Il giorno nei meandri – parte seconda

ecco la seconda parte del giorno nei meandri

 

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Copertina
Lucrezia e un racconto erotico

 

Lucrezia e il racconto erotico

 

 

 

È una bella opportunità per leggere gli ultimi romanzi pubblicati e imparare a conoscermi.

Tra pochi giorni sarò presente sullo store di Google Libri con tutti i miei epub.

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I lorchitruci

Anni fa… mamma mia come vola il tempo, Ilmiolibro fece un contest partendo da un incipit di Paola Mastrocola. Non partecipai ma scrissi ugualmente il pezzo che vi sottopongo alla vostra benevolenza.

disegno personale

Siccome avevo preso un altro brutto voto, mio padre mi disse:
– Va bene, allora oggi verrai con me a lavorare. Così vedrai come si fatica!
Mio padre faceva il giardiniere, e andava in giro per i giardini altrui. Andava a potar piante, rastrellare foglie e tagliare erba col suo potente tagliaerba.
Quel giorno doveva occuparsi niente meno del giardino dei terribili Lorchitruci.
I Lorchitruci erano la famiglia più ricca e potente della collina. A me facevano paura due cose di loro: il nome, perché mi veniva da pensare a orchi molto truci; e il giardino, appunto, perché era chiuso da una muraglia gigantesca dietro la quale chissà che cosa mai si nascondeva.” (incipit di Paola Mastrocola su ilmiolibro.it)

Però ero curiosa di sapere cosa si nascondeva dietro quel muro. Mio padre c’era già stato, ma era sempre stato molto parco nel descrivere le abitudini delle persone alle quali accudiva i giardini.

Dunque oggi marinavo la scuola col suo consenso, ma questo non mi piaceva e non mi faceva gustare la giornata di libertà.

– Lavorare? – non ci pensavo nemmeno, perché ero sicura che non mi avrebbe fatto fare nulla.

La sveglia era stata alle sei anziché alle sette come al solito, ma sognavo di vedere sorgere il sole con il cielo rosato là in fondo e cupo sopra la mia testa. Questa mattina alcuni fiocchetti rosati solcavano il cielo come graziose navicelle, mentre di buon passo lo seguivo lungo il ripido sentiero che conduceva al giardino più impenetrabile della collina.

L’ululato sguaiato di due cani ci accolse da dietro l’enorme cancellata di ferro, che chiudeva la vista della villa. Un brivido di freddo, ma era paura, mi percorse la schiena. Per farmi coraggio mi dissi: – Non puoi avere paura! Sono solo due cani. –

Però un po’ di tremarella agitava le mie gambe, che avrebbero voluto correre giù lungo quel sentiero percorso con tanta baldanza.

Ero sempre stata una bambina vivace, impertinente e con poca voglia di applicarmi a scuola. La maestra, un donnone dalla circonferenza smisurata, diceva ai miei genitori attoniti e amareggiati: – È intelligente. Ha la mente sveglia. Sarebbe la prima della classe, ma spesso la vedo con gli occhi sognare spazi aperti e campi ricoperti di margherite ed elicriso.- E a casa erano rimproveri a non finire. Mi piaceva sognare a occhi aperti e poi amavo fiori e uccelli, perché era stato mio padre a trasmettermi quest’amore.

Dunque ero dinnanzi alla cancellata di ferro luccicante e imponente al fianco di mio padre. Tremavo come una foglia agitata dal vento di scirocco che seccava la gola d’estate, mentre lui era imperturbabile e sereno come se il latrato furioso dei cani fosse musica celestiale. Mi domandavo come faceva a rimanere così calmo senza tradire la minima emozione.

– Elisa – disse leggendomi il pensiero – tu hai paura e ne avrai ancora di più quando vedrai Billo e Billa, due cagnacci neri più alti di te. Se stai calma e serena, non ti faranno nulla, ma se tremi aprono le fauci e zac sparisci. –

Questo mi fece tremare ancora di più. I denti sembravano impazziti. Battevano rumorosamente tra loro in un fremito incontrollato, impedendomi di fare uscire le parole, mentre la cancellata si muoveva cigolando in silenzioso mossa da una mano misteriosa, e vidi i loro musi spuntare dalla fessura.

Smisi di tremare perché ero diventata di marmo e loro non abbaiavano più. Mi feci coraggio raccogliendo tutte le forze che non erano fuggite giù per la collina e seguì mio padre all’interno.

Tutto era smisurato dagli alberi ai fiori compresi cani e servitore che ci avevano aperto e accolto gelidamente.

– Oh! – era tutto quello che ero riuscita a dire mentre cautamente mi appiccicai alle gambe di mio padre. I due cani sembravano soddisfatti, ma erano in attesa di balzarmi addosso se solo avessi accennato ad aver paura.

Mio padre con fare sicuro si avvicinò a una casetta minuscola rispetto alla villa che si stagliava imponente al termine di un ripido sentiero e cominciò a estrarre gli attrezzi per lavorare il giardino.

Mi domandavo come avrebbe potuto manovrare quella zappa che era alta tre volte la mia statura, che era di molto superiore alla media dei miei coetanei di dieci anni.

La prese con disinvoltura e cominciò a zappare un angolo dell’aiuola centrale dove fiorivano delle splendide rose vellutate rosse, grandi come una teste di bue.

Io a bocca aperta dallo stupore lo vedevo dare colpi vigorosi e precisi di zappa come se l’attrezzo fosse normale.

– Elisa – mi rimproverò mio padre – non stare lì impalata come una stoppia. Dati da fare, perché al tramonto dobbiamo avere sistemato il giardino se vogliamo tornare a casa sani e salvi. Prendi dalla casetta degli attrezzi il sarchio e comincia a sarchiare per togliere le erbacce intorno ai rosai. Però fa attenzione alle spine, che sono pericolose.-

Alla paura era subentrato lo stupore e la sorpresa, perché impugnando il lungo manico riuscivo a manovrare l’attrezzo con agilità e precisione.

Lavorai, sudai e sbuffai tutto il giorno senza posa sempre guardata a vista dai due cagnacci, che si erano accordati su come spartire il mio corpo. Billo avrebbe preso la parte superiore, Billa quella inferiore. Non potevo e non dovevo scompormi, perché erano subito lì pronti a saltarmi addosso. Non sentivo la fame e la sete, perché la tremarella li avevano scacciati, come la fame aveva allontanato il lupo dal bosco. Il sole stava tramontando dietro quell’orrenda casa tutti merli e torrioni appuntiti e dovevamo sbrigarci.

Finalmente dall’enorme uscio uscì Gianantonio Lorchitruci, alto come un palazzo a tre piani, che guardò il lavoro che avevamo fatto e disse soddisfatto ma amareggiato: – Anche stavolta dovrò rinunciare alla cena serale. Prendi questi due zecchini d’oro e arrivederci al prossimo mese. –

Non vedevo l’ora di lasciarmi alle spalle quell’orrenda cancellata e correre a perdifiato lungo la discesa verso casa.

Mi svegliai col cuore in gola e col fiato corto come se avessi corso per mille miglia.

-Papà – dissi con un filo di voce – da oggi metto la testa a posto e non prenderò mai più un brutto voto a scuola. È centomila volte meglio andare a scuola con profitto che lavorare con te dai Lorchitruci. –

Mio padre sorrise accarezzandomi i capelli biondi e spettinati.

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Per curare l’ansia basta fare sesso due volte alla settimana

Spulciando tra ritagli di giornali, pezzi raccolti on line e pensieri vecchi di molti anni ho trovato questa notizia curiosa.

Una donna, presentatasi al pronto soccorso di un ospedale genovese in preda ad una crisi di ansia, si è vista prescrivere la seguente cura per curare i sintomi da “stato ansioso”: “ fare sesso, possibilmente bene, due volte alla settimana e non di più”.

La curiosità, secondo me, non sta tanto nel fare sesso due volte alla settimana, ma in base a quali indicazioni diagnostiche si è arrivati a stillare la suddetta cura. Il medico ha dedotto, forse, che era in preda ad una crisi di astinenza da sesso? Sicuramente è sempre meglio fare sesso, possibilmente bene, piuttosto che prendere pastiglie di Valium.

La cura fa bene anche ai maschietti oltre che alle femminucce?

Da Republica online del 5 luglio 2007 ripresa dal “Corriere Mercantile” di Genova pubblicata il giorno prima.

GENOVA – Il disturbo: ansia. La cura del medico: sesso, ma con moderazione. “Farlo due volte alla settimana, non di più”. Questa la prescrizione che un dottore in servizio al pronto soccorso dell’ospedale genovese Villa Scassi ha fatto ad una giovane donna affetta da “stato ansioso”. La visita è stata effettuata lunedì scorso, nel pomeriggio. La notizia è stata riportata questa mattina dal quotidiano di Genova “Corriere Mercantile”.
La donna si è presentata nel punto di primo soccorso del nosocomio di Sampierdarena afflitta da una profonda agitazione. Il medico l’ha visitata a lungo effettuando anche una visita ginecologica. Dopo avere esaminato gli esiti della misurazione della pressione, dei battiti cardiaci, della respirazione in correlazione alle altre visite, il sanitario ha messo per iscritto il suo consiglio: “Fare sesso due volte alla settimana, non di più” per curare i sintomi di ciò che ha definito, sempre per iscritto, un semplice “stato ansioso”.

Sullo stesso argomento ho trovato quest’altro pezzo.

Il legame fra sesso e ansia è stato esaminato in diversi studi. Per esempio Stuart Brody, uno psicologo dell’Università di Paisley (Scozia), ha dimostrare scientificamente i benefici psicofisici del fare l’amore.

Nello studio di Brody erano stati esaminati 46 volontari, 24 donne e 22 uomini, ai quali era stato chiesto di tenere per due settimane un diario dei loro momenti d’intimità indicandone tempi, luoghi e soprattutto tipologia di attività sessuale svolta. Dopo quindici giorni, tutti i volontari sono stati sottoposti a numerose prove sia mentali che fisiche.

Esaminando i dati ottenuti, si riscontrò che i soggetti che avevano avuto un maggior numero di incontri sessuali completi non presentavano particolari miglioramenti nell’esecuzione delle prove ma in compenso reagivano con meno ansia allo stress della prova.

I soggetti che dichiararono di avere avuto solo rapporti sessuali completi, al momento della prova “stressante” fecero registrare degli sbalzi di pressione sanguigna minori rispetto alle persone che non avevano avuto dei rapporti completi. Le peggiori performance in fatto di stress sono state quelle degli astinenti.

Estratto da https://www.universonline.it/_benessere/sesso/07_07_05_a.php

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Era stato cieco…

copertina Amanda e il bosco degli elfi

 

Ero ancora giovane, come ho già scritto, non avevo ancora capito fino a che punto l’amore potesse essere una passione illogica, fatale, imprevedibile, eppure conoscevo la letteratura greca che rappresenta sempre la passione come un’ascia sfolgorante, brandita insieme dalle mani di morte, amore, carità.

(tratto da La porta di Magda Szabò)

Ilario rilesse due volte quelle poche righe ma non ci capì nulla o almeno non gli dicevano nulla.

Leggere qualcosa estrapolato dal contesto gli riusciva ostico. Comprare il libro per leggerlo non ci pensava nemmeno.

“Leggere?” pensava osservando schifato quella mail che gli era arrivata con questa citazione. “Roba da donne”.

Lui detestava leggere ma Laura no. Leggeva, leggeva e leggeva sempre. In piedi, alla fermata dell’autobus, in treno. In macchina mentre guidava, no. E sorrise a quest’ultimo pensiero. Però se avesse potuto l’avrebbe fatto.

A Laura non piacevano gli audiolibri. «Non riesco assaporare il gusto delle parole e poi». La voce sfumava perché era la sua formidabile memoria visiva che le consentiva di gustare parole e pensieri.

Ilario non comprendeva la passione di Laura per i libri. A lui bastava mettersi in poltrona e riempirsi di immagini sportive. Lui conosceva tutti anche se erano ripresi solo di sfuggita.

Ilario era un bel ragazzo o almeno era quello che credeva, quando narciso si guardava allo specchio, mentre faceva il nodo alla cravatta oppure la barba. Diciamo che aveva un suo fascino per attirare gli sguardi femminili ma poi…

Quando apriva bocca, era di una pochezza infinita. Conosceva solo lo sport e se la conversazione virava su un altro qualsiasi argomento doveva starsene zitto e annoiarsi senza ascoltare quello che dicevano.

Laura era veramente una bella donna, matura e colta, che poteva trattare qualsiasi tema con proprietà a esclusione dello sport. Minuta di corporatura ma con tutti gli attributi giusti destava l’invidia delle amiche, o presunte tali, e l’ammirazione degli uomini.

Quello che nessuno era riuscito a decifrare, era come due soggetti tanto diversi potessero essere amici. Un’amicizia sincera e vera. Se uno aveva un segreto, non era tale per l’altro. Se uno era in difficoltà, l’altro lo soccorreva senza la necessità di chiedere aiuto.

Si frequentavano e sembravano due fidanzatini, pronti a sbranare chi volesse mettersi in mezzo. Nonostante le apparenze nessuno dei due aveva cercato di fare delle avance. Un casto bacio sulla guancia, un prendersi sottobraccio senza sfiorarsi.

Ilario rilesse un’altra volta la citazione. “Chissà perché me l’ha mandata” rifletté, nonostante sapesse che lui odiava leggere.

Poi capì e un bel sorriso si stampò sul viso.

Era stato cieco fino a quel momento ma adesso aveva aperto gli occhi. Impostò amazon e cercò quel libro per ordinarlo.

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Quando un asteroide fulminò le larghe intese…

Anni fa, credo il 2012, alla formazione del governo delle grandi intese i Wu Ming lanciarono una sorta di contest che aveva per tema le larghe intese e un asteroide che le distrusse. Io con molti altri ho partecipato e tutti i vari racconti sono stati raccolti in pdf. Quello che segue è il parto della mia testa.

Buona lettura

origine NASA

Dopo aver valicato monti, disceso valli, guadato fiumi e disarcionato altri presunti cavalieri che temerari l’avevano sfidato, Ser Lancilotto del Lago continuava la sua ricerca. Voleva proseguire l’avventura, anche se ormai era vecchio e le forze venivano a mancargli.

Era nel territorio del Galles, o forse lì vicino, ma non aveva molta importanza il luogo, perché gli avevano detto che c’era nei paraggi un convento di suorine molto graziose, allegre e servizievoli.

«Questa avventura non me la voglio perdere!», disse al suo fido consigliere, Ser Johnnie di Lothian, che scuoteva la testa.

«Ormai sei vecchio. Prenditi il riposo del guerriero».

«Starei fresco!».

«Perché?».

«Perché? E me lo domandi?».

«E io te lo richiedo».

«Oziare è il padre di tutti i vizi».

«Hai tanti nipoti con i quali puoi giocare alla guerra».

«Non è la stessa cosa che fare una ricerca».

Così si armò, lucidò corazza e scudo, affilò la spada e partì tutto solo senza manco il fido scudiero Ser Jon Greenish.

All’uscita del castello un soldatino di vedetta gridò: «Un uomo solo al comando», ma il ser Cavaliere finse di non aver udito.

«Tutta invidia» esclamò, facendogli un marameo.

Cavalcava da molti giorni senza trovare l’indicazione giusta. Chi gli diceva «È dietro quel boschetto», chi «Avanti cento passi, svolta a destra. Lì al centro c’è il convento», chi dalla cima del Colle lo benedisse «Se trovi le larghe intese, lì sta il convento».

Fatto sta, fatto non si sa, il ser Cavaliere brancolava nel buio, perché la notte era scesa senza che lui l’avesse autorizzata a presentarsi.

Trovava irriverente che non gli avesse chiesto il permesso.

«Ohibò!», disse addocchiando un bel fico ombroso.

«Se fosse un fico femmina sarebbe stato meglio ma accontentiamoci».

Detto e fatto. Si fermò lì sotto la chioma verde.

«Qui mi ficco», e messo lo scudo sotto la testa si addormentò.

Nei paraggi girava Morgana, la fata, una bella tipetta dispettosa e poco riguardosa nei confronti di Ser Lancilotto, col quale aveva più di un conto in sospeso. Cambiava mille aspetti ma la capigliatura rossa restava sempre rossa.

Dicevano le malelingue che era una strega e produceva mille incantamenti per distorcere la verità. «Tutte maldicenze! Io ricerco solo la mia verità», urlava ai quattro venti senza che nessuno la cagasse.

Oddio, quando si incaponiva sul serio, si metteva di traverso ed erano dolori, soprattutto per Ser Cavaliere, che minacciava di metterla ai ferri, sulla brace a bruciare. Lei rideva e sgusciava via come un folletto.

«Prendimi, se ci riesci!», gli gridava con ghigno feroce.

Comunque Morgana, la fata, sembrava guidata dal radar, che ai tempi di re Artù era ancora da inventare. Per finzione poetica fingiamo che ci fosse, e piombò sull’incauto Ser Lancilotto del Lago, che dormiva alla grossa, pensando di essere unto dal re Artù.

«To! Chi si vede. Il ser Cavaliere addormentato!», e senza pensarci su due volte fece un bell’incantesimo. Una gabbia dorata, larga e comoda ma dotata di solide sbarre.

«Mentre dormi il sonno dell’ingiusto, vado alla ricerca del nipotino Ser Henry di Lothian e lo ficco lì insieme a te».

In uno svolazzo di piume e di ciocche rosse sparì nella notte.

«Ma torniamo a Ser Lancilotto del Lago», disse la voce narrante che si accoccolava bene davanti al pc, altra invenzione del demonio che ai tempi di re Artù manco si sognavano che esistesse.

Dunque il prode ser Cavaliere dormiva alla grossa, e sognava la sua regina che faceva evoluzioni nella sala del trono tra musici e cantori abbarbicata attorno a una pertica. Era un burlesque ante litteram, tra un codazzo di dolci damigelle che gli allietavano la vista e non solo quella.

Urlava a squarciagola: «Bunga, bunga» senza conoscerne il reale significato. Gli aveva fatto colpo quel grido ma ignorava che era un grido degli aborigeni australiani. Quindi ser Cavaliere l’aveva fatto diventare il suo grido di guerra durante le interminabili notti invernali.

Lasciamo il nostro Ser Lancilotto del Lago dormire e sognare, ignaro di quello che la terribile Morgana, la fata, aveva in mente e progettato.

Il giovin Ser Henry viaggiava ignaro del suo destino seguendo quel vecchio marpione di Ser Pier Bears di Sanah, che aspirava a fare le scarpe a re Artù.

«Ditemi, Maestro, dove stiamo andando».

«Seguimi e taci».

«Però vorrei sapere».

«Il troppo sapere fa male».

«Non lo sapevo».

«Ora lo sai».

Ser Pier, armato di lente, era alla ricerca di whim, quei fastidiosi insetti che facevano cri cri quando il caldo si fa atroce, e stavano ai margini del monte che voleva scalare.

«Dove si sono nascosti?».

«Chi, Ser Pier?».

«Ma chi vuoi che siano?».

«Io non lo so».

«Sei troppo giovane e ingenuo».

«Dunque Ser Pier non volete dirmelo?».

«Uffa, quanto siete petulante!».

Ser Henry mise il broncio e se ne stette lontano da Ser Pier, offeso e indignato.

«Forse faceva meglio a stargli accanto, ma si sa che la gioventù morde il freno e vuole sopravanzare i vecchi», continuò petulante la voce narrante.

Era tutto ingrugnato a braccia conserte, quando gli apparve una bellissima fanciulla bionda dagli occhi azzurri e dal fisico avvenente. Una bella topa, pensò Ser Henry.

«Mio signore, perché ve ne state in disparte tutto solo soletto?».

«Ma chi siete, mia dolce damigella?» e le fece gli occhi dolci.

«Sono Siren, della casata di Broad Agreements».

«Che bel nome Siren».

«Anche voi siete un bel giovine».

Ser Henry arrossì al complimento ma strinse gli occhi pensieroso.

«Ma questa casata mi è sconosciuta».

«Ma no, non può essere».

«Ma dico di sì!».

«Vengo come messaggero di mio padre, il valoroso Ser Menhult».

«Non sapevo che questo prode cavaliere avesse una figlia così avvenente».

Con gli occhi la spogliava e avrebbe desiderato darle un morso sul quel collo bianco e lungo.

«Venite con me. Il Ser Cavaliere vi aspetta».

«Ser Lancilotto del Lago?»

«Sì, mio signore».

«Dov’è? Vi seguo subito».

«E abbandonate Ser Pier?».

«Ma chi se ne frega!» e fece una fragorosa risata.

«Ben detto, mio signore. La nostra casata è lieta di avervi con noi».

Balzato a cavallo, galoppò furiosamente verso il fico, dove stava ancora dormendo Ser Cavaliere.

Morgana, la fata, rideva sotto i baffi, anche se non c’erano o almeno non erano ancora cresciuti.

«Corri, sciocco, corri in braccio a Ser Lancilotto del Lago! Vedrai cosa ti aspetta».

Arrivati al fico, Ser Henry vide un bellissimo palazzo. Era una pura illusione ordita dalla terribile strega. Entrò accolto da servitù ossequiante, che erano topi e lucertole travestiti da uomini e donne. Altra magia di Morgana, che continuava a tormentare i propri baffi inesistenti, ridacchiando.

Ser Henry si precipitò ad abbracciare Ser Cavaliere.

«Finalmente possiamo giostrare insieme».

«Certamente», rispose stiracchiandosi.

«Quando si comincia?».

«Cosa?».

«La ricerca».

Ser Lancilotto del Lago strinse gli occhi.

La ricerca? Eh no, caro giovanotto! Tu sei giovane e mi freghi tutte le suorine. Mica mi faccio fottere da uno sbarbatello! Adesso ti depisto”.

«Quale ricerca?».

«Ma quella per la quale sei partito».

«Ah! Ho capito».

«Dunque quando partiamo?».

«Eh! Uhm!».

«Dicevate?».

«Quella è già finita».

«Allora quale?».

«Ci devo pensare… Sì, sì…».

«Vi sto ascoltando».

«Dobbiamo ricercare la germanica e metterla con le spalle al muro…».

«E poi…».

«E poi si vedrà!», concluse Ser Cavaliere.

Morgana, la fata, proruppe in una gran risata.

«E lei chi è?».

«Siren».

«Una gran bella gnocca».

La strega si avvicinò ai due e disse loro: «Una risata vi seppellirà!».

«Cosa?», domandò interdetto Ser Henry.

«Aspettate e vedrete», e sparì.

Ser Lancilotto del Lago ci rimase male.

«La gnocca dov’è volata?».

«Non la vedo più, Ser Cavaliere».

Mentre si guardavano intorno alla ricerca di Morgana, la Fata, sentirono dei botti sopra la testa.

«Pare che grandini».

«Però sono grossi i chicchi».

«Pare anche a me».

Poi una musica demenziale dei Punk a Rock dei Mahones cominciò a percuotere le loro orecchie.

«Ser Cavaliere…».

«Dimmi…».

«È il terremoto. Ci muoviamo?».

«Non ci capisco un cazzo».

«Cosa?».

«Spegni la radio, per Dio!».

«Perduti?».

«Non capisci un cazzo… spegni la musica!».

«Ue! Stiamo ballando!».

Ser Cavaliere scosse la testa ma tutto traballava minacciosamente mentre la musica saliva di tono. Il rombo si avvicinava sempre di più.

«Ser Cavaliere, mi pare di…».

«Ser Henry, cosa ti pare?».

«Vedo una basilica con degli stendardi bianco e gialli…».

«Già brillo di prima mattina. ’Sti giovani, pappemolli».

«C’è anche un fiume sporco…».

«Il cervello in pappa… se non ci fossi io… tutto a puttane…».

«E un palazzo…».

«Ma che dico? Puttane? No, dolci damigelle…».

Un bel botto, uno scossone con rumore di fondo che cresceva.

«Ma spegni quella cazzo di tv!».

«Cos’è la tv?».

Non avevano finito di dire queste parole, quando un rumore furibondo e una fiammata allucinante li avvolse in un sudario di morte.

«Ser Cavaliere, cosa abbiamo fatto?».

«Le larghe intese, Ser Henry».

«Ma che male abbiamo fatto?».

«Non l’hai ancora capito?».

«No!».

Ma non ci fu più tempo per ulteriori spiegazioni, perché fumo e fiamme, rombo e sibili li seppellirono. Un asteroide aveva centrato quel palazzo artificiale costruito da Morgana, la fata, per prendersi una rivincita su di loro.

Dopo il boato assordante, con le orecchie che fischiavano, sentivamo ancora quella musica.
Dove fino a un istante prima si trovava Ser Henry, capo del governo di larghe intese, si apriva una spaventosa voragine. Dall’enorme cratere si levavano nubi di fumo nero.

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E adesso… che faccio?

Nuovo raccontino recuperato dai fondi del cassetto.

Buona lettura.

Foto personale

«E adesso … Che faccio?»

Sono agitata col cuore in gola. Mi specchio e non mi piaccio. Non perché sia brutta, anzi tutt’altro. Sono più alta di tutte le mie compagne. Però c’è qualcosa che non mi piace e mi mette ansia.

«Mi chiamo Rosa. Odio il mio nome. Non capisco perché abbiano avuto un così pessimo gusto da affibbiarmelo. Solo per essere il dileggio di compagne e compagni».

La irritavano quel continuo: «Come sei bella, Rosa!» C’era un risolino di scherno nel pronunciare quelle parole e io ne soffrivo terribilmente. Mi mettevo in un angolo, voltando le spalle agli altri.

Sembravo in castigo ma era volontario. Una auto punizione per quel sarcasmo con cui pronunciavano il mio nome.

Passano i giorni mentre io cresco. Sono la più bella di tutte le mie compagne.

Mia madre dice che sono la migliore di tutti, ma i motti di derisione proseguono più intensi di prima.

«Potevano darmi qualsiasi nome ma non quello. Rosa è un bellissimo fiore profumato che fiorisce per molti mesi all’anno. Tutti lo colgono e lo mettono in bella mostra. Ma io non posso vantarmi del mio nome».

Mi isolo e non lego con nessuno. Come posso farlo quando sono il dileggio di tutti?

Un altro anno è passato, mentre il mio fisico è diventato morbido e sodo. Sono sbocciata come una rosa.

“Maledetto nome!” Sono esacerbata dai risolini di scherno.

Non riesco più a trattenermi. Vorrei essere un tappo di champagne per sbottare e mettere a tacere tutti.

«I miei compagni e le mie compagne hanno nomi altisonanti. Ercole, il forte, Elena la splendente, Bruno e Bianca, che fanno coppia fissa. E ancora Tommaso, che chiamo affettuosamente Tom, all’americana. Chiara e Alba, altre due inseparabili. Dove c’è l’una, c’è sempre l’altra. Luna, dalla pelle argentea».

Non mi do pace. Sempre in movimento ma quel ritornello mi accompagna ovunque vada: «Ma come sei diventata bella, Rosa».

Anziché essere orgogliosa di quel complimento mi fa venire il magone, perché specchiandomi mi vedo uno splendore, la più bella di tutte ma non ne traggo un piacere.

“Cosa me ne faccio di questa bellezza?” mi domando mentre giro libera per i campi che sono dietro la mia casa. “Tutti mi prendono in giro e finirà col portarmi male”.

Me lo sento, che quel nome mi porterà sfortuna.

L’estate con la sua luce accecante e la calura che mozza il fiato è alle mie spalle, mentre l’autunno è alle porte. Gli alberi si tingono di mille colori lasciando cadere ai loro piedi le foglie a formare un tappetto multicolore. Per l’aria si odora il profumo del mosto che fermenta nelle botti.

Abito un casale di campagna e nella fattoria c’è un gran fermento.

«Sederino Rosa è la migliore di tutte. Ha carne soda e profumata. Sarà una delizia…». Queste parole che un giorno di novembre umido e piovigginoso ho ascoltato mi hanno messo in agitazione. Il motivo lo conosco.

Allora corro grufolando, muovendo il codino vezzosamente, verso l’angolo più lontano del mio recinto.

«Maledetto nome! Diventerò prosciutti e salami» dico piangendo.

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Mi chiamo Annie Valentine Cook e sono nata il 14 febbraio… parte terza

Con questa si conclude il mini racconto scovato in fondo al cassetto. Qui trovate la prima e la seconda parte.

Buona lettura.

copertina Amanda e il bosco degli elfi

Un giorno, aveva circa trent’anni, incontrò un uomo che definì “incredibilmente bello” e se ne innamorò perdutamente tanto che non si accorse nemmeno che era sposato con una donna gelosa e possessiva.

Stava salendo al primo piano per raggiungere il monolocale dove viveva da single, quando Susie, la moglie, l’affrontò decisamente.

«Siete una puttana!» le urlò in faccia sulla prima rampa, afferrandola per i capelli e strattonandola. «Lasciate stare il mio Paul!»

«E perché mai dovrei?» chiese ingenua Annie Valentine.

«È mio marito…».

«Tuo marito?» e sgranò gli occhi blu che sembravano contenere tutto il cielo. «Forse avete sbagliato Paul… Quello che frequento è libero come un uccello…”. Cercò di liberarsi dalla presa della donna, che la teneva inchiodata al corrimano per i capelli.

«Sì, come un uccello in gabbia. E la gabbia dorata sono io» replicò ironica con un sorriso storto.

«Lasciatemi!» Aveva il viso contratto da smorfie di dolore, perché lei tirava con vigore i suoi capelli.

«Certo!» e la scaraventò giù dalle scale. «E questo è nulla se vi vedo ronzare ancora attorno a Paul».

L’atterraggio non fu morbido ma nemmeno disastroso, perché era finita su rotoli di corda che le lasciarono solo dei lividi per qualche giorno.

L’uomo, conteso dall’amante e dalla moglie, telefonò una settimana più tardi.

«Mi spiace» cominciò senza troppi tentennamenti come se non dovesse giustificare nulla. «Susie, l’avrai conosciuta, è troppo gelosa ed è capace di tagliarti la gola e di evirarmi, se ti frequento ancora».

Così per l’ennesima volta fu lasciata.

Annie Valentine sull’amaca osservava nel crepuscolo della sera il mare appena increspato da spume bianche. Si domandò perché arrivata a quarant’anni non era ancora riuscita a trovare un compagno stabile ma solo tanti effimeri fantasmi che comparivano e sparivano senza lasciare tracce.

“Io dono tutta me stessa ma loro mi portano via ogni volta brandelli della mia anima senza chiedermi il permesso. Ormai ne è rimasta solo qualche piccola briciola. Non riesco nemmeno più a piangere, perché le ho esaurite tutte. Vorrei un uomo che mi rispettasse e donasse un pizzico d’amore sincero ma non lo trovo. L’unico era…”.

Vide una figura che lentamente camminava sulla battigia, illuminata dal sole morente. Questa si fermò e facendosi schermo la mano, la osservava dalla spiaggia come se fosse incerto se proseguire nella camminata o dirigersi verso il cottage di Annie Valentine.

Lei smise di dondolarsi e aspettò ansiosa.

Prese una decisione e si avviò deciso.

«Ciao, Annie».

«Ciao, Jack».

Si guardarono in silenzio incapaci di parlare. Poi Annie Valentine si alzò dall’amaca e gli prese la mano.

«Vieni». E lo trascinò verso la veranda.

L’uomo si lasciò condurre docilmente verso il patio laterale della casa, come se fosse guidato da un’entità superiore. Si sistemarono su due poltrone di vimini sempre muti e senza parole.

«Ti aspettavo» disse, tenendogli sempre stretta la mano tra le sue. «Sapevo che saresti arrivato. Oggi è un bel giorno».

Jack la guardò incredulo, perché non era vero che era capitato volontariamente da lei. Era giunto per caso su quella spiaggia poco frequentata e nascosta da un canneto di giunchi e mangrovie. Era solo il caso che l’aveva condotto lì. L’aveva riconosciuta ed era rimasto incerto se fermarsi a salutarla oppure no. Non aveva mai saputo dove abitava dopo essersene andato cinque anni prima in una notte stellata di agosto e lo ignorava, finché non si era imbattuto nel cottage durante la passeggiata solitaria.

Era stata l’ennesima serata burrascosa tra accuse e pianti, tra difese timide e sguardi infuocati. Così aveva deciso di troncare ogni rapporto con quella donna affascinante ma decisamente insopportabile. La loro relazione durava da tempo, anche se non ricordava quanto. “Un anno? Oppure due?” e si chiese se avesse importanza richiamare alla memoria la durata esatta. Concluse che erano i ricordi che doveva rammentare, il resto erano dettagli insignificanti. Il flusso della memoria prese a fluire come un tranquillo corso d’acqua che placido scende verso il mare.

Era iniziata sotto i migliori auspici, pareva un rapporto solido basato su un feeling preciso: amore e sesso, equamente suddivisi. Lei era passionale e donava tutta se stessa senza calcoli o fini nascosti. Lui aveva colto quella passione ricambiandola con uguale fervore. L’amore era sbocciato come una rosa in maggio. Da prima timido e acerbo come un bocciolo, poi in tutto il suo fulgore durante la fioritura ma alla fine era sfiorito, appassendo con la perdita dei petali che malinconicamente cadono a terra fino a rimanere nulla.

Una coppia perfetta agli occhi degli osservatori esterni. Lui alto, abbronzato coi capelli biondi, lei esile come un giunco nonostante i suoi trentacinque anni, dalla pelle ambrata come il miele scuro delle api di montagna e con quei due splendidi occhioni blu porcellana.

Però dopo poco iniziarono i contrasti, le incomprensioni, le rotture improvvise e le riconciliazioni inaspettate in un caleidoscopio di gesti e di parole. Jack mal sopportava il fare civettuolo di Annie Valentine, sempre pronta a raccogliere i sorrisi e gli ammiccamenti dei corteggiatori. Per lei non c’era nulla di male perché era un gioco a nascondino innocente e casto. Per lui era come se gli lanciasse una sfida che doveva raccogliere per allontanare quei calabroni insistenti. In questa alternanza di chiaro e di scuro, di esserci o nascondersi esternava di essere gelosa, perché lo voleva tutto per sé egoisticamente. Non sopportava che lui osservasse le altre donne, doveva essere sufficiente tutto quello che gli donava.

Il fluire dei ricordi s’interruppe, spezzando quel silenzio che era calato tra loro.

«Non dici nulla. Hai forse perso la parola?» Usò un tono dolce per far comprendere che era felice accanto a lui.

«Sto meditando che la vita è strana. Il destino ci conduce la dove meno ce lo aspettiamo». Non aveva smesso di fissarle quegli occhi blu che l’avevano stregato la prima volta, quando l’aveva conosciuta.

Annie Valentine corrugò lievemente la fronte e strinse le palpebre.

«Perché?»

«Oggi non dovevo fare questa passeggiata. Avevo un impegno importante, un incontro di lavoro ma all’ultimo istante è saltato tutto. Mi sono ritrovato libero e senza una meta precisa dove andare. Così ho cominciato a camminare per Main Street e soprappensiero mi sono trovato su questa spiaggia solitaria e nascosta che non conoscevo. Sono stato incerto se proseguire oppure ritornare verso le vie centrali popolate di persone chiassose e colorate…». Jack strinse le labbra e provò a riordinare le idee.

«Continua» lo sollecitò. «Continua il racconto, ti ascolto. La tua voce è musica per le mie orecchie».

«Percepivo la necessità di riflettere su di me e sulla mia vita passata, presente e futura. Quindi ho deciso di proseguire la camminata. Il sole al tramonto, il mare infuocato dai raggi solari che si immergevano nelle acque dell’oceano hanno fatto il resto».

Jack osservava quel viso che non pareva invecchiare ma rimanere sempre uguale a se stesso: giovanile e senza rughe come se il tempo si fosse fermato cinque anni prima. La fissò prima di porre quell’interrogativo che lo stava tormentando da quando lei l’aveva invitato sul patio. Una domanda stimolata dalla curiosità di conoscerne la risposta.

«Perché sapevi che sarei venuto?» chiese senza abbassare lo sguardo.

«Il cuore» rispose Annie Valentine. Una risposta semplice. «Il cuore» ripeté con calore.

L’uomo scosse il capo. Non era la risposta giusta. Il cuore può pensarlo ma il destino decide senza tenerne conto. «No. Il cuore comanda la mente ma non il destino».

Fece una breve pausa inspirando l’aria calda del tramonto prima di ripetere la domanda. «Come facevi a essere così sicura che sarei arrivato?». Adesso era certo che l’aveva compresa.

«Sono qui da giorni, da mesi, da anni in attesa del tuo arrivo senza perdere la speranza di rivedere il tuo viso, di riascoltare la tua voce, di toccare le tue mani. Come puoi osservare la pazienza è stata premiata».

Trasse un profondo respiro prima di riprendere la spiegazione.

«Da quando mi hai lasciato senza concedermi nemmeno il saluto conclusivo dopo l’ultima notte di passione, ho venduto la vecchia casa e mi sono trasferita qui in attesa del tuo ritorno. Sono stati anni bui e silenziosi senza una luce che li rischiarasse. Ho avuto pazienza senza mai perdere la fiducia in me stessa e la speranza che un giorno saresti passato di qui».

Annie Valentine tacque fissandolo senza incertezze negli occhi.

Jack non comprendeva il senso di quelle parole. Si erano lasciati burrascosamente cinque anni prima senza mai incrociarsi neppure casualmente. Per lui quel capitolo era chiuso per sempre e aveva cancellato dalla sua mente quel viso morbido e vellutato, quegli occhi luminosi e quello splendido corpo. «Mai e poi mai avrei ricominciato. Ho sofferto troppo per riprendere un rapporto eccitante e stimolante ma altrettanto snervante e ricco di imprevisti».

La mano calda di lei gli trasmetteva un senso che non riusciva a decifrare. «Ma oggi sono qui e la magia dell’esserci ha preso il sopravvento sulla razionalità del ignorare».

Annie Valentine, quando si erano frequentati, viveva in bella casa di legno sulla Main Street circondata da un giardino ben curato. Adesso era in cottage al limite della battigia, isolato e lontano dal caos chiassoso e dai rumori della città.

«Come potevo immaginare di trovarti qui?» Di nuovo sorgeva la domanda che lo stava assillando dal momento che l’aveva rivista. Scosse il capo perché non poteva credere che l’avrebbe incontrata dopo tutti quegli anni. Aveva giurato che sarebbe uscita dalla sua vita per sempre e non sarebbe mai più rientrata. “Per sempre? Che vacua parola è questa, priva di significato perché per sempre è solo un effimero spazio temporale che dura meno della nostra vita”. Invece si ritrovava sulla veranda di un cottage, seduto a osservare quegli occhi, che l’avevano stregato tanti anni prima, con lei che le teneva la mano.

Percepì che il vecchio fuoco non era morto ma covava silenzioso sotto uno spesso strato di ceneri. Era stata sufficiente una piccola scintilla per riattizzarlo, mentre riprendeva vigore. Si domandò se era saggio riallacciare i fili del passato, che erano pieni di nodi che non potevano essere sciolti. “Non è pericoloso credere che cinque anni siano passati invano, che ieri è oggi e che oggi sia domani?”. Una forza irrazionale lo stava prendendo per mano per condurlo verso un domani del quale non conosceva i contorni. Non si riconosceva in quest’uomo tanto diverso da quello pragmatico e freddo che era conosciuto da tutti.

Anche Annie Valentine avvertiva l’urgenza di trattenerlo. Era stato l’unico uomo della sua vita al quale aveva donato e dal quale aveva ricevuto qualcosa in cambio, anche se come tutti gli altri l’aveva lasciata. “Poco. Ma sufficiente a scaldare il cuore. Jack non crede che il cuore abbia avuto una grossa parte nel suo arrivo qui. Il cuore comanda anche il destino che si piega ai suoi desideri”.

Percepiva che era giunto il momento di piantare le radici, di costruire un futuro non più incerto e nebbioso ma chiaro e limpido. Era forte stavolta la sua volontà di costruire un percorso comune abbandonando i vecchi sentieri fino a quel momento battuti senza apprezzabili risultati. Dovevano tracciarne uno totalmente nuovo ma insieme e con la forza di un sentimento che non era mai morto.

Questa volta non avrebbe offerto il suo corpo per trattenerlo ma sarebbe stato lui a decidere se per il sì o per il no.

Non temeva una risposta negativa. L’avrebbe accettata come aveva accolto tutto quello che la sua vita le aveva offerto fino a quel istante. Nondimeno aveva una certezza perché il cuore non l’aveva mai ingannata come facevano gli altri sensi. Erano mesi che preparava la tavola per due ed erano mesi che la sparecchiava come se fossero in due a cenare.

«Fermati qui con me stasera» chiese con un tono dolce e vellutato. Non era una preghiera ma un invito da accettare o respingere. «La tavola è pronta. Le candele basta accenderle».

«E cosa serve per una cena serale al lume di candela?» La voce era ironica ma era incrinata dal desiderio di rispondere sì.

«Solo amicizia,..» e fece una pausa a effetto prima di riprendere il discorso. «Se però è amore, ti ritrovi qui a colazione».

FINE

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