Leggo questo articolo di Grazia Giordani e non posso che trovarmi d’accordo.

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L'orologio segna l'ora

L’orologio segna l’ora.
Che ora è?
E’ l’ora di andare,
non puoi indugiare ancora.
Caro orologio, fermati un poco,
mi piace tanto rimanere qui.
Non posso,
non posso.
Sono condannato a girare in eterno.

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Capitolo 19

Giacomo, dopo il ritorno a casa, aveva ripreso le consuete attività, o meglio l’attenta esplorazione della sua nuova vita per scoprire quali altri aspetti si nascondessero alle sue conoscenze.

Era il 23 di aprile, il giorno di festa della città per celebrare il Santo Patrono, quando all’ingresso si presentò un messo ducale con un messaggio per lui.

Stava leggendo un libro preso dalla biblioteca di casa. Era la storia della sua casata, o forse di quella nel quale si era calato in maniera involontaria.

“I miei antenati sono savoiardi. Più precisamente di Castel di Liborno. Chissà dove si trova questa località. A parte il riferimento alla Savoia, non appare altro. Ma leggiamo ancora. Pare che i miei avi siano stati tutti letterati o iuris consulto. Dunque sono la pecora nera? L’unico ingegnere della famiglia. Chissà mio fratello, Ercole, ..”.

Stava riflettendo quando udì un discreto bussare. Ghitta, che stava in un angolo vicino alla finestra, alzò gli occhi come per interrogare Giacomo se doveva aprire la porta.

“Avanti” disse con voce ferma Giacomo, fermando l’accenno di movimento della serva.

Apparve sull’uscio il maestro di casa che annunciò il messo ducale.

L’uomo rimase stupito, perché in questi mesi il Duca non l’aveva mai cercato ma si domandò anche per quale valido motivo doveva aver necessità della sua persona. E poi l’inverno era stato terribile tra la neve che aveva bloccato tutto e il freddo che aveva ghiacciato anche il Po comprese le parole delle persone. Si riscosse da questi pensieri del tutto insignificanti e prestò attenzione al messo che era giunto in questa giornata di festa.

Il paggio fece un profondo inchino prima di presentarsi, mentre osservava con la coda dell’occhio Ghitta, la cui presenza gli risultava inopportuna. Il Duca si era raccomandato discrezione nel parlare e nel consegnare il messaggio

“Messere, vi prego sedetevi” disse appoggiando il volume aperto sul tavolo. “Posso offrirvi qualcosa? La giornata è afosa e voi avete fatto un bel tratto di strada per raggiungere la mia dimora”.

“Un po’ di acqua fresca per togliere la polvere della cavalcata” rispose cortese, accomodandosi sulla sedia che l’uomo indicava con la mano.

“Ghitta” disse Giacomo volgendosi verso la serva. “Potete portarci una brocca di acqua fresca, due calici e qualche frutto maturo?”

La ragazza sparì rapidamente alla loro vista per portare quanto richiesto con grande sollievo dell’uomo, che trovava singolare che una serva rimanesse ad ascoltare la loro conversazione.

“Ditemi, mentre aspettiamo che la mia camariera personale torni con acqua e frutti. Avete detto che ..”.

Il paggio si schiarì la voce, prima di consegnare un messaggio chiuso col sigillo del Duca.

“Aspetto una vostra risposta che comunicherò al mio Signore, quando rientro a Ferrara”.

Giacomo controllò la ceralacca che fosse integra, anche se non era in grado di distinguere se fosse autentica oppure no, poi la ruppe con un gesto deciso, prima di cominciare la lettura del contenuto, aggrottando leggermente la fronte. Il testo era molto laconico e generico ma non lasciava addito a dubbi: doveva presentarsi al Castello nella giornata seguente senza troppi tentennamenti. Si chiese se avesse risposto negativamente cosa sarebbe successo. Di sicuro niente di buono.

“Ho letto. Potete comunicare al nostro Duca che sarò puntuale un’ora prima del tocco. Sarò lieto di presentarmi al suo cospetto”.

Nel frattempo silenziosamente e con discrezione Ghitta era tornata con la brocca e un cesto di fragole, depositando il tutto sul tavolo, prima di ritirarsi nel suo angolo.

“Crescono nella mia proprietà e spero che li gradiate” disse versando l’acqua fresca appena attinta dalla fonte.

Mangiati alcuni frutti e dissetatosi, il paggio prese commiato da Giacomo e fu accompagnato fino al cortile da Ghitta. Ancora una volta il messo si chiese che ruolo ricopriva questa donna, che appariva molto giovane ma anche esperta nel trattare con le persone. Scosse la testa e si allontanò verso la città mettendo al trotto il cavallo.

Giacomo si domandò di quale argomento avrebbe trattato nell’incontro con Alfonso. Non era ancora riuscito a comprendere bene il suo ruolo a corte ma forse il giorno seguente l’avrebbe svelato. Era immerso nelle sue riflessioni mentre leggeva senza muovere gli occhi il messaggio ducale, quando la serva rientrò nella stanza.

“Mio Signore, vi osservo serio e preoccupato. Forse il Duca vi ha comunicato qualcosa di sgradevole?”

“No, no. Niente di tutto questo. Chiede solo i miei servigi. Di che tipo non li conosco ma sicuramente inerente alla mia professione. Non sono preoccupato ma semplicemente mi domando quale fretta c’è per ordinare la mia presenza per domani mattina senza indugi”.

“Dunque domani, messer Giacomo, non sarà a pranzo con noi?” chiese curiosa la ragazza.

“No. Avvertite madonna Isabella che domani sarò ospite del Duca” e riprese la lettura del volume rimasto aperto sul tavolo.

Ghitta lo interruppe, perché aveva una richiesta da fare.

“Messere, se Voi non avete bisogno di me, vi chiederei il permesso di raggiungere la basilica di San Giorgio con le mie amiche. Oggi è giorno di grande festa con banchetti e saltimbanchi. Voi non venite?”

Giacomo alzò il viso dal libro e sorrise.

“No. Io non vengo. Preferisco godermi la frescura della stanza. Però voi fate attenzione a non dare troppe confidenze agli uomini. Sapete bene cosa succede” disse sornione. “E non tornate troppo tardi. Potrei avere bisogno di voi”.

“Non preoccupatevi per me. So come comportarmi con gli uomini. Sarò di ritorno prima del vespro così che posso aiutarvi per la cena serale”.

Giacomo riprese la lettura e Ghitta andò allegra a piedi verso la grande Basilica.

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Capitolo 18

La vigorosa nevicata di gennaio, l’interminabile gelo di febbraio erano ormai un pallido ricordo e avrebbero costituito l’argomento dei racconti dei vecchi nelle lunghe veglie serali dei prossimi inverni attorno al camino, quando racconteranno come i canali fossero gelati e il Po ricoperto da una lucida lastra di ghiaccio immersi in uno spettrale sfondo innevato. Era stato un carnevale in tono minore, quello terminato il 24 febbraio, perché neve e freddo avevano paralizzato la città, impedendo le consuete manifestazioni di gioia chiassosa nelle vie cittadine. I predicatori in chiesa dicevano che era il castigo divino per i costumi lascivi e disordinati dei suoi abitanti. Una visione dell’aspetto meteorologico differente e divergente tra chi predicava e chi subiva le intemperie di febbraio.

Una bizzarra e capricciosa primavera era subentrata al rigido inverno con un’alternanza di splendide giornate di sole e di corrucciati giorni di pioggia. La natura sembrava apprezzare questa variabilità, trasformando il paesaggio in un tripudio di verde e di colori.

Arrivò un maggio, che fu particolarmente tiepido, tanto che la duchessa Lucrezia si preparò per il consueto trasferimento nella delizia del Belriguardo. Il Duca aveva dato il via libera e il clima era diventato più stabile verso il bello. Tutto congiurava favorevolmente per l’inizio delle vacanze estive, che sarebbero terminate a settembre inoltrato o in ottobre, se il tempo si manteneva temperato e sereno.

Lucrezia con la sua piccola corte di donne, Laura Rolla, Angela Valla, la contessa Strozzi e coi musici e le danzatrici, che avevano allietato le lunghe serate invernali, traslocò in campagna sul barcone fluviale trainato dai cavalli. Era un trasferimento lieto e scanzonato, che durava qualche giorno con soste programmate e altre improvvisate, attraverso la campagna ferrarese. Era un momento festoso e molto atteso dalla Duchessa, che poteva lasciare l’appartamento ducale freddo e noioso per un mondo agreste e rilassante. Era corroborante per la sua salute che peggiorava anno dopo anno.

Nelle stanze del Castello Alfonso riprendeva le abituali attività di governo e gli incontri galanti. Si sentiva libero mentalmente con la partenza di Lucrezia, anche se nessuno poteva imporgli qualsiasi impegno o restrizione. Lui spaziava tra la delizia di Belfiore e quella del Verginese, sfogava la voglia di menare le mani nel boscone della Mesola, andando a caccia di cervi e cinghiali. Però erano gli incontri amorosi che erano al centro dei suoi interessi, quando le guerre non lo catturavano.

Di Laura si era scordato il viso e l’aspetto, inghiottiti dalla coltre nevosa, finché un giorno il segretario non gli ricordò quel lontano impegno.

Adesso aveva altre priorità ma presto ci avrebbe fatto un pensiero.

Giacomo fece ritorno a casa al termine della nevicata non senza qualche difficoltà. Lo aspettavano i rimproveri della moglie e le attenzioni di Ghitta.

“Madonna Isabella” disse presentandosi sull’ora centrale nelle stanze della moglie al suo rientro. “Siete troppo severa nei giudizi. Se avessi potuto, sarei rientrato quella notte stessa. Ma ..”

“Niente scuse” sentenziò acida. “Siete rimasto fuori da questa casa per quasi due settimane, lasciando a me tutti gli oneri di gestirla per assicurare che ogni cosa funzionasse a dovere”.

“Mi sembrate ingenerosa nei miei confronti. Non mi pare che la gestione della casa ricadesse sulle mie spalle”. E azzardò un pensiero su chi governava, anche se ignorava se fosse vero oppure no. “Credo che voi, madonna Isabella, abbiate sempre diretto con mano ferma sia servitori che serve. Avesse scelto i camarieri personali di ognuno di noi. Io mi sono ritrovato Ghitta senza nessuno mi abbia chiesto nulla”. Mentì spudoratamente, perché quella servetta gli garbava e come.

La donna rimase in silenzio, come se Giacomo avesse colto nel segno. Forte di questo successo si accomiatò da lei.

“E ora, col vostro permesso, mi ritiro nelle mie stanze. Sento la necessità di un bagno ristoratore” e si avviò verso la porta.

“Messer Giacomo. Noi abbiamo già pranzato. Mandate Ghitta nelle cucine a vedere se è avanzato qualcosa. Stasera si cena al tocco del vespro”.

L’uomo annuì, accennando un «va bene, manderò Ghitta. Ma non ho molta fame», mentre usciva velocemente dalla stanza.

Aperto l’uscio delle sue camere, trovò Ghitta che lo aspettava sorridente.

“Messer Giacomo! Ben tornato!” e l’abbracciò con molto calore. “Abbiamo sentito la vostra mancanza in questi giorni ..”

“Chi noi?” domandò stupito e un po’ ironico.

“Volevo dire solo io, che non vi ho potuto curare e servire in ogni dettaglio” rispose senza batter ciglio, mentre l’aiutava a togliersi gli indumenti infangati e bagnati.

“Avete necessità di un bagno caldo e di vestiti puliti. Chi vi ha ospitato non vi ha curato come si deve”.

L’uomo sorrise e la lasciò fare. Non c’era confronto con la moglie, fredda, boriosa e ispida come un riccio. Ripensò alle nottate con Giulia e con Ginevra e sospirò, perché era stata una parentesi piacevole e gradevole.

“Messer Giacomo” riprese Ghitta. “Vi sento sospirare come se rimpiangeste qualcosa o qualcuna. Ora siete di nuovo a casa e non dovrete rammaricarvi di quello che avete lasciato”.

“Siete gentile nei pensieri, Ghitta. Ma ora desidero un bagno caldo e poi riposarmi un po’”.

E così fu, anche se il riposo non arrivò subito.

Laura lentamente aveva ripreso le sue consuete attività, quando finalmente aveva potuto mettere il naso fuori della bottega. La strada era un immenso scivolo ghiacciato, percorribile solo a piedi e con cautela.

La visita del Duca era un lontano ricordo dimenticato e impolverato, mentre i vecchi e nuovi spasimanti tornavano alla carica.

Era una ragazza formosa e piena di fascino, che appariva agli occhi di tutti come una torre d’avorio inespugnabile. L’assedio continuava anche se era meno assillante per via delle condizioni climatiche che ostacolavano i movimenti delle persone e delle cose.

La ragazza era serena come la primavera che avanzava a grandi passi. La madre mugugnava non poco, perché passavano i giorni senza che la figlia decidesse di scegliere il partito da sposare.

“Madonna Paola” le diceva il marito. “Se vogliamo maritare nostra figlia dobbiamo sborsare molti scudi d’oro come dote. E non li abbiamo”.

“Messer Francesco, cosa dite! Ci sono facoltosi commercianti che sarebbero disposti a pagare loro molti fiorini pur di avere in sposa la nostra Eustochia! Volete che rimanga zitella tutta la vita? Allora sarebbe meglio che entri in un convento come Lucrezia, sua sorella”.

Il padre scuoteva la testa perché non era d’accordo.

“Nostra figlia è un prezioso aiuto in bottega. E poi la vorrei pensare maritata con qualcuno di suo gradimento e non col primo vecchio bavoso, pieno di lire marchesane”.

“Se è vecchio, tanto meglio. Così diventa vedova ancora giovane e piacente, ereditando il patrimonio del defunto marito” replicò seria la madre.

“Madonna Paola, mi sembrate molto venale! Per fortuna col mio lavoro sono in grado di mantenervi decorosamente”.

“Avete ragione, messer Francesco. Ma Laura rischia di rimanere zitella”.

Erano intenti in questa discussione, che ormai dominava i loro dialoghi, quando entrò un paggio del Duca.

“Messere, è questa la casa di dama Laura?” chiese risoluto, mentre osservava le due persone che stavano in quel momento nella bottega.

“Sì” rispose pronta Paola.

“Ho un messaggio per lei. Domani al tocco passerà la carrozza del conte Bernardino de’ Prosperi per condurla alla delizia di Belfiore”.

“Il segretario del Duca?” domandò stupito Francesco.

“Sì” e consegnò una pergamena sigillata col timbro del conte prima di andarsene.

“E Laura dov’è andata?” chiese la madre e cominciò la ricerca.

Era il 23 di aprile, il giorno di San Giorgio, patrono della città.

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A Elena

Tu assomigli al mare
quando il vento con infinita dolcezza
agita la calma distesa verde
e accarezza delicatamente
la superficie lievemente increspata,
quasi temendo di fare del male.

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A Lu

A Lu
Si deve avere un’amica invisibile
a cui parlare
durante le ore silenziose della notte
e durante le passeggiate nei parchi

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Capitolo 8

Laura non condivideva tutto l’entusiasmo del padre per la visita del Duca. Le pareva eccessiva e non aveva mancato di rimarcarlo.
“E’ un uomo pieno di fascino” diceva fra sé e sé. “Ma perché dovrei volare alta? Mi ha osservato per bene, quasi spogliandomi. Anzi spogliandomi completamente come se volesse valutare come sono. Però lui è il Duca e io Eustochia. Cosa posso pretendere? Che lui ripudi la bella Duchessa, quella Borgia, di cui raccontano meraviglie? Io sono nulla al suo confronto”.
Seduta vicino al tavolo di lavoro, continuava a cucire un berretto rosso con la stessa cura con la quale curava la sua persona. Muoveva con grazia e decisione un ago ricurvo di legno ormai consunto dall’uso. Non si decideva a gettarlo e sostituirlo con uno nuovo. Sembrava che fosse affezionata come se fosse una persona.
La madre, Paola, era accorsa alle grida del marito e girava inquieta e agitata per la stanza che funzionava da laboratorio.
“Dimmi, Francesco” diceva scossa dall’emozione. “Dimmi, Francesco. Sei sicuro che fosse il Duca in persona? Non era forse la sua controfigura, che voleva prendersi gioco di te?”.
Il padre in preda ancora all’emozione per quella visita inaspettata balbettava confuso delle parole senza senso.
“Calmati!” implorò la moglie. “Calmati! Non si capisce nulla”.
L’uomo, afferrata la brocca dell’acqua fresca, ne versò un po’ in un boccale di stagno prima di cominciare a parlare.
“Certo che sono sicuro, Paola! Era lui in persona accompagnato dalla sua scorta personale. E poi dopo avermi richiesto un cappello da sfoggiare per l’imminente carnevale, dovevi vedere come adocchiava la nostra Eustochia. E lei ..”.
“E lei cosa ha fatto? Come si è comportata? Dimmi, Eustochia ..” volgendo lo sguardo verso la figlia. “Cosa avete detto al nostro Duca?” ripeteva come un mantra la madre.
Laura alzò gli occhi dal berretto, rimase con l’ago a mezz’aria e inspirò tutto quello che poteva entrare nei polmoni. Poi sospirò come per giustificare quello che stava dicendo.
“Nulla. Assolutamente nulla. Cosa dovevo fare o dire? Mi ha chiesto ..” replicò la ragazza spalancando gli occhi.
“Cosa vi ha chiesto? Non farmi morire per il non sapere”.
“Cosa ho detto? Laura Dianti detta Eustochia. Che altro dovevo dire?” ammise sconcertata.
La madre alzò gli occhi al cielo e, accasciandosi su uno sgabello ingombro di stoffe e pelli, rimase senza parole. Rifletté che il Duca aveva rivolto la parola alla figlia che aveva risposto semplicemente col proprio nome senza rendergli omaggio o tentare di mostrarsi gentile.
“Non avete reso omaggio al nostro Duca che è entrato nella nostra umile dimora? L’avete forse irritato? Vi sarete dimostrata scorbutica come al solito, immagino. Non vi capisco. Non accettate le proposte di matrimonio che facoltosi commercianti vi fanno. Siete fredda col nostro Duca! Pensate di diventare novizia come Lucrezia, vostra sorella?”.
“No, madre” replicò pacata la ragazza. “Non penso di diventare novizia come mia sorella ma di trovare un buon partito che mi voglia bene. Di certo questo non sarà il Duca che è maritato con la Duchessa”.
Paola stava replicando, quando Antonio, il ciabattino della bottega accanto, mise la testa dentro la stanza.
“Dimmi, Francesco. Era il nostro Duca quello che è sceso dalla carrozza ducale pochi istanti fa? E’ entrato qui?” domandò curioso di conoscere i motivi della visita, provando un filo di invidia.
“Certamente. Mi ha ordinato un cappello per il prossimo carnevale” replicò soddisfatto, sperando di avere accontentato la morbosità di sapere.
Il ciabattino mosse un passo verso l’interno osservandoli bene in viso alla ricerca di altre informazioni, che la risposta aveva taciuto.
“E come lo vuole?” incalzò deciso a conoscere tutti i dettagli.
Nel mentre anche il fratello, Bartolomeo, fece irruzione nella bottega.
“Padre ..” disse concitato. “Padre, tutto il quartiere parla che il nostro Duca ha fatto visita alla nostra dimora. E’ vero? L’hai  visto da vicino? Com’era?”.
Francesco preso tra due fuochi non sapeva cosa rispondere, mentre altri popolani entravano nella stanza che ben presto fu incapace di contenerli tutti.
“Calma! Calma!” urlò Paola per sovrastare il rumore delle parole di tutti quegli abitanti della via.
Laura, impaurita da tanto affollamento, guadagnò in fretta le stanze più interne per sottrarsi alla curiosità popolare.
“Tra non molto dovrò sottostare al fuoco delle domande delle amiche che vorranno sapere, conoscere e punzecchiarmi, perché l’invidia sarà forte” rifletteva mentre si sedeva in cucina.
La stanza guardava un piccolo orto bruciato dal gelo, accessibile da un ingresso che dava su un viottolo che conduceva alle mura cittadine. Udì un picchiare deciso sulla porta che si apriva sull’orto.
“Eccole che arrivano!” disse rassegnata la ragazza, alzandosi malvolentieri ad aprire l’uscio.
“Dimmi, Laura”. Furono le prime parole che la investirono, mentre il solito gruppetto di amiche faceva irruzione nella cucina senza aspettare di essere invitate a entrare.
“Non farci morire dalla curiosità!” implorò Giulia, la figlia del maniscalco.
“Se fosse vero!” pensò la ragazza. “Non sareste qui a domandare per soddisfare la vostra invadenza morbosa di sapere come è andata”.
“Non essere reticente!” incalzò Eleonora. “Ci hanno detto che sei stata invitata a corte per carnevale!”.
“E’ vero che il Duca ti ha baciato la mano?” continuò Anna, girandole intorno.
“Tra un po’ scoprirò che ho fatto anche sesso col Duca..” rifletteva infastidita Laura.
“Dicono che ti sei appartata con lui nel retrobottega. E’ un grande amatore?” chiese in maniera sfrontata Marfisa, quasi arrossendo per l’audacia delle sue parole.
“Come voleva dimostrarsi. Sono già stata a letto col Duca” pensò ridendo.
“Non essere muta. Vogliamo conoscere tutti i particolari” ricominciò Giulia.
“Domani ti presenterai a Palazzo Ducale per prendere servizio?” sbottò come ultima Violante. “A che ora ci vai? Posso accompagnarti?”.
Laura cominciò a ridere senza ritegno, gettando nello sconforto le amiche.
“Ma vi sembro una che ha fatto tutto quello che si mormora? Nessun invito a Corte né a Palazzo Ducale! Semplicemente ha ordinato a mio padre un berretto carnevalesco!”.
La delusione si dipinse sul volto delle ragazze.

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Il petalo e la rugiada

Il petalo e la rugiada

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Sul petalo

scivolano leggere

le gocce della rugiada.

Si raccolgono,

si disperdono,

scendono a terra.

Un minuscolo uccello

si disseta

nel tuo calice.

Un raggio di sole

buca la coltre di nubi

e illumina

il fiore.

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Il campo

Il campo

La terra è mossa

in un ammasso di zolle scure,

come i pensieri

nella mia mente.

Gruppi di uccelli

banchettano felici

tra blocchi di terra

come la mia anima

si ciba di te.

Il seme del grano

scende in profondità

a mettere le radici,

come l’amore

aligna nel mio cuore.

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