Il Viaggio – 11
La prima guida
Avevo quasi diciotto anni quando ho imparato a guidare l’auto con tutta l’incoscienza di quell’età.
Erano i primi anni sessanta; le vacanze estive iniziavano all’incirca a metà giugno per terminare ai primi di ottobre, quasi quattro mesi senza fare niente. Era un tempo infinito tra calura e noia. Così molti noi si erano trovati un’occupazione estiva che da un lato riempiva una parte del tempo, dall’altro permetteva di mettere in tasca qualche liretta, che non faceva mai male.
Anch’io non ero sfuggito alla regola. Mentre molti amici andavano in campagna a raccogliere la frutta ed altri partecipavano alla campagna bieticola nello zuccherificio della zona, io andavo a lavorare nel distributore di benzina di zio Lino, che in realtà non si chiamava così. Però per me era sempre stato lo zio Lino, anche se scopersi quando morì che il suo vero nome era un altro: Olindo.
Dalle mie parti è sempre esistita una curiosa usanza, che consisteva nel dichiarare all’ufficiale dell’anagrafe un nome, del quale appena il padre era uscito se ne perdevano le tracce. I nomi non erano i soliti comuni, ai quali eravamo abituati, come Paolo, Mario, Anna, e così via, ma bensì reminiscenze scolastiche Penelope, Laerte o melomani Aida, Radames oppure esotici Widmer, Wilmer. Questa era una semplice casistica, perché la fantasia non aveva limite. Come d’incanto i neonati assumevano sembianze umane e da quel momento in poi credevano di chiamarsi coi nomi standard, come tutti i comuni mortali, finché non scoprivano il loro vero nome, che ignoravano tranquillamente fino al momento nel quale compariva nel necrologio: Ferrari Radames detto “Gino”. Quindi anche lo zio Lino non era sfuggito a questa consuetudine. Per me era rimasto sempre lo zio Lino.
Accanto a questa curiosa abitudine ce ne era un’altra quella degli Scutmâj ovvero di identificare una persona con un sopranome, il più delle volte curioso ed inspiegabile. Anche in questo caso il vero nome, di norma tradizionale e banale, si perdeva nella notte dei tempi per riaffiorare come d’incanto sull’annuncio funebre affisso all’angolo della strada.
Il distributore dello zio Lino era situato in una posizione altamente strategica: da lì passava tutto il traffico dei turisti tedeschi, austriaci, olandesi che dal Brennero e dal Tarvisio raggiungevano i luoghi di villeggiatura lungo l’Adriatico, perché le autostrade sarebbe venute molti anni dopo. Quindi in luglio ed agosto il lavoro non mancava, anzi spesso c’era un ingorgo pauroso.
Naturalmente mi facevo bello col mio tedesco scolastico, distante anni luce da quello parlato realmente, mentre loro rispondevano in un italiano degno di Sturmtruppen del mitico Bonvi Sembrava di assistere alle comiche di Ridolini. Però in compenso sganciavano sempre la mancia dopo ogni rifornimento con mia grande soddisfazione per questo guadagno extra.
Il distributore aveva un enorme piazzale sempre ingombro di auto e camion ed aveva un punto per il lavaggio delle autovetture. Un uomo mingherlino e minuto, chiamato “Pipi” era l’addetto a lavare le macchine. Il suo vero nome non l’ho mai saputo, perché l’ho sempre sentito chiamare Pipi.
Confinante c’era una baracchina di legno verde dove si vendevano gelati Alemagna confezionati, granite colorate e angurie, di modeste dimensioni, rotonde, che adesso sono state sostituite da quelle oblunghe enormi senza sapore. Le granite erano preparate all’istante macinando pezzi di ghiaccio staccati da enormi stecche che un camioncino portava due o tre volte al giorno. Poi venivano colorate con gli sciroppi Toschi alla menta, al lampone o al limone. Io preferivo quella alla menta, che trovavo dissetante.
Pipi era un lavoratore infaticabile, perché a volte sembrava un automa. Prendeva la macchina da lavare tra quelle parcheggiate sotto il sole implacabile di luglio, la metteva sull’elevatore all’interno del modulo in muratura, la lavava, la riportava nel punto dove io e l’altro ragazzo provvedevamo ad asciugarla, non prima di una sgommata e relativa brusca frenata per asciugare i tamburi dei freni. E questo decine di volte al giorno con regolarità da cronometro svizzero,
Un giorno mancavano poche settimane ai diciott’anni mi disse: “Metti questa al posto di quella che prendo” e mi allungò le chiavi. Io lo guardai sgomento, mentre le chiavi sembravano di fuoco sulla mano e la testa cominciava a ribollire come un pentolone sulla fiamma per l’agitazione di fare quei cinque metri che dividevano i due posti. Sono stati i cinque metri più lunghi della mia vita, perché sembravano cinquemila chilometri. Comunque avviato l’auto, a balzelloni, come se stesse facendo la danza del ventre, parcheggiai la cinquecento rossa nel posto designato, Avevo fatto un’autentica doccia di sudore, tanto ero sudato per il terrore di sfasciare qualcosa. Dopo tre o quattro tentativi l’operazione si svolse liscia come l’olio, mentre la macchina docile come un agnellino percorreva quei pochi metri prima di essere parcheggiata.
Il passo successivo fu quello di portare fuori dal lavaggio l’auto per portarla nel buco lasciato libero da quella prelevata da Pipi: un’operazione svolta con precisione e sicurezza. Le vampate di calore per l’agitazione stavano diventando un pallido ricordo.
Infine il ciclo completo: prelevavo l’auto da lavare, la mettevo sull’elevatore, avendo cura di centrare con precisione i bracci retrattili, la riportavo fuori ad asciugare.
A parte le prime volte che sentivo il cuore battere come la grancassa della marcia di Radetzky, poi percepivo un senso di appagamento, di essere leggero come una piuma, di non provare emozione alcuna.
Pipi possedeva una vecchia Topolino, che adesso farebbe la gioia di molti collezionisti, sempre perfetta ed oliata e mi consentiva nei rari momenti di relax di fare qualche giretto nel piazzale sempre guardato a vista per non combinare guai.
Un giorno disse: “Vieni con me. Andiamo al deposito a prendere delle lattine di olio” e mi mise in mano le chiavi della Topolino, mentre si sedeva lato passeggero. Lo guardai storto e preoccupato, perché un conto era girare in un piazzale fra macchine ferme a bassa velocità, ma fare una decina di chilometri in mezzo al traffico era ben altro affare. Inoltre non avevo un benché minimo straccio di documento che mi autorizzasse a circolare su strade pubbliche.
Nonostante le mie rimostranze fu irremovibile e molto incosciente, perché non aveva la minima idea di come avessi potuto reagire di fronte ad una situazione di pericolo o intricata.
La Topolino aveva la particolarità che per cambiare marcia serviva la famosa “doppietta” ovvero un leggero tocco dell’acceleratore per consentire agli ingranaggi di sincronizzarsi senza udire quel terribile rumore di ferraglia detta in gergo “grattata”. Eseguita senza l’assillo del traffico mi riusciva abbastanza bene in virtù di una certa sensibilità uditiva e tempismo coordinato frizione – cambio. Però adesso ero ansioso e nervoso con la testa in fiamme, un senso di angoscia che mi premeva sul petto per la paura che un vigile mi fermasse per un controllo, mettendomi in galera.
Fatte poche centinaia di metri tutte le ansie e le paure erano svanite, dissolte come la neve al sole, mentre con somma incoscienza andavo verso un punto critico che non avevo preso in considerazione ancora. C’era da passare un sottopasso, dove al termine della risalita era posto un favoloso semaforo, che creava code infinite. Se avevi fortuna, trovavi il via libera senza fermarti, ma poiché la sfiga ci vedeva benissimo, apparve un bel rosso fuoco con l’auto a metà salita. Panico, nervosismo, angoscia erano solo le prime avvisaglie che penetravano nella mia testa, perché sapevo che col verde sarebbe stata la catastrofe.
Lo guardai con aria interrogativa, mentre lui disse serafico: “Tacco e punta. E tutto andrà bene”.
“Tacco e punta?” replicai con la bocca secca ed arida come il deserto del Sahara.
“Si” proseguì tranquillo e sereno “Tieni pigiata la frizione con la marcia innestata, metti la punta del piede destro sul freno e il tacco sull’acceleratore. Quando viene il verde lasci la frizione dolcemente e accelera col tacco, prima di togliere la punta dal freno”.
Detto così sembrava tutto facile, ma per me che ero in preda al panico e con le mani appiccate al volante era come scalare l’Everest a mani nude. Naturalmente fu un flop colossale, perché riuscì a spegnere anche il motore con il concerto di clacson dietro di me che non finiva più. A balzelloni e a strattoni dopo due verdi persi per colpa mia riuscì a superare l’ardua salita, accompagnato da insulti e maledizioni di decine di automobilisti inviperiti.
Arrivati a destinazione senza altri inconvenienti di rilievo, mi sembrava di essere uscito dalla doccia senza asciugarmi tanto ero sudato per l’agitazione, con la testa svuotata da ogni pensiero, che si erano nascosti subdolamente in qualche angolo remoto, e con la pressione arteriosa a livelli pericolosi. Però tutto questo svanì come per incanto, perché la soddisfazione intima di avere guidato senza provocare danni, salvo le maledizioni di qualcuno, e per giunta in maniera impeccabile era veramente enorme.
Il viaggio di ritorno filò tutto liscio, perché il terribile sottopasso, affrontato in senso inverso, era totalmente innocuo per l’assenza di un odioso semaforo nella rampa di risalita.
Per quell’anno non ci furono altri esperimenti di guida senza rete, né a rischio di infarti, a parte i soliti giretti nel piazzale. Coi soldi guadagnati sotto il sole cocente a riempire di super tanti serbatoi o asciugare faticosamente delle auto lavate mi ero pagato l’autoscuola e le relative lezioni di guida, molto più rilassanti, con l’appendice di un documento rosa che mi abilitava a condurre un’auto.
L’idea di guidare significava molto per me, perché ero convinto che avere la padronanza di un’auto mi aiutasse a crescere e maturare psicologicamente e di avere maggiore consapevolezza dell’importanza della propria vita. Non potevo permettermela, perché costava troppo, ma per la guida dovevo ringraziare Pipi, che consciamente o incoscientemente mi aveva consentito di memorizzare movimenti e di valutare spazi e tempi nel condurre una macchina.