Son tornato, sia pure su Caffé Letterario. Un racconto e … poibuona lettura
Una piccola fiaba per il piccolo Lorenzo: Il drago Linguadifuoco
Fantasmi – parte seconda
Scese un altro gradino, scivolando su quella poltiglia scura e viscida che li ricopriva. Stava per perdere l’equilibrio e precipitare verso il basso, anzi già si vedeva sette scalini più sotto, quando si sentì afferrare e rimettere diritto. Si fermò nuovamente col cuore che batteva a mille. La sensazione di ansia e angoscia era aumentata.
“Chi mi ha salvato?” si domandò, mentre cercava di regolarizzare il respiro e i battiti. “Senza quel provvidenziale intervento me la sarei vista brutta!”
Ruotò la torcia dall’alto verso il basso, da destra verso sinistra. Non c’era nessuno su quella scala sdrucciolevole. Era solo. Eppure aveva avvertito nettamente delle braccia che lo avevano sorretto, impedendogli di cadere. Cominciava a essere pentito della decisione di avere affrontato la discesa per vedere cosa c’era nel semiinterrato. Sapeva che non era curiosità la molla che lo spingeva a scendere ma la voglia di conoscere quella parte della casa che era rimasta sempre chiusa da quando si era stabilito lì. Le vecchie chiacchiere delle persone erano un ricordo indistinto. Lui era troppo piccolo per afferrarne le sfumature, i particolari che si erano arricchiti di altri dettagli fino a costruire una storia che era lontana dalla verità. Su quei tristi momenti del passato era calato l’oblio e nessuno aveva l’intenzione di riaprire le antiche ferite. Erano altri eventi che erano il fulcro dei ricordi di quei giorni tragici e sanguinosi.
Mentre i pensieri lo invitavano a valutare, se proseguire oppure no, un respiro caldo gli sfiorò la nuca. Fece un balzo che lo fece traballare pericolosamente.
“Chi c’è?” chiese a voce alta incrinata dalla paura.
Nessuna risposta. Una richiesta caduta nel vuoto.
“C’è qualcuno?” riprese a gridare per darsi quel coraggio che era volato via.
Udì solo l’eco delle sue parole che rimbalzava tra quei muri pieni di ragnatele. Non riusciva a trovare la serenità per una decisione.
“Risalgo o proseguo?” disse in un sussurro.
“Vai avanti” replicò una voce, che pareva provenire dall’oltretomba.
La paura si impossessò di Marco, incapace di ragionare lucidamente. Poi, come spinto da mille mani, ricominciò a scendere con maggiore cautela. Percorsi gli ultimi gradini si ritrovò a osservare attraverso una finestrella, opaca per la sporcizia, il terreno del giardino. Era in uno stretto corridoio, sul quale si affacciavano delle porte chiuse e rischiarato da quello stretto pertugio, dal quale filtrava la luce. Avvertì una mano che si insinuava sotto il suo braccio. Si fermò bruscamente, gettando il fascio della torcia di fianco. Nulla. Solo polvere e ragnatele.
Riprese cautamente a camminare ma udì dei lamenti provenire da dietro quelle porte chiuse.
“Suggestione o realtà?” si domandò, restando immobile e trattenendo il respiro.
Provò ad abbassare una maniglia ma non si muoveva, come se fosse inchiodata. Tentò con un’altra ma il risultato fu identico. Avanzò ancora e contò che c’erano tre stanze alla sua sinistra e quattro alla destra. Continuava a udire dei suoni che parevano dei lamenti di un moribondo. Un flash. Ricordò che aveva sentito parlare di voci provenienti dal sottosuolo, proprio da lì. Aveva riso, perché nella sua ingenuità di bambino non poteva credere che potessero arrivare dalle cantine di casa sua dei gemiti dolorosi. E non pensava che potessero esistere i fantasmi. “Sono tutte invenzioni! Servono solo a spaventare noi bambini” si era detto allora.
Eppure adesso li ascoltava e poteva toccarli con mano.
“Avevano ragione quegli anziani, quando dicevano che questa era una casa maledetta o degli spiriti” disse soffermandosi davanti a una porta. “Perché rimane chiusa con ostinazione?”
C’era poco da esplorare. Un corridoio stretto e sette stanze ermeticamente sigillate. Adesso percepiva altri odori. Urina ed escrementi mescolati a quello del sangue ormai rappreso. Un brivido percorse la schiena di Marco. L’aria era pesante. Quel tanfo di chiuso prendeva alla gola. Spense la torcia. “Tanto non serve” si disse osservando quelle porte che non volevano aprirsi. Continuava a percepire distintamente la presenza di qualcuno al suo fianco. Se muoveva un passo, anche questa lo muoveva. Se si fermava, anche lei si fermava. Sembrava la sua ombra.
Giunto sotto la finestrella vide dei piedi muoversi nel giardino. Ebbe un sussulto. Guardò l’orologio che aveva al polso. “E’ troppo presto perché rientrino i miei. Sono le appena le dieci. Non possono essere neppure mia sorella e suo marito. Chi è?” si disse dirigendosi verso la scala. Si fermò. Era interdetto. Quello, che aveva visto, non apparteneva al mondo attuale. Quegli stivali neri gli erano sconosciuti. Ritornò sui suoi passi ma non vide più nulla. Il giardino appariva immobile. Nessun stivale nero si scorgeva dalla finestrella.
“Mi sono sognato?” si disse, mentre alla sue spalle udì la porta di accesso alla cantina scricchiolare. Erano i cardini arrugginiti che cigolavano. Avevano necessità di una bella oliata.
Marco fu preso dal panico. Si sentiva come un topo in trappola in procinto di affogare. Le stanze non era agibili ma poi si sarebbe messo nella condizione di non potere fuggire. La finestrella era sufficientemente grande per lasciarlo passare. Non era un colosso, anzi era piuttosto mingherlino. Però c’era un impedimento difficile da rimuovere. Delle solide sbarre impedivano qualsiasi fuga da lì.
Decise coraggiosamente ma non troppo di affrontare quella persona che era riuscita a entrare in casa, nonostante la porta d’ingresso fosse chiusa. Si avviò verso le scale per affrontare l’intruso. Udì il battere secco dei tacchi sui gradini e si ritrovò di fronte a un soldato, che pareva uscito da un libro di storia contemporanea.
“Chi siete?” gli domandò, parandosi davanti.
“Lei prigioniero. Keine Fragen!” gli rispose con un tono che gli ricordava i fumetti di Bonvi, Sturmtruppen. Li leggeva da una vita e li trovava straordinari
Stava per scoppiare a ridire fragorosamente, quando si ritrovò dentro una stanza, legato come un salame a una sedia. La risata era diventata una bolla di sapone che fa ‘puf!’ e diventa il nulla.
“Wobei sono i Banditen?” riprese con quella cantilena ridicola, avvicinandosi con un ferro rovente al viso.
“Quali banditi?” domandò ingenuamente Marco, mentre avvertiva che se la stava facendo sotto e non solo metaforicamente.
“Keine Fragen!” gli urlò a pochi centimetri dal viso. “Dire a me dove sono i tuoi amici Banditen!”
“Non saprei” rispose titubante il ragazzo, che avvertiva l’odore di urina e feci che aveva rilasciato.
“Io perdere la pazienten. Dire dove si nascondono i Banditen!” gli disse avvicinando quel ferro rovente a sfiorare il petto nudo di Marco.
Il ragazzo tremava per la paura che quel pezzo incandescente lo marchiasse per tutta la vita come aveva visto fare con le mandrie tante volte nei western americani. Si domandò se stesse sognando oppure fosse tutto reale. Di certo la puzza, che emanava, era inequivocabile. C’era e non poteva negare che nelle sue mutande non ci fossero delle feci.
Stava per replicare ancora, quando udì quella caricatura di soldato chiamare un sottoposto.
“Untersturmfuehrer Otto Wolf. Der Gefangene ist sein!“
‘Che cacchio sta dicendo’ si disse, cercando di vedere il nuovo arrivato.
Osservando intorno la stanza, illuminata da una lampadina che andava a intermittenza, notò vistose chiazze di sangue ormai seccato sulle pareti e sul pavimento, brandelli di carne umana necrotizzata.
“Questa è una stanza di tortura! E Otto è il becchino. Ma che vogliono da me?“ si domandò stupito. “Eppure la seconda guerra mondiale è finita da sedici anni!“
A Marco pareva essere piombato in un incubo allucinante. Era sceso in cantina per vedere cosa c’era e si era ritrovato prigioniero, anche se all’epoca aveva solo tre anni, e rischiava di morire torturato da un sadico che amava scuoiare vive le sue vittime.
Era in preda al terrore, quando udì dei colpi di mitraglietta e degli spari di una pistola. Non comprendeva cosa stava avvenendo alle sue spalle, quando si ritrovò libero.
“Scappa!” li disse una voce dal forte accento ferrarese.
Non se lo fece ripetere due volte. Di gran carriera salì le scale e si richiuse con fragore alle spalle la porta. Aveva il fiato grosso e il cuore batteva all’impazzata.
Stava riprendendosi dallo spavento e dalla folle corse, quando avvertì una grande puzza e vide le gambe imbrattate di merda. Senza perdere tempo si tolse calzoncini e mutande sporche e maleodoranti, prima di infilarsi nella doccia.
Si stava asciugando davanti allo specchio, quando vide la sua immagine riflessa.
Non poteva crederci.
“Sono bianchi!”
F I N E
I tre desideri – parte terza
Continuo io per te,
ma chissà se sarà vero
quello che segue.
Ora non ho più disegni della mente.
Non ho più idee come fondamenti della realtà,
come le descrive Platone.
Non ho più modelli visivi
per una vita giusta e saggia.
Ma chi sono io?
Ora è tempo
di dedicarmi a te,
di conoscere
la tua anima.
Questa è la poesia che Deborah mi ha scritto sul blog. Ho sorriso, quando ho letto questi versi. Mi sono sembrati privi di senso ma non potevo dirglielo in faccia. Si sarebbe offesa. Però collimavano con quello che ho pensato come terzo desiderio. Così ho deciso di usare queste parole per commentare il post.
‘Prima devi saggiare quella sensitiva per conoscere a fondo il carattere, sorridere del temperamento e stupirti della spontaneità della psiche‘.
Mi ha risposto che, per arricchirti con gli strumenti della tua anima sensitiva, devi divenire consapevole della mente, visitare coscienza e ragione, appropriarti dell’anima razionale di chi ti sta di fronte. A questo punto non avrai paure, quando sei sugli estremi confini della tua vita.
Mi sono sembrate parole sagge.
In effetti si deve godere della bellezza e dell’emozione della tua intelligenza per trasferirla nelle parole compiutamente e consentire agli altri di essere parte della tua creativa sensazione. Solo in questa maniera riuscirai ad esplicitare la tua generosità nei loro confronti.
Ecco come il terzo desiderio prende forma e sostanza: per giungere alla vera creatività bisognerà che si passi per la strettoia dell’integralità della esperienza umana, abbandonando il mondo virtuale per scendere in quello reale, fisicamente concreto. Però rispetto ai primi due veramente intuitivi devo cercare di semplificare il concetto. Quello che desidero è vivere tutti i giorni, osservando chi mi sta intorno per arricchire la mia anima. Ogni momento sarà vissuto come se fosse l’ultimo per godere ogni istante e trasferirlo in uno scritto che rimarrà anche dopo, quando non ci sarò più. Chiederò al genio della lampada la capacità di sintetizzare con le parole tutto il mondo che mi circonda.
Non importa quanti anni avrò a disposizione per fare questo. Va fatto e poi, una volta raggiunta la profondità del nostro essere creativo, potremo fare partecipi gli altri della bellezza del nostro essere. Non importa quale strumento userò o in che modo riuscirò a incontrare tutti quelli che ho conosciuto, conosco o conoscerò per raccogliere le loro esperienze di vita. Coinvolgerò gli altri in tutto quello che avrò appreso senza tralasciare nulla, nessun dettaglio. Tutti dovranno godere della profondità delle scelte che ho operato, perché saranno i benvenuti nella casa, che voglio edificare.
Già qualcosa ho cominciato ad accantonare come le parole, che Jacopo ha condiviso con me. Non è possibile descrivere la sensazione di incomparabile commozione nel leggerle:
“… Sono più sereno, a volte felice. E allora ne approfitto e tiro il fiato senza paura, senza inganni o false speranze. Mi godo questo momento in cui l’aria entra nei miei polmoni e aspetto tranquillo il momento in cui dovrò lasciarla andare.
Ed è così, a volte la vita ci mette la cornice e tu le decisioni. Ma non sempre ci sono entrambe allo stesso momento. Non sempre, oppure sì, dipende da ognuno di noi, da cosa ci tocca. Sorte. Suerte.
Piccole cose e momenti. E’ tutto qui….”
Ma anche i versi di Iris mi hanno colpito.
“Per scrivere ci vuole coraggio,
come, quando vivi.,
e immaginazione
di un inesistente fine,
che continuerai
a guardare
fino all’ultimo punto.
E ancora.
E ancora…”
E ancora quelle di Anna Maria
“… Amare è anche lasciarsi e lasciarti andare.
E io ti lascio allora, piano piano, per non farci troppo male. Come fanno rumore i nostri cuori …”.
e ancora, quelle di Marco, le ultime che ha pronunciato e che mi hanno commosso “… non ho paura. Sono solo stanco…”.
Pensandoci bene questo terzo desiderio lo potevo esprimere anche domenica scorsa. Non so il perché mi si è inceppata la mente.
Oggi è domenica e sto andando all’appuntamento. Mi sento più sollevata. Distendo l’asciugamano sul ciglio erboso del lago, esattamente nello stesso posto dell’ultima volta. La sorte ha voluto che nessuno lo occupasse prima di me. Mi appoggio sulla schiena e osservo il cielo che è pulito con qualche nuvola bianca che corre veloce verso un destino che non conosco ma che mi piacerebbe indovinare.
Aspetto che lui, il genio della lampada si faccia vivo. Mi addormento al sole, finché qualcuno non mi dà un colpetto sulla spalla.
“Signorina, signorina…” dice una voce che pare proveniente da lontano.
FINE
Ma gli occhi rimangono chiusi e la voce svanisce.
I tre desideri – parte seconda
Dopo una giornata di sole e di emicrania spacca cervello ho preso la strada del ritorno. In macchina non sono riuscita a distogliere il pensiero dal terzo desiderio che con abile gioco di parole si faceva desiderare. Arrivata a casa, mi sono domandata se il mal di testa fosse sorto al momento del risveglio o per colpa del genio della lampada. Il quesito è rimasto senza risposta ma non ho risolto il dilemma nemmeno nel sonno. Dunque sono due gli aspetti da definire nella settimana che sta facendo capolino: il terzo desiderio e il motivo dell’emicrania.
Dunque se per il terzo desiderio troverò una maniera per estrarlo dalle pieghe della mente, per l’altro quesito irrisolto qualcuno dirà che in una donna il mal di testa è una normalità come se facesse parte della sua natura. Eppure per me è un’eccezione, perché non ne ho mai sofferto fino a quella domenica mattina! Ho sperato che la notte portasse via con sé questa fastidiosa e depressiva emicrania ma non è stato in realtà il risultato auspicato. Mi sono risvegliata il lunedì mattina con ancora questa antipatica cefalea e mi sono detta ‘Pessimo inizio di settimana‘. Cosa posso farci se sono fatta così.
Durante la colazione, che di norma mi fa cominciare col piede giusto la giornata, non riuscivo a percepire i sapori, perché sono mischiati con i due pensieri fissi, che mi sto trascinando da ieri.
“La settimana non si prospetta favorevole” mi sono detta, mentre mando giù l’ultima sorsata di caffè. E in effetti non si può dire che sia stata esaltante col senno del poi.
I giorni si sono susseguiti monotoni e uguali tra loro, se non fosse stato per Martina e Mario, gli amici di una vita, per Enrico e Deborah, gli amici virtuali sul web, i quali con la loro presenza mi hanno illuminata e rasserenata.
Se domenica non sono riuscita a precisare il terzo desiderio, ci sono arrivata oggi, dopo aver ascoltato la storia di Martina, dopo avere parlato con Mario, dopo avere letto le parole di saluto di Enrico su twitter e la poesia di Deborah sul blog.
Oggi è venerdì e tra due giorni tornerò in riva al lago con la speranza che il genio della lampada si faccia vivo e non mi tenga il broncio. Domenica scorsa ci siamo lasciati con un po’ di ruggine, perché ho messo in dubbio le sue capacità professionali. Eppure doveva comprendere il mio modo scettico di ascoltarlo, perché era la prima volta che mi capitava di parlare con uno della sua specie. E’ vero che c’è stata in passato la storia di Aladino e della lampada magica che strofinandola esaudiva tutti i desideri. Però domenica il genio non è uscito dalla lampada ma è apparso all’improvviso sulla mia spalla. A mia discolpa devo ammettere che l’emicrania che mi trapanava il cranio era il peggio che mi potesse capitare per una che non ne ha mai sofferto.
“Caro Genio della lampada, nota la finezza della g maiuscola, sono una ragazza che ama il mondo e lo vive reale e virtuale. Quindi quando mi sei apparso, mi hai destabilizzato. Avevo delle certezze che i personaggi delle favole vivono solo lì. Però tu comparendo in maniera fisica mi hai resa dubbiosa che voi, protagonisti immaginifici dei libri, siate fisicamente come me”.
Era questa più o meno la chiacchierata che gli volevo fare tra due giorni scarsi ma in un lampo di genio ho fulminato la lampadina delle idee per la troppa foga nella quale ci ho messo per esprimere il famoso terzo desiderio. Dovrò sostituirla, sperando di averne una di scorta.
Procediamo con ordine, perché il lettore si sta spazientando e perché pretende chiarezza, che in questo momento mi manca. Dunque dicevo: ho ascoltato un racconto di Martina l’altro ieri e ho cominciato a ruminare su quanto avevo udito. In realtà, dovrete perdonarmi ma a volte sono troppo impulsiva, la narrazione è avvenuta a spizzichi e bocconi, in più rate e l’ho dovuta assemblare per renderla completa. Non mi pareva vero che potesse succedere una storia simile. Sono stata tentata di non crederle e ho espresso i miei dubbi ieri sera a Mario, mentre prendevamo un aperitivo al Sushi Bar. Questo è il locale più in della movida cittadina. Per avere un posto in piedi si deve sgomitare e talvolta non ci si riesce nemmeno. Giovedì sera, a me piace fare la trasgressiva in questa giornata che nessuno ama. Giovedì sera, come quasi tutti i giovedì sera, salvo impedimenti, io e Mario c’incontriamo al Sushi Bar e non dobbiamo sgomitare per avere un posto dove chiacchierare. Il locale è regolarmente vuoto, se vuoto si può concepire, quando nessuno sta in piedi in attesa e tutti i tavoli sono occupati. Io prendo il mio Negroni, lui un Aperol Spritz. Tutte le volte diciamo di cambiare ma alla fine ordiniamo sempre queste due bevande con arachidi e altre porcherie che non fanno bene alle nostre arterie. Ma non divaghiamo. Gli dico quello che Martina mi aveva detto la sera prima.
‘Volare in formazione, forse è il volo che pratichiamo in un luogo virtuale. Ognuno di noi vola solitario e in silenzio nella sua vita quotidiana ma, quando incontra gli altri in questo spazio senza dimensioni e senza tempo, si sente in formazione e comunica senza neanche guardare o toccare, proprio come fanno gli uccelli, si «sentono»‘.
Inizialmente mi sono messa a ridere, suscitando l’ira di Martina, che ha cambiato argomento. Poi mentre prendevo sonno, ho capito che non dovevo ghignare ironica. Il concetto era terribilmente serio ma ormai la frittata era fatta e non potevo di certo telefonarle alle due di notte per scusarmi dell’inopportuna risata. Avrei rischiato, anzi avrei avuto la certezza di prendermi un vaffa grande come una casa di sei piani. Dunque ne ho parlato con Mario, che mi ha appoggiato una mano sul braccio e mi ha detto: “Forse Martina voleva raccontarti una storia ma tu l’hai gelata con quella risata infelice”. Sì, gli risposi. Martina aveva iniziato a parlarmi di un ragazzo conosciuto sul web e poi aveva virato su quella frase, che a ripensarci bene contiene molte verità. “Beh” ha aggiunto Mario. “Telefonale e chiedile scusa”. Già fatto stamattina ma si è chiusa a riccio, quando ho cercato di domandarle del ragazzo. Ha finto di non avere capito la mia domanda. “Beh! E tu rifargliela. Vedrai che ti risponderà! Ma devi apparire senza incertezze di essere una donna seria e curiosa e non la solita impertinente che sembra voler prendere per i fondelli le persone”. Lui ha ragione sempre, mi capisce al volo e ride, quando faccio le mie battute spiritose, che non devono essere molto efficaci, perché gli altri mi mandano senza mezzi termini e tranquillamente a quel paese.
Stamattina ho seguito il suo consiglio e ho telefonato a Martina, chiedendole nuovamente scusa per mercoledì, perché ho riso sguaiatamente su un’affermazione molto seria. “Mi volevi parlare di …” ho cominciato, mentre sorseggiavo il caffè. “Sì, di Davide…” rispose con un sospiro. Mi sono sentito felice, perché non aveva ringhiato e non mi aveva detto ‘vaffa‘. E comincia a raccontare di questo ragazzo, conosciuto sul web, che vorrebbe vedere e toccare di persona. Sentendo queste parole il terzo desiderio prende una forma e diventa qualcosa di più di una chimera irraggiungibile. Finalmente un raggio di sole è entrato nella mia mente a dissolvere l’emicrania che per tutta la settimana mi aveva fatto cattiva compagnia.
Adesso ho delle certezze corroborate dalla chat con Enrico, che mi ha proposto il poeta che ama. Per descrivere il senso del silenzio usa delle parole meravigliose, almeno questo sembrano alle mie orecchie.
“Quello spirito gentil ch’entro mi rugge
s’attarda, latita, segue l’onde del tempo
e s’allontana”
Non ho avuto il coraggio di chiedergli chi aveva scritto quei versi, per non apparire un’analfabeta della poesia. Però gli devo domandare chi è, perché mi risuonano nella testa come un’onda melodiosa.
Stavamo parlando del silenzio, di come nell’immensità di questo sgorga spontaneo la creatività. Non ho osato contrastarlo, perché affermare, che il silenzio mi mette paura, lo mette di cattivo umore. Ci tengo a Enrico. E’ un compagno virtuale discreto e puntuale. Non manca mai al nostro appuntamento serale. E così è stato anche ieri sera, dopo il rientro dal Sushi Bar.
Dopo quei pochi versi del poeta che non ho riconosciuto ha continuato a parlare di silenzio, di creatività, di voler trasformare gli ideali in atti compiuti, reali e concreti. Mi ha confidato che sta scrivendo qualcosa, che va a strappi.
“Ho tradotto ieri notte le ultime memorie, gli ultimi desideri, le ultime parole costruite intorno a idee ed ideali. Ma in questo momento, nel fresco e silenzioso isolamento della sera, sento fluire lontano lo spirito creativo” mi ha detto.
L’ho consolato, perché l’ispirazione può nascere nel silenzio della notte ma può svanire un istante dopo.
Il terzo desiderio assume la sua forma precisa. Adesso so cosa dire.
All'ospedale
Leggerezze
I tre desideri – parte prima
Per un interno sentiero
voglio viaggiare,
scoprire cose mai viste dagli occhi.
Voglio nutrire la mia coscienza
con pensieri occulti,
perché un giorno vengano
allo scoperto
e possa esprimerli
con chiarezza.
Domenica scorsa ero al lago. Insieme a una terribile emicrania. posato lì sull’asciugamano accanto al mio capo, come un fardello da portare per tutto il giorno, ho visto improvvisamente lui, il genio della lampada. Stava con fare pensieroso in silenzio sulla mia spalla, leggero come un piccolo ciottolo di fiume. Era fumoso, tenue, trasparente, come se con una sagoma troppo netta, tagliente, colorata non volesse offendere la mia vista già provata dal dolore, che mi portavo dal risveglio.
Quando l’ho messo a fuoco, mi ha detto sussurrando: «E’ il tuo turno. Non puoi attendere ancora, devi esprimere i tuoi tre desideri. O adesso o mai più. E’ arrivato il momento».
Devo ammettere che è stato furbo nel presentarsi. Non ha scelto le prime ore della mia giornata per parlare, quelle in cui la mia razionalità è ancora intorpidita dal sonno, dai sogni appena dismessi. In quei frangenti la mia mente non ha dispiegato per bene le ali mentre i pensieri vagano ancora liberi nei meandri delle sinapsi, preoccupati, disperati. Sanno che, se non li fisserò subito, durante la giornata spariranno e si perderanno per sempre. Io sono fatta così e me ne vanto.
Mentre osservo rilassata il genio, lui mi aspetta senza fretta. Rimane in attesa che io decida cosa voglia. La prima riflessione, che si presenta, è che nessun desiderio potrebbe essere soddisfatto, se fosse materiale. E’ un concetto che qualcuno ha espresso con parole, che non saprei descrivere meglio. Dunque è inutile provarci, perché sono consapevole che avrei sprecato un’opportunità.
Il secondo pensiero è una domanda: ‘Ma cosa c’è di immateriale che io desideri raggiungere o che desideri non perdere con tutte le mie forze?‘
Però sto perdendo tempo. Lo vedo, il signore della lampada, che batte il piedino sulla mia spalla impaziente di ascoltare la mia voce ma non riesco a decidermi sui desideri da esprimere.
Poi, come se la mente si fosse svuotata col rumore sordo dell’acqua che scorre veloce verso il basso, arriva il primo desiderio. Mi accorgo che è il più importante, perché li racchiude tutti: la capacità di amare. Lo conosco a fondo, mi è costata lacrime e sofferenze. So che, una volta acquisito, difficilmente non lo perderò. Suvvia, non sorridete con quel sorriso maligno, perché è una richiesta seria. Il genio della lampada cosa ci starebbe a fare se non per darmi la sicurezza di qualcosa che conosco bene e che, proprio per questo, so che sia essenziale per la mia vita?
Lui mi guarda stupito, perché ci ho messo troppo tempo per formulare questo desiderio che è in cima a tutti i pensieri. Annuisce soddisfatto. Adesso si aspetta che vada più rapidamente nel manifestare gli altri due.
Come d’incanto, come se i lacci, che mi tenevano vincolata a terra, si fossero sciolti, ecco arrivare il secondo: ‘è l’avere la capacità di volare con la fantasia, finché avrò energie, finché avrò respiro’. Gli chiederò senza timori che mi dia questa capacità di provare tutte le variazioni e sfumature sul tema. Un volo rapido, lento, alto, basso, radente, sicuro, leggero, virato, planato, veleggiato, battuto, in caduta, saettato, tuffato, rimbalzato, frullato, rifrullato, impennato, librato, a campanile, a onda, a piombo, saettato, spiegato, solitario, ordinato, in riga, a punta, in formazione, repentino. Non ne avrò mai abbastanza. La fantasia non deve avere briglie sul collo
Il genio della lampada mi ha guardato soddisfatto, perché questo secondo desiderio era quello che aveva immaginato.
Di nuovo mi sono inceppata, gli ingranaggi si sono bloccati e non è uscito più niente dalla mia mente. Gli ho chiesto se mi concedeva la settimana che sarebbe cominciata domani per formulare il terzo e conclusivo desiderio. Lui mi ha guardato con un sorriso maligno sulle labbra. ‘Forse‘ è stata la risposta, prima che si dissolvesse in una nuvola di pensieri. Io sono rimasta lì con la testa posata sull’asciugamano in compagnia dell’emicrania a meditare su quel forse, che voleva dire tutto e niente. La prossima domenica sarò ancora qui, in riva al lago, con la speranza che il capo sia sgombro di pensieri negativi.
Sono rimasta tutto il giorno in uno stato di dolorosa percezione di essere inadeguata, perché non sono riuscita a palesare tre parole, tre frasi, tre concetti. Mentre ragionavo su di me mi sono posta la domanda: ‘I primi due desideri rimangono validi oppure no in assenza del terzo?‘ Non è una domanda oziosa la mia. Perché la fantasia non ha volato affatto e la capacità di amare non ha fatto capolino dentro di me. Il genio della lampada ha millantato del credito che non ha?
Mentre riflettevo su questo, ho sentito una fitta più dolorosa nella testa, come se volesse scoppiare. Mi sono girata e l’ho visto che mi punzecchiava infastidito. Ho compreso che è meglio non dubitare di lui.