Capitolo 24

Alfonso le prese la mano e la riportò sul bancale, sedendosi accanto a lei. Gli occhi brillavano nell’ammirare la grazia e la semplicità di Laura, che indossava un abito leggero da popolana, che metteva in mostra il seno acerbo. Il duca amava circondarsi di cose preziose e belle e la giudicava come tale. Osservandola con cura percepì che l’impressione di molti mesi prima era ben appropriata, perché, se nei panni ruvidi di lavoro aveva mostrato un fascino che contrastava l’algida avvenenza delle dame di corte, adesso con il vestito della festa trasudava di charme che conquistava il cuore.

Lui era un ruvido uomo di arme che apprezzava la bellezza femminile e non solo, perché, sfruttando il potere che deteneva, non mancava di passare da un letto all’altro senza troppe sottigliezze. Non faceva differenza tra una dama di corte e una donna che svolgeva il mestiere più antico del mondo, purché fosse bella e disponibile. Questa superficialità nei rapporti gli stava costando caro vent’anni prima, perché aveva contratto coi fratelli Ferrante e Sigismondo la sifilide. Era riuscito a guarire quasi miracolosamente dalla malattia, che l’aveva portato a un passo dalla morte, mentre il fratello Sigismondo aveva avuto la vita segnata per sempre e ancora adesso stava lottando per sopravvivere.

Con Lucrezia i rapporti non erano più quelli iniziali né i timori, che lei potesse sviarsi o tradirlo, erano più attivi. Era conscio di averla domata con gravidanze a ripetizione, tanto che la salute della Duchessa era diventata cagionevole e fragile come un vetro di Murano. Era riuscito a imbrigliarla e renderla innocua come se avesse stipulato un contratto che valeva in assoluto con lei. Gli serviva come immagine, perché i ferraresi l’adoravano per quello che faceva per loro. La stimava perché gli aveva portato in dote potere e ricchezze, perché aveva assicurato al ducato degli eredi, che avrebbero allontanato le mire papali sui suoi possedimenti. Però tutto finiva lì. Adesso aveva necessità di qualcosa di fresco, di giovane e Laura incarnava queste aspettative.

Ricordava, mentre osservava la donna che stava al suo fianco, che Lucrezia era stata piacevolmente docile e pieghevole ma come le canne di fiume che sotto la sferza del vento si piegavano e non si rompevano, anche quella moglie non desiderata e in un certo senso temuta aveva fatto uso della flessuosa passività femminile, che col tempo l’aveva sconcertato e irritato più di una volta, per difendersi da lui. Gli sembrava sempre più spesso e senza troppe finzioni di fare all’amore con un pupazzo piuttosto che con una donna tanto si dimostrava distante e distaccata.

Non conosceva i motivi ma percepiva che con Laura sarebbe stato totalmente diverso. Dopo due mogli, una Sforza, morta poco dopo il matrimonio, e una Borgia, che era ormai sfiorita, desiderava una donna semplice che potesse amarlo per quello che era e per la sua personalità massiccia e forte, apparentemente ruvida ma che era capace di grandi slanci e generosità verso gli altri. Dunque la vedeva deferente e umile mentre trasmetteva una grande determinazione attraverso quei grandi occhi scuri.

Immaginò che non sarebbe stata una passeggiata, perché già una prima volta gli aveva tenuto testa, guadandolo senza abbassare lo sguardo o timori reverenziali, rispondendo senza esitazioni e con voce ferma alle domande che le aveva posto. Questo gesto di sfida, nemmeno troppo occulto, anziché irritarlo lo aveva attratto. Amava le sfide e la tenzoni ma nessuna donna aveva mai osato sfidarlo prima di lei.

“Eccola qui, dunque” rifletté Alfonso mentre continuava a tenerle la mano. “Potrei prenderla con la forza ma trasmette una calma interiore che mi inibisce. Devo conquistarla e con lei anche il suo rispetto”.

Batté le mani per richiamare l’attenzione del paggio che stazionava fuori dal padiglione.

“Ho fame” disse asciutto.

Giacomo, raggiunto il posto di guardia, vide immediatamente la morella nera che tranquilla brucava l’erba del prato. Un palafreniere la condusse con lentezza verso di lui, che dissimulò con una certa fatica l’ansia e l’inquietudine della prossima cavalcata.

“Ecco la cavalla, Messer Giacomo” esclamò il giovane, indicando la cavalcatura.

Un brivido percorse la schiena dell’uomo, che per distrarre l’attenzione di chi lo circondava osservò la donna al suo fianco come per porgerle le sue scuse.

“Madonna Giulia, mi spiace dover lasciarvi qui sola e senza il pranzo promesso. Mi rincresce ma se ..”.

“Vi prego, Messere. Non preoccupatevi per me. Vi aspetterò fedele e paziente, come una sposa, in quel padiglione. Al vostro ritorno passeremo in trattoria” replicò sorridente e soddisfatta di aver trasmesso l’impressione agli astanti che fosse la legittima moglie. Si dava un contegno e si sforzava di tenere un atteggiamento come se lo fosse.

Giacomo con l’aiuto del palafreniere montò a cavallo col cuore che pompava in maniera esagerata e poi tenendo le redini si mise al piccolo trotto sugli spalti erbosi delle mura cittadine.

Si rallegrò che in effetti era veramente docile e che non poteva sbagliarsi nella direzione. Si domandò come avrebbe dovuto agire, qualora avesse avuto la necessità di farla voltare.

“Devo tirare le redini a destra o sinistra? E per fermarla, quali azioni devo compiere? L’importante in questo momento è non cadere dalla sella. Per il resto ci penserò. Una cosa per volta. Non avrei mai immaginato che sarei dovuto andare a cavallo”.

Dopo un tempo che gli apparve infinito e dopo aver risposto a molti cenni di saluto di persone a lui completamente sconosciute, arrivò in prossimità di un enorme ammasso di terra che si ergeva imponente sull’orizzonte. Era molto più impressionante di quello che ricordava nella sua epoca.

“Ma di quanti metri si innalza dal piano di campagna? Ops! Il metro non è ancora stato inventato. Forse ora si usano i piedi di Ferrara, perché mi pare di ricordare che nell’ingresso sud del Castello ci fossero delle misure e le relative diciture” rifletté nell’osservare quella enorme montagna di terra brulla e scura.

Il cavallo si fermò come se avesse percepito questa istanza dalla mente di Giacomo, mentre lui era concentrato su quella visione tanto diversa dai suoi ricordi. Era piacevolmente soddisfatto per il fatto che era arrivato fin lì senza problemi, quando vide venirgli incontro delle persone che si sbracciavano per richiamare la sua attenzione.

“La pace è finita. A quali altre incombenze dovrò sottostare?” si interrogò ansioso, mentre sbigottito scrutava chi gli stava venendo incontro.

Voci concitate si mescolavano tra loro, mentre lui captava solo frammenti di parole.

“Messer Giacomo, per fortuna .. Ci sono dei problemi .. La porta di Sotto .. Abbiamo trovato .. E’ una Madonna .. Il docile ..” erano i brandelli che giungevano a lui.

Avrebbe voluto scendere di cavallo ma il timore di una figuraccia lo costrinse a rimanere in sella.

“Messeri, parlate uno alla volta. Altrimenti non vi capisco” disse con voce chiara e autorevole, facendo zittire i più esagitati.

Uno, vestito più elegantemente degli altri, si avvicinò al cavallo e gli fece segno di scendere. Un piccolo flash gli sovvenne, ricordando in qualche film western come il protagonista con agilità balzava dalla sella e con un piccolo salto Giacomo si calò dalla cavalcatura che rimase docile e tranquilla a brucare l’erba dello spiazzo.

“Dunque ditemi. Quale problema vi affligge da richiedere il mio intervento?”

“Messere, come sapete il nostro eccellentissimo Duca ha costretto i contadini del contado che si estende fuori delle mura fino a Ponte Gradella e verso San Martino di venire coi loro carri per portare la terra estratta dal fossato per creare la grande montagna che sta di fronte a voi. Ora si dà il caso che abbiano deciso di tornare sulle loro terre, perché non sono stati saldati i fiorini promessi” disse tutto d’un fiato.

“Per quale motivo sono stati negati i fiorini promessi?” domandò con cipiglio autoritario Giacomo.

“Sono finiti i soldi” ammise l’uomo, abbassando il tono della voce.

“E io che dovrei fare? Mettere mano alla borsa per pagarli?”

“Beh! sarebbe la soluzione ottimale ma dubito che si possa attuare. Voi dovreste parlare con loro e promettere che ..”

“Promettere cosa?”

“Promettere che presto saranno saldate tutte le spettanze”. E aggiunse di non preoccuparsi per la cavalla.

Aggrottò le sopracciglia e osservò l’assembramento di persone che stavano di fronte a lui a una decina di passi. Rifletté che una promessa non sarebbe costata nulla, memore dei suoi tempi. Erano solo qualche parole rassicuranti, ma che poi il mantenimento sarebbe stato problematico, perché, se erano finiti gli scudi, difficilmente sarebbero comparsi all’improvviso.

“Una bella gatta da pelare” si disse in silenzio. “Prima il Duca mi ordina un sopralluogo ben sapendo che mi sarebbe stato negato in virtù degli ordini impartiti alle sue guardie. Ora sono alle prese con degli scioperanti che reclamano il dovuto, e non hanno delle facce rassicuranti. Era molto meglio la mia epoca. Si scioperava e basta. In questa si rischia la vita”.

Trasse un profondo sospiro prima di arringare quel piccolo assembramento riottoso e poco incline ad ascoltare delle vuote parole.

“Messeri” cominciò. “Messeri tornate alle vostre occupazioni. Non posso saldare le vostre spettanze, perché nessuno mi aveva informato di questo. Ma al mio rientro ne parlerò con nostro eccellentissimo Duca delle vostre giuste lagnanze ..”.

Un mormorio preoccupante iniziò a salire da un gruppetto che stava in disparte, quasi staccato dal resto. Giacomo inghiottì la saliva e fissò quello che pareva il capopopolo con uno sguardo che non prometteva nulla di buono. Doveva mantenere un certo contegno se voleva tornare da Dama Giulia in buona salute.

“Non ho la bacchetta magica per fare i miracoli, né ho la zecca dietro la schiena per coniare le lire marchesane. Se volete andare, andate pure. Sapremo rimpiazzarvi con altri lavoranti meno rumorosi di voi. E ..”.

“E i nostri soldi?” replicò un omaccione poco rassicurante.

“Passate nei prossimi giorni. Con me non ho una lira ..” e si interruppe, prima di dire una corbelleria. Ma si riprese in fretta. “Non posso dare quello che non ho. Dunque chi non vuole proseguire il lavoro se ne può andare. Gli altri riprendano lo scavo. Deve essere finito in fretta. Non oltre la fine dell’estate”.

Il silenzio calò sullo spiazzo erboso, mentre qualcuno si staccò e si allontanò. Giacomo chiamò verso di sé chi lo aveva accolto e sottovoce gli disse di prendere nota di coloro che non proseguivano i lavori.

“Saranno liquidati dopo tutti gli altri” e andò verso la morella nera, fingendo disinteresse e sufficienza verso di loro, mentre dentro tremava dalla paura.

Salendo a fatica, disse alla cavalla: “Ora portami docile da Dama Giulia che mi sta aspettando”.

Si avviò per ritornare alla Porta degli Angeli, dove era partito.

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Briciole di poesie

Pubblico delle briciole di poesie, brevi flash che illuminano la mente
VIII
Scende la notte e non si fa silenzio
la tranquillità notturna è rotta da un acuto ronzio:
è la sua voce, la più stridente.
IX
Nella tranquillità della notte
la scorgo bellissima.
X
A sembianze di dee
mille donne popolano questo paese di fate.
XI
Da un sogno dorato
in un cielo senza stelle
scendi dalla nuvole
e vieni con me.
XIII
Il rumoroso silenzio è interrotto
dal brusio del mio cuore.

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Capitolo 23

La carrozza dalle tendine rosse attraversò la Porta degli Angeli, salutata dal corpo di guardia, e proseguì in un nugolo di polvere sul ponte di legno che scavalcava il canale Gramicia. Un fitto bosco l’accolse e l’inghiottì velocemente fino all’ingresso della delizia, dove trovò un piccolo esercito di paggi e servitori pronti ad accoglierla.

Laura avvertì che si era fermata ma non osava scostare la tendina per osservare fuori. Sapeva rispettare le consegne.

“Sono arrivata oppure è solo una sosta provvisoria?” si domandò curiosa ma timorosa per quello che le aveva intimato l’uomo che le aveva fatto compagnia per un breve tratto di strada. Però la curiosità prevalse per un attimo sul rispetto degli ordini e scostò un lembo della tendina rossa sbirciando fuori. Poi la lasciò ricadere al suo posto, restando immobile. Aveva intravvisto un gran movimento intorno alla carrozza con paggi e servitori in frenetico movimento. Le era stato sufficiente un rapido sguardo per dedurre che il posto le era completamente sconosciuto ma sembrava l’eden terrestre tanto era ricco di fiori e di alberi rigogliosi.

Col cuore che galoppava per le emozioni rimase ferma, aspettando gli eventi, mentre udiva uno scalpiccio di passi e un gran strepitare di voci sovrapposte provenienti dall’esterno. Vide la maniglia girare lentamente mentre uno spiraglio di luce si insinuava, illuminando l’interno.

“Madonna”. Una voce aggraziata l’accolse prima che potesse scorgerne il viso e la mano che la invitava a scendere.

Per un attimo gli occhi non esaminarono nulla, abbagliati dall’improvvisa luce dopo il tragitto nella penombra. Scese con cautela dalla carrozza sorretta da mille mani. Un senso di sgomento e di piacere la pervase: le pareva di vivere un sogno. Il posto era da favola, molto di più di quello che aveva fantasticato con le amiche, che non avrebbero mai condiviso con lei questo spettacolo.

Un paggio tenendola per mano l’accompagnò verso un grande padiglione posto in mezzo a un prato colorato di rose e altri fiori primaverili. Scostò un lembo e la fece accomodare.

“Madonna, gradite qualcosa?” chiese premuroso, mentre Laura si sistemava su un bancale con schienale ricoperto di morbidi cuscini.

“No, grazie”.

Il ragazzo sparì velocemente in silenzio, mentre si udì il suono di un liuto che inondava di musica l’interno. Si osservò intorno ma non notò nessun musicante. Nella luce incerta nella quale era immersa dedusse che fosse appostato all’esterno alle sue spalle e che quindi suonasse per lei.

Laura si sentiva inquieta nell’attesa di vederlo, perché sapeva che sarebbe apparso quanto prima, mentre si domandava come avrebbe reagito alla vista di lui. Era nel contempo anche eccitata, perché le emozioni e le sensazioni erano troppo intense per essere tenute a freno.

Fuori si ascoltavano voci concitate e grande movimento di persone senza che lei potesse vederle. Poteva solo intuire che stava arrivando, perché all’improvviso tutto quel frastuono cessò di colpo.

L’apertura del padiglione fece comparire un uomo non molto alto e con una folta barba nera ma decisamente affascinante, molto di più di qualche mese prima, quando lo aveva visto per la prima volta.

Si alzò di scatto per andargli incontro ma una voce potente, profonda e decisa la fermò: “Restate dove siete”.

Quello fu il primo impatto e le tremarono le gambe.

Giacomo e Giulia erano all’incirca a metà di Via dei Piopponi, quando videro arrivare di gran carriera un cavaliere.

“Messer Giacomo! Che fortuna vedervi” urlava approssimandosi sempre di più, finché non si fermò dinnanzi a loro, che erano stupiti da questo incontro.

“Messer Giacomo, vi stiamo cercando in tutta Ferrara, perché dovete recarvi immediatamente al baluardo della Montagna. E’ richiesta con urgenza la vostra presenza. Nella vostra casa la camariera personale ci ha detto che eravate al Castello dal nostro eccellentissimo Duca. Ma lì nessuno sapeva dove eravate diretto dopo la vostra uscita” disse senza fermarsi un attimo con la voce in affanno per la veloce galoppata.

“Il baluardo della Montagna? E dove sarebbe? Conosco solo il Montagnone, che è tutto fuorché una montagna” rifletteva Giacomo senza lasciar trapelare le sue perplessità su questa richiesta.

“Veramente ..” cominciò ma fu interrotto subito dal cavaliere.

“Al posto di guardia è pronta una cavalla docile e veloce che vi porterà in un baleno al baluardo ..”.

L’uomo quasi sbiancò dalla paura, perché non aveva mai cavalcato. Stava per aprire bocca, quando la guardia ducale proseguì.

“Non dovete aver timore: la morella nera, che vi sta aspettando impaziente, vi condurrà senza quasi la necessità di usare le redini. E’ la cavalla prediletta della nostra amata principessa Laura”.

“Non abbiate paura, Messer Giacomo” disse Giulia rimasta in silenzio fino a quel momento. “La cavalla è veramente docile. Si lascia guidare senza la necessità degli speroni. Madonna Laura la cavalca senza preoccupazioni. Lei è una cavallerizza assai scarsa, perché preferisce guidare la carretta” soggiunse con un leggero sorriso beffardo.

“E va bene” replicò rassegnato al peggio. “Ma voi, dama Giulia cosa farete durante la mia assenza? Vi avevo promesso un pranzo ma vi sto abbandonando senza nessuna certezza che possa onorarvi”.

La guardia affermò che Madonna avrebbe alloggiato al fresco nel padiglione, riservato per gli ospiti di riguardo, accanto alla porta, prima di avviarsi velocemente verso il posto di guardia.

“Sono mortificato” disse con tono contrito per dissimulare l’ansia che stava crescendo dentro di lui.

“No, Messer Giacomo. Aspetterò il vostro ritorno e poi ci recheremo in trattoria. Mi sono sentita importante al vostro fianco. La guardia ha creduto che fossi la vostra sposa. Se fosse vero..” e sospirando, si strinse maggiormente a lui, mentre riprendevano il cammino verso la Porta degli Angeli.

“Dunque tra i miei compiti c’è anche quello di badare alle fortificazioni. Scopro sempre nuovi tasselli della mia vita. Però spero che il baluardo della Montagna sia quello che ricordo” rifletté velocemente.

“Avere una così bella e giovane Dama al mio fianco mi riempie d’orgoglio come sapere che voi sospirate per non essere la mia consorte”aggiunse galante ad alta voce.

Adesso doveva capire come si sta a cavallo senza cadere rovinosamente, mentre osservò un palafreniere che si avvicinava con una bella morella nera di piccola taglia.

“Almeno non è imponente come pensavo. Ma questo non mi aiuta di certo”.

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L'orologio segna l'ora

L’orologio segna l’ora.
Che ora è?
E’ l’ora di andare,
non puoi indugiare ancora.
Caro orologio, fermati un poco,
mi piace tanto rimanere qui.
Non posso,
non posso.
Sono condannato a girare in eterno.

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Capitolo 22

Un capitano della guardia ducale si parò dinnanzi minaccioso, intimandogli di fermarsi. Giacomo acconsentì prontamente, perché la missione era delicata e non doveva far trapelare i motivi delle sue ricerche.

“Dove state andando? Chi siete?” domandò scortesemente, mentre due guardie lo affiancavano.

“Al rivellino nord. Forse è proibito? Sono l’ingegnere del Duca e dovrei controllare ..”.

“Controllare cosa? Non sapete che quell’area è interdetta a tutti per ordine del nostro eccellentissimo Alfonso I? Nessuno può avvicinarsi o penetrare quell’area senza il permesso scritto del nostro amatissimo Duca”.

Giacomo rimase basito e senza parole. Il duca non consentiva a chicchessia di entrare nel rivellino nord o persino di avvicinarsi ma gli aveva ordinato di procedere alle verifiche dello stato dei passaggi segreti e di costruirne uno nuovo. Gli sembrava una follia, ben sapendo che nessuno sarebbe riuscito a rompere il vincolo senza uno scritto di Alfonso. L’impresa gli sembrava impossibile e ineseguibile per raggiungere le soluzioni richieste. Si trovava in un vicolo cieco.

“Se non posso attivarmi, senza un permesso scritto, per la verifica, come riuscirò a soddisfare la commessa ricevuta?” si domandava Giacomo senza ottenere una risposta soddisfacente.

“Comprendo pienamente le vostre disposizioni e la loro applicazione, ma come faccio a rispettare la commessa del nostro eccellentissimo Duca?” chiese Giacomo, abbassando il tono della voce a semplice sussurro.

“Gli ordini sono ordini e li faccio applicare alla lettera. Quindi voi chiedete al nostro amato Duca il permesso scritto per controllare …Non so cosa, visto che non avete avuto l’accortezza di comunicarmelo” replicò austero e deciso il capitano delle guardie ducali.

“Non lo sapete perché mi avete interrotto la spiegazione. Dunque dovrei controllare la stabilità del rivellino nord, perché sono giunte al nostro amatissimo duca delle informazioni su possibili crolli del manufatto per via di certe crepe notate in una parete” disse inventandosi una scusa più che plausibile per le orecchie del capitano.

Detto questo senza aspettare una risposta, che non sarebbe mai pervenuta, si girò incamminandosi verso l’uscita che dava in Piazza de’ Pollaioli per il rientro a casa. Non poteva tornare dal duca per farsi rilasciare un permesso di accesso, che di certo non glielo avrebbe concesso, perché, se questa fosse stata l’intenzione e se la missione avrebbe dovuto svolgersi alla luce del sole, di sicuro glielo avrebbe firmato al termine del colloquio e non successivamente. Doveva trovare un’altra strada per percorrere i due cunicoli e rispettare l’impegno imposto senza troppe discussioni. Quello che lo preoccupava maggiormente era la costruzione del terzo cunicolo da eseguire in gran segreto.

“Come? E dove trovo maestranze fidate alle quali affidare il compito di costruirlo?”

Era immerso in questi pensieri per nulla allegri, quando udì una voce familiare chiamarlo. “Messer Giacomo! Messer Giacomo!”

Alzò il capo, facendo fuggire tutti i cattivi pensieri che lo stavano accompagnando da qualche minuto, e girò il viso in direzione di quel suono gradevole che gli ricordava qualcosa di piacevole.

“Oh! Dama Giulia! Che piacere rivedervi1 Come state? Sempre più bella e attraente!” disse con stupore misto a galanteria, mentre l’uomo si avvicinava alla ragazza per baciarle la mano.

“Sempre galante, Messer Giacomo. Siete un vero signore. Peccato che ..” rispose civettuola la donna, accettando complimenti e baciamano.

“Lasciatevi ammirare! Siete un toccasana per gli occhi e per lo spirito”.

“Solo quello?”

“No! Anche per il corpo!” replicò sorridente e sornione. “Sto andando alla Porta degli Angeli per via dei Piopponi. Posso avere la grazia della vostra compagnia? Nelle vicinanze c’è una trattoria, L’Abbondanza, dove si mangia divinamente. Potremmo fermarci sotto il pergolato a pranzare vista l’ora. Avrò questo onore, dama Giulia?”

La ragazza sembrò pensarci un po’ ma in cuor suo aveva già deciso di accettare l’invito, perché Laura d’Este non era di buon umore nella giornata odierna per via del suo malessere di donna. “E’ intrattabile oggi come capita sempre quando ha il suo ciclo. Ma oggi è meglio girarle alla larga. Irascibile com’è si rischia qualcosa. Mi sembra più piacevole la compagnia del Messere e poi ..” rifletté sorridente, mentre accettava il braccio che le porgeva Giacomo.

Rispose con un cenno del capo che era più chiaro di un «Sì», mentre allegra si incamminava al fianco dell’uomo.

“Non vi ho più rivista dopo la grande nevicata di gennaio. Ho sperato di vedervi con vostra cugina Ginevra. A proposito. Come sta? Ha superato il lutto della vedovanza?”.

“Ginevra? Sta bene, almeno l’ultima volta che l’ho vista. Ora è a Mantova alla corte di Francesco e Isabella Gonzaga, perché al termine della vedovanza convolerà a nozze con Aloiso Gonzaga. Vi ricorda sempre come un uomo arguto e gentile, che le ha donato istanti di grande felicità e serenità”.

Continuarono a chiacchierare mentre lentamente percorrevano via dei Piopponi, dove in lontananza si vedeva la Porta degli Angeli, quando Giulia esclamò sorpresa.

“Ma quella è la carrozza ducale! Quella che usa il nostro amatissimo Duca per i suoi spostamenti verso le delizie. E al di là della Porta c’è quella di Belfiore. E’ strano, vista l’ora. Però le tendine rosse impediscono di vedere chi ospita. C’è lui in persona o qualcun’altra, che non desidera essere riconosciuta”.

“Perché strano? Non ci trovo nulla di singolare. Oggi è una giornata calda che merita di essere trascorsa all’aria aperta” replicò cautamente Giacomo, che non ricordava che fuori delle mura ci fosse una delizia estense. Nella sua epoca c’era solo un grande parco urbano senza ruderi antichi.

“Però vedo che siete ben informata sull’uso della carrozza. Forse ..” e fece una pausa per non irritare la compagna.

“No! No! Messer Giacomo. Non è come pensate voi” replicò ridendo, mentre si stringeva con maggior vigore all’uomo. “Vivendo a corte, i pettegolezzi si sprecano. E tutte hanno raccontato storie incredibili su quella carrozza dalle tendine rosse. Quanto di vero ci sia non lo so ma le chiacchiere girano e si agitano come bandiere al vento. Però Laura d’Este, una cugina del nostro amatissimo Duca, afferma che il cugino la usa per questi scopi e io le credo”.

Giacomo e Giulia continuarono a conversare mentre la carrozza li superò, allontanandosi verso la Porta.

All’interno Laura avrebbe voluto osservare fuori ma le era stato proibito. “Tenete sempre le tendine tirate e non mostrate il vostro viso. Potrebbe essere pericoloso” le disse Bernardino de’ Prosperi, prima di scendere all’inizio di via dei Piopponi. E lei non replicò, rispettando il divieto.

Curiosità mista a timore cresceva dentro di lei, perché intuiva chi l’avrebbe accolta nella delizia.

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Foglie portate dal vento

Foglie, portate dal vento
sull’aria dorata dal sole
volano via.
Tutto fugge e rifugge dal mondo.
Foglie, portate dal vento
sull’aria dorata dal sole
parlano di cose lontane.
Tutto scorre e fluisce.
Foglie, portate dal vento
sull’aria dorata dal sole
vagano qua e là
alla ricerca del tempo passato.
Tutto appare e scompare ai nostri occhi.
Il senso, i sensi,
impregnati di nitidi ricordi,
sembrano impazziti.
Impazziti per che cosa?
Tutto fugge e rifugge dal mondo.
Tutto scorre e fluisce.
Tutto appare e scompare.
Solo una cosa non va:
il mio ricordo per te.

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Capitolo 21

Giacomo si svegliò presto, prima del solito. Un’insolita frenesia, mista a curiosità, lo pervadeva senza che potesse metterci un freno. La stanza era buia ma dai pesanti tendaggi filtrava una bella luce luminosa a indicare che la giornata era serena e soleggiata. Ghitta dormiva nella stanza della servitù collegata alla sua con una porta semisocchiusa, dalla quale si udiva distintamente il sonno rumoroso della ragazza, rientrata la sera precedente al vespro stanca, sudata e accaldata dopo aver partecipato alla festa di San Giorgio. L’aveva ascoltata rincasare garrula e allegra e dopo un sommario lavaggio si era buttata sul letto, addormentandosi immediatamente come un sasso nello stagno.

“Dorme profondamente” disse sorridente, mentre si alzava per cominciare i preparativi per la vestizione. Era una delle incombenze che amava di meno o meglio che odiava. Rimpiangeva la sua epoca dove bastava un paio di pantaloni con la zip e una camicia di Oxford per essere pronto in dieci minuti. In questa il rituale era assai più complicato e nella migliore ipotesi non durava meno di un’ora. Una calzamaglia aderente, pesante o leggera, si indossava sopra delle braghe che fungevano da mutandoni, scomodi e poco pratici, specialmente per certe incombenze. Era disagevole da indossare e richiedeva l’aiuto di un cameriere. «Per fortuna ho Ghitta e l’operazione è più confortevole» si diceva tutte le mattine. Poi il corsetto e la blusa erano un altro supplizio, perché rosicchiavano da tutte le parti, specialmente nel collo. Calzava comode scarpe spagnole, così dicevano, per la loro forma. Queste erano le uniche che non creavano problemi.

Dunque Giacomo scivolò silenzioso fuori dal letto, scostò le tende di un pesante broccato rosso per far entrare la luce del nuovo giorno. Si annunciava una giornata calda per essere solo il 24 aprile. Nella giornata odierna avrebbe conosciuto finalmente il Duca, il suo datore di lavoro, e avrebbe imparato quali erano le sue reali funzioni.

“Dicono che sono l’ingegnere del Duca. Ma probabilmente è un mestiere differente da quello di cui ho nozione. Un nuovo tassello si aggiungerà agli altri che ho scoperto in questi mesi”.

Nel formulare questi pensieri la sua mente andò su Giulia e Ginevra e sui quei dieci giorni trascorsi nel loro palazzo. Il ricordo era indelebile e gli sarebbe piaciuto ripeterlo ma non era possibile. Ginevra, la vedova caldissima, aveva trovato un nuovo spasimante, Aloiso Gonzaga, marchese di Castel Goffredo, e terminato il lutto sarebbe convolata a nuove nozze. Giulia era diventata la dama prediletta di Laura d’Este e non aveva più tempo di dedicarsi a lui, ammesso che ne avesse avuto tempo e voglia.

Si stava dando una rinfrescata, usando l’acqua preparata la sera precedente, quando Ghitta irruppe nella stanza avvolta in un goffo e ruvido camicione da notte. A Giacomo venne un moto di ilarità nel vederla a piedi nudi, scarmigliata e assonnata, mentre si affannava ad affermare che la doveva chiamare, che la doveva comandare, che era sveglia da un pezzo, che fingeva di dormire come i gatti.

“Ghiita, state tranquilla. Mi sono levato dal letto e ho cominciato a prepararmi. Un’ora prima del tocco il nostro Duca mi riceverà ..”

“Andate a corte? Al Castello al cospetto del nostro Duca?” diceva sgranando due grandi occhi color nocciola, mentre l’aiutava nel completare la vestizione.

“Certamente. Andrò ad ascoltare quello che mi dovrà dire”.

Quel camicione dal colore indefinito per i troppi lavaggi dava un tocco di sensualità alla ragazza, facendo intuire che sotto non ci fosse niente. Giacomo era troppo concentrato sul prossimo incontro con Alfonso per accorgersi del messaggio sessuale che emanava. La salutò sfiorandole la fronte con le labbra e si avviò verso l’ingresso.

Puntuale si presentò a corte al cospetto del segretario del Duca, scoprendo che era lo stesso personaggio incontrato qualche mese prima nel palazzo della contessa Giulia. Stranamente ne ricordava il nome, perché era un nome familiare.

“Buongiorno, Messere Bernardino. Il nostro eccellentissimo Duca mi ha convocato nel suo studio” esordì quando ne fu al cospetto.

“Vi annuncio. Il nostro illustrissimo Duca vi sta aspettando”.

Entrato nello studio ducale, Giacomo lo osservò seduto sulla sua savonarola, mentre gli faceva un ampio gesto di accomodarsi di fronte a lui. Gli fece una strana impressione, o almeno così gli sembrò, di una persona burbera e rude ma dal temperamento benevolo, imprevedibile e alquanto lunatico. Lo ricordava vagamente in un quadro del Dossi imponente e con la folta barba nera. Però dal vivo gli appariva meno prestante, più mingherlino con le mani affusolate come quelle di un artista. Sicuramente era un personaggio sensibile al bello e all’arte, confortato nell’idea dopo aver scrutato con cura lo studio ducale. Si riscosse dai pensieri che l’avevano trasportato in un’altra realtà e ascoltò quello che il Duca diceva.

“Vi ho convocato, perché intendo affidarvi un incarico delicato e molto riservato. Mettetevi comodo” e gli allungò un rotolo dove erano segnate vie e piazze con segni colorati che partivano dal Castello.

“Come vedete dal rivellino nord si dipartono delle linee. Sono due uscite segrete che conducono una verso la porta degli Angeli e l’altra in un parco in fondo alla Zuecca” e fece una sosta per consentire a Giacomo di mettere a fuoco i segni della pianta.

“Vedo, mio Signore. Ma se esistono cosa posso fare per voi?” mormorò cauto l’uomo non sapendo dove voleva andare a parare con queste informazioni.

“Voi dovrete con personale di vostra fiducia e muti come un pesce fare una ricognizione dello stato nel quale versano i due percorsi. Dovrete fare in modo che possano essere percorsi in tutta sicurezza, assicurando un’illuminazione efficiente e la possibilità di camminare ritti e armati” continuò ignorando le parole di Giacomo.

“Infine dovrete predisporre una deviazione del percorso della Porta degli Angeli sull’angolo del Monte di Pietà di via Spazzarusco verso la casina delle rose, un edificio che è qui indicato con una croce” e mostrò a Giacomo sbigottito e un po’ allarmato un vistosa croce quasi sull’incrocio tra via Spazzarusco e via delle Rose.

L’uomo era in agitazione per diversi motivi. Il primo era che non aveva manovalanza capace, riservata e muta. Per dirla tutta e in breve non esisteva per nulla e non sapeva come procurarsela. Il secondo non era in grado di valutare la rischiosità dell’ispezione. Il terzo ignorava le motivazioni di collegare il percorso di via degli Angeli con quell’edificio ma questo era un dettaglio irrilevante, degno solo della sua curiosità. Quarto particolare, ma non sicuramente il più trascurabile, era con quali fiorini avrebbe finanziato l’impresa, visto che la borsa. inizialmente piena, adesso stava scarseggiando e non sapeva come rimpinguarla.

Cercò di non manifestare dubbi e preoccupazioni, annuendo energicamente, come se tutto fosse chiaro. Ci sarebbe stato tempo per risolvere i quesiti che si stava ponendo.

“Quando devo fare, quanto da voi richiesto, o mio eccellentissimo Duca?” chiese con un filo di voce non privo di apprensione.

“Da subito!” replicò spazientito Alfonso, che faticava a fornire spiegazioni su quello che aveva intenzione di fare nel futuro.

“Siete pagato per questo lavoro. E anche lautamente” aggiunse irato il Duca e con un gesto lo congedò.

Giacomo fece un profondo inchino e camminando a ritroso guadagnò la porta di uscita. Teneva in mano la pianta con le segnalazioni che aveva discusso col Duca e nella testa tutti i dubbi sorti col colloquio. Quel «pagato lautamente» continuava a galleggiare pericolosamente nella testa, perché non gli risultava di aver ricevuto scudi o fiorini d’oro in questi mesi. Adesso che doveva assolvere a un compito, della cui portata non immaginava le proporzioni, doveva estrarre dalla borsa che portava in cintura un bel po’ di lire marchesane per assoldare personale in grado di lavorare per lui, sperando di averne a sufficienza.

Sceso nel cortile d’onore, lo attraversò dirigendosi verso il rivellino nord alla ricerca dell’ingresso dei due cunicoli. Non aveva molte speranze di ritrovarli senza l’aiuto di qualcuno. Doveva confidare nella sua buona stella.

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Era giorno

Era giorno,
quando venne la notte.
Dall’aria si levò …
si levò …
si levò un canto.
Era un canto delizioso.
Uno così
raramente si sente.
Chi era?
Non lo so.
Cosa era?
Non si sa.
Era un canto bellissimo.
Cosa diceva?
Chi lo sa!

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Capitolo 20

L’orto era un ampio spazio di terreno ricavato tra i vecchi argini del Po di Ferrara e l’attuale alveo fluviale. Il terreno era ricco di humus favorendo la crescita delle piante. In un angolo c’era diverse piante da frutto in fiore che d’estate mitigavano la calura con la loro ombra. Uno stradello erboso correva lungo l’argine e consentiva di accedere all’abitazione di Francesco anche dal retro.

Laura era all’ombra dell’albicocco, carico di piccoli frutti e pieno di foglie nuove, mentre rifletteva sulla sua situazione. Non era felice non perché fosse triste ma perché il tempo passava e le carrozze non si fermavano davanti alla porta di casa. Passavano e sparivano alla vista, mentre le poche erano carretti malandati o carrozze di malaffare.

Teneva le braccia a proteggere il corpo, quando udì la voce della madre che la cercava.

“Sono qui, madre” disse con un tono alto per farsi sentire. “Sono sotto l’albicocco a riposare”.

“Laura” disse quasi urlando Paola. “Laura, il segretario del Duca vi manda questa missiva e domani al tocco passerà a prendervi. La destinazione è la delizia di Belfiore! Prendete” e le allungò un foglio piegato in quattro e sigillato con la ceralacca.

La ragazza prese dalle mani della madre il messaggio e appariva indecisa se aprirlo o conservarlo chiuso come un ricordo prezioso da non sciupare. Paola rimaneva ferma e decisa di conoscerne il contenuto. Un osservatore l’avrebbe paragonata al falco che artiglia il braccio di cuoio del falconiere pronto a spiccare il volo e ghermire la colomba.

“Che c’è ancora, madre?” chiese con un filo di voce la ragazza, vedendola lì impalata e muta.

“Non l’aprite? Non la leggete?” replicò senza rispondere alla domanda.

“Certamente ma volevo rifiatare. L’emozione mi ha obliato i pensieri”.

Poi con lentezza rotto il sigillo e dispiegato il foglio cominciò a leggere con una leggera fatica, perché ci metteva tempo a focalizzare il senso delle parole. Aveva imparato a far di conto, leggere e scrivere sotto l’occhio attento di suor Lucia, la madre badessa del monastero di Sant’Agostino. La religiosa aveva sperato che Laura prendesse il velo di novizia ma le sue aspettative andarono deluse.

“Madre Lucia, voi sperate che io prenda i voti di novizia ma la vita del monastero non si addice alla mia indole. Amo gli spazi aperti e sopporto a stento le imposizioni dall’alto. Sono uno spirito libero che vuole vivere la sua vita nel rispetto dei precetti della Santa Madre Chiesa. Vado a Messa tutte le domeniche e le feste comandate. Mi comunico ogni settimana e ascolto le prediche di padre Francesco. Alla sera prima di coricarmi dico tre Ave Maria, due Pater Noster e un Confiteor per ringraziare Dio della giornata che mi ha concesso e per rimettere i peccati commessi. Però qui si ferma la mia devozione”. Fu questo il discorso che Laura a quindici anni fece alla badessa per sottrarsi al pressing non troppo velato affinché entrasse nel monastero. La sorella Lucrezia, invece non seppe resistere e abbracciò la vita conventuale.

“Vi prego, non tenetemi sulle spine. Cosa dice il messaggio?” continuò Paola, perché la figlia tardava a rivelare l’argomento della missiva.

“Nulla, madre. E’ un semplice invito a trascorrere il pomeriggio di domani nella delizia di Belfiore in compagnia della corte ducale. Il Duca offrirà un banchetto per onorare il Santo Patrono. Niente di speciale, dunque. Un banale invito” disse arrossendo alquanto per nascondere l’imbarazzo di recarsi a corte, sia pure nella delizia.

La madre, raggiante, non stava più nella pelle e sbottò.

“Come niente di speciale? Un invito a corte e voi lo classificate come se fosse una bagattella. Ma quale colpa devo espiare, per aver partorito una figlia come voi?”

“Madre, è un semplice invito a trascorrere un pomeriggio nella delizia e nulla più. Anzi sono imbarazzata e mi sento inadeguata, perché non ho vesti da indossare adatte all’occasione”.

“Potresti indossare quell’abito con la scolatura a U bianco e blu con quelle scarpine di panno rosso.”

“Ma madre, non mi sembra adeguata all’occasione e alla giornata. E’ leggero per la stagione e poi mostra il petto. Farebbe una pessima figura come se ..”

“Cosa come se ..? Dovete colpire l’immaginazione del nostro Duca e quella veste di lino e mussola fa proprio il caso vostro” replicò decisa Paola.

“Ma è sconveniente! Mostra le braccia nude e poi è troppo scollato. Non sai i commenti degli altri?”

“I commenti malevoli, pettegoli e invidiosi degli altri non importano. Quello che conta è l’opinione del Duca. Questa deve essere la migliore possibile. Dunque veste e scarpe saranno quelle. Ora salgo e la metto ad arieggiare. Domani dovete essere bellissima. Chiamerò la Jolanda per acconciarvi i capelli, raccogliendoli a treccia sul capo”.

“Madre, se lo dite a Jolanda, lo saprà tutta la contrada in un battere di ciglia” disse spaventata Laura.

“E’ quello che voglio. Tutta la contrada di San Paolo deve sapere che Laura, la figlia di Francesco, è invitata a corte per festeggiare San Giorgio” e girati tacchi, rientrò in casa.

La ragazza rifletté a lungo, rileggendo la missiva. Non aveva confessato che l’incontro alla delizia di Belfiore era solo col Duca senza la corte. Di banchetto e festeggiamenti di San Giorgio non se ne parlava minimamente. Però quello che la preoccupava era il tono che non lasciava molto spazio al vero obiettivo: era la sua persona e questo la spaventava molto.

“Se mi chiede di andare a letto con lui cosa devo rispondere? Se è sì, come andrà a finire? Se fosse no, tanto varrebbe rifiutare fin da subito. Non credo di avere molte scelte o frecce nel mio arco ma devo vendere cara la pelle dell’orso. Come? Non lo so. Ora prepariamoci mentalmente all’incontro. Avrò bisogno dell’aiuto di Dio per superare questa prova”.

E si alzò per salire nella sua stanza. Doveva scaldare un po’ d’acqua per un bagno purificatore.

“Domani sarà una giornata difficile”.

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La lampada

Sul vecchio camino
c’è la lampada
che accompagna la notte.
E’ una lampada
carica di anni, di ricordi e di polvere.
La sua luce fioca
rischiara debolmente la penombra.
La fiamma tremula
disperde per l’aria ombre ambigue.
Torna il sole
e mesta si spegne.

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