Tuona

 Tuona, lampeggia
l’aria e rompe
il silenzio della notte.
Piove, scroscia
impetuosa
la goccia sulla testa,
che si volge intorno
a cercare riparo.
Mille pensieri
affiorano
nel buio della notte
illuminato
da guizzanti segni
di fuoco.
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On the road

On the road
 
Sulla strada
starei sempre
con la pioggia
e con il sole:
camminare,
incontrare
nuovi luoghi,
nuova gente.
Col tempo ho capito
che non è importante
la meta,
ma il viaggio in sé.

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Senza titolo

“Non passava giorno che lo scoiattolo se ne andasse in giro. Al mattino si lasciava cadere sul muschio giù dal faggio, oppure, a volte, dalla punta di un ramo finiva nello stagno proprio sul dorso di una libellula, che poi senza fiatare lo portava sull’altra riva. Prendeva sempre la prima strada che gli si parava davanti. Ma se poi gli capitava un viottolo laterale lo imboccava, e se gli riusciva di scordarsi dei progetti che aveva per la giornata, se li scordava. Così un giorno stava andando dall’elefante, che traslocava e aveva bisogno di aiuto, quand’ecco che vide un sentiero sabbioso tutto pieno di curve. Lo prese. C’era un cartello che diceva: STRADA VERSO IL LIMITE. E’ lì che voglio andare!, pensò lo scoiattolo. Ma con grande dispiacere incontrò subito un’altra deviazione…”

 
Laura rileggeva l’inizio della fiaba, che aveva scritto tanti anni fa, quando aveva appena sedici anni, almeno così risultava dalla data in fondo ai fogli.
Era una mattina fredda, ma soleggiata di Marzo, quando salì nel sottotetto alla ricerca del vestito rosso dismesso alcuni anni prima. Non sapeva nemmeno lei perché aveva intrapreso quella ricerca tanto stramba quanto insolita.
Aveva trovato una fotografia di gruppo dove indossava quel vestito e disse: “Accidenti! Stavo veramente bene con quel vestito rosso. Ero la più bella tra le mie amiche e poi c’era anche Marco! Chissà dove l’ho cacciato!”
Era una fotografia dei tempi dell’università, quando formavano un bel gruppo affiatato: erano sempre insieme, spensierati ed allegri.
La vista di Marco, del vestito rosso riaccese dentro di lei un fuoco mai spento, che covava da mesi sotto le ceneri, così che decise di intraprenderne la ricerca.
Rovistando nei cassetti di un vecchio cassettone dismesso molti anni, aveva trovato dei fogli un po’ ingialliti, stropicciati e scritti a mano, di cui aveva perso la memoria. Si fermò a leggerli, mentre ritornava l’adolescente che sperava di diventare un giorno una famosa scrittrice.
Aveva sognato di scrivere romanzi, racconti e fiabe di successo, emula di J.K. Rowling oppure famosa come  Virginia Woolf. Insomma c’era in lei l’illusione di ottenere denaro e fama scrivendo, ma ben presto abbandonò ogni velleità letteraria, perché aveva capito che non era la strada giusta o forse non ne aveva le capacità. Chiuse tutti gli scritti in una cartellina gialla a copertina rigida chiusa con una clip mandandoli in soffitta come i sogni di adolescente.
Dopo il ritrovamento di quei fogli la sua mente cominciò a divagare ed a ripercorrere gli ultimi sette mesi. Pensò con amarezza a Marco, al suo “ADDIO” tanto angosciante quanto misterioso ed incomprensibile, al lavoro che le stava dando molte soddisfazioni, alla corte assidua ma discreta di Paolo, all’amica Sofia, che aveva trovato l’amore in maniera casuale, alla vita di tutti i giorni vuota senza amore.
Marco era stato il suo ragazzo durante gli anni di università, ma poi lui un brutto giorno le disse senza lasciarle scampo: “Laura, tu sei una cara ragazza con cui sono stato bene in tutti questi anni, ma il tempo ha spento il fuoco dentro di me e non voglio ingannarti. Ormai siamo adulti, ci siamo laureati con ottime votazioni, stiamo cercando lavoro per dare un senso al nostro futuro, ma le nostre strade si devono per forza separare. Sono certo che troverai il ragazzo che cerchi e con cui potrai condividere gioie e dolori della tua vita. Quello non potrò essere io! Mi sembra giunto il momento di dirci addio ed augurarci tutto il bene del mondo”.
A Laura sembrò che il mondo le fosse caduto addosso, rimase in silenzio e non riusciva nemmeno a piangere.
Stava per aprire bocca per dire qualcosa, quando Marco le pose un dito sulla bocca: “Non dire nulla. Non serve. Diciamoci solo ADDIO e poi ognuno vada per la sua strada”.
Detto questo si voltò allontanandosi senza aggiungere niente di altro, mentre lei era rimasta lì muta e pietrificata.
Quanto tempo rimase su quella panchina all’ombra del grande cedro del Libano, che aveva visto ed ascoltato tante storie come questa?
Laura non ricordava, ma le sembrava che fosse passato un secolo tanto aveva indugiato lì incapace di dare un senso compiuto ai pensieri e alle azioni.
Tornata a casa, aprì l’armadio e tolse il vestito rosso, che conservava come ricordo del primo bacio con Marco, quando quattro anni prima aveva dichiarato con solennità ed dolcezza: “Laura, ti amo!”
Lo impacchettò, ripiegandolo con cura, e lo mise in una custodia trasparente. Salì nel sottotetto e lo nascose accuratamente, perché le ricordava troppo l’amore per lui.
Del vestito rosso se ne dimenticò in fretta, ma Marco era sempre lì presente di giorno e di notte nei suoi pensieri, nei suoi sogni, che assomigliavano più ad incubi che a visioni oniriche.
Non riusciva a darsi pace, né a capacitarsi del perché Marco le avesse detto ‘addio’. Tutto sembrava filare liscio, senza intoppi, né litigi o motivi di attrito. A lei sembrò che fosse scoppiato in temporale senza che nessuno avviso fosse piovuto dal cielo, tutto all’improvviso, gettandola nello sconforto.
Per diversi giorni non volle vedere nessuno, nemmeno Sofia, la più cara amica, la confidente a cui affidava tutti i segreti più riposti, si negava al telefono e non rispondeva né agli SMS né ai messaggi di posta. Insomma sembrava sparita dalla terra, inghiottita da un buco nero con grande disperazione dei genitori, che cercavano di consolarla e sostenerla psicologicamente.
Poi lentamente uscì dal limbo in cui era precipitata, una caduta senza paracadute e senza fine, riprendendo a vivere e mangiare. Rispose finalmente al telefono: era Sofia preoccupata per il lungo silenzio, anche se sapeva il perché.
“Laura! Finalmente! Sei uscita dal letargo?” disse tutto d’un fiato e, senza darle modo di rispondere, riprese: “Stasera sei a casa mia! Niente se, niente ma! Ho preparato una cenetta solo per noi due e poi rimani a dormire da me! Hai capito? Ci sei ancora?”
“Sofia, “ riuscì a dire prima di scoppiare in un pianto a dirotto.
“Laura! Non piangere! Non riesco a sentire quello che mi vuoi dire! Inoltre non sopporto le donne che piangono per niente! Allora alle sei sono a casa tua e fatti trovare pronta! Sai che non tollero aspettare! Ciao e a dopo”.
La comunicazione si interruppe bruscamente mentre Laura con il telefono in mano e grossi lacrimoni che le rigavano il viso era ancora inebetita e sconvolta.
Si riscosse, guardò l’ora e trasalì. Erano già le cinque passate e se voleva essere puntuale aveva pochissimo tempo a disposizione. Doveva sbrigarsi perché sapeva che Sofia avrebbe fatto una sfuriata delle sue, se non era già sull’uscio alle sei in punto.
Depose la cornetta e si precipitò nella sua camera per cercare qualcosa di carino da indossare per la serata e per preparare una borsa con gli indumenti per la notte e quanto poteva servirle a casa di Sofia.
Quella telefonata l’aveva fatta rinascere e non voleva sprecare l’occasione per dimenticare tutti i dolori accumulati nell’anima in quei giorni.
Quel pianto era stato proprio liberatorio.

(Capitolo iniziale del racconto "Non passava giorno .." )-

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Profumo di fieno

Profumo di fieno

Le narici inalano
il profumo,
che entra nell’aria
del mattino.
La vista segue
uccelli neri
che si alzano e
si abbassano
repentini
sull’orizzonte.
La mente si nutre
di queste sensazioni
e vola lontano.

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Vista dall'oblò

Il Poeta rimase un po’ di tempo sottocoperta, anche dopo la partenza delle tre Muse. Aveva necessità di raccogliere le idee sparse tra la nave che andava seguendo il filo dei pensieri e l’etereo web, che virtualmente lo immaginava come un orso bianco di aspetto e candido di pelo.
Si domandava incerto e dubbioso se la sua vita virtuale doveva cessare con l’eutanasia del suo blog oppure no. L’eutanasia – letteralmente buona morte (dal greco ευθανασία, composta da ευ-, bene e θανατος, morte) – era la pratica che consisteva nel procurare la morte nel modo più indolore, rapido e incruento possibile a un essere umano ipotetico, che desiderava sparire dal web e dal mondo non reale del blog.
“Perché?” si domandava Lui “Perché devo rimanere blog? E se rimango, quale gioia ne trarrò?”
Domande e risposte, che evocavano altre domande, frullavano nella testa del Poeta, che per oltre un anno aveva allevato il proprio avatar, mentre lo guidava tra i meandri ora stretti ora larghi del mondo immaginario di Internet.
Era un bel rompicapo, perché lì aveva conosciuto altri fantasmi come lui desiderosi di parlare, di scrivere, di immaginare mondi e persone che prendono forme e sembianze fantasiose e reali.
Tutto questo accendeva la fantasia del Poeta mentre veniva stimolata la vena poetica per emulazione e raffronto con tanti altri.
Lui poteva lasciare libera la mente di vagare senza mete precise e di cullarsi nei suoi pensieri, ora che la severa Calliope se ne era andata.
Non si sentiva libero di esprimersi come avrebbe voluto, perché lo spirito della Musa aleggiava minaccioso sottocoperta. Si aggirò come animale in gabbia osservando lo spettacolo visto dall’oblò. Cosa vedeva di tanto interessante? Spruzzi di acqua salata simili a lacrime che copiose rigavano il viso, squarci di vita che avevano visto lui come protagonista, gli amori giovanili dei quali aveva scordato il viso.
Era un caleidoscopio di ricordi che si componevano colorati davanti agli occhi della mente, per poi sparire un istante dopo e ricomparire in altre forme.
Il poeta doveva mettere ordine ai pensieri che fluttuavano liberi per la stanza per essere pronto domani a riprendere il filo del discorso interrotto dalla pausa notturna. Quale argomento doveva trattare, quando le Muse si sarebbero presentate dalla scala che attraverso il boccaporto conduceva sottocoperta.
Doveva parlare del presente o del passato prossimo remoto? “Bella domanda!” si disse Lui pensando alla risposta che sicuramente gli avrebbero chiesto. “La risposta è incerta” proseguì Lui nel dialogo immaginario con Calliope, che reggeva sempre il libro che stava scrivendo.

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L'incipit

Nei pressi della capanna del nonno, sull’alta cresta da cui si domina un pendio coperto di ippocastani, Claire è in groppa al suo cavallo, avvolta in una spessa coperta. Si è accampata lì per la notte dopo aver acceso il camino di quella piccola costruzione che il nostro antenato eresse più di una generazione fa, e nella quale visse come un eremita o un animale solitario quando arrivò in questo paese per la prima volta. Era uno scapolo pieno di sé, che alla fine entrò in possesso di tutta la terra su cui correva il suo sguardo. A quarant’anni si sposò controvoglia ed ebbe un figlio, a cui lasciò questa fattoria sulla via per Petaluma. Claire si sposta lentamente sulla cresta sovrastante le due vallate piene di bruma mattutina. Alla sua sinistra c’è la costa. Alla sua destra la strada per Sacramento..

Claire leggeva questo frammento della sua vita, esattamente dove la sua vista aveva percepito l’immensità del luogo alcune settimane prime.
Il nonno non lo aveva mai conosciuto, né sapeva come si chiamava la nonna, che pareva svanita come la nebbia ai primi tepori del giorno.
Suo padre aveva abitato da sempre a Sacramento, ma una volta al mese andava a trovare il nonno, che era sempre più vecchio e inselvatichito, ostinato come un mulo.
Non aveva nessuna intenzione di lasciare quella casa isolata e piena di ricordi, senza nessuna comodità, dominante la vallata.
Poi un giorno lo trovò appisolato serenamente sulla vecchia sedia a dondolo davanti al camino spento. Era freddo e rigido, ma la morte aveva sfiorato appena quel vecchio ostinato, mentre si prendeva l’anima. Il trapasso era stato dolce, quasi sereno.
Suo padre era tornato in città a prendere il pastore per portarlo lassù per l’ultima volta. Seppellì il suo vecchio ai piedi della quercia, che aveva piantato quando per la prima volta era arrivato lì.
Chiuse la fattoria e tornò a Sacramento, dimenticando quella casa e i venticinquemila acri di terreno che la circondavano.
Suo padre si sposò tardi, come il nonno. Evidentemente il matrimonio non erano cerimonie che si confacevano troppo in famiglia.
Lei, Claire, nacque dopo qualche anno e crebbe allegra e coccolata dalle zie, tutte zitelle, le sorelle di sua madre.
Per molti anni ignorò che il padre aveva ereditato tutto quel terreno e la fattoria al centro sulle colline che dominavano il fiume Sacramento e la costa sopra San Francisco. E continuò ad ignorarne l’esistenza, finché il padre ormai vecchio e prossimo a raggiungere il nonno, la chiamò a sé per raccontarle tutto del nonno, della fattoria, del terreno.
Claire aveva poco più di trentacinque anni, quando ascoltò il racconto del padre, e subito decise che sarebbe andata a vedere quella casa, chiusa da oltre quarant’anni.
Le vallate intorno a Petulama erano coltivate a vigne, mentre si domandava per quale motivo il padre non aveva ceduto i venticinquemila acri di terreno fertile a qualche produttore di vino. Aveva posto la domanda al padre senza ricevere risposta salvo un “tuo nonno non avrebbe voluto” molto sibillino ed incerto.
Ora toccava a lei mantenere il desiderio di un nonno, a lei sconosciuto fino a poche ore fa.
Gli unici nonni, che ricordava con molta imprecisione, erano i genitori della madre e delle numerose zie, che avevano popolato la sua esistenza fino adesso.
Comprò una cartina dettagliatissima della zona della fattoria del nonno per studiarne la posizione. Poi affittò un suv per raggiungere il luogo che presumeva isolato ed impraticabile per le auto normali e partì per la fattoria, che da qualche giorno aveva ricevuto in eredità con la morte del padre.
Percorse la route 50 che collegava Sacramento alla costa fino al bivio per Petulama dove si addentrò nella Napa valley.
Ai lati della strada c’erano sterminate estensioni di vigne che si smarrivano tra colline e vallate a perdita d’occhio.
A fatica trovò il viottolo che conduceva alla sua nuova proprietà, che interrompeva la distesa di vigneti.
La strada era ombreggiata da enormi ippocastani e querce, cresciuti da quasi cento anni senza l’aiuto di mano umana. Enormi radure ricoperte da erbe alte dieci piedi e cespugli bassi e spinosi si aprivano ad ogni curva, mentre lo sterrato saliva dolce verso il crinale per poi ridiscendere nella vallata successiva.
Claire capì che stava profanando quel luogo con quel suv rumoroso ed inquinante, perché il silenzio era assordante rotto solo dal rombo del possente motore.
La prossima volta, se mai ci sarebbe stata, avrebbe trainato fino al viottolo un trailer con un cavallo a bordo, da dove lo avrebbe usato come mezzo di trasporto fino alla fattoria.
Uscendo dal bosco dopo una curva non troppo dolce apparve la costruzione in legno e muratura abbandonata e circondata da erbe alte, mentre in lontananza il cielo si confondeva con le acque del Pacifico.
Era una splendida giornata di sole con il cielo terso e lindo come appena lavato dalla mano di Dio, solo qualche fiocchetto bianco incipriava l’azzurro. Il sole baciava il legno un po’ inscurito dal tempo e dalla pioggia, mentre le pietre a secco tenute insieme dalla malta una volta chiara avevano acquistato un colorito grigio sporco. I vetri parevano intatti, come le imposte e la porta, in definitiva agli occhi di Claire la fattoria sembrava in buone condizioni.
Prima di scendere indossò indumenti pesanti, anche se il tempo fresco e temperato potevano invitare ad un vestiario più leggero, un paio di stivali di cuoio robusti che abbracciavano l’intero polpaccio e guanti spessi che coprivano bene il polso e l’avambraccio.
Sperava che tutte queste precauzioni non fossero necessarie, perché la presenza di qualche ospite indesiderato non era da scartare.
Falciata l’erba davanti all’ingresso prima di entrare, fece un lungo giro intorno al capanno, ma tutto era in ordine: nessun segno di scasso o altre rotture. All’interno regnava polvere e ragnatele depositate sullo scarso mobilio, che stranamente era ben conservato e nessun ospite era presente o pensava di trovare ospitalità; non c’erano segni di umidità recente o passata, l’interno era ben asciutto e secco.
Per renderla presentabile ci sarebbero voluti molti giorni di intenso lavoro e forse non sarebbero stati sufficienti.
Però era l’esterno che la preoccupava per la folta vegetazione spontanea che era cresciuta selvaggia e rigogliosa. Lei senza l’aiuto di qualcuno non sarebbe stata in grado di provvedere, quindi doveva trovare qualche persona, o meglio una decina di persone, che rendessero praticabile i dintorni della fattoria.Trascorse una mezza giornata ad ammirare la vastità della sua proprietà e la bellezza selvaggia del posto, prima di chiudere tutto e rientrare in città.
Da domani si sarebbe organizzata per migliorare l’aspetto trasandato e di abbandono della capanna del nonno per poi trascorrere qualche giorno lassù con un cavallo, mentre avrebbe esplorato ogni angolo di quel paradiso terrestre.

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Il fortino del diavolo

Il fortino del diavolo

si erge sul colle,

che domina il golfo

sulla marina blu intenso.

Di là lo sguardo

si spinge lontano

alla ricerca dell’oltremare.

Le grigie pietre hanno ascoltato

fiumi di parole

dette, sussurrate,

urlate

da amanti silenziosi.

E’ un posto misterioso,

ma ricco di sentimenti

che accoglie

come un discreto confessore

le coppie in cerca di intimità.

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Era sempre in ritardo

Era in ritardo, sempre in ritardo, era un suo difetto, lo sapeva fin troppo bene, ma adesso non riusciva a trovare la borsa e una volta scovata (sotto la giacca di velluto a coste blu sull’appendiabiti nell’ingresso) erano le chiavi a mancare. Avrebbero dovuto essere nella borsa, ma non c’erano, e così aveva fatto  il giro di tutto l’appartamento – no: due giri, anzi tre – prima che le venisse in mente di frugare nelle tasche dei jeans che aveva messo il giorno prima. Si, certo: ma dov’erano i jeans? Troppo tardi per una fetta di pane tostato. Scordati il panne, scordati la colazione. Aveva finito il succo d’arancia. Finiti anche burro e formaggio spalmabile. Il giornale sullo zerbino, poi, era l’ennessimo intralcio. Tiepido come pipì – era un paragone adeguato? Si. – caffè tiepido come pipì in una tazza sporca.

Sonia guardò l’ora e, accidenti, era ancora più tardi di quello che pensava. La colazione ridotta ad un caffè simile ad acqua sporca appena fuori dal freddo, mentre lei era ancora in mutandine e reggiseno e a piedi nudi e girava a vuoto come un mulino a vento senza controllo.

Se voleva uscire per andare a lavorare, doveva cominciare col vestirsi, ma la mente era rivolta ancora alla serata di ieri, quando aveva conosciuto Mattia.

“Perché sto pensando a Mattia?” si interrogò dubbiosa anche perché a parte il nome non ricordava quasi nulla. Era alto, molto alto – no, adesso che ci pensava bene – non era alto, ma di media statura, forse un metro e settanta o qualche centimetro di più. La corporatura era snella, ma forse ricordava male o almeno così rifletteva.

“Accidenti, perché mi ostino a pensare a lui? Sono incerta su tutto a parte il nome.” così sperava in cuor suo, perché ora aveva anche il dubbio che il nome non fosse Mattia.

Alzò gli occhi vedendo il grande orologio di legno ed acciaio appeso alla parete della cucina: segnava già le nove e qualche minuto, mentre la lancetta lunga si spostava sempre a piccoli scatti cadenzati dal cuore di quarzo.“Porca miseria!” imprecò ad alta voce Sonia “Sono passati altri dieci minuti e sono sempre qui”, ma le gambe ostinatamente restavano ancorate al terreno, come se una colla invisibile fosse stata spalmata sotto le piante dei piedi.

L’ex Sala Borsa è stata per diversi secoli il Monte dei Pegni della città, dove moltitudini di poveri e ricchi decaduti avevano portato le cose più preziose nella vana speranza di trovare il denaro per riscattarle. Di questo antico uffizio sono rimasti solo i fittoni di marmo, una volta bianco, istoriati che circondano su due lati l’edificio. Quando nell’ottocento i Monte dei pegni vennero aboliti, l’edificio divenne la sede delle contrattazioni tra i contadini che volevano vendere i loro raccolti e chi era disponibile ad acquistarli. La grande sala al pianoterra tutte le mattine si animava con l’arrivo dei venditori e degli acquirenti, mentre il frastuono saliva verso l’alto con il vociare convulso delle trattative nella formazione del prezzo di acquisto. Poi verso 1960 questo vociare confuso si andò quietando fino a diventare silenzio, mentre la grande sala restava deserta e vuota. Lasciò il posto alla domenica ai venditori di francobolli e monete, mentre l’atmosfera diventava più cheta e solo il brusio soffuso si poteva ascoltare. Poi l’oblio, l’incuria regnarono sovrane finché nuove mani non  hanno riportato il vecchio edifcio a nuova vita.

Nelle splendide sale del piano nobile che guardano il castello ora si tenevano mostre, incontri ed altro ancora. Ieri sera in queste stanze c’era l’inaugurazione della mostra di due giovani e rampanti grafici, che volevano mostrare alla città la loro bravura.

La cornice era splendida, come Sonia aveva potuto osservare salendo lo stupendo scalone di marmo, e l’accoglienza era morbida ed ovattata: luci soffuse, musica invitante in sottofondo, un buffet stuzzicante e particolare.

Molti giovani come Sonia si aggiravano discreti per le sale osservando e commentando le le opere dei due grafici, illuminate nel punto giusto per godersele nella pienezza, mentre pescavano dai supporti dessert invitanti e gustosi.

Appena entrata aveva intravisto quel ragazzo, ma poi l’aveva perso di vista, dimenticandolo finché non lo vide intento a sorseggiare un calice di vino bianco davanti all’albero della vita, come scoprì più tardi Sonia.

Lei aveva un sorbetto in mano e si guardava intorno per scoprire vecchie conoscenze o trovarne delle nuove.

Si avvicinò e disse: “Ciao”. Lui si girò con calma, la squadrò dai capelli alla punta dei piedi e rispose laconico al saluto. Lei continuò con alcune frasi di circostanza sull’opera che stava di fronte a loro, mentre lui continuava a sorseggiare il vino e la osservava con attenzione senza dire molto di più.

La situazione era ridicola o quanto meno buffa, perché Sonia non conosceva il ragazzo e lui non voleva mostrarsi scortese. L’arrivo provvidenziale di Berenice, una dei due grafici, mise fine al siparietto, presentando Mattia a Sonia. Conversarono a tre parlando del lavoro di Berenice come grafico, di loro, di conoscenze comuni e di altro ancora. Poi rimasero solo loro due a parlare o meglio a trasmettersi messaggi in codice del tipo “sei single?”.

Erano le otto quando ridendo ridiscesero lo scalone di marmo riafforando nella sera tiepida ed invitante della città che lentamente stava svuotandosi di luci e persone.

Sonia avrebbe voluto fare la sfrontata chiedendogli di trascorrere il resto della serata insieme, perché non aveva impegni e in particolare non aveva voglia di stare da sola. Però non sentiva venire da lui alcun segnale di incoraggiamento, perché lo percepiva un tantino freddo e distaccato, come se non fosse interessato alla persona di Sonia.

E Mattia svanì nel buio della via che porta verso le mura cittadine, mentre lei lentamente si avviava verso il parcheggio ormai svuotato di macchine.

Si riscosse mentre l’occhio correva al quadrante grigio appeso di fronte a lei, ed una nuova imprecazione uscì prepotente dalla bocca, perché era passata un’altra mezz’ora.

Si doveva sbrigare ad uscire per andare in ufficio, perché altrimenti l’avrebbero data per dispersa.

Non c’era tempo di pensare troppo all’abbigliamento, al trucco, ai capelli. La colazione ormai era data per persa, per il trucco ci avrebbe pensato poi, preso un fermaglio a casaccio raccolse i capelli dietro la nuca in un qualche modo, ma non poteva uscire in mutandine e reggiseno e a piedi nudi.

Prese dei jeans da una gruccia, una camicietta leggera, i collant colorati di blu, le prime scarpe che trovò in un mobiletto, assemblò il vestiario sulla sua persona senza avere il coraggio di guardarsi allo specchio. Dall’appendiabiti nell’ingresso pigliò la giacca di velluto a coste blu e la borsa e corse a perdifiato giù per le scale verso la rastrelliera delle biciclette. Ne prese una a caso senza guardare, mentre lanciava una nuova imprecazione perché aveva una bicicletta da uomo.

“Pazienza” disse ridendo “Così sono più fighetta!” e via pedalando di gran lena verso il centro tutta felice e contenta.

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Antica poesia cheyenne

Non amo riportare nel blog poesie o post che non ho scritto io, ma ogni tanto faccio delle eccezioni.

La poesia riportata sotto mi ha colpito e ho pensato di proporvela. E’ una antica poesia cheyenne, un dei tanti popoli che componevano le popolazioni indiane dell’America.

La forza del nostro popolo

è nelle donne.

Non conta quanto

siano dritte le nostre frecce,

né quanto coraggiosi

siano i nostri guerrieri.

Nessuna nazione è sconfitta,

finché i cuori delle nostre donne

sono sulla terra.

E’ un autentico inno verso la popolazione femminile.

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