomo sorrise compiaciuto, annuendo per confermare di averlo raccolto, mentre prendeva le mani delle due donne per rendere loro omaggio.
“Vedo che anche ..” e fece una pausa di sospensione alla ricerca del nome in qualche angolo della mente.
“Anche la cugina, Ginevra, ha deciso di concederci la sua gradita presenza” venne in soccorso di Giacomo che stava annaspando coi nomi.
“Madonna Ginevra, il nero vi dona molto” concluse osservandola in una maniera che non sfuggì a Giulia. L’aveva letteralmente mangiata e spogliata con gli occhi.
“Devo fare attenzione o la bella cugina mi soffia il bocconcino” rifletté ingelosita. Non si aspettava un approccio così diretto.
La padrona di casa fece strada accompagnandoli al tavolo dove gran parte degli ospiti stava già banchettando.
“Messer Giacomo, anche voi qui?”. Erano tutte facce sconosciute e ancor di più era quello che l’aveva chiamato. Accennò a un sorriso e un gesto della mano per ricambiare il saluto, ma non osava aprire la bocca. «Non saprei cosa dire» disse fra sé e sé, mentre rispondeva ad altri saluti, ignorandone i nomi. I suoi gesti parevano più di sufficienza che veramente sentiti con l’anima.
“Di sicuro domani il nostro Duca saprà dal quel pettegolo di Bernardino de’ Prosperi che il suo ingegnere era mio ospite a palazzo” bisbigliò senza farsi notare troppo Giulia. Ancora una volta si era salvato in extremis, anche se ignorava il ruolo del personaggio a corte.
Giacomo era stato collocato in mezzo alle due donne: Giulia a destra e Ginevra a sinistra e osservava compiaciuto queste due bellezze delicate e tanto diverse.
“Sono splendide entrambe e meritano più di un pensiero, a costo di sfidare le ire di Isabella. Però ho l’impressione che non sarà facile districarsi senza suscitare gelosie tra di loro. Sono cugine ma paiono rivali, almeno per stasera. Giulia ha trasmesso senza equivoci un messaggio. Ginevra pare più contratta, ma qualche bicchiere di vino presto la scalderà”. Erano i pensieri dell’uomo diviso sulle scelte, perché alla fine doveva scegliere o rischiava di perderle entrambe.
Un servitore riempì i calici con un vino dal colore giallo miele. Giacomo si chiese che bianco fosse senza profferire parola.
“Brindo a voi, dolci Madonne, che allietate la vista col vostro splendore”.
“Sembrate un poeta, messer Giacomo” cinguettò Ginevra.
Giulia si rabbuiò un attimo prima di sfoderare il miglior sorriso che aveva in serbo.
“La vostra presenza è per me un grande onore che diletta gli occhi e che riempie il mio animo di gioia. Il vostro spirito nobile e sensibile si manifesta con le parole. Ricambio il brindisi con molto piacere” replicò Giulia, accostandosi a Giacomo.
Un breve sorso per individuare il vino prima di riprendere le galanterie. “Ottimo questo Trebbiano! Deliziosamente profumato come i fiori che mi circondano” disse accennando a chi gli stava di fianco.
Aveva intuito fin dal primo istante che sarebbe stato l’oggetto del contendere delle due dame. Una soddisfazione intima affiorò nella mente dell’uomo che mascherò abilmente. Non aveva ancora deciso su quale delle due avrebbe puntato.
La serata si preannunciava intrigante.
A Chiara
Capitolo 10
Laura mangiava svogliatamente, mentre i genitori continuavano a discutere sulla visita del Duca. Ascoltava con la mente volata verso altri lidi e rispondeva con dei sì e dei no più o meno azzeccati. Quei discorsi l’annoiavano. Per lei erano senza sugo.
“Vi vedo distratta” disse la madre rivolgendosi a Laura.
“Vi sembra?” rispose abbassando gli occhi. “Ascolto le vostre parole e imparo cose nuove sul come comportarsi in quelle situazioni”.
Paola scosse la testa come per affermare che non ci credeva a quelle frasi, che avevano il sapore di circostanza e non dettate dalla testa.
“Madre, pensate che possa esserci una nuova opportunità?” continuò la ragazza nel tentativo di ricucire lo strappo.
“Quello che è perduto, è perduto e le buone occasioni o si prendono al volo oppure sono andate per sempre. Credo che questa sia volata via con il battito delle ciglia”.
Il padre ascoltava, annuendo col capo per sottolineare quello che la moglie stava dicendo. Di certo era stata una buona occasione ma non poteva biasimare la figlia, perché si interrogava quali prospettive future ci sarebbero state se si fosse mostrata più calda e appassionata.
“Forse è stato meglio così” rifletteva Francesco ascoltando il dialogo tra madre e figlia. “Forse avrebbe raffreddato gli ardori del Duca con un comportamento più sfacciato. E poi fra qualche giorno sarebbe passato per provare il cappello. E allora ..”.
Laura ascoltava a occhi bassi quello che la madre diceva senza replicare o giustificare l’atteggiamento tenuto.
“Quale era il comportamento giusto da seguire? Mostrarmi per quello che non sono oppure essere me stessa? Tutte, a cominciare dalle amiche, hanno pontificato che loro sarebbero state più intraprendenti. Ma io dove lo acquisto il coraggio? Al mercato di Piazza di San Crespino? Vado in chiesa a San Paolo e ascolto prediche dal prevosto sui facili costumi delle donne, come se fosse tutta loro colpa. Quando mi confesso devo sudare non poco per convincere il confessore che sono ancora vergine e non faccio né penso atti impuri. Eppure sembra che questo non sia una virtù ma un peccato capitale”.
La ragazza non ascoltava più le parole della madre ma era immersa nei suoi pensieri, distaccata dal mondo terreno.
“Col vostro permesso, mi ritiro nella mia stanza. Domani dovrò lavorare duramente per recuperare il tempo perduto oggi con la visita del Duca”. E si alzò senza aspettare l’assenso dei genitori.
La madre la guardò male con degli occhi che parevano incenerirla.
“Perdita di tempo? La visita del Duca è stata un onore per la nostra famiglia. Tutta Ferrara parla di noi. Vostro padre diventerà il berrattaio di corte dopo l’ordine del Duca. Ritiratevi pure ma non farete mai strada nel mondo che conta” rispose acida Paola.
Il padre sorrise e con un cenno del capo le concesse di andare nella propria stanza.
Percorsa una ripida scala di legno, Laura si preparò per la notte, anche se era appena passato l’imbrunire. Si sentiva stanca, agitata ed eccitata. Desiderava raccogliere le sue idee senza sentire il cicaleccio fastidioso di sua madre.
“E’ una madre amorevole ma a volte mi preferirebbe che scaldassi il letto di qualche facoltoso signore di Ferrara. Per ricavarci cosa? Un figlio illegittimo? Qualche scudo o fiorino d’oro? Mi sembra poco e mi dà l’idea di essere una donna di malaffare, che si fa pagare le sue prestazioni. Invece vorrei essere amata e riamare a mia volta. Però paiono una strada in salita i miei desideri”.
Dopo queste ultime riflessioni, cadde in un sonno profondo.
Si trovava in un posto sconosciuto dove spiccava un imponente palazzo e un giardino curato. Laura era disorientata, camminava senza riuscire a trovare una via per uscire da quel labirinto verde. Tutto appariva uguale e diverso allo stesso tempo. L’angoscia stava montando e il cielo da azzurro andava colorandosi di grigio. Cominciò a correre fino a rimanere senza fiato, accasciandosi sul sentiero. Le veniva da piangere, mentre sopra di lei il grigio virava al nero.
“Tra pochissimo pioverà” pensò sollevando lo sguardo, mentre qualche lampo violaceo percorreva la volta sopra di lei.
La ragazza temeva i temporali come il topo è atterrito dal gatto. Il cuore prese a battere a mille per la sensazione di affanno che stava salendo.
“Devo trovare la via di uscita o rimarrò annegata sotto il temporale estivo”.
Stranamente le sembrava che il tempo corresse tanto che l’inverno aveva lasciato il posto all’estate. Strana percezione temporale era la sua. Giorni e settimane che duravano lo spazio di un battere di ciglia.
Le prime gocce bagnarono l’abito leggero di lino che indossava. Non ricordava di averne mai posseduto uno. Però adesso copriva il suo corpo. Era un vestito con un’ampia scollatura a U, che lasciava intravedere quel seno acerbo appena modellato. Due maniche a sbuffo consentivano di mostrare le braccia, mentre appena sotto il seno partiva un’ampia gonna che arrivava fin quasi a terra.
Altre gocce caddero su di lei e la veste cominciava ad aderire al corpo, lasciando intuire cosa stava sotto. L’ansia si era tramutata in terrore, mentre si aggirava in maniera sempre più frenetica alla ricerca dell’uscita.
Si trovò sbarrata la strada da un uomo dai lineamenti forti, vestito come un soldato, che l’afferrò e la trasse a sé.
“No!” urlò con quanto fiato aveva in gola.
Adesso vedeva tutto buio, mentre udiva del trambusto prima che una candela tremolante illuminasse la scena.
“Cosa c’è?”. Era una voce familiare.
“Perché state urlando?” le chiese apprensiva la madre.
“Nulla, madre. Solo un brutto sogno”.
“Tornate pure a letto. Nessuno mi sta minacciando” continuò Laura con le parole impastate dal sonno e dalla paura.
Tornato il buio, si rannicchiò sotto le coperte e cominciò a pregare prima di riaddormentarsi di nuovo.