All’inizio ho scritto poesie perché non ero in grado di scrivere altro.
Il motivo sta nel fatto che attraverso le parole esprimi ed esterni quello che senti dentro di te. Diciamo rappresenti le tue sensazioni. Un modo per mostrare uno spicchio di te stesso.
Nel romanzo, nei racconti il personale non esiste ma solo la fantasia e l’immaginazione. Le mie storie non sono mai autobiografiche, non parlano di mie esperienze. Solo il contesto, e non sempre, risente di qualcosa in cui ho vissuto. Inventarsi luoghi o descrivere altri reali ma mai conosciuti è sempre una bella impresa col rischio di scrivere scemenze.
Premetto di non considerarmi un poeta, anche se averi avuto il desiderio di diventarlo. Le ho scritte tra i diciassette e trent’anni poi mi sono inaridito. Forse l’impegno della famiglia, del lavoro, gli spostamenti e i viaggi mi hanno tolto la voglia di scrivere. E per fortuna direte. Sono d’accordo con chi mi leggerà.
Tutte sono raccolte in un quaderno ad anelli con la copertina rossa, dove le ho trascritte più volte.
Le due che leggete dopo questa logorroica premessa fanno parte di un gruppo di otto dedicata a una ragazza scritte quando avevo diciassette anni.
Chi è? Oppure chi era? Andiamolo a scoprire.
Frequentavo il Liceo Scientifico. Ero in terza. Al pomeriggio o correvo sulle mura cittadine oppure stavo al campo scuola di atletica. Questa frequentazioni mi hanno fatto stringere amicizia con un ragazzo di due anni più vecchio. Entrambi avevamo la passione della bicicletta. Quindi terminate le scuole tutti i pomeriggi facevano un bel po’ di chilometri. Lui viveva in una villa nella zona più bella della città, almeno allora era così. Questa aveva un’enorme terrazza. Per me che vivevo in appartamento era un bellissimo sogno. Franco, così si chiamava, aveva due sorelle: Maria Elena e Doriana. Maria Elena era coetanea. Doriana più piccola di tre anni.
Tre fratelli diversi per aspetto e personalità. Franco alto, muscoloso e dal carattere tutt’altro che facile, pronto al litigio.
Maria Elena dai tratti regolari e raffinati, dolce e tranquilla. Non molto alta.
Doriana non si poteva definire una grande bellezza. Il naso leggermente storto, il viso affilato come una lama, secca come il chiodo ma ci poteva stare. Carattere ruvido, scorbutica. Per nulla accomodante.
Franco quasi tutte le sere mi invitava a casa sua e passavamo le serate in terrazzo a ballare.
Io sbavavo per Maria Elena ma lei manco mi degnava di un sorriso. In compenso Doriana mi era sempre appiccicata e me la dovevo sorbire.
Finita l’estate Franco si iscrisse all’università a Milano e la famiglia cambiò città.
Fine della storia. Di loro non ho saputo mai più nulla. È rimasto solo il ricordo di quei tre mesi estivi.
A Doriana
Poesia n.ro 1
Tu sei selvaggia e spinosa,
tu sei indomita e fiera:
non t’appassire ora,
perché bella è per te la vita ora.
Fiore di serra incolto,
fiore di campo disadorno
rifiorisci alla dolce aria
della fresca e odorosa Primavera.
Poesia n.ro 2
Quando tu graffi,
quando tu fai le fusa,
sei come una gatta,
che incanta.
Quando tieni il broncio,
quando sorridi,
sei come il sole
che gioca lassù fra le nubi.
Queste due composizioni, non oso chiamarle poesie, sono assai diverse per stile e contenuti dal quelle attuali dove spesso le parole sono mescolate a caso nella speranza di dare un senso ai versi.
Avevo quasi diciotto anni quando ho imparato a guidare l’auto con tutta l’incoscienza di quell’età. Erano i primi anni sessanta; le vacanze estive iniziavano all’incirca a metà giugno per terminare a ottobre, quasi quattro mesi senza fare niente. Era un tempo infinito tra calura e noia. Così molti noi si erano trovati un’occupazione estiva che da un lato riempiva una parte del tempo, dall’altro permetteva di mettere in tasca qualche liretta, che non faceva mai male. Anch’io non ero sfuggito alla regola. Mentre alcuni andavano in campagna a raccogliere la frutta e altri lavoravano nello zuccherificio della zona, io andavo a lavorare nel distributore di benzina di zio Lino. In realtà non si chiamava così. Però per me era sempre stato lo zio Lino, anche se scoprì qualche anno più tardi che il suo vero nome era un altro: Olindo. Dalle mie parti è sempre esistita una curiosa usanza, che consisteva nel dichiarare all’ufficiale dell’anagrafe un nome, del quale appena il padre era uscito se ne perdevano le tracce. I nomi non erano i soliti, ai quali siamo abituati, come Paolo, Mario, Anna, e così via. Ma reminiscenze scolastiche come Penelope, Laerte o per i melomani Aida, Radames oppure quelli pseudo esotici Widmer, Wilmer. Però avveniva anche un’altra curiosità, che era meno spiegabile del caso precedente. Il nome anagrafico era tradizionale ma era sostituito da un altro. Per cui un Paolo diventava Vittorio senza nessuna spiegazione logica.Nessuna intenzione di produrre la lista dellevarianti ma una semplice casistica, perché la fantasia non aveva limite. Come d’incanto dunque i neonati assumevano sembianze umane, come se al momento della nascita non lo fossero.Da quel attimotopico dell’uscita dall’ufficio anagrafe credevano di chiamarsi coi nomi standard, come tutti i comuni mortali. Poi scoprivano al momento del matrimonioche il loro vero nome era di tutt’altro genere. Un alzata di spalle accompagnava la scoperta, che ignoravano fino al momento del trapasso. Ma questo oramai non aveva più alcuna importanza, a parte il necrologio. Ferrari Radames detto “Gino”. Quindi anche lo zio Lino non era sfuggito a questa consuetudine. Per me è rimasto sempre lo zio Lino. Visto che siamo in argomento accenno a un’altra curiosa abitudine: quella degli Scutmâj ovvero di identificare una persona con un sopranome, il più delle volte curioso e inspiegabile. Diciamo che erano i nickname ante litteram. Anche in questo caso il vero nome, di norma tradizionale e banale, si perdeva nella notte dei tempi per riaffiorare come d’incanto sull’annuncio funebre affisso all’angolo della strada. Ma torniamo a quella lontana estate. Il distributore dello zio Lino era situato in una posizione altamente strategica. Di autostrade non se ne parlava e tutti percorrevano le statali che collegavano le varie città. Dunque da quel punto passava tutto il traffico dei turisti tedeschi, austriaci, olandesi che dal Brennero e dal Tarvisio raggiungevano i luoghi di villeggiatura lungo l’Adriatico. In luglio e agosto il lavoro non mancava, anzi spesso c’era un ingorgo pauroso. Naturalmente mi facevo bello col mio tedesco scolastico, distante anni luce da quello parlato realmente, mentre loro rispondevano in un italiano degno di Sturmtruppen del mitico Bonvi. Sembrava di assistere alle comiche di Ridolini. Però in compenso sganciavano sempre la mancia dopo ogni rifornimento con mia grande soddisfazione per questo guadagno extra. Il distributore aveva un enorme piazzale sempre ingombro di auto e camion. C’era anche un punto per il lavaggio delle autovetture. Un uomo mingherlino e minuto, che ho conosciuto come “Pipi”, era l’addetto a lavare le macchine. Il suo vero nome non l’ho mai saputo, perché l’ho sempre sentito chiamare così. Poco distantestava una baracca di legno verde, dove vendevano gelati Alemagna, granite colorate e angurie, di modeste dimensioni, rotonde, che adesso sono state sostituite da quelle oblunghe enormi senza sapore. C’era sempre la coda a comprare qualcosa. Le granite erano preparate all’istante macinando pezzi di ghiaccio staccati da enormi stecche che un camioncino portava due o tre volte al giorno. Poi venivano colorate con gli sciroppi Toschi alla menta, al lampone o al limone. Io preferivo quella alla menta, che trovavo dissetante. Pipi era un lavoratore infaticabile, perché a volte sembrava un automa. Prendeva la macchina da lavare tra quelle parcheggiate sotto il sole implacabile di luglio, la metteva sull’elevatore all’interno del modulo in muratura, la lavava, la riportava nel punto dove io e l’altro ragazzo provvedevamo ad asciugarla, non prima di una sgommata e relativa brusca frenata per asciugare i tamburi dei freni. E questo decine di volte al giorno con regolarità da cronometro svizzero, Un giorno mancavano poche settimane ai diciott’anni mi disse: “Metti questa al posto di quella che prendo” e mi allungò le chiavi. Io lo guardai sgomento, mentre le chiavi sembravano di fuoco sulla mano e la testa cominciava a ribollire come un pentolone sulla fiamma per l’agitazione di fare quei cinque metri che dividevano i due posti. Sono stati i cinque metri più lunghi della mia vita, perché sembravano cinquemila chilometri. Avviato l’auto, a balzelloni, come se stesse facendo la danza del ventre, parcheggiai la cinquecento rossa nel posto designato. Avevo fatto un’autentica doccia di sudore, tanto ero bagnato per il terrore di sfasciare qualcosa. Dopo tre o quattro tentativi con relativo spegnimento del motore, riuscì a compiere le successive operazionisenza intoppi, mentre la macchina docile come un agnellino percorreva quei pochi metri prima di essere parcheggiata. Il passo successivo fu quello di portare fuori dal lavaggio l’auto per portarla nel buco lasciato libero da quella prelevata da Pipi: un’operazione svolta con precisione e sicurezza. Le vampate di calore per l’agitazione stavano diventando un pallido ricordo. Infine il ciclo completo: prelevavo l’auto da lavare, la mettevo sull’elevatore, avendo cura di centrare con precisione i bracci retrattili, la riportavo fuori ad asciugare. A parte le prime volte che sentivo il cuore battere come la grancassa della marcia di Radetzky, poi percepivo un senso di appagamento, di essere leggero come una piuma, di non provare emozione alcuna. Pipi possedeva una vecchia Topolino, che adesso farebbe la gioia di molti collezionisti, sempre perfetta e oliata. Mi consentiva, nei rari momenti di relax, di fare qualche giretto nel piazzale sempre guardato a vista per non combinare guai. Un giorno disse: “Vieni con me. Andiamo al deposito a prendere delle lattine di olio”. E mi mise in mano le chiavi della Topolino, mentre si sedeva lato passeggero. Lo guardai storto e preoccupato, perché un conto era girare in un piazzale fra macchine ferme a bassa velocità ma fare una decina di chilometri in mezzo al traffico cittadino era ben altro affare. Inoltre non avevo un benché minimo straccio di documento che mi autorizzasse a circolare su strade pubbliche. Nonostante le mie rimostranze fu irremovibile e molto incosciente, perché non aveva la minima idea di come avessi potuto reagire di fronte a una situazione di pericolo oppure intricata. La Topolino aveva una particolarità, come molte delle auto della sua epoca. Per cambiare marcia serviva la famosa “doppietta” ovvero un leggero tocco dell’acceleratore per consentire agli ingranaggi di sincronizzarsi senza udire quel terribile rumore di ferraglia detta in gergo “grattata”. Eseguita senza l’assillo del traffico mi riusciva abbastanza bene in virtù di una certa sensibilità uditiva e tempismo coordinato, frizione – cambio. Però adesso ero ansioso e nervoso con la testa in fiamme, un senso di angoscia che mi premeva sul petto per la paura che un vigile mi fermasse per un controllo, mettendomi in galera. Percorsi poche centinaia di metri, tutte le ansie e le paure erano svanite, dissolte come la neve al sole, mentre con somma incoscienza andavo verso un punto critico che non avevo preso in considerazione. C’era da passare un sottopasso, dove al termine della risalita era posto un semaforo, che creava code infinite. Se avevi fortuna, trovavi il via libera senza fermarti, ma poiché la sfiga ci vedeva benissimo, apparve un bel rosso fuoco con l’auto a metà salita. Panico, nervosismo, angoscia erano le prime avvisaglie che penetravano nella mia testa, perché sapevo che col verde sarebbe stata la catastrofe. Lo guardai con aria interrogativa, mentre lui disse serafico: “Tacco e punta. E tutto andrà bene”.
“Tacco e punta?” replicai con la bocca secca e arida come il deserto del Sahara.
“Si” proseguì tranquillo e sereno “Tieni pigiata la frizione con la marcia innestata, metti la punta del piede destro sul freno e il tacco sull’acceleratore. Quando viene il verde lasci la frizione dolcemente e accelera col tacco, prima di togliere la punta dal freno”. Detto così sembrava tutto facile, ma per me, in preda al panico e con le mani strette al volante, era come scalare l’Everest. Naturalmente fu un flop colossale, perché riuscì a spegnere anche il motore con il concerto di clacson dietro di me che non finiva più. A balzelloni e a strattoni dopo due verdi persi per colpa mia riuscì a superare l’ardua salita, accompagnato da insulti e maledizioni di decine di automobilisti inviperiti. Arrivati a destinazione, senza altri inconvenienti, mi sembrava di essere uscito dalla doccia senza asciugarmi, tanto ero sudato per l’agitazione. Avevo la testa svuotata da ogni pensiero, che si erano nascosti subdolamente in qualche angolo remoto, e la pressione arteriosa a livelli pericolosi. Poi queste sensazioni svanirono per incanto, perché la soddisfazione intima di avere guidato senza provocare danni, salvo le maledizioni di qualcuno, e per giunta in maniera impeccabile era veramente enorme. Il viaggio di ritorno filò tutto liscio, perché il terribile sottopasso, affrontato in senso inverso, era totalmente innocuo per l’assenza di un odioso semaforo nella rampa di risalita. Per quell’anno non ci furono altri esperimenti di guida senza rete, né a rischio di infarti, a parte i soliti giretti nel piazzale. Coi soldi guadagnati sotto il sole cocente a riempire di super tanti serbatoi o asciugare faticosamente delle auto lavate mi ero pagato l’autoscuola e le relative lezioni di guida. Ovviamente le guide erano più rilassanti, con l’appendice di un documento rosa che mi abilitava a condurre un’auto. L’idea di guidare significava molto per me, perché ero convinto che avere la padronanza di un’auto mi aiutasse a crescere e maturare psicologicamente e una maggiore consapevolezza dell’importanza della propria vita. Non potevo permettermela, perché costava troppo, ma per la guida dovevo ringraziare Pipi, che consciamente o incoscientemente mi aveva consentito di memorizzare movimenti e di valutare spazi e tempi nel condurre una macchina.
Avevo quasi diciotto anni quando ho imparato a guidare l’auto con tutta l’incoscienza di quell’età.
Erano i primi anni sessanta; le vacanze estive iniziavano all’incirca a metà giugno per terminare a ottobre, quasi quattro mesi senza fare niente. Era un tempo infinito tra calura e noia. Così molti noi si erano trovati un’occupazione estiva che da un lato riempiva una parte del tempo, dall’altro permetteva di mettere in tasca qualche liretta, che non faceva mai male.
Anch’io non ero sfuggito alla regola. Mentre alcuni andavano in campagna a raccogliere la frutta e altri lavoravano nello zuccherificio della zona, io andavo a lavorare nel distributore di benzina di zio Lino. In realtà non si chiamava così. Però per me era sempre stato lo zio Lino, anche se scoprì qualche anno più tardi che il suo vero nome era un altro: Olindo.
Dalle mie parti è sempre esistita una curiosa usanza, che consisteva nel dichiarare all’ufficiale dell’anagrafe un nome, del quale appena il padre era uscito se ne perdevano le tracce. I nomi non erano i soliti, ai quali siamo abituati, come Paolo, Mario, Anna, e così via. Ma reminiscenze scolastiche come Penelope, Laerte o per i melomani Aida, Radames oppure quelli pseudo esotici Widmer, Wilmer. Però avveniva anche un’altra curiosità, che era meno spiegabile del caso precedente. Il nome anagrafico era tradizionale ma era sostituito da un altro. Per cui un Paolo diventava Vittorio senza nessuna spiegazione logica.Nessuna intenzione di produrre la lista dellevarianti ma una semplice casistica, perché la fantasia non aveva limite.
Come d’incanto dunque i neonati assumevano sembianze umane, come se al momento della nascita non lo fossero.Da quel attimotopico dell’uscita dall’ufficio anagrafe credevano di chiamarsi coi nomi standard, come tutti i comuni mortali. Poi scoprivano al momento del matrimonioche il loro vero nome era di tutt’altro genere. Un alzata di spalle accompagnava la scoperta, che ignoravano fino al momento del trapasso. Ma questo oramai non aveva più alcuna importanza, a parte il necrologio. Ferrari Radames detto “Gino”. Quindi anche lo zio Lino non era sfuggito a questa consuetudine. Per me è rimasto sempre lo zio Lino.
Visto che siamo in argomento accenno a un’altra curiosa abitudine: quella degli Scutmâj ovvero di identificare una persona con un sopranome, il più delle volte curioso e inspiegabile. Diciamo che erano i nickname ante litteram. Anche in questo caso il vero nome, di norma tradizionale e banale, si perdeva nella notte dei tempi per riaffiorare come d’incanto sull’annuncio funebre affisso all’angolo della strada.
Ma torniamo a quella lontana estate. Il distributore dello zio Lino era situato in una posizione altamente strategica. Di autostrade non se ne parlava e tutti percorrevano le statali che collegavano le varie città. Dunque da quel punto passava tutto il traffico dei turisti tedeschi, austriaci, olandesi che dal Brennero e dal Tarvisio raggiungevano i luoghi di villeggiatura lungo l’Adriatico. In luglio e agosto il lavoro non mancava, anzi spesso c’era un ingorgo pauroso.
Naturalmente mi facevo bello col mio tedesco scolastico, distante anni luce da quello parlato realmente, mentre loro rispondevano in un italiano degno di Sturmtruppen del mitico Bonvi. Sembrava di assistere alle comiche di Ridolini. Però in compenso sganciavano sempre la mancia dopo ogni rifornimento con mia grande soddisfazione per questo guadagno extra.
Il distributore aveva un enorme piazzale sempre ingombro di auto e camion. C’era anche un punto per il lavaggio delle autovetture. Un uomo mingherlino e minuto, che ho conosciuto come “Pipi”, era l’addetto a lavare le macchine. Il suo vero nome non l’ho mai saputo, perché l’ho sempre sentito chiamare così.
Poco distantestava una baracca di legno verde, dove vendevano gelati Alemagna, granite colorate e angurie, di modeste dimensioni, rotonde, che adesso sono state sostituite da quelle oblunghe enormi senza sapore. C’era sempre la coda a comprare qualcosa. Le granite erano preparate all’istante macinando pezzi di ghiaccio staccati da enormi stecche che un camioncino portava due o tre volte al giorno. Poi venivano colorate con gli sciroppi Toschi alla menta, al lampone o al limone. Io preferivo quella alla menta, che trovavo dissetante.
Pipi era un lavoratore infaticabile, perché a volte sembrava un automa. Prendeva la macchina da lavare tra quelle parcheggiate sotto il sole implacabile di luglio, la metteva sull’elevatore all’interno del modulo in muratura, la lavava, la riportava nel punto dove io e l’altro ragazzo provvedevamo ad asciugarla, non prima di una sgommata e relativa brusca frenata per asciugare i tamburi dei freni. E questo decine di volte al giorno con regolarità da cronometro svizzero,
Un giorno mancavano poche settimane ai diciott’anni mi disse: “Metti questa al posto di quella che prendo” e mi allungò le chiavi. Io lo guardai sgomento, mentre le chiavi sembravano di fuoco sulla mano e la testa cominciava a ribollire come un pentolone sulla fiamma per l’agitazione di fare quei cinque metri che dividevano i due posti. Sono stati i cinque metri più lunghi della mia vita, perché sembravano cinquemila chilometri. Avviato l’auto, a balzelloni, come se stesse facendo la danza del ventre, parcheggiai la cinquecento rossa nel posto designato. Avevo fatto un’autentica doccia di sudore, tanto ero bagnato per il terrore di sfasciare qualcosa. Dopo tre o quattro tentativi con relativo spegnimento del motore, riuscì a compiere le successive operazionisenza intoppi, mentre la macchina docile come un agnellino percorreva quei pochi metri prima di essere parcheggiata.
Il passo successivo fu quello di portare fuori dal lavaggio l’auto per portarla nel buco lasciato libero da quella prelevata da Pipi: un’operazione svolta con precisione e sicurezza. Le vampate di calore per l’agitazione stavano diventando un pallido ricordo.
Infine il ciclo completo: prelevavo l’auto da lavare, la mettevo sull’elevatore, avendo cura di centrare con precisione i bracci retrattili, la riportavo fuori ad asciugare.
A parte le prime volte che sentivo il cuore battere come la grancassa della marcia di Radetzky, poi percepivo un senso di appagamento, di essere leggero come una piuma, di non provare emozione alcuna.
Pipi possedeva una vecchia Topolino, che adesso farebbe la gioia di molti collezionisti, sempre perfetta e oliata. Mi consentiva, nei rari momenti di relax, di fare qualche giretto nel piazzale sempre guardato a vista per non combinare guai.
Un giorno disse: “Vieni con me. Andiamo al deposito a prendere delle lattine di olio”. E mi mise in mano le chiavi della Topolino, mentre si sedeva lato passeggero. Lo guardai storto e preoccupato, perché un conto era girare in un piazzale fra macchine ferme a bassa velocità ma fare una decina di chilometri in mezzo al traffico cittadino era ben altro affare. Inoltre non avevo un benché minimo straccio di documento che mi autorizzasse a circolare su strade pubbliche.
Nonostante le mie rimostranze fu irremovibile e molto incosciente, perché non aveva la minima idea di come avessi potuto reagire di fronte a una situazione di pericolo oppure intricata.
La Topolino aveva una particolarità, come molte delle auto della sua epoca. Per cambiare marcia serviva la famosa “doppietta” ovvero un leggero tocco dell’acceleratore per consentire agli ingranaggi di sincronizzarsi senza udire quel terribile rumore di ferraglia detta in gergo “grattata”. Eseguita senza l’assillo del traffico mi riusciva abbastanza bene in virtù di una certa sensibilità uditiva e tempismo coordinato, frizione – cambio. Però adesso ero ansioso e nervoso con la testa in fiamme, un senso di angoscia che mi premeva sul petto per la paura che un vigile mi fermasse per un controllo, mettendomi in galera.
Percorsi poche centinaia di metri, tutte le ansie e le paure erano svanite, dissolte come la neve al sole, mentre con somma incoscienza andavo verso un punto critico che non avevo preso in considerazione. C’era da passare un sottopasso, dove al termine della risalita era posto un semaforo, che creava code infinite. Se avevi fortuna, trovavi il via libera senza fermarti, ma poiché la sfiga ci vedeva benissimo, apparve un bel rosso fuoco con l’auto a metà salita. Panico, nervosismo, angoscia erano le prime avvisaglie che penetravano nella mia testa, perché sapevo che col verde sarebbe stata la catastrofe.
Lo guardai con aria interrogativa, mentre lui disse serafico: “Tacco e punta. E tutto andrà bene”.
“Tacco e punta?” replicai con la bocca secca e arida come il deserto del Sahara.
“Si” proseguì tranquillo e sereno “Tieni pigiata la frizione con la marcia innestata, metti la punta del piede destro sul freno e il tacco sull’acceleratore. Quando viene il verde lasci la frizione dolcemente e accelera col tacco, prima di togliere la punta dal freno”.
Detto così sembrava tutto facile, ma per me, in preda al panico e con le mani strette al volante, era come scalare l’Everest. Naturalmente fu un flop colossale, perché riuscì a spegnere anche il motore con il concerto di clacson dietro di me che non finiva più. A balzelloni e a strattoni dopo due verdi persi per colpa mia riuscì a superare l’ardua salita, accompagnato da insulti e maledizioni di decine di automobilisti inviperiti.
Arrivati a destinazione, senza altri inconvenienti, mi sembrava di essere uscito dalla doccia senza asciugarmi, tanto ero sudato per l’agitazione. Avevo la testa svuotata da ogni pensiero, che si erano nascosti subdolamente in qualche angolo remoto, e la pressione arteriosa a livelli pericolosi. Poi queste sensazioni svanirono per incanto, perché la soddisfazione intima di avere guidato senza provocare danni, salvo le maledizioni di qualcuno, e per giunta in maniera impeccabile era veramente enorme.
Il viaggio di ritorno filò tutto liscio, perché il terribile sottopasso, affrontato in senso inverso, era totalmente innocuo per l’assenza di un odioso semaforo nella rampa di risalita.
Per quell’anno non ci furono altri esperimenti di guida senza rete, né a rischio di infarti, a parte i soliti giretti nel piazzale. Coi soldi guadagnati sotto il sole cocente a riempire di super tanti serbatoi o asciugare faticosamente delle auto lavate mi ero pagato l’autoscuola e le relative lezioni di guida. Ovviamente le guide erano più rilassanti, con l’appendice di un documento rosa che mi abilitava a condurre un’auto.
L’idea di guidare significava molto per me, perché ero convinto che avere la padronanza di un’auto mi aiutasse a crescere e maturare psicologicamente e una maggiore consapevolezza dell’importanza della propria vita. Non potevo permettermela, perché costava troppo, ma per la guida dovevo ringraziare Pipi, che consciamente o incoscientemente mi aveva consentito di memorizzare movimenti e di valutare spazi e tempi nel condurre una macchina.
La giovinezza sta passando,
la giovinezza sta fuggendo.
Perché te ne vai così presto?
Perché scappi così amaramente?
Resta,
resta ancora un poco,
perché è dolce parlare d’amore
nelle fresche giornate d’Aprile.
La giovinezza mai più tornerà,
la giovinezza è ormai morta.
Ero libero,
or sono legato a te
per sempre.
E’ bello,
è merviglioso,
è stupendo,
è irreale
starti accanto.
Tu incateni,
tu, sempre tu
uccidi lo spirito,
tu, solo tu
avvinci la mente.
Eppure,
vorrei essere sempre
perennemente
accanto a te.
Coi capelli al vento,
con un dolce sorriso sulle labbra
corri spigliata e gaia
per i verdi campi,
mentre ti lasci accarezzare
lievemente la tua pelle
dal vento
e sei felice.
Quando tu graffi,
quando tu fai le fusa,
sei come una gatta,
che incanta.
Quando tieni il broncio,
quando sorridi,
sei come il sole
che gioca lassù fra le nubi.
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