Back to school

© Fred Goldstein | Dreamstime.com

Gelsomina si vergognava del suo nome e si faceva chiamare Jasmine con un pizzico di esotismo esterofilo.

Era una bella bambina, anzi ormai una ragazza di tredici anni dalla carnagione creola come se fosse appena tornata dalle vacanze al mare. Un bel dorato che conferiva un alone di mistero sulle sue origini. Se nel primo dopoguerra il tasso di bambini dalla carnagione scura era alto, un motivo c’era. La guerra, le violenze e tanti soldati di colore che chiamavano liberatori. In effetti lo erano ma gli strascichi erano tutt’altro che lievi. Però torniamo a Gelsomina… «Sgrunt!» «Ho capito. Jasmine. Chiedo scusa». Dunque Jasmine era più alta dei coetanei coi capelli nero corvini e due occhioni, veramente grandi, color del ghiaccio. Sì, avete capito bene. Ghiaccio. Sì insomma un ghiaccio un po’ sporco che virava al grigio chiaro.

Jasmine si aggirava fra i banchi del mercatino dell’usato alla ricerca di qualcosa di speciale perché tra una settimana esatta sarebbe ritornata a scuola. Era tutto nuovo: istituto, insegnanti e compagni. Questo la faceva fremere dalla curiosità di conoscere quel nuovo ambiente. La sua aspirazione era diventare ingegnere come il padre. Aveva scelto il liceo scientifico. Indecisa tra il tradizionale e quello di scienze applicate aveva optato per il secondo.

Stava per tornare a casa delusa, perché oltre ai libri in pessime condizioni e talmente vetusti che parevano vintage c’era ben poco di altri oggetti scolastici. Spille con il faccione di Marx, zainetti malmessi e pieni di scritte impossibili da rimuovere, quaderni coi soliti manga giapponesi, matite e altra paccottiglia che non facevano gola.

In un angolo del mercato, quasi nascosto, timoroso di essere visto stava un banchetto poggiato su due cavalletti instabili. Dietro era seduta una giovane donna che pareva più una zingara che altro. Vestiti sgargianti, anelli di varie fogge alle dita, capelli raccolti in un morbido chignon che valorizzava l’ovale del viso dai lineamenti delicati. Sul piano non c’era molta mercanzia come se avesse venduto tutto. Però probabilmente non era vero.

Un sorriso radioso rallegrato da due simpatiche fossette ai lati delle labbra colpirono Jasmine tanto che fu indotta a fermarsi. Quel banchetto era una calamita che attirava a dare un’occhiata alla merce esposta.

Lo sguardo si soffermò su due oggetti veramente singolari perché di fatto introvabili: un set di pennini con un calamaio in vetro lavorato e un diario dalla copertina in pelle con le iscrizioni dorate.

Sfiorò con la mano quel diario dalla copertina rosso cuoio, come si accarezza un bambino, e con ‘Gelsomina 2021’ impressa sul dorso, mentre sul davanti c’era ‘Back to school’.

«Ti piace Gelsomina?»

Queste parole paralizzarono il suo braccio rimasto a mezz’aria. “Come fa a conoscere il mio nome?” Si domandò aggrottando la fronte e sgranando i suoi occhioni color ghiaccio per lo stupore.

«Ti aspettavo Gelsomina per donarti questo diario» riprese con un tono dolce e musicale la donna che non smetteva di sorridere.

Jasmine non osava più toccare quel diario. Pareva scottare. Alzando gli occhi domandò curiosa: «Come conosce il mio nome? Non mi pare che sia una persona conosciuta da me».

La donna sollevò il diario per metterlo nelle sue mani. «Prendi. L’ho fatto preparare per te. Sapevo che oggi saresti venuta».

Jasmine era sempre più in confusione. “Preparato per me? Mi aspettava? Ma chi è?” Un turbine di pensieri e di domande avvolsero la sua mente, mentre teneva in mano il diario. Spostò lo sguardo dalla copertina alla donna ma vide il vuoto, anzi un muro scrostato dal tempo. Della donna, del banchetto non c’era nulla. Svanito. Il mercatino sembrava distante molte centinaia di metri. Mosse gli occhi in circolo ma vedeva solo il muro e la strada alle sue spalle. Però il diario di cuoio rosso con il suo nome in caratteri dorati era sempre nelle sue mani.

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Gioco del lunedì: prendo la P

Elettrosenso https://inchiostroneroweb.com propone nel suo gioco del lunedì di scrivere un post dove tutte parole iniziano con la P

“Perché persone pèrdono prima per peccato, poi per pigrizia?” pensa Piero. Prima poche parole prendono percorsi praticabili, poi piste precarie. “Prudenza” pondera prudente. Pensieri pornografici prendono parvenze premeditate per poi prospettare parole propizie: Pasqua predica preghiere.

Piero prende posto per pregare.

Lo potete trovare anche su https://wp.me/p7eKBD-28A

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Lo chalet sul lago

Questo piccolo pezzo l’avevo preparato per stare al gioco della costruzione di un romanzo a più voci. Non è stato accettato perché c’era già un pezzo sullo stesso argomento. Anziché lasciarlo lì, visto che avevo fatto la fatica di scriverlo ve lo propongo.

Puzzone e il sottomura

Il gestore dello chalet sul lago

Sento suonare furiosamente alla porta.

Chi sarà mai quell’imbecille? Vaffa…”. Alzo le chiappe dalla poltrona dove ci sto divinamente. Metto il libro che sto leggendo sul tavolino di fronte.

Mi domando che fretta c’è a suonare in questo modo. Indugio ancora guardando fuori dalla finestra. La vista mi calma un po’ e l’umore migliora. Vedo il bosco che sta cambiando colore. “È l’autunno”. Starei ore a contemplarlo ma qualcuno sta rompendo. Infatti…

Il campanello squilla di nuovo.

Sono Sandro, il gestore dello chalet L’aquila solitaria dove se capita qualcuno per sbaglio vuol dire che ha smarrito la strada.

Il lago è uno sputo d’acqua e le rive sono quasi a strapiombo. “A chi verrebbe in mente di passare una giornata lì? Solo un mentecatto!” L’unico posto pianeggiante è questo e mio nonno ha costruito con le sue mani questo chalet. Mio padre non ne ha voluto sapere niente e così è toccato a me gestirlo.

Può sembrare strano ma meno clienti vedo e meglio sto. Sono un orso da questo punto di vista. Mi piace il silenzio che il bosco fa pervenire alle mie orecchie. Adoro il profumo dei funghi in questa stagione. Insomma avete capito sono un solitario. Quando ho preso la gestione, mia moglie ha fatto fagotto e se ne è andata. Non so dove, né mi interessa saperlo. Non smetteva mai di lagnarsi, di frignare, perché lei voleva fare sempre bisboccia e io mi scocciavo. “Beh! Adesso nessuno glielo impedisce”. Rido, anzi sorrido a questo pensiero, mentre mi avvio verso la porta.

Il campanello squilla ancora in maniera sconcia.

«Arrivo! E la smetta di suonare» urlo tirandomi su le braghe che come al solito sono scese. Non è bello mostrarsi a un possibile cliente mostrando parte delle mutande. Non è che siano sporche ma non è lo stesso un bel vedere.

Tiro il catenaccio che blocca la porta di abete con un frastuono che mi perfora le tempie. “Dovrò oliarlo, perché tutte le volte produce un suono sinistro e acuto”.

Metto il naso fuori per vedere chi è lo scocciatore. Faccio un “ah!” di sorpresa. Un omone grande e grosso infila la punta della scarpa tra lo stipite e il battente per impedirmi di chiudere la porta.

«Che vuole?» Il mio tono è sgarbato quasi infastidito vedendo un possibile cliente.

«Mi manda la barista».

Mi scappa un «fanculo». Devo dirle di smettere di mandarmi dei clienti.

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