La prima volta

Erano contenti per la lunga passeggiata e perché avevano capito che il loro rapporto travalicava la semplice amicizia pur non sapendo come potevano esternare queste sensazioni.
Pagato il fiaccheraio per la lunga corsa, Goethe prese la mano di Angelica e la baciò con passione, mentre si accomiatava da lei senza proferire parola.
A passo svelto si diresse verso piazza di Spagna, sparendo ben presto dalla vista della donna, che salita nello studio si abbandonò su un divano piangendo a dirotto.
“Ormai l’incanto è svanito e nulla più potrà ricreare l’atmosfera precedente. Sono stata troppo fredda nei suoi confronti e questo mi ha persa. Ahimè, come potrò finire il ritratto di lui?” disse ad alta voce tra i singhiozzi guardando il quadro appena abbozzato, che stava triste sul cavalletto “Che ne faccio di questa tela?”
Un bellissimo tramonto romano illuminava di rosso la stanza, creando effetti ottici e cromatici insoliti sulle pareti.
Angelica si riscosse e si asciugò le lacrime, si mise il mantello e si preparò ad uscire, quando sentì bussare alla porta.
“Chi è mai a quest’ora che bussa? Devo aprire e guardare chi è oppure fingere che qui non ci sia nessuno” pensava mentre qualcosa la incitava ad aprire l’uscio.
Il bussare si fece insistente, mentre le parve di udire la sua voce.
“Non è possibile!” pensò, “Se ne è andato! Forse la stanchezza della lunga passeggiata mi fa sentire qualcosa che non è. Devo aprire oppure no?”
Si avvicinò alla porta e con voce tremula chiese: “Chi è che bussa alla mia porta?”
“Sono Wolfgang. Apritemi, per favore. Vorrei scusarmi per essere stato un villano, andandomene senza salutarVi adeguatamente”.
Col cuore in tumulto e la mente offuscata dall’ansia aprì il battente della porta e lo vide lì immobile avvolto dall’ampio mantello bianco con l’immancabile capello a tesa larga in testa.
Angelica si precipitò fuori baciandolo sulla bocca, mentre il poeta la strinse a sé e la spinse con dolcezza, ma con fermezza dentro lo studio, chiudendo la porta.
Lei, senza opporre resistenza, si lasciò sfilare il mantello, che fu gettato su una sedia insieme a quello di lui e al suo capello, conducendolo all’ampio divano posto dinnanzi ad una finestra.

Fromm sind wir liebende, still verehren wir alle Daemonen,
 
Wuenschen uns jeglichen Gott, jegliche Goettin geneigt.
  Und so gleichen wir euch, o roemische Sieger!

Goethe pronunciava queste parole mentre si accomodavano sul divano.
Angelica rapita si lasciava trasportare dai sensi e lo baciava con ardore, dicendo dolci parole amorose.
Così i due amanti, incuranti del buio incipiente, consumarono il rapporto carnale tra baci, sussurri appena accennati e dolci promesse di amore senza sentire né i morsi della fame, né il freddo pungente della stanza.
Era ormai sera inoltrata quando uscirono dallo studio avviandosi verso la trattoria per consumare la cena serale.
Entrati si sistemarono in un tavolo d’angolo appartato e discreto, lontano dagli altri commensali, mentre un grande frastuono sovrastava le loro voci. Erano suoni allegri ed alterati dalle abbondanti libagioni, mentre nel camino accanto ai due amanti la legna scoppiettava piacevolmente, riscaldando l’ambiente.
I loro cuori erano caldi, come i corpi, mentre i sensi erano appagati.
Parlavano sottovoce della giornata trascorsa, mentre lei ripeteva i versi che il poeta aveva declamato durante la passeggiata e nello studio.
Il poeta chiese all’oste della carta e una matita per trascrivere quelle rime che svanissero dalle loro menti.
Lei era felice per il rapporto amoroso appena consumato, essendo ormai da tempo che il suo corpo non aveva goduto delle gioie del sesso.
Tutti i dubbi erano svaniti e i timori per il tradimento compiuto si erano disciolti, lasciando il posto alla volontà di continuare questa relazione amorosa anche nei prossimi giorni, nelle settimane successive, finché la comunanza degli affetti non sarebbe cessata.
Angelica era talmente presa da quel fiume di pensieri straripante che faticava ad ascoltare Goethe e quello che le diceva.
Rispondeva a monosillabi, generando in lui stupore ed incredulità, perché non si aspettava una simile reazione, come se non ascoltasse le sue parole.

Ob ich Dich liebe weiss ich nicht;
  Seh ich nur eimal dein Gesicht,
  Seh Dir in’s Auge nur einmal,
  Frei wird mein Herz von aller Qual;
  Gott weiss, wie mir so wohl geschicht!
 
Ob ich Dich liebe, weiss ich nicht.
“Questa breve poesia l’ho composta quando avevo 21 anni e ora la dedico a Voi, che mi fate compagnia ed allietate la mia vista. Voi siete splendida e dolce, dalla personalità intensa e forte, come tanti amici comuni Vi avevano descritta”.
“E’ bella. Come s’intitola? O non ha nome?” chiese Angelica, “Siete veramente bravo ed ispirato nelle composizioni poetiche. Sapete dove cogliere i fiori del bello per il mio giardino!”
L’oste guardava di sottecchi i due amanti, che invece di gustare i suoi piatti parlavano fitto tra di loro in una lingua che non capiva. Aveva visto lui altre volte in compagnia di uomini e di donne, ma lei era un volto sconosciuto.
“E’ bella quella donna!” pensava l’oste appoggiato al bancone ben attento a correre per servire i commensali, “Chi sa da dove viene. E’ la prima volta che entra nella mia osteria. Ha un tocco di classe ben superiore a lui, che mi sembra più giovane. Però sono una bella coppia affiatata da come parlano e si guardano”.
Non avevano fame, toccando a malapena i cibi preparati per loro, perché essa era stata soddisfatta prima nello studio di Angelica.
La serata svolgeva ormai al termine e nella grande sala da pranzo erano rimasti solo loro e un paio di persone alticce per il molto vino bevuto, che parlavano a voce alta con toni striduli e impastati dal troppo bere.
Chiamato l’oste per pagare il conto, Goethe si alzò aiutando Angelica ad indossare il mantello e l’ampio capello ornato di fiori.
La donna accettò volentieri che il poeta l’accompagnasse verso la casa, perché la strada era mal illuminata da lampioni ad olio, che emettevano una fioca luce.
Come fantasmi scivolarono via lasciando una pallida ombra sui muri, finché giunti sull’uscio di casa si scambiarono l’ultimo bacio della giornata prima che il portone si chiudesse alle spalle di Angelica.

(parte settima)

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Ordine e caos: magnifiche ossessioni

Ordine e caos: magnifiche ossessioni

Sottotitolo: L’ansia di pulizia diventa un business, ma la virtù della confusione regna sovrana

Ordine e caos, caos e ordine: croce e delizia di tutti noi. Chi non ha subito il fascino del disordine o l‘ansia di rimettere tutto in ordine? Chi non ha affermato almeno una volta, parlando dell’amica con una punto di ironia: è una maniaca dell’ordine oppure non ho mai visto una persona così disordinata? Ognuno di noi ha un proprio caos ordinato sia mentale sia fisico: riponiamo gli oggetti secondo un ordine, che agli occhi degli altri sembra disordine, perché poi siamo in grado di recuperarli velocemente all’interno di un cassetto o sulla scrivania.
Come al solito gli americani hanno catalogato il caos organizzato, hanno scritto libri sul disordine, hanno creato siti web sull’argomento. Un fotografo americano si è divertito a raccogliere per dieci anni tutti i pizzini che uomini e donne hanno disseminato nei parcheggi dei supermercati e ne scritto un libro, che è uscito a maggio in America (“A perfect Mess”). Qualcuno si è divertito a definire le persone secondo il seguente schema.
CICLICI: sono persone che amano vivere nel caos, per poi rimettere tutto in ordine.
FURTIVI: fingono l’ordine, ma in realtà sono disordinati ovvero occultano il loro senso di colpa.
SATELLITARI: amano vivere in mezzo al disordine perenne e se non c’è lo creano.
PATOLOGICI: sono i maniaci dell’ordine, che può trasformarsi in un’ossessione.

Qualcuno s’è inventata una celebrazione annuale: il mese di gennaio di ogni anno è dedicato al riordino.
In Italia è uscito a marzo il libro “Il disordine come stile di vita” – edito dalla Rizzoli -, che teorizza il disordine in contrapposizione alla mania dell’ordine. Si sostiene che i disordinati hanno un’adattabilità che i “precisini” non hanno. Il disordinato è creativo, ha un rigore logico del tutto assente nelle persone ordinate.
Siamo alla paranoia!
Sono convinto che ognuno di noi sia disordinato per natura e che organizza il proprio ritmo di vita secondo degli schemi logici complessi, che non sono compresi dagli altri perché differiscono tra loro. In questo senso di caos organizzato ritrovano con facilità il giusto percorso per raggiungere gli obiettivi prefissati.

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Roma e il suo fascino romantico

La carrozza si fermò dopo qualche istante, mentre Goethe si ergeva dal sedile osservando con cura tutti quei ruderi pieni di storia una volta ritti ora malinconicamente ricoperti da erbacce e comodi sedili per i gatti.
E recitò ad alta voce :
Saget Steine mir an, o! sprecht, ihr hohen Palaeste.

 Strassen redet ein Wort! Genius regst du dich nicht?
Il vetturino rimase interdetto e pensò: ”Sono tutti suonati questi stranieri! Non parlano italiano, non capiscono il romano e sproloquiono in ostrogoto! Speriamo che mi paghino i quattro soldi pattuiti.”
Continuò a borbottare, guardando il poeta che si sporgeva dalla carrozza in attesa di nuove istruzioni.
Angelica si destò dal dolce tepore che la presenza di Goethe le assicurava e si pose eretta sul sedile ammirando quei ruderi vecchi di oltre un millenio, mentre lo ascoltava a declamare i versi.
“Sono appropriati i Vostri versi e sono meravigliosamente belli!”
Goethe continuò a parlare con enfasi.
Ja es ist alles beseelt in deinen heilegen Mauern

 Ewige Roma, nur mir schweiget noch alles so still.
E rivolgendosi a lei, disse: “Vi piacciono, mia dolce Angelica questi versi? Li ho pensati in questo momento vedendo questi marmi e colonne giacere a terra. Peccato non avere qualcosa per trascriverli, perché non vorrei dimenticarli. Pensate, mia bella compagna, di ricordarli fino a quando non torniamo da Voi?”
La donna guardando negli occhi Goethe rispose: “Come potrei dimenticare la sublime altezza di queste parole? Hanno colpito direttamente il mio cuore e la mente! Non temete, li ripeterò in silenzio per tutto il viaggio!”
Il pallido sole di Dicembre illuminava quei ruderi, tra cui si aggiravano gatti ben pasciutti, mentre altri pigramente si scaldavano sdraiati su di essi.
I minuti passavano e il fiaccheraio cominciava a dare segni di impazienza finché disse in romanesco: “Andiamo? Questa sosta vi costa altri due soldi!”
Goethe si riscosse dalla contemplazione delle rovine sentendo la voce del vetturino senza però capire nulla di quello che stava dicendo.
Angelica intuendo che il poeta non aveva compreso nulla gli fece una traduzione sommaria del discorso, anche perché aveva capito che era arrivato il momento di andare e che la sosta avrebbe fatto lievitare il costo della passeggiata.
Ricevuto un cenno d’assenso col capo, il fiaccheraio fece schioccare la frusta in aria, incitando il cavallo a riprendere l’andatura.
La carrozza si mosse con lentezza, mentre i due amanti si sistemarono sotto la coperta ben stretti l’uno all’altra.
Angelica si sentiva serena vicino a lui e percepiva un calore come mai aveva ricevuto da un uomo, ripensando al loro primo incontro di quel lontano pomeriggio di Novembre. Aveva capito subito che quell’uomo gli piaceva, ma l’educazione cattolica ricevuta e la frequentazione di alti dignitari della corte papale la frenavano e costituivano un potente blocco inibitorio nella sua personalità.
Era vero che aveva avuto occasionali avventure durate al massimo un giorno, ma erano state solo appagamenti dei suoi desideri carnali e tutto era finito subito, confessando il suo peccato il giorno dopo e facendo penitenza per alcuni giorni.
Questa volta era diverso, perché il tradimento, anche se solo virtuale, ormai durava da circa un mese e non aveva trovato il coraggio di parlarne col suo confessore, peccando ancora di più.
“Signore, abbi pietà della mia anima perché ho tanto peccato! Desidero quest’uomo che non è mio marito e so di peccare ancora di più!” così ragionava mentre era appoggiata col capo sul petto del poeta “E’ dolce e risoluto allo stesso tempo. Si esprime in maniera sublime toccando le corde più intime del mio cuore. La mia risolutezza di resistere alla tentazione carnale diventa sempre più flebile e credo che entro un giorno o due sarò io stessa che lo cercherò!”
Goethe accarezzava con dolcezza il viso e i capelli di Angelica, sentendo il suo corpo fremere di piacere, e sospirava: “Questa dolce e fragile donna emana una sensualità veramente insolita, ma sembra casta e fedele al marito. Eppure dopo il primo incontro mi pareva che avesse un desiderio forte per me. Forse mi sono sbagliato oppure sono stato troppo frettoloso ed irruente. Chissà se questa passeggiata la sgelerà come neve al sole.”
La carrozza dondolava i due amanti, che si desideravano l’uno verso l’altro, ma non riuscivano a trovare quell’intimità che provavano nel loro animo.
Alle prime ore del pomeriggio Goethe e Angelica fecero ritorno allo studio di via Sistina.

(parte sesta)

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La felicità sognata

Il poeta aveva preso l’abitudine di venire alla mattina nello studio, perché sentiva la forte attrazione che lei esercitava.
La sua presenza distraeva Angelica, perché le leggeva quello che stava scrivendo e ne pretendeva l’attenzione.
Aveva ripreso la scrittura del Faust, interrotto più volte, e annotava le impressioni e i ricordi del lungo viaggio attraverso la penisola, dove aveva toccato Milano, Venezia, Firenze e tante altre località minori.
Desiderava che la pittrice lo accompagnasse in giro per Roma per ammirare le antiche vestigia romane e le innumerevoli chiese sparse un po’ ovunque, chiedendole il suo parere e le sue sensazioni di fronte ad un capitelo rotolato a terra, ad una statua ridotta in frammenti.
Angelica accantonò l’autoritratto, perché voleva ritrarre Goethe, mentre lei lo ammirava seduto sulla poltrona di raso rosso, ma il soggetto era inquieto e non restava fermo in posa.
“Mio caro, Wolfgang, non siete mai fermo. Come posso ritrarVi?”
“Mia adorata dama, non posso restare passivo, mentre Vi guardo col pennello in mano. Voi siete troppo bella e seducente per non esternare il mio sentimento verso di Voi. Suvvia, non siate inquieta con me, oggi è troppo bella come giornata per restare chiusi qui dentro. Usciamo e godiamoci questo splendido sole romano.”
Si avvicinò ad Angelica, le prese il pennello deponendolo in barattolo di colore e le baciò le guance con ardore e passione senza che lei opponesse resistenza.
La donna sentiva il desiderio dentro di sé crescere giorno dopo giorno, ma era combattuta tra la voglia di trasgredire e la fedeltà a quel marito tanto mediocre quanto meschino. Altre volte lo aveva tradito, ma era durato la spazio di un mattino: quella che si era soliti dire che era una scappatella. Consisteva in qualche bacio furtivo e veloce senza passione, molto raramente si andava oltre nelle effusioni amorose. Tutto sommato erano peccati veniali, quelli che aveva commesso nel passato.
Questa volta era diverso, perché sentiva crescere dentro di sé un sentimento che non aveva provato prima, forse mai nei suoi 45 anni di vita. Sentiva il trasporto verso livelli più alti tanto da averne paura.
Tra loro il tutto si era limitato a qualche bacio appassionato, a qualche tenerezza, che a stento era riuscita a controllare la libido, ma sapeva che presto sarebbe capitolata.
Goethe aveva avuto molte donne nella sua vita amanti segrete oppure no, non disdegnava di accompagnarsi anche a donne di strada. Questa sua fama di donnaiolo era ormai risaputa nella cerchia degli amici e conoscenti. Così anche Angelica sapeva della particolare inclinazione del poeta, perché ne aveva sentito parlare a lungo e con dovizia di dettagli dalla nutrita schiera di tedeschi che vivevano a Roma e che non mancavano di invitarla alle loro feste o che frequentavano il suo atelier.
Però l’educazione e la frequentazione degli ecclesiasti la rendeva dubbiosa ed incerta se doveva lasciare libera le sue inclinazioni oppure mortificare la carne come un penitente.
Così quando quella mattina uscirono per le strade di Roma, sentì che il muro che aveva dentro di sé si stava sgretolando.
Era una fredda giornata di Dicembre allietata da un bel sole, che a stento riscaldava i corpi, quando i due amanti si avviarono verso Piazza di Spagna gremita di bancarelle e di giostre per l’imminente Natale.
Angelica si appoggiava sul braccio del poeta con tenerezza ed affetto sentendo il calore che emanava e sospirava.
“Mein Gott! Cosa devo fare? Quest’uomo mi piace e so di peccare, finendo i miei giorni all’inferno. Ma la carne reclama il suo dono, come posso negarglielo? Se cadrò, e cadrò sicuramente, in peccato, come potrò redimermi?” Così la donna pensava mentre con passo svelto seguiva Goethe tra la folla delle bancarelle.
Giunsero con una certa fatica in una delle vie che si dipartivano dalla piazza, dove sostava un fiaccheraio insonnolito e avvolto in un pesante mantello verde.
Il cavallo era circondato da una leggera nebbiolina prodotta dal sudore che condensava nel freddo della mattina ed aspettava che il suo padrone raccogliesse qualche cliente per muoversi e riscaldarsi un po’.
Goethe tirò per il mantello l’uomo e gli disse. “Vorremmo che lei ci portasse verso l’Appia ad ammirare qualche capitello romano. Ci dià una coperta ampia e calda per ripararci dal freddo durante la passeggiata. Mi raccomando vada piano, perché desideriamo ammirare il paesaggio”.
Il vetturino si riscosse dal torpore in cui era caduto, guardò i due amanti e allungò al poeta una coperta un po’ logora e non troppo pulita senza degnarsi di aiutarli a salire e sistemarsi sulla carozza.
Angelica si rannicchiò fra le braccia di Goethe, che la coprì con la coperta stringendola con passione.
Il lento incedere del cavallo trascinava la carrozza che sobbalzava sulle strade mal lastricate con grande rumore, mentre i due amanti erano sballottati sul sedile da dove guardavano fuori case, chiese e ruderi romani.
La donna era sempre di più in un forte tumulto interiore tra passione montante e volontà di essere fedele, mentre la vicinanza con l’uomo che l’attraeva incrinava sempre più la sua fermezza a non tradire il coniuge.
Mille pensieri affollavano la sua mente e molte congetture sul suo futuro apparivano e scomparivano come la folgore tanto che non riusciva più a concentrarsi sul suo lavoro, che stava trascurando vergognosamente.
“E’ bello e forte “ diceva in silenzio “ e io lo desidero tanto. Tutte le notti mi compare in sogno come un semidio o un novello Apollo popolando la mia mente con la sua immagine. E’ dolce e un po’ timido, come il personaggio della sua opera, Werther.
Quanto lo amo! Come vorrei essere posseduta da lui!”
Il fiaccheraio, intuendo che la coppia volesse avere intimità e non avesse nessuna fretta, fece un lungo giro passando dai fori imperiali, dove Goethe chiese in un italiano stentato di fermarsi per qualche minuto.

(parte quinta)

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Il giorno dopo

Goethe s’aggiustò il mantello ed ad ampie falcate si diresse verso Angelica, che era rimasta lì come pietrificata. Non sapeva se era contenta che lui fosse lì oppure se desiderava non incontrarlo.
“Solo pochi istanti fa ho sperato che lui fosse qui ad aspettarmi, ma ora sono presa dal panico di vederlo! Cosa devo fare? Sono in confusione. No so che cosa fare! Mein Gott! Cosa debbo fare? Helfe mir, du lieber Gott!”
Mentre lei colta dal panico e in stato quasi confusionale era lì incapace di muovere un solo muscolo del corpo, il poeta arrivò e presale una mano la baciò con passione dicendole “Mia cara amica, sono veramente felice di incontrarVi! Oggi è una giornata radiosa per me, vedendoVi così splendida! Avete trascorso una serena notte?”
Tacque per un istante osservando la donna, che aveva gli occhi un po’ smarriti ed appannati dall’ansia.
“Mi dovrete scusare se sono stato così impulsivo senza lasciarVi il tempo di respirare dopo la passeggiata verso il Vostro studio”.
Angelica si riprese e tratto un profondo sospiro rispose cautamente ma con la voce velata dalla passione: “Sono io che sono stata scortese con Voi, perché non ho risposto al Vostro nobile saluto. Non è rispettoso lasciare un ospite così illustre fuori dall’uscio. Venite ed entrate con me. Voi siete il benvenuto in questa casa!”
Prese per mano il poeta e lo condusse su per le scale, dopo avere attraversato il grande portone aperto sulla via.
Lo studio era stato rigovenato e uno splendido sole illuminava la tela appoggiata sul grande cavalletto. La figura della donna, sia pure appena abbozzata, risplendeva sotto i raggi del sole.
Goethe si fermò sulla porta ammirando il quadro incompleto e disse: “Voi siete veramente abile nel ritrattare i volti delle persone. Siete riuscita con pochi tratti di pennello rappresentare la Vostra radiosa bellezza.”
Poi entrò con passo deciso nella stanza, aiutando Angelica a togliersi il mantello che l’avvolgeva e che lasciava visibile il solo viso.
Si sedette sulla poltrona di raso rosso, mentre la pittrice si apprestava a mescolare i colori che avrebbe usato ed a scegliere i pennelli pù adatti al quadro.
Angelica si muoveva con leggerezza come se nessuno fosse lì intento ad osservarla, aveva ripreso il controllo di sé ed era raggiante per il corteggiamento discreto, ma evidente di Goethe.
Aveva 45 anni e aveva il timore che i giovani uomini non la degnassero più con sguardi maliziosi, preferendo le donne più giovani di lei. Sentiva che la passione lentamente svaniva, perché sempre meno il desiderio si faceva strada dentro di lei. Non mancavano i corteggiatori, spesso petulanti ed insistenti, ma erano sempre più anziani, mentre lei preferiva i giovani, che erano sempre più radi.
Ora aveva dinnanzi a lei un giovane uomo, famoso e amante delle belle donne, con cui si accompagnava spesso, ed era lì a corteggiarla, a lusingare la sua vanità di femmina  Sentiva il desiderio che saliva verso il suo viso e aveva la certezza che era ancora invitante.

Si volse verso il poeta, che non staccava lo sguardo dal suo viso, dicendo: “Voi siete molto paziente con me, che ieri sera sono stata fredda. Oggi sarà un giorno diverso e se il Vostro invito a pranzare è ancora valido, sarà per me un vero piacere seguirVi nell’osteria indicata.”
Tacque ed aspettò con ansia che Goethe dicesse qualcosa, mentre il cuore in tumulto batteva a mille per la passione.
Il poeta in silenzio s’alzò e prese fra le braccia Angelica, dopo avere tolto il pennello e la tavolozza dalla sue mani, baciandola con passione.
La donna lasciò fare e rispose con analogo slancio assaporando il lungo bacio, mentre il viso pallido acquistava colore sulle gote.
I due amanti erano in piedi nel centro della stanza e un silenzio carico di tensione aleggiava a mezz’aria. Erano una splendida coppia e sembravano fatti uno per l’altro.
Si staccarono e guardandosi negli occhi scoppiarono in un riso allegro e festoso, mentre Angelica diceva. “Maestro, Voi siete abile anche nell’arte amatoria e sapete come cogliere i fiori della bellezza”.
Goethe di rimando rispose “Voi siete una splendida rosa che matura sotto il sole di Roma! E’ piacevole cogliere così abbaglianti fiori in questo giardino rigoglioso e curato. Io sarò un servo devoto per Voi e se mi farete compagnia, Vi condurrò per mano in quella osteria di cui Vi ho accennato ieri sera”.
La donna, che non aspettava altro che l’invito fosse rinnovato, disse prontamente: “Siete galante e discreto e non posso non accettare una lusinga così ben presentata. Sarà un vero piacere farVi compagnia a pranzo per conversare amabilmente con Voi così abile nell’eloquio. Quando vorrete, io sono pronta”.
Si pulì le mani in uno straccio, si sistemò il vestito, mentre osservava le reazioni di Goethe, che non si aspettava tanta arrendevolezza.
Però la donna gli piaceva e desiderava che diventasse la sua amante segreta.
Dopo aver riflettuto per un attimo disse con un dolce sorriso. “Voi siete la benvenuta al mio fianco e non aspettavo altro che il Vostro consenso. Quindi mettiamo i mantelli e incamminiamoci verso il Tevere, mentre osserviamo lo splendido paesaggio di Roma.”
Indossati i mantelli e richiusa la porta alle loro spalle, si incamminarono uno accanto all’altro verso l’osteria vicino al Tevere, parlando allegramente.
Così iniziò la felicità sognata da entrambi.

(parte quarta)

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L'attesa

Il giorno seguente Goethe si alzò di buon’ora, perché voleva tornare là. Era rimasto colpito dalla delicata bellezza di Angelica e dalla naturale modestia della più famosa pittrice di Roma.
Uscì dalla locanda, dove alloggiava, nei pressi di Castel Sant’Angelo e con passo svelto s’incamminò verso via Sistina.
Le vie erano già animate da molti carrettieri, che portavano le loro merci al mercato, e dovette fare attenzione per non finire sotto le ruote dei loro carri.
La giornata era bella, come poteva esserlo solo a Roma in quel periodo:un cielo terso con qualche nuvola sparsa in qua e in là, un tiepido sole autunnale, l’aria frizzante del mattino.
Si fermò lungo il tragitto ad ammirare qualche vestigia dell’antica Roma, fece qualche schizzo sul blocco che portava sempre con lui.
La camminata gli aveva messo appetito ed allegria, perché tra non molto sarebbe tornato lì, nello studio di Angelica. Sostò ad un angolo per comprare qualche rossa mela da mangiare prima di arrivare in via Sistina.
Ripensava all’incontro di ieri che aveva accesso dentro di lui la passione.
“Lei,” disse a sottovoce “ lei … è una giovane donna attraente e famosa, che è desiderata da tanti uomini ed invisa a tante donne. Lei gradisce la mia compagnia? Lei…” continuava a parlare da solo mentre di tanto in tanto mordeva la mela che aveva in mano, “Lei ha accettato il mio invito perché io sono Goethe o perché le piaccio?”
Parlava ormai ad alta voce e i passanti guardavano quello straniero avvolto nell’ampio mantello e con un capello a falde larghe in testa come se fosse un matto scappato dal manicomio. Non capivano nulla di quello che diceva.
“Sie ist eine junge Dame. Sie ist eine beruehmte und bekannste Malerin ihrer Zeit….” Scuotevano la testa e commentavano in romanesco quello strano individuo.
Goethe continuava come se quei passanti ignoranti fossero dei fantasmi, parlando in tedesco sempre più ad alta voce.
“Mein ist das getraeumtes Glueck. Agelica, wo ist Sie? Warte mir, ich komme frueh!..”
Più parlava, più affrettava il passo, più attirava gli guardi incuriositi della gente per strada.
Angelica, come al solito, indugiava nel letto, dove dormiva ormai da tempo da sola, ripensando all’incontro con il grande poeta.
Lei era famosa e ricercata e non c’era nobile o ricco o prelato che non desiderasse essere ritratto da lei. Molte donne giovane e vecchie venivano al suo lussuoso atelier per essere dipinte sulla tela, provando una sincera invidia verso quella donna non ancora sfiorita dall’età. Aveva innumerevoli corteggiatori tra cui poteva scegliere a suo piacimento, ma ora era sola e Goethe era un bel uomo giovane e famoso.
Quella notte aveva dormito in preda all’agitazione sognando lui, che le era accanto nel letto. Più di una volta aveva allungato una mano sperando di trovare il suo corpo, ma si era svegliata stringendo solo il lenzuolo. La voglia, il desiderio era cresciuto di pari passo con la stanchezza della notte insonne rimpiangendo di avere rimandato al giorno dopo l’invito.
“Perché sono stata così sciocca? Perché non ho accettato l’invito all’osteria? Perché …” si domandava mentre sentiva il leggero fruscio delle lenzuola sulle braccia e sul viso, “Perché ho avuto paura di andare? E se oggi non venisse, come potrei fare? Se non venisse più, perché io l’ho respinto, come potrei richiamarlo vicino a me?”
Quanti perché Angelica ripeteva ad alta voce, quando sentì un bussare discreto alla porta e disse  “Avanti. Vieni pure Maria.”
“Signora, la porta è chiusa a chiave”. Angelica uscì dal caldo abbraccio del cuscino e rabbrividendo apri la porta, lasciando entrare la donna che aveva in mano un vassoio con la colazione. Si avvicinò al tavolino nel centro della stanza posandolo,mentre liberava le finestre dai pesanti tendaggi. Un bel raggio di sole inondò la stanza, costringendo Angelica a chiudere gli occhi, mentre rapida tornava al caldo del letto.
Ormai l’incanto della notte era strappato e a malincuore doveva uscire dalla lenzuola per affrontare la nuova giornata.
Maria l’aiutò ad infilare la pesante vestaglia ricamata colore cremisi, a mettere le pantofole di panno foderate con morbido pelo di agnello, a sistemarsi sulla sedia sul tavolo apparecchiato con la colazione.
Non aveva fame, non provava gioia nel sorseggiare il latte caldo, né il pane dolce sembrava dolce, insomma non c’era nessun piacere nel consumare la colazione. La mente riandava di continuo alla giornata precedente, a quell’incontro tanto stimolante, al timore che lui non venisse nello studio, al pensiero di quello invito non accettato prontamente.
Maria premurosa le chiese se avesse dormito male nella notte senza ricevere risposta. Cominciò a preparare la stanza da bagno accendendo il fuoco nel camino per riscaldare l’ambiente, a portare brocche di acqua calda e fumante per lavare la sua signora.
Era ormai quasi mezzogiorno, quando Angelica si avviò verso lo studio di Via Sistina, che distava pochi passi dalla sua bella casa posta un poco più in alto da dove si poteva osservare quasi tutta la città.
E lo vide avvolto nel suo mantello che camminava avanti e indietro davanti al portone che nascondeva al suo interno l’atelier.
Ebbe un piccolo mancamento e stava per girarsi e tornare sui suoi passi, quando lui la vide.

(parte terza)

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La relazione segreta di Goethe

Uno degli aspetti meno conosciuti al grande pubblico su Wolfang Goethe sono le lettere tra Angelica Kauffmann e il poeta e il rapporto d’amicizia tra i due, durato oltre due anni
Uno studio di Ursula Naumann, uscito in Germania e un bel articolo di Paola Sorge su R2 Cultura del 7 Novembre 2007 ci descrivono le relazioni tra questi due personaggi, che si sono conosciuti a Roma durante il famoso “Viaggio in Italia” di Goethe.
Lei era una famosa pittrice, che operava a Roma nella seconda metà del 700. Di nascita svizzera ma cittadina del mondo, la sua fama internazionale largamente affermata non era dovuta solamente a meriti artistici ma era anche il risultato di una personalità interessante sotto il profilo culturale e sociale.
"Nessuno ha mai indovinato che il mio corpo era intento e teso, nessuno ha mai indovinato il bisogno che provavo di offrire il mio essere, completamente, ad un altro essere". Era lo sfogo di Angelica Kauffmann, ammirata da re, principi, personaggi famosi, che frequentavano il suo atelier a Roma. Era bella, di una bellezza rara tanto da attirare verso di lei tanti uomini, compreso Goethe, quando soggiornò a Roma.
Si era parlato di amicizia tra lo scrittore e la pittrice, ma qualcuno sta insinuando che fosse amore. Lei aveva 45 anni e lui 8 anni di meno, ma lei, come narrano le cronache, era ancora meravigliosamente bella. Gli fece un ritratto, di cui Goethe non fu particolarmente entusiasta.
 

Roma, il 5 Agosto 1788, martedì

Lei dirà ancora una volta dei sogni, ma io so che Lei mi perdonerà. La notte scorsa mi sono sognata che Lei era tornato. La vedevo arrivare da lontano e Le sono corsa incontro sino alla porta di casa, ho afferrato entrambe le sue mani e le ho premute sul mio cuore così forte che mi sono svegliata, me la sono presa con me stessa per avere sentito la mia felicità sognata con troppa violenza tanto da abbreviarmi così il piacere. Ma sono contenta di questa giornata perché oggi ho ricevuto la Sua cara lettera del 19 luglio. Il fatto che Lei nonostante le tante distrazioni, gli affari e gli amici ritorni con lo spirito a Roma, non mi meraviglia,che Lei si ricordi di me è un segno della Sua bontà per la quale Le sono infinitamente grata. Mi rallegra il fatto che Lei stia bene e Le auguro una ininterrotta serie di giorni piacevoli.Io vivo la vita con la speranza di una migliore. Caro amico, quandoci vedremo di nuovo? Vivo sempre tra timore e speranza è purtroppo è più timore che speranza, ma debbo tacere, a che serve lamentarmi. Lei vuole sapere  a cosa sto lavorando. Ho finito le seguenti opere: il ritratto di Lady Harvey, il ritratto del cardinale Rezzonico per il senatore e oggi ho terminato il Virgilio. Sono molto contenta della preparazione in chiaroscuro, il pezzo ha molta forza e i colori sono riusciti molto diafani. Ho lavorato abbastanza e cerco di fare del mio meglio – per fare questo devo immaginare che è domenica e che Lei viene nel mio studio – ah, i bei tempi! La lettera del suo giovane amico mi ha molto rallegrato, mi fa piacere anche sapere che il signor Keiser tornerà e che conoscerò anche il signor Heider. Ma Lei non verrà,questo è il eterno dolore e la mia angoscia. Stia bene e non si dimentichi di me.
La onoro e La adoro con tutto il cuore.
Angelica.

 

Così Angelica scriveva a Wolfang che era Weimar.
Una lettera traboccante di pathos e di amore represso, una delle dodici che si salvarono dalla distruzione dopo che nel 1789 si sono interrotti i contatti epistolari tra loro.

(parte prima)

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Mal di pietre

Mal di pietre di Milena Agus

 Alcune sere stavo discettando dottamente sull’italiano e le sue regole con una carissima amica sarda, perché ormai quasi più nessuno scrive in modo sintatticamente grammaticalmente corretto racconti e romanzi.
Quando mi dice che una scrittrice sarda, Milena Agus, ha scritto un racconto ‘Mal di pietre’ in modo quasi impeccabile dal punto di vista linguistico e mi invitava a leggerlo.
Spinto dalla curiosità ho fatto un passaggioin libreria per acquistarlo, con una certa difficoltà non essendo più una novità.
Sabato pomeriggio e sera non avevndo niente di interessante da fare, li ho dedicati alla sua lettura. Come era ovvio la lettura del ‘bugiardino’ di quarta pagina di copertina non raccontava il vero e faceva balenare quali scenari piccanti, che in realtà non ci sono per niente.
La domenica mattina ho letto che il libro era arrivato secondo al Premio Campiello riportando le interviste con la scrittrice. Diceva che “scriveva per insoddisfazione” e “ha descritto una perdente, che non sapeva di essere felice”.
Sembrano più affermazioni ad uso mediatico che corrispondenti al suo pensiero.
Si scrive per due motivi
1 – si scrive per mestiere e guadagnarsi da vivere (come ha detto la vincitrice);
2 – si scrive perché la mente elabora quello che i cinque sensi trasmettono.
Vie intermedie per me non esistono. Nel primo caso nascono romanzi e racconti ineccepibili dal punto di vista strutturale, ma aridi e privi di sentimenti e commercialmente ineccepibili. Nel secondo la difficoltà consiste nel esprimere le sensazioni nel modo corretto in maniera tale che possano essere compresi; però è un prodotto difficle da piazzare.
Ergo nessuno scrive per insoddisfazione. Così come una perdente (o un perdente) non potrà mai essere felice, sarebbe l’equivalente del dire ‘mi do le martellate sulle mani e dico che è divertente’.
Chiusa questa lunga parentesi, torniamo al libro. Ci sono due universi uno femminile, perdente e negativo, ed uno maschile, un po’indecifrabile, ma che sembra il vero protagonista del racconto.
La voce narrante del libro è la nipote della nonna paterna, che dovrebbe essere la reale protagonista. Accanto a lei ci sono la bisnonna paterna, la nonna materna, la madre e le prozie.
La madre sembra vivere in un mondo tutto suo fatto di sogni e al servizio del marito, musicista di fama. L’unico sussulto è quando va alla ricerca del padre mai conosciuto.
La bisnonna è una donna bisbetica e gretta come lo erano un tempo nelle realtà rurali. Non desta nessuna compassione.
Le prozie sono caricature di donne specialmente nell’episodio dell’incontro con la futura moglie del nipote.
La nonna materna, attorno cui ruota l’intero libro, è una figura scialba che si illumina solo quando fa “le prestazioni” al marito e al Reduce. E’ la classica perdente, che accetta il suo ruolo senza protestare, ma che sia felice senza saperlo, quello mai. E’ un vero peccato, perché la scrittrice avrebbe potuto scavare maggiormente la psicologia.
La nonna materna desta più ammirazione perché ragazza madre in un periodo e in un contesto sociale troppo antiquato ha la dignità di andarsene dal paese e vivere una esistenza modesta di lavoro a fronte alta.
I veri protagonisti sono il nonno paterno e il Reduce, che potrebbe essere lui il vero nonno materno; sempre presnti anche quando non sono citati. Entrambi hanno grande dignità e signorilità in ogni momento della loro esistenza. In particolare il nonno paterno sa e non dice nulla, supera gli ostacoli e le difficoltà senza darsi mai per vinto. E’ riconoscente verso il suo prossimo. Una figura sicuramente positiva.
Il Reduce, che dovrebbe avere reso felice la nonna durante il breve amore alle terme, aleggia sempre a mezz’aria come un fantasma. La lettera che è trovata dalla voce narrante è un momento molte felice, che suggella il libro.
In conclusione è un libro fresco e bello, che mostra uno spaccato del mondo sardo nel bene e nel male, dall’impianto non tradizionale,. Merita di essere letto (costa solo 12€) e può stare tranquillamente nella biblioteca (è piccolo e sottile e non occupa molto spazio).

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Sdraiami

Sdraiami di Berarda Del Vecchio

Ero entrato da Feltrinelli per comprare un vocabolario di spagnolo tascabile e come il solito ho dato un’occhiata in giro, sfogliando qua e là qualche libro. Girando ho notato un libretto con su scritto “sdraiami” e il volto di una ragazza bruna che spiccava in copertina.

L’ho guardato per un attimo e poi ho proseguito nel mio giro fino ai dizionari, dove ho scelto quello che mi sembrava il più adatto alla bisogna.

Però nella mia testa frullava quella immagine e il titolo del libro, così andando verso la cassa mi sono fermato nuovamente.

Ho dato un’occhiata al prezzo 10€, che con lo sconto 30% si riduceva 7€; più o meno quello di una rivista col vantaggio che il libro sarebbe finito in biblioteca, che dopo il trasloco era molto dimagrita.

Non ho letto la quarta pagina di copertina, perché l’ho sempre considerata alla stregua dei ‘bugiardini’ dei medicinali, che dicono tutto fuorché la verità. Sono passato direttamente all’indice per studiarne l’organizzazione. Andava bene: suddiviso per parti con tanti titoletti invitanti.

Poi ho letto l’introduzione e un pezzo dal titolo intrigante: la lettura veloce di queste pagine mi hanno convinto.

L’ho preso e sono andato alla cassa.

In tre sere l’ho letto tutto tra una sbirciatina a Splinder per leggere qualche blog e qualche raro commento lasciato da gentili visitatori del mio e un popup di Thunderbird, che mi annunciava l’arrivo di un e-mail

Bene, adesso arriviamo alla conclusione.

Leggendo il bugiardino di pagina 4 un lettore si sarebbe aspettato chi sa quali piccanti segreti sull’incapacità amatoria del maschio italico, in realtà è il classico libro da ombrellone senza doverti concentrare troppo sulla lettura.

La narrazione è accattivante e scorrevole anche se un po’ sconclusionata nei riferimenti temporali, scritto col linguaggio dei ragazzi degli anni novanta. Naturalmente gli attuali trentenni fanno un tuffo nel passato adolenscenziale, per gli altri sembra un linguaggio demenziale, ma è ovvio che va bene così.

La parte migliore è quella iniziale dove l’autrice ha cercato di analizzare (non troppo in verità) le problematiche dei ragazzi alle prese coi primi amori. Poi diventa un po’ banale, più convenzionale. Non mancano passaggi ameni e piacevoli che fanno sorridere per la disarmante freschezza con cui sono narrati (la descrizione dei vari tipi di fidanzati).

Dalla lettura si potrebbe ricavare questa morale

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