Quella domenica mattina di maggio, la ragazza che in seguito avrebbe destato scalpore in tutta New York si svegliò un po’ troppo presto per l’ora in cui si era coricata.
Dal sonno passò bruscamente alla piena consapevolezza e alla disperazione. Si trattava di una forma di disperazione che aveva conosciuto in precedenza perlomeno duemila volte, dato che in un anno solare ci sono trecentosessantacinque mattine.
Di solito causa della sua disperazione era il rimorso, e di duplice natura: rimorso perché sapeva che qualunque cosa avesse fatto in seguito non sarebbe servita a rimediare all’errore già compiuto.
Le cause specifiche di quei momenti di terrore e di solitudine non erano da imputarsi sempre alle parole o alle azioni che sembravano esserne parte…
Anna si alzò dal letto con l’angoscia nel cuore aprendo la finestra della camera sul paesaggio dietro il residence che guardava il Central Park. Era stato un terribile incubo, quello che aveva avuto durante la notte.
Era stata proiettata in una dimensione a lei sconosciuta, in un mondo pieno di persone che parlavano un lingua che non capiva.
Perché aveva commesso l’errore di andare il quel bordello di lusso per sole donne nella 1st Avenue al quinto piano?
Erano passati pochi minuti dopo il suo ingresso, mentre era ancora intenta ad osservarsi intorno, quando sentì voci concitate e un rumore di porte aperte con violenza e di passi pesanti tipici degli anfibi. Si girò e vide dinnanzi agli occhi un nugolo di persone che portavano una pettorina blu con la scritta in bianco NYPD.
“Che diavolo significava quella scritta e chi erano quegli uomini urlanti e dalla grinta feroce che ci ammassavano come pecore al centro della stanza?” si chiedeva Anna impaurita e sgomenta.
Ben presto avrebbe capito tutto.
Dopo l’atterraggio all’aereoporto JFK aveva preso una Yellow Cab per farsi portare a AKA Hotel Central Park, dove aveva riservato un piccolo appartamento per un mese. Sul sedile e nelle tasche c’erano una quantità impressionante di brochure pubblicitarie, che raccolse a manciate infilandole nel borsone che aveva con sé. Però in una tasca del sedile faceva capolino un depliant, del quale si intravedevano pochi centimetri. “Sex and City – for only women” leggeva Anna, che incuriosita lo estrasse sotto lo sguardo sogghigante del conducente portoricano. Lesse poche righe, ma capì che era un lussuoso ritrovo per sole donne. Rapidamente e furtivamente lo mise nell’ampia tracolla che sembrava più una misteriosa valigia delle Indie che una borsetta da donna. Dentro c’era di tutto dal pettine ai trucchi, dai fazzoletti di carta agli assorbenti, dal portafoglio al telefono, dall’agenda telefonica ai condom e tantissime altre cose. Ogni volta l’esplorazione della tracolla era una piccola caccia al tesoro, che terminava spesso con lo sfinimento di Anna che rinunciava all’oggetto cercato.
Sistematasi nell’appartamento si dimenticò ben presto della pubblicità, rimasta confusa tra mille altri oggetti della tracolla, finché una sera, mentre cercava il trucco per gli occhi, uscì ammiccante e voglioso di stupire. Lo lesse con attenzione dimenticando l’oggetto cercato e disse che forse valeva fare una visita a questo ritrovo esclusivo per donne, dove con 150 dollari potevi trascorrere una serata fuori dagli schemi, mangiando e bevendo a volontà.
Così decise che domani sera, sabato, ci sarebbe andata.
L’esterno del palazzo a quindici piani era in granito grigio curato e gradevole alla vista, l’enorme atrio consentiva l’accesso alle scale ed a numerosi ascensori guardato a vista da un gallonato nero, che assomigliava più ad un cerbero che ad un portiere.
Una bella targa dorata recitava “Women’s Club Luxury and Amusement – fith floor – lift B and C” sotto il naso di Anna, che rassicurata entrò decisa nell’atrio dirigendosi verso gli ascensori, ma una voce maschile la bloccò. Era il gallonato che le chiedeva dove stava andando. Lei nel suo inglese approssimativo cercò di spiegare che aveva trovato la pubblicità del club per donne in un taxi, mentre gli mostrava il depliant. Lui cominciò a parlare a raffica come una mitragliatrice, mentre lei capì pochi spezzoni, tra cui doveva dire come si chiamava e da dove veniva.
Anna in preda al panico e pronta a rinunciare alla serata particolare stava per ritornare sui suoi passi, quando il gallonato dopo una breve telefonata le diede il via libera.
Una massiccia porta in ciliegio introduceva in un’ampia sala con molti divani colore cremisi, dove sostavano molte donne firmate dalla testa ai piedi, quadri con temi erotici od agresti e busti maschili adornavano le pareti, in angolo una donna avanti nell’età fungeva da cassa, dove altre donne facevano la fila per pagare l’importo dovuto. Ogni tanto dalle numerose porte chiuse che si affacciavano si aprivano per lasciare entrare delle signore.
Anna era ancora intenta ad osservare tutto quando sentì il trambusto dell’irruzione di molti uomini e donne e poco dopo si ritrovò nel centro della sala pigiata con altre donne vocianti e piangenti che premevano il loro corpo sul suo.
Non capiva nulla impaurita dal frastuono strillante di voci non familiari né nella lingua né nel suono, spintonata, trascinata e stipata in un furgone buio e maleodorante.
“Dove sto andando?” si chiese, poi timidamente rivolse la stessa domanda ad una donna che alitava alcol e fumo a pochi centimetri dal suo viso e le cui mani premevano sul suo seno e sul basso ventre. Non rispose o quanto meno non capì la risposta. Sospirò e aspettò con pazienza di capire la destinazione della corsa, mentre la donna aveva appoggiato il viso sul collo e si teneva stretta a lei.
Udiva una sirena ad intermittenza finché non cessò con lo stridere delle gomme sull’asfalto asciutto. La corsa era finita all’interno di un cortile illuminato a giorno e guardato a vista da agenti armati di fucile. Ebbe paura e con cuore in gola seguì le altre donne nell’edificio rischiarato da luci al neon. Adesso comprendeva che era in una stazione di polizia di New York, mentre un brivido di panico percorse la schiena.
“Cosa ho fatto?” si domandava inquieta “Ero in un club per donne e non facevo nulla”.
Trascorse quasi tutta la notte tra pianti ed imprecazioni, tra domande inutili che non afferrava e le dita impiastricciate di un liquido nero, schedata, fotografata, spogliata e palpeggiata in ogni angolo da una donnona grassa, che sembrava godere nel toccare ogni orifizio, umiliata come donna e come persona.
Era l’alba, quando finalmente era stata accompagnata fuori senza troppi complimenti e molte spiegazioni, ed era stata abbandonata sulla strada senza avere un’idea in quale parte di New York fosse. Vide un Yellow Cab, che la raccolse per depositarla davanti al AKA Hotel.
Si spogliò, fece una lunga d
occia e sfinita si addormentò nel grande letto.
Al risveglio avrebbe ripensato a tutti gli eventi che erano capitati fino a quel momento.
Ora voleva solo dormire e dimenticare.