Simona si sentiva leggera, stanca ma appagata dalla lunga chiacchierata notturna. La mente era nitida come uno specchio appena tirato a lucido, mentre tutti i pensieri erano volati via col sorgere del sole.
Maria l’ascoltava attenta mentre sorseggiava un caffè ormai freddo ed annuiva convinta. Percepiva un cambiamento benefico nella ragazza, come se l’involucro protettivo nel quale era avvolta mostrasse le prime fattezze di quello che sarebbe diventata tra non molto. Lei conosceva tutta la storia di Simona, anche se non ne aveva mai parlato direttamente, perché Lina le aveva narrato tutti i particolari. Il padre aveva strepitato a lungo tentando di intercettare la cognata per conoscere il nascondiglio della bambina. Però era stato dissuaso dalla minaccia di uno scandalo, che avrebbe travolto tutti e lui per primo. Il destino era stato benevole con loro ed aveva dato una mano alla zia, perché il padre una notte, tornando a casa ubriaco, era stato travolto da un auto. La sorella, sempre più debole psichicamente, non aveva retto alla perdita del marito, dapprima richiudendosi in un mutismo esasperato, poi suicidandosi per il rimorso di non averlo contrastato efficacemente.
Così i genitori di Simona se ne erano andati tragicamente travolti dalle loro stesse debolezze senza che lei sapesse nulla che era rimasta orfana.
Simona conosceva qualcosa ma non tutto, perché zia Lina e Maria non avevano voluto aggiungere un trauma alla drammatica scoperta di come avesse vissuto pericolosamente coi genitori. Questo peso era stato un macigno sulla vita affettiva della ragazza, perché avvertiva l’incompletezza delle informazioni ricevute. Aveva percepito il caldo affetto delle due donne che l’avevano accudita e protetta durante quegli anni, ma si sentiva incompiuta e dimezzata, perché le sensazioni, che un padre premuroso poteva offrire ad una figlia, non erano sostituibili minimamente da una figura semplicemente femminile. Non era mai riuscita ad essere completamente sincera con loro, perché a torto non percepiva la sensibilità di una madre. Quindi determinati aspetti delle emozioni che i primi amori avevano suscitato in lei erano stati taciuti o minimizzati, perché provava una certa vergogna a confidarsi con loro. Però adesso comprendeva quanto fosse stata ingiusta ed ingrata nei loro confronti, perché se era cresciuta solare e serena il merito era tutto loro.
Sia Simona sia Maria sapevano di essere state in debito una con l’altra, ma adesso era venuto il momento di chiarire tutto senza che questo potesse costituire un trauma.
Mentre Luca dormiva di un sonno profondo e senza sogni, Maria cominciò a parlare: “Credo che sia giunto il momento di raccontare quello che in tutti questi anni io e Lina abbiamo taciuto” e cominciò a narrare senza tralasciare nulla. La ragazza aveva gli occhi lucidi per l’emozione perché il mosaico incompleto dentro al mente prendeva forma e consistenza, mentre lasciava intravedere il disegno finale.
Adesso comprendeva perché quel buffo ometto calvo e anziano aveva suscitato in lei delle sensazione mai provate prima. Non le ricordava un padre del quale aveva perso la fisionomia oppure non le trasmetteva quell’amore paterno che non aveva mai assaporato.
“No, non sono questi gli aspetti” diceva a se stessa ascoltando il lungo monologo di Maria.
Era dunque quell’aria sognante, quasi eterea che aleggiava intorno a lui il vero segreto dell’attrazione verso Luca. Il racconto di Maria era crudo, disincantato tale da non suscitare rimpianti, molto diverso da quello che avrebbe voluto nel suo immaginario. Non provava odio verso i genitori, ma semplicemente disgusto per quello che avevano fatto e per quello che non erano riusciti a donare.
“E’ vero” si disse silenziosamente “E’ vero. Ho sempre sognato una madre che mi avrebbe guidato nel difficile cammino di diventare donna, mentre il padre mi avrebbe fornito sicurezza e protezione verso i guasti del mondo. Però non ho avuto né l’uno né latro”.
Questo non le aveva impedito di essere cresciuta pacata e piena di voglia di vivere per l’affetto sincero e premuroso di zia Lina e Maria. Però adesso avvertiva che in realtà gli erano mancati i sogni, il cullarsi nelle notti tra desideri e visioni, perché questi le erano stati rubati da due genitori ingrati e per nulla affettuosi.
Luca sembrava vivere in una dimensione che non apparteneva al mondo del reale dall’atmosfera soffice ed ovattata come le nubi che amava vedere scorrere nel cielo azzurro.
“Ecco il motivo per il quale mi sono sentita risucchiare verso di lui” ripeteva felice Simona. Lei amava distendersi su quel prato ad osservare il cielo e le nuvole bianche che componevano e scomponevano immagini fantastiche, mentre la fantasia la spingeva a salire e cavalcare quei batuffoli di bambagia bianca come mitici destrieri. Non aveva mai compreso la vera natura di quelle fantasticherie, che attribuiva alla sua natura appassionata e desiderosa di affetto.
“No!” ripeté con forza silenziosamente “No! Non riuscivo ad esprimere i miei sogni, perché non sono stata in grado di materializzarli”.
La vicinanza di Luca che inseguiva un sogno di essere se stesso le aveva aperto gli occhi su questo spicchio nascosto della sua personalità. Era proprio un viaggio apparentemente assurdo seguendo il solo istinto la molla che lo teneva in vita dopo un’esistenza dedicata all’apparire piuttosto che all’essere. Aveva intuito che lui era alla ricerca del cambiamento interiore, perché non era importante la meta ma il percorso, il movimento che conduce alla rivelazione di una parte di sé che per tanti anni era rimasta mascherata.
Anche lei doveva operare una trasformazione interiore per incidere sulla prospettiva di quello che voleva veramente dalla vita, per cambiare il suo modo di essere donna, di amare e di essere riamata. Doveva iniziare un nuovo percorso per capire se stessa e gli altri senza la mediazione di chi le stava intorno, così poteva riappropriarsi di qualcosa che già le apparteneva ma che non sapeva di possedere..
“I miei sogni sono diversi da quelli di Luca, ma sono questi che devo inseguire se voglio nascere una seconda volta” concluse mentre Maria snocciolava eventi e considerazioni, che non le interessavano più.
Simona abbracciò Maria e disse: “Grazie!”.
Il Viaggio – 9
Maria aprì la finestra e scorse sotto il fico Simona e Luca.
“Simona, mi porti un cliente e poi lo tieni sotto le stelle?” disse ironicamente la donna, che si era stupita di vederli seduti a chiacchierare tranquillamente sul dondolo.
Lei avvampò per il rimprovero senza dire nulla come una bambina colta con le mani sulla marmellata.
“Signora”; parlò per lei Luca “Simona mi ha fatto strada stanotte e poi ci siamo fermati a fare quattro chiacchiere. C’era un invitante cielo stellato stanotte”.
Maria sorrise e disse: “Scendo ad aprirvi il portone”.
La ragazza era in un tumulto perché aveva colto nella voce un rimprovero nemmeno troppo velato. Avrebbe voluto scappare, fuggire lontano, ma la mano di Luca la trattenne e le trasmise fiducia, mentre Il trambusto si andava placando come l’incendio veniva spento dall’acqua.
Dopo la notte di ragionamenti stava prendendo consapevolezza che non era più una ragazza, ma una donna di trent’anni e che era giunto il momento di crescere ed uscire dal proprio guscio come la crisalide diventava farfalla. Non era la fine del mondo nel quale finora si era rinchiusa, ma l’inizio di una nuova vita.
Ripensando con calma alle parole di Maria comprese che le aveva fraintese, sovraccaricandole di significati che non corrispondevano al messaggio che aveva voluto trasmettere. Questo contribuì a rasserenare la mente.
Il sole stava sorgendo illuminando il giardino, mentre i primi raggi inondavano il fico già carico di frutti che tra un mese sarebbero diventati dolci e saporiti.
Maria sul portone richiamò la loro attenzione: “Restate lì, che fra cinque minuti vi servo la colazione. Bombolone caldo e caffè bollente!”.
Un’altra ondata di ricordi sommerse come una fiumara Luca, mentre rammentava le veglie estive notturne che si concludevano nei bar della spiaggia tra l’odore dolciastro del bombolone appena sfornato e del caffè amaro che gorgogliava nella napoletana. Allora aveva il gusto della voglia pulita di divertirsi nelle balere, dove si ballava stretti e accaldati al suono delle melodie lente e sognanti, mentre adesso era il simbolo della trasgressione e dello sballo nelle discoteche, assordati da musica a tutto volume a bere e pasticcarsi fino allo stordimento.
C’era un turbinio di idee dentro la mente di Luca, che rendevano sempre più opaca la sua visione dopo la lunga notte insonne e chiacchierata. Avvertiva la necessità di sdraiarsi su un letto e di chiudere gli occhi per un po’, di staccare la mente dal corpo, ma doveva restare lì ad aspettare la colazione.
Maria portò un tavolo rotondo vicino al dondolo con alcune sedie e si fermò un attimo con loro, mentre chiedeva alquanto curiosa quale argomento talmente interessante li avesse tenuti svegli.
“Nessuno. O meglio tanti piccoli racconti di vita vissuta” replicò prontamente Luca, impedendo a Simona di rispondere.
Il leggero moto del dondolo e i caldi raggi del sole li fecero assopire in un dormiveglia leggero e rilassante, che venne interrotto dal profumo zuccheroso del bombolone e da quello intenso e carico del caffè.
L’atmosfera si riscaldò improvvisamente come la temperatura della mattina che faceva presagire una giornata caldissima. Erano anni che non gustava una colazione così seducente e genuina, perché fino a pochi giorni fa consisteva in un caffè amaro condito da qualche biscotto insapore.
Nonostante il caffè l’avesse svegliato completamente, percepiva la necessità di raccogliere le idee e staccare la spina da tutti quegli avvenimenti che con frenesia aveva vissuto. Salutate le due donne, che continuavano a parlare fittamente tra di loro, si ritirò nella stanza a meditare in solitudine e al buio.
Si tolse i vestiti umidi di rugiada e di sudore per indossare pantaloncini e polo, mentre si sistemava su una poltrona di vimini. Aveva letto un libro, del quale non rammentava il nome ma aveva ben presente visivamente, alcuni anni prima che parlava della casa del tè giapponese ed era rimasto incuriosito da quella pratica tutta orientale per consumare una bevanda che per loro racchiudeva la visione della vita. Allora si era ripromesso che se un giorno si fosse recato in Giappone ne avrebbe frequentato una. Era uno dei tanti sogni desiderati ma che difficilmente avrebbe realizzato.
Adesso percepiva la necessità di riflettere o meglio di svuotare la mente e per concentrarsi ripeteva, come un mantra, tre parole, che ricordava in quella lontana lettura: vuoto, silenzio e meditazione. Però non riusciva a concentrarsi, perché era distratto da mille pensieri.
“Cosa faccio in questa stanza?” si domandava inquieto, perché il silenzio appena soffuso dal canto di un cardellino tardava ad arrivare.
“Perché mi sono lasciato coinvolgere emotivamente da una ragazza che mi ha scambiato per il padre che le manca?” si chiedeva inquieto, mentre tentava di sprofondare nel vuoto che era una dimensione sconosciuta per lui.
“Cosa vado cercando con questo viaggio senza meta?” si interrogava, mentre meditava sui motivi del suo vagabondare tra i ricordi del passato.
Luca si sforzava, ma silenzio, vuoto e meditazione erano un miraggio difficile da ottenere.
Poi lentamente la stanchezza prese il sopravento mentre scivolava dolcemente nel vuoto di un sonno senza sogni.
Il Viaggio – 8
Luca era interdetto per la determinazione dimostrata dalla ragazza nel volerlo accompagnare al casale e non ne trovava le motivazioni.
Un pensiero fisso gli tormentava la testa come il martello del fabbro sull’incudine: “Perché?” e non trovava una risposta ragionevole.
Le sembrava una ragazza seria, affidabile ma dallo sguardo smarrito come se cercasse disperatamente di estrarre dal proprio petto dei segreti senza trovare l’ardire di farlo. Eppure non si era dimostrata timida quando lo aveva invitato a fermarsi per la sera e neppure poco prima con l’invito di trascorrere insieme la giornata al mare. Vedeva in lei la figlia e null’altro.
Si disse “Vediamo cosa desidera” e continuò a parlare di mille altri argomenti.
“Perché si è messo in viaggio?” domandò all’improvviso mentre imboccavano il viottolo che conduceva al casale “Non mi sembra che abbia una meta precisa”.
Luca si fermò e rise allegro, “Si nota?” chiese con tono serio.
“Quel darmi del lei, mi invecchia oltre misura” le disse, mentre riprendevano a camminare.
“Ci provo ma non contarci”.
Lui aveva il fiatone quando arrivò dopo lunghi minuti sull’aia del casale e pensò che era veramente vecchio, perché qualche anno prima avrebbe fatto tutto d’un fiato la salita.
Il malinconico si rammaricò di questi pensieri negativi, perché mettevano tristezza pure a lui, ma doveva portare pazienza e non lasciarsi prendere dallo scoramento.
Giunti dinnanzi al portone chiuso, Luca disse guardandosi attorno smarrito e perplesso:”E adesso come faccio?”
“Possiamo fermarci sul dondolo sotto le stelle a parlare. Poi apriamo il portone!” replicò sorridente Simona.
Lui non capiva come avrebbe potuto entrare senza suonare la campanella, ma non comprendeva quel plurale “noi”, perché lui era regolarmente alloggiato lì, ma lei no.
Rinunciò a intuire cosa volesse intendere la ragazza con “poi apriamo il portone”, perché la serata piena di stelle e con un falcetto di luna poteva essere invitante per chiacchierare.
Un brusio appena discreto si levò dal dondolo, mentre ognuno narrava di sé. Così comprese che la ragazza era di casa nella cascina, che Maria l’aveva accudita come una madre e tanto altro ancora, ma il vero motivo per il quale aveva voluto restare lì sotto le stelle non lo aveva ancora rivelato.
Quel dondolarsi nell’aria frizzante di una notte di luglio risvegliò il guardiano dormiente dei ricordi, che prese le chiavi per aprire la stanza della memoria.
E la mente tornò a quella ultima notte trascorsa con la francesina con la quale tra coccole e baci aveva atteso il sorgere del sole prima nella tenda poi sulla spiaggia illuminata da piccoli fuochi dormienti.
“Cosa ci siamo detti?” ripensò Luca rapito da quei ricordi lontani. Parlavano un mix di inglese, tedesco e dialetto per capirsi la metà di quello che volevano dirsi, ma certe sensazioni non avevano bisogno di parole e lì l’intesa era perfetta, come può esserlo a diciotto lui e sedici lei. La mente vagava libera senza ascoltare il frinire delle cicale e il cupo richiamo del gufo nascosto nel folto del noce.
Simona si fermò a guardarlo incantata dallo sguardo sognante di Luca che volava leggero tra sogni e ricordi.
L’improvviso silenzio ruppe il brusio delle parole, mentre lui ritornava sul dondolo ad ascoltarla come se quell’interruzione silenziosa non fosse mai avvenuta.
Adesso lei era certa di essere pronta a raccontare il segreto della sua infanzia, celato con molta gelosia e cura dentro di sé. Però non sapeva da dove cominciare se dai ricordi sbiaditi dal tempo o dalle sensazioni dolorose che portava dentro.
La voce s’incrinò per l’incertezza, ma lui la soccorse: “Racconta. Sono in attesa di conoscere il tuo segreto”.
“Devo tornare indietro nel tempo” cominciò a parlare rinfrancata dalla sicurezza che questo uomo, che avrebbe voluto come padre, le infondeva.
E fece un tuffo nel passato remoto.
Di zia Lina e Maria aveva già raccontato, quindi estrasse dal cuore il dolore di non avere avuto un padre, a parte quello nominale.
“Non riesco detestare i miei genitori, perché non sono mai riuscita ad odiare nessuno. Però quando ho compreso i motivi per i quali mi volevano sempre nel lettone con loro, ho richiuso i ricordi e loro in baule, seppellendolo in questo giardino” disse tutto d’un fiato Simona.
Adesso si sentiva più leggera, come se si fosse sgravata da un figlio indesiderato, ed era diventata come un fiume in piena che scorreva veloce e tumultuoso verso il mare.
Era cresciuta senza una figura maschile di riferimento, perché zia Lina e Maria erano rimaste single e disdegnavano la compagnia degli uomini. Su questo argomento in paese correvano molte dicerie, perché qualcuno affermava che dormivano insieme e che facevano all’amore tra loro..
“No, non era vero” affermò con forza la ragazza “ognuna dormiva rigorosamente nel proprio letto. Ma questo mi ha sempre ferita nell’anima, perché dicevano che anch’io amavo solo le donne”.
Una piccola lacrima scese furtiva dagli occhi vivaci, mentre sperava che Luca non si fosse accorto dell’emozione e della stizza a questi ricordi.
Lei, quando stava con un ragazzo, cercava in lui una figura maschile che non aveva mai avuto, mentre a loro interessava solo il sesso. Quindi non si trovava mai l’affiatamento giusto e tutto finiva in fretta.
“Tommaso, l’ultimo, sembrava diverso, mentre io mi sforzavo di vederlo sotto una luce diversa. Però mi accorsi che dopo il periodo iniziale aveva smesso di amarmi e chiusi la relazione” si accalorò Simona per giustificare che a trent’anni non aveva avuto un amore degno di questo nome e non sapeva cosa fosse il sesso.
Il cielo stava colorandosi di colori pastello per annunciare la nascita del sole.
Il Viaggio – 7
Mentre teneva sotto il braccio quello scricciolo minuto ma effervescente come l’acqua frizzante, si domandava ancora incredulo cosa avesse attirato la ragazza a legarsi ad uno sconosciuto non certamente giovane, senza capelli e con la pancetta.
Forse la ragazza gliela aveva detto, ma lui non aveva ascoltato attirato com’era dai ricordi del passato remoto ed adesso non aveva il coraggio di chiederlo apertamente per non rompere quel clima di serenità e fiducia che c’era fra loro. La strinse un po’ più vigorosamente per farle assaporare il calore che trasmetteva e si ripromise di prestare attenzione a quanto gli stava dicendo.
Simona si sentiva sicura e protetta da questo uomo dall’età indefinita, ma dallo spirito giovanile, un po’ taciturno e dall’aura che spandeva a piene mani intorno a lui. Non conosceva nulla di lui, solo il nome “Luca”, un po’ poco per affidarsi fiduciosa, ma percepiva che non le sarebbe capitato mai nulla di male finché lui stava al suo fianco.
Aveva compiuto ormai trenta anni e si sentiva vecchia nello spirito, perché non aveva combinato nulla di buono fino a quel momento.
La sua infanzia era stata tribolata ed amara segnata da un padre manesco e poco rispettoso del ruolo, da una madre troppo arrendevole, che aveva chiuso sempre un occhio sulle attenzioni del marito verso di lei. Aveva cinque o sei anni, quando una zia la strappò dal quel mondo torbido, che rischiava di inquinare per sempre quella bambina, portandola lontana.
Aveva un carattere solare, estroverso ed incline alla fiducia e non aveva focalizzato bene le motivazioni che l’avevano costretta a dividere il letto coi genitori, a quei giochi strani ai quali partecipava assonnata ed annoiata. Solo quando era diventata una ragazza aveva compreso come avesse ballato pericolosamente sul baratro del precipizio, nel quale sarebbe caduta senza il provvidenziale intervento di zia Lina.
L’affetto della zia e di Maria, la proprietaria del casale, sanò le ferite dello spirito, ma dentro di lei rimase il guasto di un’infanzia rubata, che celò sempre con molto impegno senza rivelarlo mai a nessuno. Qualche amore sfortunato, la morte della zia, la perdita delle radici l’accompagnarono nel lungo viaggio di emancipazione economica e fisica. Lasciò la casa accogliente di Maria, che per lei era la vera madre per stabilirsi in un monolocale in centro paese vicino al bar dove lavorava da diversi anni. Però quando si sentiva triste si rifugiava in quel casale nella stanza dove adesso alloggiava Luca. Quella era stata per molti anni il suo regno ed era rimasta sempre vuota a sua disposizione.
Quando Simona si era presentata alla porta con quell’ometto buffo, calvo e un po’ grassottello, Maria aveva intuito che poteva ospitarlo in quella stanza senza timore di urtare la sensibilità della ragazza.
Luca intuì che aveva anche lei un passato remoto da far riemergere dalle tenebre dell’oblio, ma non era certamente il clima festoso il più adatto per parlarne. Non aveva pensato all’eventualità di fermarsi qualche giorno, ma l’istinto gli suggeriva che sarebbe stata un’ottima occasione per raccogliere le fantasie e le confidenze della ragazza.
“Ci penserò domani” disse al fasullo che impertinente aveva fatto di nuovo capolino per dissuaderlo dal proposito, ben conscio che avrebbe dato ascolto al malinconico.
Qualche giovane lanciò occhiate non proprio cordiali a quella strana coppia che si aggirava tranquilla e sorridente tra banchi e giostre festanti.
Era il momento dell’albero della cuccagna, quando si fermarono ad osservare le evoluzioni di gruppi di giovanotti tesi a scalare quel palo coperto di grasso con in cima una pentolaccia di coccio. Creavano una specie di piramide umana, ma alla fine mestamente il più leggero scivolava verso la base senza riuscire nell’intento di conquistare l’ambito premio.
Luca le comprò lo zucchero filato, le mandorle caramellate appena tolte dalla pentola di rame, il croccantino sottile, ricordando quante volte l’aveva fatto per Ofelia.
Simona percepiva che questa era una festa speciale, perché aveva trovato un padre amorevole che le era mancato da sempre.
L’assenza di una figura paterna aveva segnato negativamente i rapporti con gli altri ragazzi, perché avrebbe voluto trasfondere in loro quella carenza forzata, mentre loro cercavano una donna da amare e non da accudire.
Stanchi ed appagati per il lungo girare si sedettero su una panchina in attesa dei fuochi di mezzanotte, mentre i pensieri gaiamente erano in libertà.
“Luca” disse la ragazza rompendo il silenzio della sera “si fermi anche domani. Sono libera e possiamo fare un salto al mare”.
“Non lo so” rispose pacato mentre osservava quegli occhi vivaci e mobili “Non lo so”.
Non ricordava più quanto tempo era passato, quando per l’ultima volta era andato in spiaggia, ed era terrorizzato all’idea di indossare un costume.
Un botto squarciò il nero della notte, che si colorò di mille colori. Erano i tanti attesi fuochi che avrebbero suggellato la lunga festa prima di darsi l’appuntamento al prossimo anno.
Tutti a naso in su’ “Oh! Oh!” dicevano osservando quella cascata di luci multicolore che striavano il cielo, mentre stormi di uccelli impauriti si levano in volo per cercare nuovi ripari. L’abbaiare sguaiato dei cani era sovrastato dal rombo impetuoso degli scoppi, mentre i giardini ricolmi di persone commentavano lo spettacolo pirotecnico.
“E’ tempo di salutarci” disse Luca dopo che si era spento l’ultimo boato e tutto tornava buio.
“L’accompagno. Così non smarrisce la strada” ribatté Simona decisa a trascorrere il resto della notte con lui, perché voleva parlare dei segreti che custodiva in fondo all’anima.
E si avviarono parlottando sottovoce verso il casale di Maria.
Il Viaggio – 6
Camminò a lungo, tornando spesso sui suoi passi alla ricerca del paese. Tutti gli incroci sembravano uguali, tutte le strade avevano una singolare comunanza familiare, come se avesse abitato sempre in quel posto, ma alla fine stabilì che si era perso.
Rise di gusto, perché il fasullo gli aveva giocato un bello scherzetto, cancellando ogni ricordo del pomeriggio.
“Segui l’istinto” gli raccomandò il malinconico e girò a sinistra, poi a destra, poi ancora a sinistra e vide le strade ingombre di macchine: “Sono arrivato”.
La chiassosa vitalità di giovani ed anziani gli infuse nuova linfa a gettarsi nella mischia della sagra tra mille odori sgradevoli di olio bruciato e suoni sgraziati di chi arringava la fiumana a comprare lozioni miracolose.
Un certo languore lo informava che lo stomaco reclamava la sua parte, perché l’aveva tenuto a digiuno. Si guardò intorno alla ricerca di qualcosa che non fossero wurstel bruciacchiati con cipolla stracotta e stantia o patatine in stick unte e bisunte finché non scorse un chiosco assediato da una moltitudine di giovani dove veniva cotta della piadina.
Fu un nuovo tuffo nel passato, quando trascorreva qualche settimana in tenda con gli amici sulla riviera romagnola. Piadina a mezzogiorno, piadina alla sera erano i suoi pasti, perché riempiva lo stomaco togliendo il senso della fame e perché doveva risparmiare per allungare la permanenza nel campeggio. Quando voleva fare bisboccia, sostituiva la piadina con fagioli borlotti semiliquefatti e tonno scadente in scatola. Però erano tempi dalla felicità irriflessiva ed istintiva che lo riempiva di gioia e voglia di vivere sopra e sotto le righe, ma si sarebbe rifatto nel mangiare una volta che sarebbe tornato a casa, mentre il desiderio di divertirsi sarebbe stato soddisfatto lì.
Nuovi ricordi lo assalirono a tradimento, mentre la mente ritornava a quando aveva diciotto anni. Aveva terminato la maturità scientifica superata brillantemente nonostante la cornacchia del prof di lettere, che aveva faticato a dargli la sufficienza in italiano. Il risultato fu una bella media del sette, non male per quell’epoca, quando il sette era l’eccellenza. Partì il primo di agosto, dieci giorni dopo la fine degli esami, su un vecchio treno a vapore, che costringeva a tenere chiusi i finestrini per non finire affumicati dalle polveri di carbone.
L’arrivo al campeggio avvenne su una carrozzella, perché un taxi era troppo costoso, ma era più dandy ed eccentrico scaricare tenda e borsone da questa piuttosto che da un’anonima vettura verde di piazza. In una delle tante balere scalcinate e chiassose della costa incontrarono un gruppo di ragazze francesi con le quali fecero subito comunella e coppia fissa. A Luca venne da sorridere per questo ricordo, perché ovviamente gli toccò in sorte la più scorfano o meglio gli era rimasta di scegliere solo quella. Era il più imbranato del gruppo e quando vedeva una ragazza andava in tilt e la mente segnalava ‘Game over’. Dunque passavano gli anni ma le regole erano sempre le stesse.
Il fasullo maliziosamente gli chiese il nome, che aveva regolarmente dimenticato. Che importanza poteva avere un nome per un’effimera storia, che morì con la partenza di lei per Parigi? Piccoli brandelli di memorie riaffioravano qua e là dal pozzo dei ricordi: un viso sempre sorridente, un carattere dolce e tranquillo, chiacchierate con un mix di lingue improbabili e ridicole e l’ultima notte trascorsa nella sua tenda teneramente abbracciati. Un velo di malinconia scese per un attimo sugli occhi, subito spazzato via dal ricordo di Ersilia nuovamente incrociata dopo il ritorno dal campeggio con ben altri risultati. Era stato forse l’effetto vacanza? Non lo sapeva, ma ricordava tutto perfettamente.
Mentre questi ricordi lontani emergevano e poi sfumavano nel buio della notte stellata di luglio. stava sgranocchiando una piadina con spinaci, niente male diceva a se stesso, quando una voce familiare gridava “Luca, Luca!”.
Si guardò intorno, ma non vide nessun volto familiare e tornò alla piadina, convinto di essere stato suggestionato in quel bailamme di suoni cacofonici e sovrapposti. Un’ombra si materializzò dinnanzi a lui, mentre alzava gli occhi per mettere a fuoco l’immagine.
“Simona” fu l’unico rumore che la sua bocca emise, perché adesso ricordava che si era scordato di lei. Era troppo distratto dai molteplici ricordi, che affioravano ovunque come i funghi nel bosco dopo un violento temporale estivo, per tenere a mente l’appuntamento con la ragazza. Mentre il malinconico si affannava ad estrarre dal cilindro tanti scampoli di vita vissuta, il fasullo malignetto e geloso dell’altro si divertiva a confondere le idee a Luca.
“Ti ho aspettato dinnanzi al bar dove lavoro” disse tutto d’un fiato come se avesse corso la maratona.
“Sono mortificato” riuscì solo a dire contrito ed imbarazzato “ma mi sono perso” ed ordinò una piadina per la ragazza, che si accomodò felice davanti a lui.
Cominciarono a chiacchierare come se fossero due vecchi amici che si ritrovavano dopo molti anni, mentre finivano le piadine ordinate innaffiate dall’albana secco. Luca ascoltava ed annuiva alla valanga di parole che Simona riversava su di lui come una grandinata fuori stagione. Però la sua mente era altrove, perso nei ricordi di Ersilia e rammaricato che il viaggio si stesse consumando con l’assenza della moglie.
Si domandava se lei avesse accettato un lungo viaggio senza mete e senza obiettivi, solo guidato dal suo istinto, perché per lui era la traversata sul lago della memoria alla ricerca del tempo passato.
“Ma un passato esiste ancora?” si domandò incuriosito, mentre la ragazza narrava di come avesse smarrito molti anni prima le proprie radici.
“Andiamo a fare un giro tra i banchi” gli disse alzandosi allungando le braccia, come se volesse prenderlo stretto a sé.
Lei gli prese la mano facendola passare sulla spalla. Sembravano padre e figlia che passavano in rassegna bancarelle e stand di giochi in attesa dei fuochi di mezzanotte.
Il viaggio – 5
“A destra”, “A sinistra”, “Prenda quella stradina stretta”, “Siamo quasi arrivati” diceva la voce garrula e squillante di Simona nel dare le indicazioni del percorso.
Luca era sovrastato da quel fiume improvviso di parole esuberanti ed incoscienti, che lo riportavano indietro nel tempo, tornava a riflettere sugli anni giovanili, sulle speranze, che avevano riempito di luce le sue giornate, su Ersilia, sempre lei, su Gloria, della quale aveva perduto le tracce senza rimpianti.
Si domandava perché adesso ricordava con un pizzico di malinconia Gloria, che era stata solo una compagna di giochi e di avventure più con la fantasia che nella realtà, ma non sicuramente un amore. Allora non si era posto nemmeno il problema, perché vedeva in lei una bambina cresciuta giorno dopo giorno insieme a lui. Era vero che si sono scambiati le prime prove di baci, che aveva presente per la goffaggine di entrambi. Che splendida emozione aveva provato, quando le aveva sfiorato quelle minuscole protuberanze sul petto, mentre imporporava il viso e ritraeva veloce la mano per aver osato tanto. Allora non si era posto per nulla la domanda se quell’atto le avesse trasmesso qualche sensazione. Adesso si interrogava senza avere alcuna risposta certa, ma forse allora lei si sarebbe aspettata qualche ardimento più temerario.
“Attento” udì una voce un po’ stridula proveniente da destra, mentre scacciava quei ricordi lontani persi nel tempo infinito e si concentrava sulla guida.
Aveva guidato come un automa e di certo non avrebbe saputo ritrovare la strada per ritornare in paese o allontanarsi da questi luoghi.
“Sono arrivato fin qui seguendo l’istinto. Da qui ripartirò con lo stesso spirito” si disse per nulla inquieto.
“Siamo arrivati” lo avvertì Simona, che aveva descritto ogni angolo, ogni casa, ogni via con entusiasmo e passione senza che Luca avesse ascoltato una sola parola.
Frenò dolcemente mentre lo sguardo spaziava verso l’alto e verso il basso, inspirando profondamente l’odore della ginestra fiorita.
Era un vecchio casale consunto dal tempo abbarbicato al termine di una ripida salita, circondato da cespugli di ginestra e lavanda, con un maestoso noce che ombreggiava la facciata.
Simona fece strada annunciando l’arrivo di un nuovo ospite.
“Maria” chiamò forte affacciandosi alla porta su cui stava scritto ‘PRIVATO’ “Hai una stanza per …” e si interruppe perché non sapeva come si chiamava l’uomo che era con lei.
“Luca. Luca D’Astolfi” le suggerì senza imbarazzo ridacchiando per la strana situazione che si era creata.
Una donna, avanti negli anni e un po’ sfiorita dal tempo, uscì dalla porta abbracciando la ragazza.
“Certamente” e rivolgendosi a Luca chiese: “Partite domani?”
“Non so” rispose “Potrei anche fermarmi qualche giorno”.
“Una stanza c’è sempre per le persone che Simona accompagna” e cominciò a registrare i dati anagrafici di Luca.
La stanza era luminosa e guardava verso il mare che in lontananza cominciava a tingersi di rosso. Era arredata semplicemente con un piccolo bagno ricavato in un angolo, ma era calda ed accogliente come la padrona di casa e quella minuscola ragazza che con tanta incoscienza e fiducia si era incaricata di accompagnarlo senza sapere nulla di lui.
Era venuto il tempo di accendere il telefono per far sentire la sua voce ad Ersilia, che lo rimproverò aspramente per il lungo silenzio.
“Dove sei?” gli chiese addolcendo il tono della voce.
“Sono a …” ma il fasullo astutamente aveva cancellato il nome dalla lavagna della memoria per farsi beffe del malinconico.
“La vista è meravigliosa, ma il nome non lo ricordo” ammise imbarazzato e contrito Luca, mentre si aspettava l’ennesima strigliata di capo dalla moglie, che stranamente non aggiunse nulla.
Parlarono a lungo, come se quella separazione avesse sciolto loro la lingua. Erano anni che vivevano di monosillabi e frasi smozzicate dettate più dalla rabbia che dalla voglia di comunicare. Però quella sera sentivano il bisogno di trasmettere le emozioni che salivano dal cuore, come se fossero tornati ai primi tempi del loro amore.
“Ci sentiamo domani, Ersilia” concluse rilassato e felice Luca “e sono pentito di non averti trascinata con me”.
“Fai il bravo, stasera!” replicò lei con la voce incrinata dalla malinconia.
Spento il telefono, doveva ragionare sul come organizzare la serata.
Dalla valigia tolse un paio di pantaloni chiari e una maglietta fucsia, che dispose sul letto, e dei mocassini leggeri.
Sotto il getto di una doccia tiepida strofinò con vigore il corpo per togliere ogni residuo di stanchezza e di caldo, mentre canticchiava un vecchio motivetto “All fruit”.
Sorrise, perché l’istinto l’aveva guidato con giudizio ancora una volta. Però adesso doveva concentrarsi su quello che gli aveva detto Simona prima di sparire nel portone d’ingresso.
Un vago senso di incertezza affiorò nella mente sospinto dal fasullo, ma subito il melanconico lo scacciò come a suo tempo lo furono i mercanti dal tempio.
Nel vago chiarore dove tutti i gatti sono grigi e bigi si incamminò verso il paese alla ricerca dell’angelo custode.
Il Viaggio – 4
Luca si fermò un istante nell’osservare quello che accadeva intorno a lui, mentre sorseggiava il vino bianco ormai riscaldato dall’aria rovente.
Lo schiamazzo dei bambini rompeva il silenzio infuocato del pomeriggio, mentre si domandava ancora una volta perché aveva intrapreso quel viaggio.
Ersilia qualche mese dopo quell’incontro, nel quale lui era rimasto senza voce e senza pensieri, perché erano fuggiti timorosi di farsi udire chiaramente sparì con gli esami di maturità nella calura di un mese come quello che stava affrontando sudato e asfissiato in quel momento.
Era entrato in una veloce spirale che lo trascinava verso l’abisso senza speranze, perché aveva sprecato l’unica cartuccia per colpire la preda agognata, che era scappata a gambe levate, mentre lui era rimasto a masticare amaro la sua timida dabbenaggine.
Finì l’anno scolastico con una materia da portare a settembre. Era un ulteriore tassello del disgraziato innamoramento per Ersilia, che vedeva allontanarsi all’orizzonte senza speranza di riacciuffarla in extremis. Lei ormai era una donna matura che avrebbe affrontato il mito dell’università; con altre prospettive, mentre lui era un ragazzetto immaturo ed incostante, che avrebbe continuato il percorso al liceo. Due percorsi e due mondi distinti erano sotto gli occhi grigio-verde di Luca, che non capiva la sua infatuazione per una donna più vecchia di lui, più alta, più, più … più in tutto.
Adesso comprendeva che senza quel incidente fortuito di percorso non sarebbe maturato pronto a cogliere la mela matura, che qualche anno dopo sarebbe stata appesa al suo albero lesta nel cadere ai suoi piedi, rimanendo l’eterno bambino sognante e sognatore, che albergava comodo e soddisfatto dentro di lui.
La ragazza dai capelli raccolti girava inquieta tra i tavoli vuoti, sbirciando Luca, che aveva davanti da sé un mezzo panino ormai sfatto dal caldo, un liquido biondo nel bicchiere e la bottiglietta dell’acqua appena sorseggiata. Non osava avvicinarsi, perché lo vedeva assorto nei pensieri incurante dell’afa asfissiante e dei rumori che lentamente animavano la strada, ma lei tra qualche minuto terminava il suo turno e doveva incassare il conto prima di andarsene. Era indecisa, perché servire i clienti ai tavoli non le piaceva, le sembrava di rubare loro il tempo delle meditazioni.
Il fasullo richiamò l’attenzione di Luca, che domandò discreto: “Mi sono perso nei meandri della mente e non so dove sono”.
La ragazza si avvicinò rinfrancata e gli disse che a pochi chilometri c’era il mare, ma adesso si trovava sulle colline tra Appennino e mare Adriatico, “un posto meraviglioso” ed aggiunse arrossendo “Tra qualche minuto è finito il mio turno e dovrei incassare il conto. Spero di non avere rotto l’incantesimo che aleggiava su di lei come un’aura di serenità”;.
“No, sono io in debito” le replicò mentre metteva sul piatto venti euro, accennando a tenere il resto.
“Come si chiama?” le chiese con dolcezza inaspettata osservando quegli occhi verdi da gatta. Si sorprese di tanto ardimento e ripensò che avrebbe dovuto averne altrettanto quella volta con Ersilia, ma invece era rimasto muto come un pesce che guizzava smarrito nell’acquario gorgogliante.
Si aspettava una risposta stizzita ma quando udì “Simona” sobbalzò sulla sedia perché si era rotto il silenzio dentro di lui.
“Pensa di fermarsi qui, stasera?” gli chiese Simona curiosa di conoscere questo sconosciuto che le sembrava che vivesse in un mondo incantato.
“Non so, Non ho ancora deciso”
“C’è festa stasera per il santo Patrono. Fuochi d’artificio a mezzanotte e tante bancarelle nel sagrato della chiesa” proseguì incalzante per convincerlo a rimanere.
Luca sorrise, perché erano suoni familiari, quando a maggio si festeggiava nella sua città, ma il sorriso sparì in fretta, perché non avrebbe saputo dove fermarsi per la notte.
“Le posso indicare un bed and breakfast appena fuori dal paese, Anzi se aspetta qualche minuto la posso accompagnare io” continuò la ragazza sorridente e sparì velocemente dalla vista.
Lui era ancora incerto tra il fasullo che gli diceva di riprendere il viaggio verso l’ignoto e il malinconico felice che lo incitava a raccogliere l’invito, insperato quando Simona comparve dinnanzi in jeans e camicetta pronta a condurlo in posto sconosciuto.
“Andiamo”; le disse d’istinto, avviandosi verso la macchina, mentre lei lo seguiva spensierata incurante degli sguardi del gestore del bar.
Il Viaggio – 3
Adesso aveva sei anni e vedeva la corte irregolare sommersa da assi e legname recuperato dalle vecchie case. C’erano due pezzi di marmo tondeggianti un tempo bianchi, ma adesso inscuriti dal tempo e dalla polvere. Forse facevano parte di vecchie colonne, che non sapeva dove fossero collocate.
“Erano la parte superiore o inferiore?” si interrogava senza troppa fretta, né curiosità, perché erano il mondo dei giochi assieme a due sedili di marmo rosato butterati dal tempo e dagli uomini.
Salire, scendere, saltare era il mondo della fantasia di bambino, che immaginava quali avventure doveva affrontare. Un lampo, un urlo di dolore era uscito dalla bocca, mentre la gamba sanguinava come una fontana. La corsa disperata al pronto soccorso, i pianti e le paure erano immagini vivide e reali, che scorrevano in sequenza sullo schermo in tre dimensioni della mente.
Il fasullo se ne stava in un cantuccio ben nascosto, ma pronto ad uscire allo scoperto infingardo ed falso, quando la malinconia avrebbe finito la pellicola.
Il filmato era irregolare, a strappi quasi singhiozzante, perché era consunto ed annerito dal tempo. Stava su un lettino guardando fuori dalla finestra un giardino ricco di magnolie imponenti dalle foglie verdi lucide, mentre piangeva in silenzio. La ferita era infetta, perché nella fretta avevano lasciato dentro una garza, mentre un uomo vestito di bianco scuoteva la testa e diceva “Speriamo”.
Avrebbe rivisto quelle magnolie altre volte, mentre lentamente la ferita diventava una lucida cicatrice ben evidente nel ginocchio.
I fotogrammi scorrevano veloci davanti agli occhi, mentre Luca bambino scendeva in strada dalla finestra della camera o scivolava incosciente sul corrimano delle scale. Era un discolo irrequieto sempre pronto ad arrampicarsi ovunque pensando a Tarzan e trascinava con se Gloria, che lo ammirava con due occhi dolci ed immensi.
Era solo nel dehor immerso nel caldo asfissiante di luglio e si concesse un intervallo per mangiare qualche boccone del panino che aspettava nel piatto.
Si chiese perché si era immerso nel flusso dei ricordi, che gorgogliavano sicuri nella mente, mentre il fasullo timidamente si affacciava fuori dal luogo segreto nel quale si era rintanato.
“Vergogna!” gli gridò il malinconico stizzito per la codardia dell’altra parte.
“Avete finito di litigare?” li riprese Luca irritato del continuo battibeccare delle due personalità che albergavano dentro di lui “Voglio ricordare e basta”.
La pellicola si era spezzata e doveva riattaccarla se voleva proseguire a vedere il prosieguo del film della sua vita. Non era facile, ma testardamente ci provava.
Il suo occhio stanco per il viaggio e per il sudore, che scivolava umido tra le ciglia, vide in lontananza dei bambini che disegnavano qualcosa sul marciapiede infuocato prima di iniziare un gioco chiassoso ed allegro.
Come per magia si sentì trasportare nella corte senza erba con un sicomoro frondoso e qualche aiuola maltenuta addossata ai muri. Era il suo regno da maggio ad ottobre con i giochi aiutati dalla fantasia, annaffiati da secchi d’acqua gelida, che dalle finestre venivano gettati con abbondanza per raffreddare la turbolenta gioiosità dei ragazzini.
Poi si concentrò su quel gioco tanto affascinate quanto inadeguato per le dimensioni della corte.
“Come si chiamava?” chiedeva aiuto al malinconico, perché il fasullo si era nuovamente nascosto.
“Ah! Bac e Pandon!” replicò con immediatezza la parte presente.
Era un gioco ricavato da un elemento povero: un vecchio manico di scopa, messo in un angolo in attesa di finire nella caldaia in minuscoli pezzi. Il pandon era una piccola scheggia di legno appuntita, che doveva essere colpita dal bac, il manico tagliato. La scheggia si alzava roteando prima di essere colpita al volo e mandata lontana. Però, c’era sempre un però nel gioco, perché se finiva su un vetro erano dolori.
Luca sorrideva beato e felice, ma era tempo di tornare ad Ersilia.
Il Viaggio – 2
La parte esteriore cominciò a sbuffare, perché quella malinconica non prestava attenzione alla strada. Stava dicendo che, se non fosse stato per lui, ora sarebbero finiti in un bel pasticcio.
La via era ingombra di persone e detriti, come una discarica dove volteggiavano gabbiani grigi che stridevano felici per il lauto pasto che li aspettava.
Si era fermato appena in tempo per non finire nel caos.
Luca osservò distratto quel disastro, perché la mente continuava a volteggiare a cinquanta anni prima, quando aveva conosciuto Ersilia, ma si sentiva riarso dentro, perché la fiumara della memoria era un letto essiccato dal sole di agosto cosparso di sassi levigati dal tempo.
Udì dei clacson suonare impazienti, ma lui non aveva voglia di muoversi o meglio pensava di indugiare un po’ lì. Si mosse cautamente mentre un vigile nervoso gli faceva segno di andare più svelto agitando la mano destra con frenesia.
Trovò un riparo sotto gli alberi, mentre si domandava cosa stava facendo il quel posto che non conosceva, diverso da tutti quelli conosciuti finora.
“Non ha importanza” disse all’irrequieta personalità esteriore, che premeva per chiedere, per sapere, per decidere.
“Cosa devo decidere” ripeté stanco ed annoiato, mentre tentava di insinuarsi nella terra arida alla ricerca del suo fiume scomparso.
Guardò l’ora e ammise che era venuto il momento di fare una sosta, di vedere qualche faccia non più di sfuggita, ma fissa e parlante.
C’era all’ombra dei tigli un dehor, che sembrava ammiccare con l’occhio destro, mentre attraversava la strada deserta.
Si soffermò un attimo per capire dove era finito seguendo l’estro del momento, ma tutto sembrava congiurare per nascondere il luogo. Non c’erano persone, né cartelli, né indicazioni alcuna, la toponomastica della strada era parzialmente coperta dal glicine fiorito che si inerpicava sinuoso ed intrigante sull’angolo.
“C…. Ma…..i” era il poco che si leggeva, mentre immediatamente la parte nascosta cominciò a fantasticare sulle lettere celate.
“Ma non immaginare quello che non sai!” rimbeccò pronta l’alter ego manifesto, che rideva frustrato sulla fantasia della metà malinconica.
“Avete finito di beccarvi?” disse Luca, mentre si accomodava sulla sedia nel dehor, aspettando l’arrivo di qualcuno che tardava ad arrivare.
Erano sempre quei giorni di beata incoscienza che occupavano lo spazio e il tempo di Luca, perché era stato il primo e grande amore, che poi era diventato molti anni dopo realtà.
Prima c’era stata Gloria, una ragazzina magra come uno stecchino, che per anni era stata la compagna di giochi e di avventure, inseparabile fino a quando a tredici anni non aveva cambiato casa. I primi baci furtivi, le prime carezze audaci erano state strappati nella buia penombra dello stretto corridoio che dal cavedio interno portava nella corte.
I ricordi erano confusi, offuscati da una coltre di polvere, che rendevano incerti contorni. Eppure erano lì, pronti a balzare fuori, ma lui non riusciva a vederli, a rinfrescare la memoria. Stavano in un limbo di indeterminatezza, di non vuoto, di non pieno senza tempo e senza spazio.
Provò a concentrarsi, ma erano ricacciati indietro da qualcosa più forte della sua volontà.
“Signore! Signore!” sentiva in lontananza una voce gentile fuori campo “Desidera ordinare qualcosa?”.
La parte malinconica strizzò gli occhi per mettere a fuoco l’immagine di una ragazza giovane coi capelli raccolti sulla testa, mentre quella fasulla ghignava per la pessima figura.
“Solo io riesco a far squillare il dring, dring del campanello d’allarme” diceva beffarda e velenosa all’area sognante e romantica di Luca.
“Un panino al prosciutto crudo, una bottiglietta d’acqua naturale fresca e un calice di vino bianco” ordinava alla ragazza dopo avere ascoltato la lunga litania del mangiare disponibile.
L’osservò che ancheggiante tornava al riparo del bancone, mentre come per incanto lei aveva rotto le catene dell’oblio.
Adesso i ricordi tornavano gorgoglianti alla luce del sole, riemergendo nella pozza limpida e poco profonda della mente.
“Hai visto menagramo” diceva il malinconico al fasullo “I ricordi ci sono e sono limpidi”.
Ed erano lì, sul tavolo, evidenti e chiari, Era sufficiente chiudere gli occhi per osservare lo scorrere della pellicola in bianco e nero di molti anni fa.
Il viaggio
Si chiamava Luca D’Astolfi, ma era conosciuto da tutti come Ninì al Ros. Non c’era speranza di chiedergli il motivo, perché non lo sapeva nemmeno lui. I capelli, prima di perderli, erano quasi neri tanto erano scuri e non schiarivano nemmeno col sole. Quindi da questo versante il sopranome non era pervenuto.
Le sue tendenze politiche non viravano a sinistra, ma lui si era sempre professato come apolitico, perché andava a votare quando ne aveva voglia e di solito metteva la crocetta su quei partitini curiosi ed impossibili da essere seri. Quando era dentro quei squallidi gabbiotti di legno, che stavano su per miracolo, con una tenda dal colore indefinito per votare, era preso dalla voglia irresistibile di cercare il simbolo più insolito ed improbabile da contrassegnare con una bella X. Si diceva sempre che non c’era gusto di votare Democrazia Cristiana o Partito Comunista, perché erano i più gettonati, ma doveva aiutare quei minuscoli partitini che alla fine ottenevano qualche migliaia di preferenze da persone come lui.
Ricordava con una punta di malinconia che nel 1968, una delle prime volte che andava a votare, aveva contrassegnato con una bella ed evidente ics il partito “PAPI”. “Eh! Sì quelli erano dei bei tempi” diceva sempre al bar della piazza vicino a casa tra i sorrisi ironici degli amici e conoscenti.
C’era una particolarità che lo incuriosiva parecchio ed era questa. Scorrendo le preferenze ai singoli candidati, leggeva accanto al nome dei più sfigati, di solito quelli che stazionavano sul fondo della lista, un bel zero ovvero nessuno si era degnato di segnarlo sulla scheda elettorale. Ebbene lui si domandava sempre: “Se mi candido, almeno metto il mio nome, perché sarebbe vergognoso che accanto a Luca D’Astolfi compaia un bel zero. Poi bastonerei mia moglie, i miei figli, gli amici più fidati se non facessero altrettanto”. Eppure questa vergogna era sotto gli occhi di tutti e lui non riusciva a comprenderla. Dunque nemmeno le inclinazioni politiche svelavano il mistero.
In conclusione il sopranome era un enigma che Luca non aveva mai voluto conoscere, perché c’era poco capire. Da quando aveva la memoria, aveva all’incirca sei o sette anni, si era sempre sentito chiamare così in casa e fuori e lui rispondeva a tono.
Aveva sessantasei anni quando andò in pensione dopo una vita di lavoro dentro e fuori da quel capannone sulla via del mare. La moglie, Ersilia, ma che razza di nome le avevano appiccato si domandava spesso, si sentiva in ansia al pensiero di trovarselo tra i piedi tutto il giorno. La figlia, Ofelia, in questo caso l’errore era stato suo, perché aveva litigato per il nome con Ersilia e per dispetto l’aveva chiamata come la tragica protagonista di Amleto, aveva già trentacinque anni e zero matrimoni. Il figlio, Mario, finalmente un nome serio, se ne era andato da diversi anni per la sua strada e faceva la vita da single incallito nonostante la corte assidua di una fanciulla, della quale non ricordava nulla né nome né viso. Però non gliene importava nulla se il bambinone non voleva crescere in coppia. Era affari suoi, perché lui l’errore l’aveva già commesso.
Due giorni dopo avere raggiunto l’agognato traguardo decise che era venuto il momento di fare un bel viaggetto tutto solo. E lo disse ad Ersilia: “Domani parto per il mondo. Mi vedrai al ritorno”.
La moglie lo guardò stralunata e di sbieco, pronta a squartarlo vivo se avesse osato mettere in piedi quel subdolo piano.
“Ho capito bene?” rimbeccò acida la donna.
“Vado a preparare una borsa con le mie cose” rispose soave e serafico Luca, per nulla intimorito dall’atteggiamento bellicoso e pronto alla rissa della moglie, e sparì nella camera.
Così disse e così fece.
Il giorno dopo stava facendo discorsi infervorati ad un gestore di una pompa di benzina, dove c’era anche una minuscola officina, su viaggi, lavoro e pensioni da fame, ma anche su donne, politica e calcio.
Il gestore alto, ossuto, peloso e sporco di grasso e di benzina lo ascoltava non troppo convinto ed un tantino infastidito, perché non gli andava di parlare di determinati argomenti con uno sconosciuto. Mentre riempiva con la verde il serbatoio della Fiat un po’ anzianotta e scrostata del tempo, pensava che i clienti volevano parlare solo di donne, di politica e di calcio e non stavano mai zitti. Il flusso delle parole lo investiva come raffiche di libeccio freddo che nonostante la calura di Giugno gli provocava dei brividi nel corpo.
“Il pieno sono 45€” disse a Luca, sperando che la mitragliatrice, che l’uomo aveva in bocca, cessasse di sparare parole che lui non raccoglieva ed ignorava.
Lui imperterrito continuò a parlare di Ibra e Kakà, di veline e altre donne uscite alla ribalta del gossip nei giorni precedenti, di elezioni e governo come se fosse un esperto in materia, senza prestare orecchio alle richieste dell’uomo in tuta giallo sporco. Non aveva ancora compreso che era in pensione da tre giorni, mentre nessun collega di lavoro lo stava ascoltando, come era normale quattro giorni prima.
Adesso il gestore era visibilmente contrariato, perché quell’uomo non solo parlava di temi che non lo affascinavano, ma stava facendo crescere la coda dei clienti in attesa.
“Mi dia 45€. E sposti la macchina, perché c’è coda dietro di lei” ribatté irritato e seccato con un mozzicone di sigaretta spento e unto di grasso, che faceva capolino tra le labbra serrate, senza prestare la minima attenzione al fiume che sgorgava senza posa dalla bocca di Luca.
Luca D’Astolfi era un piccoletto, che tendeva alla pinguedine dei suoi sessantasei anni, stempiato, ma forse sarebbe più corretto dire calvo, e tutto eccitato per aver raggiunto la pensione. Portava sul naso un paio di occhiali dalla montatura chiara, benché lui sostenesse che ci vedeva benissimo anche senza, mentre in realtà faceva fatica a distinguere un tre dall’otto.
A quella richiesta brusca la fonte cessò di colpo di zampillare parole, come se si fosse inaridita per un qualche accidente di imprevisto. Pagò in silenzio e se ne andò tutto offeso.
Il viaggio non era iniziato sotto i migliori auspici.