Oggi pane casareccio

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Oggi pane fatto in casa. Mattinata di lavoro.
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Farine, lievito madre, acqua e altro per rendere attraente il prodotto finale.
Pane nero, pane al kamut e al grano saraceno - Foto personale
Pane nero, pane al kamut e al grano saraceno – Foto personale

Pane nero, pane bianco al kamut, pane al grano saraceno.
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Poi frutti di bosco, fichi freschi, olive nere, noci, sesamo, papavero, finoicchina. Ho dimenticato qualcosa? Sì! I pomodorini del mio piccolo orto e chicchi di uva fragola.
Il cestino con uva fragola - foto personale
Il cestino con uva fragola – foto personale

Poi tutto nel forno. Peccato non avere un forno a legna.
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Colp d'occhio - foto personale
Colp d’occhio – foto personale

Poi tutti a tavola!

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L’innocenza colpevole

da visionarium-3d.com
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Con questo atto suggello la mia innocenza colpevole, che, sebbene fino all’ultimo non poté essere provata, perlomeno affrancherà e santificherà il mio spirito. Mi libererà da un pesante fardello: quello di sapere di essere innocente e colpevole allo stesso tempo. Sono io l’assassina di Cassandra. Era un angelo, che ho dissolto nell’aria. Quando? Non lo rammento ma sicuramente il ricordo si perde nella notte del tempo. Sì, sono io la donna che gli amici, i parenti, i conoscenti cercano giorno e notte. Tra affanni e voglia di vendetta. Ebbene sì, ho ucciso Cassandra! Sono la persona che dovete incolparsi, perché solo a me spetta l’amaro onere del titolo di omicida. Tuttavia, mentre il sangue mi scorre via impazzito e macchia questo biglietto di addio, c’è una cosa che devo ancora dire a mia discolpa”.

Era maggio 2012. Il cielo era pulito senza una nuvola. Il sole picchiava duro. Faceva troppo caldo per non essere ancora estate. La terra si era seccata e spaccata, perché la pioggia tardava a venire. L’erba intorno al casolare nella campagna emiliana stentava a crescere, diventando gialla e secca.

Si erano date appuntamento in quella casa rurale dai muri scrostati e dagli interni che odoravano di chiuso e di muffa.

“Vieni alle cinque del pomeriggio” aveva detto.

“Ci sarò” le rispose.

Rebecca non aveva un’idea sui motivi dell’incontro ma la curiosità era forte. Quando arrivò, Cassandra non c’era ancora. Una zaffata di abbandono e di aria viziata la avvolse. Aprì le finestre per fare entrare l’afa del pomeriggio.

“Sempre meglio di questa puzza” si disse.

Girò per le varie stanze per ingannare il tempo che non passava mai. Aspettò a lungo l’arrivo di Cassandra. Il sudore le aveva appiccicato la camicia di lino al corpo, mostrando che non aveva nulla sotto. La vide arrivare in bicicletta coi capelli rossi al vento.

Rebecca le aprì la porta per farla entrare. Si accomodarono in quella che una volta era la cucina. Un tavolo sporco di polvere, tre sedie rustiche e impagliate, una vecchia stufa economica arrugginita, una madia con uno sportello di sghimbescio e tante, tante ragnatele.

“Siediti” le disse imperiosa, indicando la sedia.

“Perché siamo qui?” le chiese.

“Sei troppo curiosa. Sii paziente e lo saprai”.

Rimanerono in silenzio, finché non udirono dei passi all’esterno. Rebecca si voltò verso la porta ma non fece in tempo a voltarsi. Non poté vedere chi stava entrando. Cassandra le legò le mani dietro lo schienale e le mise un bavaglio sulla bocca. Non poteva muoversi ma poteva ascoltare. I passi si fermarono alle spalle mentre lei si dispose davanti.

“Ti aspettavo” disse con voce ferma.

“Sono venuta” rispose una voce sconosciuta.

Una breve pausa mise termine quello scambio di battute. Rebecca non capì chi fosse. Le sembrava una voce che provenisse dall’oltretomba.

“Allora si comincia. Hai paura?” le chiese la donna.

“No. Sono serena” replicò ferma Cassandra.

Rebecca si domandò cosa avessero in mente le due donne ma non poteva parlare. Il bavaglio le impediva di dire una sola parole. Era costretta a sentire le loro voci.

Non è un’apologia della morte di Cassandra. Non è nelle mie intenzioni. Troppo tempo è passato e voglio svelare una verità che è rimasta sepolta, mezza fuori e mezza dentro, ignorata e marcita nei meandri di me stessa per tutti questi anni. C’era dunque una persona con noi. Una donna sconosciuta. Udì solo la voce ma la riconoscerei tra milioni di uomini. Un diavolo torvo, una serpe, una sfinge, che cantava parole d’Inferno, così cariche di polvere e d’invidia che sembrava che le lettere dovessero prendere fuoco. Tuttavia a Cassandra suonavano così soavi e sublimi che rimaneva incantata ad ascoltare, colpita violentemente da quelle parole vuote, come niente l’aveva mai scossa prima d’ora”.
Lei gli ha detto che doveva morire tra i dolori dell’inferno, osservando la sua vita che scorreva via col sangue delle sue vene. Gli ha detto: “Muori e strappati il cuore. Mettici un cervello al suo posto”.

Ero annichilita ma incapace di scongiurare e disperdere quelle parole. Immobile ascoltavo quei deliri senza comprenderne i motivi. Finora ho vissuto nel rispetto del silenzio e dell’omertà che Cassandra mi aveva imposto. Guardavo con le mani legate e ascoltavo con la bocca bloccata dal bavaglio, mentre Cassandra era libera di uccidere se stessa in nome dell’atrocità. Disse che questo era il ‘progresso’ che l’avrebbe resa una donna migliore, più felice. Non potevo fare nulla, mentre il suo personale demone batteva le mani in segno di soddisfazione. La osservai fare quello che le aveva richiesto con orrore e disperazione. Quando si afflosciò sul pavimento, la vidi, rapita nelle spire nero pece di quella donna. Lei si dimenava contenta, mentre quella diavolessa sghignazzava in maniera orribile. Svenni per il terrore. Quando rinvenni, era già sera ed ero nuovamente libera. Non vidi il corpo di Cassandra. La cercai ovunque ma invano. Solo una chiazza rosso scuro era il segno dell’amica. La bicicletta era ancora appoggiata al muro esterno. Disperata ritornai a casa e non riuscì a dormire per molte notti. Udivo ancora le parole di Cassandra e di quell’essere infernale. Ero disperata perché non ero riuscita a salvarla dalla dannazione eterna. Sono passati molti anni ma il rimorso è cresciuto nel tempo. Non posso tacere ancora a lungo senza spiegare a chi in tutto questo tempo non ha mai disperato di vederla tornare sorridente e felice”.

Il foglio cadde per terra, raccogliendo alcune stille di sangue.

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L'innocenza colpevole

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Con questo atto suggello la mia innocenza colpevole, che, sebbene fino all’ultimo non poté essere provata, perlomeno affrancherà e santificherà il mio spirito. Mi libererà da un pesante fardello: quello di sapere di essere innocente e colpevole allo stesso tempo. Sono io l’assassina di Cassandra. Era un angelo, che ho dissolto nell’aria. Quando? Non lo rammento ma sicuramente il ricordo si perde nella notte del tempo. Sì, sono io la donna che gli amici, i parenti, i conoscenti cercano giorno e notte. Tra affanni e voglia di vendetta. Ebbene sì, ho ucciso Cassandra! Sono la persona che dovete incolparsi, perché solo a me spetta l’amaro onere del titolo di omicida. Tuttavia, mentre il sangue mi scorre via impazzito e macchia questo biglietto di addio, c’è una cosa che devo ancora dire a mia discolpa”.

Era maggio 2012. Il cielo era pulito senza una nuvola. Il sole picchiava duro. Faceva troppo caldo per non essere ancora estate. La terra si era seccata e spaccata, perché la pioggia tardava a venire. L’erba intorno al casolare nella campagna emiliana stentava a crescere, diventando gialla e secca.

Si erano date appuntamento in quella casa rurale dai muri scrostati e dagli interni che odoravano di chiuso e di muffa.

“Vieni alle cinque del pomeriggio” aveva detto.

“Ci sarò” le rispose.

Rebecca non aveva un’idea sui motivi dell’incontro ma la curiosità era forte. Quando arrivò, Cassandra non c’era ancora. Una zaffata di abbandono e di aria viziata la avvolse. Aprì le finestre per fare entrare l’afa del pomeriggio.

“Sempre meglio di questa puzza” si disse.

Girò per le varie stanze per ingannare il tempo che non passava mai. Aspettò a lungo l’arrivo di Cassandra. Il sudore le aveva appiccicato la camicia di lino al corpo, mostrando che non aveva nulla sotto. La vide arrivare in bicicletta coi capelli rossi al vento.

Rebecca le aprì la porta per farla entrare. Si accomodarono in quella che una volta era la cucina. Un tavolo sporco di polvere, tre sedie rustiche e impagliate, una vecchia stufa economica arrugginita, una madia con uno sportello di sghimbescio e tante, tante ragnatele.

“Siediti” le disse imperiosa, indicando la sedia.

“Perché siamo qui?” le chiese.

“Sei troppo curiosa. Sii paziente e lo saprai”.

Rimanerono in silenzio, finché non udirono dei passi all’esterno. Rebecca si voltò verso la porta ma non fece in tempo a voltarsi. Non poté vedere chi stava entrando. Cassandra le legò le mani dietro lo schienale e le mise un bavaglio sulla bocca. Non poteva muoversi ma poteva ascoltare. I passi si fermarono alle spalle mentre lei si dispose davanti.

“Ti aspettavo” disse con voce ferma.

“Sono venuta” rispose una voce sconosciuta.

Una breve pausa mise termine quello scambio di battute. Rebecca non capì chi fosse. Le sembrava una voce che provenisse dall’oltretomba.

“Allora si comincia. Hai paura?” le chiese la donna.

“No. Sono serena” replicò ferma Cassandra.

Rebecca si domandò cosa avessero in mente le due donne ma non poteva parlare. Il bavaglio le impediva di dire una sola parole. Era costretta a sentire le loro voci.

Non è un’apologia della morte di Cassandra. Non è nelle mie intenzioni. Troppo tempo è passato e voglio svelare una verità che è rimasta sepolta, mezza fuori e mezza dentro, ignorata e marcita nei meandri di me stessa per tutti questi anni. C’era dunque una persona con noi. Una donna sconosciuta. Udì solo la voce ma la riconoscerei tra milioni di uomini. Un diavolo torvo, una serpe, una sfinge, che cantava parole d’Inferno, così cariche di polvere e d’invidia che sembrava che le lettere dovessero prendere fuoco. Tuttavia a Cassandra suonavano così soavi e sublimi che rimaneva incantata ad ascoltare, colpita violentemente da quelle parole vuote, come niente l’aveva mai scossa prima d’ora”.
Lei gli ha detto che doveva morire tra i dolori dell’inferno, osservando la sua vita che scorreva via col sangue delle sue vene. Gli ha detto: “Muori e strappati il cuore. Mettici un cervello al suo posto”.

Ero annichilita ma incapace di scongiurare e disperdere quelle parole. Immobile ascoltavo quei deliri senza comprenderne i motivi. Finora ho vissuto nel rispetto del silenzio e dell’omertà che Cassandra mi aveva imposto. Guardavo con le mani legate e ascoltavo con la bocca bloccata dal bavaglio, mentre Cassandra era libera di uccidere se stessa in nome dell’atrocità. Disse che questo era il ‘progresso’ che l’avrebbe resa una donna migliore, più felice. Non potevo fare nulla, mentre il suo personale demone batteva le mani in segno di soddisfazione. La osservai fare quello che le aveva richiesto con orrore e disperazione. Quando si afflosciò sul pavimento, la vidi, rapita nelle spire nero pece di quella donna. Lei si dimenava contenta, mentre quella diavolessa sghignazzava in maniera orribile. Svenni per il terrore. Quando rinvenni, era già sera ed ero nuovamente libera. Non vidi il corpo di Cassandra. La cercai ovunque ma invano. Solo una chiazza rosso scuro era il segno dell’amica. La bicicletta era ancora appoggiata al muro esterno. Disperata ritornai a casa e non riuscì a dormire per molte notti. Udivo ancora le parole di Cassandra e di quell’essere infernale. Ero disperata perché non ero riuscita a salvarla dalla dannazione eterna. Sono passati molti anni ma il rimorso è cresciuto nel tempo. Non posso tacere ancora a lungo senza spiegare a chi in tutto questo tempo non ha mai disperato di vederla tornare sorridente e felice”.

Il foglio cadde per terra, raccogliendo alcune stille di sangue.

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Fantasmi – parte seconda

Scese un altro gradino, scivolando su quella poltiglia scura e viscida che li ricopriva. Stava per perdere l’equilibrio e precipitare verso il basso, anzi già si vedeva sette scalini più sotto, quando si sentì afferrare e rimettere diritto. Si fermò nuovamente col cuore che batteva a mille. La sensazione di ansia e angoscia era aumentata.
“Chi mi ha salvato?” si domandò, mentre cercava di regolarizzare il respiro e i battiti. “Senza quel provvidenziale intervento me la sarei vista brutta!”
Ruotò la torcia dall’alto verso il basso, da destra verso sinistra. Non c’era nessuno su quella scala sdrucciolevole. Era solo. Eppure aveva avvertito nettamente delle braccia che lo avevano sorretto, impedendogli di cadere. Cominciava a essere pentito della decisione di avere affrontato la discesa per vedere cosa c’era nel semiinterrato. Sapeva che non era curiosità la molla che lo spingeva a scendere ma la voglia di conoscere quella parte della casa che era rimasta sempre chiusa da quando si era stabilito lì. Le vecchie chiacchiere delle persone erano un ricordo indistinto. Lui era troppo piccolo per afferrarne le sfumature, i particolari che si erano arricchiti di altri dettagli fino a costruire una storia che era lontana dalla verità. Su quei tristi momenti del passato era calato l’oblio e nessuno aveva l’intenzione di riaprire le antiche ferite. Erano altri eventi che erano il fulcro dei ricordi di quei giorni tragici e sanguinosi.
Mentre i pensieri lo invitavano a valutare, se proseguire oppure no, un respiro caldo gli sfiorò la nuca. Fece un balzo che lo fece traballare pericolosamente.
“Chi c’è?” chiese a voce alta incrinata dalla paura.
Nessuna risposta. Una richiesta caduta nel vuoto.
“C’è qualcuno?” riprese a gridare per darsi quel coraggio che era volato via.
Udì solo l’eco delle sue parole che rimbalzava tra quei muri pieni di ragnatele. Non riusciva a trovare la serenità per una decisione.
“Risalgo o proseguo?” disse in un sussurro.
“Vai avanti” replicò una voce, che pareva provenire dall’oltretomba.
La paura si impossessò di Marco, incapace di ragionare lucidamente. Poi, come spinto da mille mani, ricominciò a scendere con maggiore cautela. Percorsi gli ultimi gradini si ritrovò a osservare attraverso una finestrella, opaca per la sporcizia, il terreno del giardino. Era in uno stretto corridoio, sul quale si affacciavano delle porte chiuse e rischiarato da quello stretto pertugio, dal quale filtrava la luce. Avvertì una mano che si insinuava sotto il suo braccio. Si fermò bruscamente, gettando il fascio della torcia di fianco. Nulla. Solo polvere e ragnatele.
Riprese cautamente a camminare ma udì dei lamenti provenire da dietro quelle porte chiuse.
“Suggestione o realtà?” si domandò, restando immobile e trattenendo il respiro.
Provò ad abbassare una maniglia ma non si muoveva, come se fosse inchiodata. Tentò con un’altra ma il risultato fu identico. Avanzò ancora e contò che c’erano tre stanze alla sua sinistra e quattro alla destra. Continuava a udire dei suoni che parevano dei lamenti di un moribondo. Un flash. Ricordò che aveva sentito parlare di voci provenienti dal sottosuolo, proprio da lì. Aveva riso, perché nella sua ingenuità di bambino non poteva credere che potessero arrivare dalle cantine di casa sua dei gemiti dolorosi. E non pensava che potessero esistere i fantasmi. “Sono tutte invenzioni! Servono solo a spaventare noi bambini” si era detto allora.
Eppure adesso li ascoltava e poteva toccarli con mano.
“Avevano ragione quegli anziani, quando dicevano che questa era una casa maledetta o degli spiriti” disse soffermandosi davanti a una porta. “Perché rimane chiusa con ostinazione?”
C’era poco da esplorare. Un corridoio stretto e sette stanze ermeticamente sigillate. Adesso percepiva altri odori. Urina ed escrementi mescolati a quello del sangue ormai rappreso. Un brivido percorse la schiena di Marco. L’aria era pesante. Quel tanfo di chiuso prendeva alla gola. Spense la torcia. “Tanto non serve” si disse osservando quelle porte che non volevano aprirsi. Continuava a percepire distintamente la presenza di qualcuno al suo fianco. Se muoveva un passo, anche questa lo muoveva. Se si fermava, anche lei si fermava. Sembrava la sua ombra.
Giunto sotto la finestrella vide dei piedi muoversi nel giardino. Ebbe un sussulto. Guardò l’orologio che aveva al polso. “E’ troppo presto perché rientrino i miei. Sono le appena le dieci. Non possono essere neppure mia sorella e suo marito. Chi è?” si disse dirigendosi verso la scala. Si fermò. Era interdetto. Quello, che aveva visto, non apparteneva al mondo attuale. Quegli stivali neri gli erano sconosciuti. Ritornò sui suoi passi ma non vide più nulla. Il giardino appariva immobile. Nessun stivale nero si scorgeva dalla finestrella.
“Mi sono sognato?” si disse, mentre alla sue spalle udì la porta di accesso alla cantina scricchiolare. Erano i cardini arrugginiti che cigolavano. Avevano necessità di una bella oliata.
Marco fu preso dal panico. Si sentiva come un topo in trappola in procinto di affogare. Le stanze non era agibili ma poi si sarebbe messo nella condizione di non potere fuggire. La finestrella era sufficientemente grande per lasciarlo passare. Non era un colosso, anzi era piuttosto mingherlino. Però c’era un impedimento difficile da rimuovere. Delle solide sbarre impedivano qualsiasi fuga da lì.
Decise coraggiosamente ma non troppo di affrontare quella persona che era riuscita a entrare in casa, nonostante la porta d’ingresso fosse chiusa. Si avviò verso le scale per affrontare l’intruso. Udì il battere secco dei tacchi sui gradini e si ritrovò di fronte a un soldato, che pareva uscito da un libro di storia contemporanea.
“Chi siete?” gli domandò, parandosi davanti.
“Lei prigioniero. Keine Fragen!” gli rispose con un tono che gli ricordava i fumetti di Bonvi, Sturmtruppen. Li leggeva da una vita e li trovava straordinari
Stava per scoppiare a ridire fragorosamente, quando si ritrovò dentro una stanza, legato come un salame a una sedia. La risata era diventata una bolla di sapone che fa ‘puf!’ e diventa il nulla.
“Wobei sono i Banditen?” riprese con quella cantilena ridicola, avvicinandosi con un ferro rovente al viso.
“Quali banditi?” domandò ingenuamente Marco, mentre avvertiva che se la stava facendo sotto e non solo metaforicamente.
“Keine Fragen!” gli urlò a pochi centimetri dal viso. “Dire a me dove sono i tuoi amici Banditen!”
“Non saprei” rispose titubante il ragazzo, che avvertiva l’odore di urina e feci che aveva rilasciato.
“Io perdere la pazienten. Dire dove si nascondono i Banditen!” gli disse avvicinando quel ferro rovente a sfiorare il petto nudo di Marco.
Il ragazzo tremava per la paura che quel pezzo incandescente lo marchiasse per tutta la vita come aveva visto fare con le mandrie tante volte nei western americani. Si domandò se stesse sognando oppure fosse tutto reale. Di certo la puzza, che emanava, era inequivocabile. C’era e non poteva negare che nelle sue mutande non ci fossero delle feci.
Stava per replicare ancora, quando udì quella caricatura di soldato chiamare un sottoposto.
“Untersturmfuehrer Otto Wolf. Der Gefangene ist sein!“

‘Che cacchio sta dicendo’ si disse, cercando di vedere il nuovo arrivato.

Osservando intorno la stanza, illuminata da una lampadina che andava a intermittenza, notò vistose chiazze di sangue ormai seccato sulle pareti e sul pavimento, brandelli di carne umana necrotizzata.

“Questa è una stanza di tortura! E Otto è il becchino. Ma che vogliono da me?“ si domandò stupito. “Eppure la seconda guerra mondiale è finita da sedici anni!“

A Marco pareva essere piombato in un incubo allucinante. Era sceso in cantina per vedere cosa c’era e si era ritrovato prigioniero, anche se all’epoca aveva solo tre anni, e rischiava di morire torturato da un sadico che amava scuoiare vive le sue vittime.

Era in preda al terrore, quando udì dei colpi di mitraglietta e degli spari di una pistola. Non comprendeva cosa stava avvenendo alle sue spalle, quando si ritrovò libero.

Scappa!” li disse una voce dal forte accento ferrarese.
Non se lo fece ripetere due volte. Di gran carriera salì le scale e si richiuse con fragore alle spalle la porta. Aveva il fiato grosso e il cuore batteva all’impazzata.
Stava riprendendosi dallo spavento e dalla folle corse, quando avvertì una grande puzza e vide le gambe imbrattate di merda. Senza perdere tempo si tolse calzoncini e mutande sporche e maleodoranti, prima di infilarsi nella doccia.
Si stava asciugando davanti allo specchio, quando vide la sua immagine riflessa.
Non poteva crederci.
Sono bianchi!”
 
F I N E

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Fantasmi – parte prima

Era il 22 luglio del 1961. Era una giornata torrida come i giorni che l’avevano preceduta. tanto che nemmeno le cicale avevano la forza di frinire, sfinite dal caldo e dall’aria rovente.
Marco aveva terminato il giorno prima la maturità scientifica e aspettava che anche gli amici fossero liberi da impegni per partire per il sospirato campeggio di Milano Marittima. Non era il suo vero nome, perché quello originale era davvero orribile: Olindo. Alla fine aveva optato per il troncamento del suo lungo cognome, Marconaldo e come tale era conosciuto da amici e parenti. Viveva coi genitori, la sorella e suo cognato in un grande palazzina stile liberty, posta lungo il vecchio ramo del Po di Primaro, circondata da un vasto giardino. Era stata fino al 1945 la casa del podestà di Ferrara ed era diventata la sede delle SS durante l’occupazione nazista di Ferrara. Lì erano arrivate molte persone ma ben poche ne erano uscite. La gente la chiamava la ‘casa degli spiriti‘ o ‘la casa maledetta‘, perché sostenevano che nel passarvi accanto si udivano ancora i gemiti delle persone torturate a morte e di notte vagassero i loro spettri in cerca di pace. Quando nell’aprile del 1945 Ferrara venne liberata, la casa rimase desolatamente vuota, perché gli occupanti avevano preferito fuggire nottetempo per non incappare nelle vendette dei partigiani. Nel vasto giardino, rimasto senza cura, crebbero rigogliose le erbacce con ospiti poco graditi: topi enormi e bisce d’acqua. Venne spogliata, ridotta in cattivo stato ma nessuno osò occuparla, perché alcune voci incontrollate dicevano che, chi aveva tentato di abitarla, era finito male. Quanto di vero ci fosse in queste dicerie, nessuno lo sapeva ma ognuno le alimentava con nuovi particolari agghiaccianti, finché nessuno dubitò della loro veridicità. In pratica rimase abbandonata a se stessa, senza che qualcuno osasse rivendicarne la proprietà. Tutto questo durò fino all’estate del 1949, quando Aldo Marconaldo con la moglie, Ersilia, e i due figli, Olindo e Genoveffa, la occupò, fregandosene di tutte quelle voci, che predicevano sventure.
Per non apparire degli abusivi cercarono senza troppo successo i legittimi proprietari o i loro eredi per regolarizzare l’affitto. Aldo, migrato dal vicino Veneto, aveva aperto sul Listone un esercizio di alimentari, che prosperava bene. La moglie lo aiutava dietro il bancone. Marco, che all’epoca aveva sei anni, con la sorella di dieci frequentavano le scuole elementari vicino alla Basilica di San Giorgio. Ben presto tutti dimenticarono quelle dicerie, salvo i più anziani che accuratamente evitavano di passare accanto. Scuotevano la testa e per nessuna ragione al mondo avrebbero posto un piede al suo interno.
Dopo essere entrati i Marconaldo cominciarono a sistemarla, riparando gli infissi rotti o asportati, ripulendola tutta con esclusione delle cantine poste nel semiinterrato. Un anno dopo rintracciò gli eredi del podestà, ucciso nella concitazione del dopoguerra, ai quali non parve vero disfarsi di quella palazzina macchiata di sangue innocente.
Nonostante tutte le chiacchiere, la famiglia Marconaldo si trovò bene in quella casa, fin troppo grande per loro. Al piano rialzato c’era l’ingresso su cui si aprivano le porte delle varie stanze e l’elegante scala che conduceva al primo piano, che adesso era parzialmente occupato dalla sorella col marito. Da una botola si accedeva al sottotetto, vasto quanto la casa e sufficientemente alto per restare ritti. Qui inizialmente vennero ammassati i mobili del precedente inquilino e poi tutto quello che nel corso degli anni venne dismesso da loro. Al semiinterrato, che al tempo dell’occupazione nazista era stato trasformato in luoghi di tortura, si accedeva tramite una scala in ardesia, chiusa da una porta in massello di noce pesante e robusta. Questa per ordine di Aldo doveva rimanere sempre chiusa e per nessun motivo ci si poteva accedere.
“Serve per tenere lontani gli spiriti dei morti, affinché nessuno li possa disturbare. Devono riposare in pace” disse il primo giorno di insediamento nella casa con tono autoritario e categorico. Tutti rispettarono il dettame di Aldo e mai fu violata quella disposizione.
Anche il grande giardino con gli anni ritornò ai vecchi splendori, anche se ultimamente si faceva sempre più fatica a tenerlo in ordine.
Quell’enorme villa di dieci stanze più due bagni, l’enorme cucina con camino e la lavanderia, che Aldo aveva pagato pochi soldi, adesso valeva una piccola fortuna, se avesse voluto venderla. Sapeva che era sproporzionata rispetto alle loro esigenze ma ormai faceva parte del suo DNA. Non l’avrebbe mai venduta, nemmeno se l’avessero ricoperto d’oro.
Quel 22 luglio Marco si aggirava annoiato e accaldato con solo un paio di calzoncini corti e sandali alla ricerca di qualcosa che lo tenesse occupato durante la mattinata. I genitori erano nella nuova bottega di Via Garibaldi, sempre piena di clienti, mentre la sorella e il cognato erano al lavoro in città. Lui era l’unico abitante della casa. Gli amici più intimi erano disponibili solo nel pomeriggio, quindi le ore della mattina era interminabili.
“Leggere un libro?” si disse, guardandosi intorno. “Troppo caldo! E poi per un mesetto non voglio sfogliare la pagina di nulla! Nemmeno del giornale! La maturità mi ha stressato!”
Poteva girare a occhi chiusi per le stanze della casa. In giardino si soffocava dall’afa. Decise di salire nel sottotetto a vedere se c’era qualcosa di interessante. Aperta la botola, lo ispezionò con cura tra ragnatele e polvere senza scoprire niente di nuovo che non conoscesse da una vita. Ridisceso al piano rialzato passò davanti alla porta delle cantine lucida e lustra ma cocciutamente chiusa. Marco sapeva bene dove si trovava la chiave per aprirla. Era infilata su un chiodo sopra l’architrave in legno. Era rimasta sempre lì, in bella vista senza mai suscitare curiosità o voglia di trasgredire gli ordini del padre.
Però quel giorno era particolare e il caldo fece la sua parte.
Il ragazzo si alzò in punta di piede prendendola e aprì quella misteriosa porta, che cigolò paurosamente sui cardini ormai arrugginiti. La scala era in penombra e a fatica si distinguevano i gradini. Non arrischiò di accendere l’interruttore, perché di sicuro i fili elettrici rischiavano un corto circuito. Riaccostatala, andò a prendere una torcia nella sua stanza. Riaperta con cautela una potente zaffata di umidità, mischiata all’aria viziata di muffa e di chiuso, lo investì con prepotenza, facendolo retrocedere per un attimo. Poi diresse la luce della torcia verso il basso sui gradini che conducevano di sotto. Scese con circospezione, perché erano scivolosi per l’umido deposto dai molti anni di chiusura. Fatti pochi scalini si chiese per quale motivo stava affrontando questa discesa.
“Eppure non sono mosso dalla curiosità di vedere” disse ad alta voce per darsi coraggio.
Marco aveva sempre rispettato il divieto del padre senza porsi eccessive domande, perché gli erano stati inculcati valori, per i quali era rispettoso di doveri, principi e regole. Questa era la prima volta che trasgrediva una proibizione. Rimase fermo senza scendere o risalire, incerto sul da farsi. L’aria gli prese la gola come se fosse animata da una mano reale, che gliela artigliava, stringendola. Gli mancò il respiro e la vista gli si annebbiò. La torcia stava quasi per scivolargli dalle dita, quando allargò il torace per inghiottire più ossigeno che poteva senza modificare quella strana sensazione di oppressione. Nonostante faticasse a respirare con regolarità, prese la decisione di procedere nella discesa. Voleva vedere cosa si annidava in quelle stanze chiuse da oltre quindici anni.

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La ricerca della felicità

La copertina della rivista “Mente” del mese di Luglio ha in rilievo “La ricerca della felicità”. Una frase mi ha colpito

“Per quanto la inseguiamo la felicità sembra un miraggio. E mentre media e pubblicità ci fanno credere che sia possibile comprarla, gli psicologi ci insegnano a non diventare eterni insoddisfatti”.

Contiene due verità: non è possibile acquistarla e non ci accontetiamo mai.
A voi lascio altri commenti.

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A Stefania

Coi capelli al vento,
con un dolce sorriso sulle labbra
corri spigliata e gaia
per i verdi campi,
mentre ti lasci accarezzare
lievemente la tua pelle
dal vento
e sei felice.

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A Doriana

Quando tu graffi,
quando tu fai le fusa,
sei come una gatta,
che incanta.
Quando tieni il broncio,
quando sorridi,
sei come il sole
che gioca lassù fra le nubi.

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Nuovo giorno

E’ un nuovo giorno
Sta sorgendo misterioso
tra la nebbia mattutina,
che a strati avvolge la campagna.
Il sole, rosso vivido, è a strisce
e si scorge in lontananza.
Come relitti fumanti vedo
sull’orizzonte spuntare
alberi e tetti.
Il paesaggio muta
con velocità impressionate:
sembra un quadro macchiato di
grigio sporco,
di verde bagnato dalla rugiada,
di rossiccio intenso
il tutto in turbinare di colori
che appaiono e scompaiono,
inghiottiti dalla nebbia del mattino.
Il nuovo giorno è ormai sorto
e la magia mattutina si dissolve
con la nebbia.

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Il fieno

Mare verde di erba medica
punteggiata, macchiata qua e là
di punti gialli
si increspa morbidamente
sotto un vento impetuoso e freddo.
Uccelli dal manto serico
si tuffano, emergono
e si immergono
nel verde smeraldo del campo.
Altri uccelli in gara tra loro
giocano a nascondersi
in mezzo al verde.
Ora al posto del mare verde
c’è una distesa giallastra,
che emana un sapore acre e pungente.
Gli uccelli si aggirano
sperduti come naufraghi
nel mare in tempesta
alla ricerca dei vecchi giochi.
Ecco è il fieno.

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