La bambina senza nome – parte settima

Prosegue la storia Di Lorenzo e della bambina raccolta per strada. La trovate su Caffè Letterario e anche qui.

Copertina Daniele

Secondo Samuele l’edificio, che ospitava la trattoria, era del quindicesimo secolo quando Monteacuto delle Alpi era un importante snodo di passaggio tra Bologna e Pistoia.

Per Lorenzo invece era più recente e avrebbe avuto circa trecento anni. Duecento in meno. «Una bella età comunque» dichiarava, «e li porta bene!» E non aveva cambiato idea nemmeno quando durante i lavori di ristrutturazione erano state trovate tracce di un incendio nella parte superiore del sottotetto.

Samuele un paio di anni dopo aver preso la residenza decise che era venuto il momento di rendere l’edificio più moderno e sicuro. Chiese l’aiuto di Lorenzo, che era tornato da Milano piuttosto ammosciato, per ristrutturare l’intero complesso formato da un corpo principale e una struttura secondaria accostata sul retro.

L’edificio di forma rettangolare con il lato più lungo si affacciava davanti su un ampio spazio suddiviso in due parti: una tenuta a prato e l’altra a parcheggio per i clienti della trattoria. Sul retro stava addossata una struttura più bassa che sembrava più vecchia del corpo principale. Lorenzo ipotizzò che fosse il nucleo originale della struttura, dove i viandanti diretti a Pistoia potevano sostare con le loro cavalcature. Le due ampie rimesse assomigliavano molto a scuderie, mentre sopra stavano delle stanze che il nonno Checco aveva strutturato in appartamento per Eleni e sua figlia. Dopo questo intervento la parte superiore aveva perso la struttura originale.

Visto che Beatrix avrebbe traslocato da Samuele, decisero di trasformarlo in un bed and breakfast, mentre una delle due rimesse era diventata un mini appartamento per aumentare la capienza e valorizzare l’intero complesso.

Come in tutte le vecchie dimore, la soffitta era il posto dove dormiva la servitù. La vecchia scala ripida e scomoda venne sostituita con una più comoda a chiocciola. La soffitta venne suddivisa in due parti. Una avrebbe funto da ripostiglio e l’altra parte sarebbe stata destinata a Lorenzo.

Arrivati nel sottotetto c’era un disimpegno disadorno, che prendeva luce da una piccola finestra a lato. Qui si aprivano due porte. Quella di destra conduceva al minuscolo appartamento occupato da Lorenzo, mentre sulla sinistra si accedeva al ripostiglio vero e proprio.

Lorenzo entrò con la ragazza in una stanza che fungeva da salotto o angolo relax. Una vecchia ottomana di cotone color écru a disegni floreali era addossata alla parete con un tavolino rotondo di ciliegio alla sua sinistra. A sinistra una minuscola libreria in legno laccato nero e sulla destra un mobile basso in radica. A completare l’arredo un tavolino con sopra un televisore. Era mobilio restaurato, in parte recuperato dal vecchio sottotetto. Due velux filtravano la luce per illuminare la stanza.

Lorenzo proseguì nella seconda stanza, arredata in modo minimale. Un letto matrimoniale in ferro battuto con testiere laccate a simboli floreali. Un comodino col piano di marmo accanto. Un armadio di ciliegio verde chiaro e una cassettiera bassa completavano gli arredi. Tre minuscole finestre e due velux la rendevano luminosa.

La ragazza lo seguiva docile. Si lasciò condurre nel bagno, dotato di una vasca con seduta e di una comoda doccia oltre agli altri sanitari. L’ambiente era abbastanza spazioso e un velux consentiva di arearlo e dare luce.

Lorenzo rimuginava che doveva dare un nome a questa fanciulla. «Visto che non vuoi dirmi come ti chiami. Per me e per gli altri sarai Esmeralda. Dunque ti chiamerò Esme per semplificare il nome».

Per un attimo lei sollevò il viso e lo guardò negli occhi come per confermare che avrebbe risposto a questo nome.

Da un armadietto bianco estrasse due teli da bagno e un paio di salviette, un guanto di juta grezza e due ciabatte di spugna.

Aperto il rubinetto dell’acqua calda riempì la vasca. La saggiò con un gomito come si fa per i bambini, vi versò senza economie dei sali profumati e invitò Esme a togliersi il sacco che indossava da quando l’aveva raccolta alla Fonte Vecchia.

Lei rimase immobile nel centro del bagno. Lorenzo sbuffò innervosito e mormorò «Fa resistenza passiva».

Stizzito afferrò dal basso il sacco e con un colpo deciso glielo tolse. Lei rimase nuda come aveva ipotizzato ma senza dare segni d’imbarazzo. Lorenzo distolse lo sguardo da quelle nudità, anche perché nel basso ventre appariva una leggera peluria nera e il seno era appena pronunciato. Con l’indice dalla mano la invitò a entrare nella vasca che emanava un impercettibile vapore profumato alle rose.

Non dovette forzarla perché di sua spontanea volontà si immerse nell’acqua, che al contatto col suo corpo si intorbidì subito.

Adesso veniva la parte più imbarazzante: sfregare con vigore il sapone sulla sua pelle compresi i genitali e il seno. Era la prima volta che lo faceva con una donna e si percepiva il suo disagio nell’adempiere a questa azione.

Un tocco delicato sulla spalla lo fece voltare. Un sorriso gli spianò le rughe dalla fronte. Aveva di fronte Bea sorridente e ironica. Le lasciò sollevato il guanto insaponato senza troppo dispiacere.

Seduto pensoso sull’ottomana Lorenzo, sorreggeva la testa sul palmo della mano appoggiata sulla sponda. Non sentiva nulla, il tempo volava e lui tremò per Bea. “Quella ragazza sembra diabolica e per nulla umana” e ricordò l’esclamazione di Otello. Abbassò leggermente le palpebre corrugando la fronte.

Quando comparve Esme avvolta in un telo bianco che lasciava scoperte due gambe snelle e slanciate e la parte superiore del petto, si raddrizzò. Un turbante azzurro avvolgeva la testa, mettendo in risalto gli occhi gialli che splendevano come oro zecchino.

Con lo sguardo la fissò come non era mai accaduto da quando l’aveva raccolta. Lorenzo sobbalzò a quella vista, ma si ricompose avvertendo fastidio per le occhiate insistenti che Esme gli lanciava.

Aspettò impaziente che comparisse Bea che tardava a mostrarsi. “Che le sia capitato qualcosa di spiacevole?”

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La bambina senza nome – terza parte

Copertina Daniele

Le altre parti le trovate prima e seconda.

La terza parte è stata pubblicata su Caffè Letterario ma la potete leggere anche qui.

In breve sul vassoio rimasero le briciole. La bambina li aveva divorati in pochi minuti. Pareva avesse una fame vecchia come il mondo.

Sandro e Otello ripresero la loro partita a carte contro Checco e Chiccaja ma sembravano forzati, senza entusiasmo. Se prima dell’arrivo di Lorenzo con la bambina ogni giocata era un lazzo, una battuta pungente, adesso il clima si era raffreddato. Poche parole ma molti sguardi inquieti verso quella cinna che suscitava troppi interrogativi su chi fosse in realtà.

Pipin e Al Pâg’ smisero di parlare di Thiago Motta, di Orso, di Skorupski e bisbigliavano osservando di sottecchi la bambina a divorare quei panini che loro ne avrebbero mangiati appena uno nello stesso tempo. Zuan di Chiccon invece era rimasto in silenzio con lo sguardo assorto, quasi assente. L’occhio era spento e le labbra serrate, ridotte a un sottile filo.

Samuele percepì che il clima era cambiato in peggio. Quelle sette persone non più giovanissime, anzi avanti nell’età, erano una costante fissa di quella sala. Non mancavano mai sia che fuori diluviasse, sia che una tormenta di neve avesse bloccato il paese. Loro erano sempre presenti e riempivano la sala col loro vociare un po’ sgraziato. Eppure era stata sufficiente la presenza di un’estranea, di una bambina enigmatica per cambiare l’atmosfera da gaia a pensierosa.

Provò a concentrarsi sul motivo della chiamata a Lorenzo ma la mente tornava di continuo su quella domanda “Chi è questa bambina?”. Non era una normale cinna come Elena, la figlia di Federico, il veterinario. “No, no!” e scosse la testa come per rafforzare il pensiero. “No! Troppo diversa e vestita male per essere un bambina di un paese nelle vicinanze”. E poi le conosceva tutte quelle dei borghi che facevano corolla a Monteacuto. Non ci voleva molto. Si potevano contare con le dita di una mano. “Dunque da dove è spuntata?” Per Samuele era un enigma irrisolto. “Lorenzo ha parlato di averla raccolta vicino alla Fonte Vecchia. Che sappia non ci sono case, nemmeno casolari nelle vicinanze. Solo roccia, arbusti e castagni. Se uno si perde lì, passano giorni prima che qualcuno lo possa soccorrere”.

Lorenzo era rimasto senza parole vedendo la piccola divorare quella montagna di panini farciti con abbondanza da Samuele. Ne voleva prendere uno da accompagnare al rosso frizzante ma non aveva fatto in tempo. La mano era rimasta a mezz’aria e vuota. Però lo stomaco brontolava perché voleva essere riempito. «Sam, me ne prepari uno con crudo e formaggio di capra stagionato?».

Samuele compì una piroetta e sparì in cucina per tornare con un mezzo sfilatino su un piatto. Lo consegnò direttamente nelle mani di Lorenzo, perché se l’avesse posato sul bancone le mani rapaci della cinna l’avrebbero artigliato prima che lui potesse afferrarlo.

Gli occhi gialli della bambina ebbero un guizzo di disappunto come una fiammata per spegnersi subito.

Lorenzo sussultò ma non mollò la presa. Aveva scorto quel lampo maligno. “Chi ho raccolto per strada?” pensò mentre masticava con vigore un boccone strappato dal pane che teneva saldo nella sinistra. Deglutì rumorosamente mentre sorseggiava il vino. Non gli era sfuggito l’atteggiamento della bambina che aveva lanciato un’occhiata carica di odio. “Eppure si avrebbe dovuto sfamare con dieci o dodici panini”. Sorrise perché definirli così era un eufemismo viste le dimensioni. Chiedere a Samuele un altro vassoio per la piccola era fuori discussione. Avrebbe spazzato via in poco tempo tutto. Si pulì la bocca dalle briciole col dorso della mano e finì il suo calice di rosso.

«Come ti chiami?» Chiese con tono dolce, cercando i suoi occhi rivolti verso il basso.

La domanda ebbe il potere di catalizzare tutti gli sguardi sulla bambina, mentre si udiva solo il roco ansare di Otello.

Nessuna risposta.

«Chi sei?»

Ancora silenzio. Sembrava che tutti avessero smesso di respirare tanto era assordante.

Adesso erano gli occhi di nove persone a fissarla senza un attimo di sosta. Tutti in attesa di una risposta che non arrivava e forse non sarebbe mai pervenuta.

Lorenzo, visti gli inutili tentativi di farla parlare, si rivolse a Samuele. «Quale impellente problema mi ha fatto scomodare dalla routine quotidiana?»

L’oste socchiuse prima l’occhio sinistro, poi quello destro come volesse concentrarsi sulla risposta. Li riaprì insieme e ammise con candore che in quel momento lo ignorava. «Ma sono certo che l’argomento era davvero importante se ti chiesto di salire dalla città».

Lorenzo strinse le labbra e serrò la mandibola per evitare una risposta che avrebbe provocato la rottura di un’amicizia che durava dall’età scolare. Non era la prima volta e non sarebbe stata nemmeno l’ultima. Adesso era lì e ci sarebbe rimasto, anche se la bambina raccolta per strada gli provocava strane sensazioni.

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La bambina senza nome

Su Caffè Letterario è stato pubblicato un nuovo post che potete leggere anche qui.

Copertina Daniele

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Il trillo del telefono lo fece sobbalzare e lo riportò alla realtà che aveva senso di esistere perché tempestata di ricordi. Guardò d’istinto la vecchia patacca, ereditata da Gaetano, amico fraterno del padre. Le cinque e dieci. «Chi può essere a questa ora?» Sbuffò innervosito dal brusco risveglio, accendendo la luce. «Solo qualche scocciatore che ha sbagliato numero».

Era una mattina d’inverno. Gennaio per la precisione e fuori era ancora buio pesto.

Stava dormendo, come fanno tutti i comuni mortali di notte, quando fu svegliato dal trillo imperioso del telefono fisso, vecchio retaggio di molti anni prima. Afferrò la cornetta, pronto a insultare chi l’aveva riportato alla veglia in modo imprevisto.

«Pronto» soffiò acido.

Nessuna risposta. Pareva muto. Eppure avvertiva che dall’altra parte c’era qualcuno. Un leggero soffio, come un ansimare represso arrivava al suo orecchio.

«Pronto» ripeté Daniele, che stava perdendo le staffe. «Chi è? Chi sei?»

Se era qualcuno che si divertiva a svegliare il suo prossimo per gioco, cascava male, pensò. Un pensiero bizzarro questo, perché non aveva nessuna idea al riguardo di come farla pagare allo scocciatore. Stava per riporre la cornetta sul suo supporto, quando udì una voce femminile. Non era la solita ragazzina arrapata, che molestava gli amici di papà. Il tono era da persona adulta. Un timbro vocale per nulla sconosciuto.

«Ciao Dani» sussurrò impacciata. «Non dormivi, vero?»

Scaricò il malumore con una risata. “Alle cinque del mattino che fa un cristiano normale?” si chiese, sistemando meglio il cuscino dietro la schiena. “Dorme di certo. A meno che…”. Scosse la testa. Non era il suo caso. Non lo era da diverso tempo. Meglio non ricordare quando, pensò contrito.

Riconobbe subito la voce roca e morbida di Natalina. Natalia e sua sorella, Natalina, si facevano fatica a distinguere al telefono. Però questa volta era sicuro. Nessun dubbio su chi era dall’altra parte della comunicazione.

tratto da Daniele

Ecco il racconto.

Lorenzo era irritato con se stesso e non lo nascondeva. La bocca serrata, la fronte aggrottata, i muscoli facciali, che si muovevano in modo frenetico contraendosi e rilassandosi.

Non era stata sua intenzione affrontare i primi contrafforti dell’Appennino con una giornata grigia che non prometteva nulla di buono. Il cielo era plumbeo non per le nubi da pioggia ma per quella nebbia stagnante a mezza altezza. Lo sapeva per certo perché giornate come questa le aveva già affrontate in passato. Su quella strada che lo conduceva alla Trattoria del Duca avrebbe trovato banchi di nebbia mobili che sarebbero comparsi dopo una curva o a metà di un breve rettifilo. Sì, lo sapeva e questi erano pericolosi perché rischiava di finire nel dirupo. Si sarebbe trovato immerso in una caligine così appiccicosa e densa da non vedere il ciglio erboso della carreggiata. Come era apparsa all’improvviso, così avrebbe lasciato il posto a un cielo terso e azzurro con un sole splendente sopra la sua testa.

Finora saliva spedito con una buona visibilità, quando dopo aver affrontato il primo tornante si era trovato al buio senza vedere nulla. Anche se era preparato, frenò d’istinto e la Fiat ebbe un brusco scarto. Era un cavallo imbizzarrito di fronte a un ostacolo. Afferrò saldo il volante e alzò il piede dal freno, moderando la velocità. Raddrizzò il muso della macchina accostando con lentezza il bordo della strada, anche se non distingueva nulla. Grigio l’asfalto umido, grigia la vista, grigio anche il verde dell’erba. Andava a memoria, perché quella strada l’aveva percorsa innumerevoli volte. Ignorava se stava percorrendo una curva oppure era in un tratto rettilineo ma poco importava. Doveva mantenere salda la direzione di marcia. Qualche goccia di sudore gli imperlò la fronte, perché di stava affidando alla sua memoria fotografica.

Rimase accecato dal sole di mezzogiorno che splendeva in cielo. Per un riflesso condizionato chiuse le palpebre per ripararsi dall’accecamento. Le riaprì subito perché era pericoloso e poteva trovarsi oltre il ciglio stradale.

Spalancò gli occhi, sbatte in rapida sequenza le palpebre. Aprì la bocca per un ‘Oh!’ di sorpresa. Di fronte a lui notò una bambina che cammina nel suo senso di marcia. Piccola, minuta con indosso un camicione dal colore indefinito e piuttosto malmesso che le cadeva addosso come un sacco di patate. Vista da dietro le attribuì cinque o sei anni.

«Che ci fa una bambina su questa strada tutta sola?» borbottò incredulo come se avesse visto un fantasma. Sorpassata si fermò davanti.

Scese e la osservò meglio. Forse la prima impressione era falsa perché aveva quei tratti prepuberali che tra un paio d’anni o forse meno l’avrebbe trasformata in una ragazza. “Non cinque o sei anni ma di certo non meno di dieci”.

La bambina si fermò e guardò dritta negli occhi Lorenzo, interrogandolo sulle sue intenzioni.

Lui la scrutò. Era senza scarpe o qualcosa per riparare i piedi che apparivano scuri per la sporcizia. Camminava scalza. I capelli lunghi erano oleosi, perché da tempo non erano stati lavati, e si appiccavano al viso scuro bruciato dal sole. Le labbra erano strette e sottili, quasi esangui. Gli occhi erano enormi di color giallo. Tra questi e la bocca stava un naso minuscolo che quasi non si notava.

«Come ti chiami?» La interrogò Lorenzo per capire chi fosse e da dove provenisse.

Le labbra sottili si serrarono ancor di più assumendo un colorito roseo.

«Dove stai andando?»

Il giallo degli occhi lampeggiò per una frazione infinitesimale prima di tornare a essere slavati come prima.

«Hai fame?» Aveva notato la magrezza delle esili gambe e braccia.

La bambina lo guardava senza nessun interesse come se fosse stato trasparente.

«Vuoi un passaggio? Io arrivo alla Trattoria del Duca» Lorenzo modulò la voce in modo da incoraggiarla a prendere uno strappo: era dolce e suadente, quasi musicale. Si girò e aprì la porta lato passeggero.

La bambina docile con lo sguardo vacuo si sedette.

Riprese la marcia. Non doveva distare molto dalla sua meta. Forse una decina minuti.

La bambina rannicchiata in posizione quasi fetale rimase muta, come se non avesse il dono della voce, mettendo in mostra due gambe che sembravano due stecchini.

Lorenzo ogni tanto le lanciava uno sguardo per accertarsi che era sempre lì sul sedile senza essere agganciata alla cintura di sicurezza che faceva emettere un bip sonoro fastidioso. Aveva dedotto che quel camicione sporco e lacero coprisse le sue nudità, perché non gli pareva di aver scorso indumenti intimi.

Aveva rinunciato a interrogarla, perché sembrava non comprendere quello che le diceva. Però forse non voleva banalmente rispondere.

Arrivati alla Trattoria del Duca scesero e per mano fecero il loro ingresso nella sala.

Tutti si volsero per osservare chi Lorenzo aveva introdotto.

[fine prima parte]

 

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Michela e Mattia

Krimhilde e le fanciulle scomparse

Su Caffè Letterario è stato pubblicato un altro spicchio di una storia al momento anonima.

Lo ripropongo anche qui.

Michela si avviò verso casa. Avvertiva dentro di sé la necessità di raccogliere i pensieri che erano scaturiti durante la mattinata e rimettere insieme i frammenti della sua vita. Non aveva senso rimanere in quelle aule popolate da facce sconosciute, che la guardavano con desiderio misto a curiosità, la spogliavano dalla corazza con cui finora si era fatto scudo. Percepiva ancora sulla propria pelle lo sguardo energico e voglioso del ragazzo che con una scusa banale aveva cercato di parlarle, di conoscerla. Si avvertiva nello sguardo la solitudine di non avere amici, nel parlare che era vuota negli affetti e insicura nelle azioni.

Il guscio che si era creato si stava sgretolando. Intuiva che sotto era nuda fisicamente e psicologicamente. Si domandava se sarebbe stata in grado di reagire al senso di ansietà che la stava tormentando trascinandola verso il basso. Sua madre era sempre più assente o meglio evanescente come un fantasma, al contrario di suo padre che le stava accanto pronto a sostenerla in ogni frangente. Questo però non le pareva sufficiente a ritrovare il senso di sicurezza smarrito negli ultimi anni.

Un aspetto non era riuscita a comprendere, perché suo padre si ostinasse a vivere sotto lo stesso tetto con sua madre, che visibilmente lo detestava e a stento lo sopportava.

Michela pensava che non avrebbe esitato un attimo ad andarsene se lei fosse stato al suo posto, perché non sarebbe riuscita a sopportare l’indifferenza di Laura, il disprezzo non troppo velato che provava verso di loro.

Le veniva da piangere, mentre a passi svelti si avvicinava a casa. Sperava di trovare solo il padre. Voleva parlargli, discutere di Laura, della loro vita e del loro futuro.

***

Mattia si immerse nel lavoro, mentre un tarlo continuava a lavorare nella sua mente in modo silente ma costante. Metà del suo corpo seguiva il suo aplomb professionale, impeccabile come un austero inglese, mentre l’altra metà sentiva la necessità di capire perché il rapporto con Laura si era ridotto a impercettibili monosillabi “Sì, no”.

Con Anna non era stato mai in confidenza, pur conoscendola da quasi vent’anni; però oggi sentiva il bisogno impellente di articolare parole con qualcuno, di esternare il dolore e la rabbia accumulata in tutto questo tempo. Non voleva consigli, ma semplicemente parlare ed essere ascoltato.

La mattina trascorse lenta, come mai lo era stato, mentre ascoltava distratto le richieste dei clienti, prendendo appunti e attivando la registrazione dei loro colloqui. Era mentalmente assente.

Aspettava con inquietudine che anche l’ultimo visitatore se ne fosse andato, lasciandolo finalmente solo con i suoi pensieri, le sue ansie, i suoi timori per Michela, che soffriva per questa situazione assurda e balorda.

Si apprestava a congedare l’ultimo cliente della mattinata, quando sentì un leggero ronzio accompagnato da una breve melodia. Era arrivato un SMS, ma non poteva distrarsi troppo, perché voleva liquidare in fretta le tre persone sedute di fronte a lui.

Finalmente solo si appoggiò allo schienale, dimenticandosi di vedere chi aveva scritto. Chiamò tramite l’interfono: «Anna, chiudi tutto. È ora di andare al ristorante».

«Sì, Mattia» rispose con tono leggermente ansioso. «Tempo cinque minuti e sono pronta».

Ora poteva concentrarsi su quello che frullava in testa dalla mattina con insistenza. Doveva solo raccogliere quanto era sparso nella mente per impacchettarlo con cura, perché tra un po’ ne avrebbe avuto bisogno.

***

Michela, arrivata a casa piangente, scoprì che suo padre non c’era e forse non sarebbe tornato a pranzo. Si sentì perduta, perché aveva bisogno di sfogare le sue paure con lui.

Si accasciò sulla poltrona con lo sguardo smarrito di un animale intrappolato, mentre le lacrime ripresero a scendere inumidendo le guance.

Papà, vieni a casa. Ho bisogno di te. Dobbiamo parlare. Michi”. Inviò il messaggio e chiuse gli occhi. Si assopì. Come in un film, rivide le sequenze della sua vita tra flash e ricordi in maniera tumultuosa ed incoerente. La madre, Laura, campeggiava e sovrastava tutte le immagini, mentre il padre, Mattia, restava nell’ombra che il corpo proiettava nella mente.

La domanda ricorrente era perché sua madre non era partecipe della sua vita.

Cosa ho fatto per essere un’estranea per lei?” si domandava nel sonno agitato e popolato di sogni ed immagini, che come un immenso caleidoscopio si scomponevano e si ricomponevano in formati differenti.

Nel dormiveglia le veniva di singhiozzare, mentre le lacrime inumidivano le ciglia.

***

Mattia prese sotto braccio Anna, che docile si sistemò al fianco. Quel contatto le fece percepire un’improvvisa voglia di lui, mentre si incamminarono verso il ristorante Don Giovanni, dove un tavolo riservato li aspettava.

Il posto non era lontano, ma distava il tempo di una breve passeggiata. La giornata era bella, come raramente capita a Milano, sempre uggiosa, mai limpida. Però il cielo era terso e in lontananza si vedevano i monti che sovrastavano la Brianza.

Anna si strinse ancora più vicina a Mattia, che immerso nei suoi pensieri non percepì il messaggio che la segretaria stava trasmettendo.

Il tragitto era stato silenzioso, ma ognuno dei due riponeva molte speranze nel pranzo: Anna di essere notata da lui e Mattia di capire dove aveva sbagliato. Però, forse, non avrebbero ottenuto nulla.

Il tavolo era in un’area appartata e discreta, lontana dalla curiosità degli altri frequentatori. Anna lo aveva scelto per potere stare più tranquilli a conversare.

Il maitre arrivò silenzioso a raccogliere le ordinazioni, quando Mattia si ricordò che qualche tempo prima era arrivato un SMS, che non aveva letto.

«Anna» disse sbiancando in viso. «Mi dispiace ma non posso trattenermi. Mia figlia ha bisogno di me». E rivolgendosi al maitre che aspettava fermo aggiunse. «Sono desolato, ma non posso gustare i vostri piatti. La signora si trattiene a pranzo. Raddoppiate l’importo come se io avessi pranzato. Pagherà tutto lei. Arrivederci».

Strinse la mano ad Anna, mentre si alzava dal tavolo. «Non so se rientro nel pomeriggio. Sarebbe opportuno disdire gli appuntamenti. Ci sentiamo più tardi».

Ad Anna mancò il respiro come se una mano invisibile le stringesse la gola, mentre le lacrime salivano dal basso verso gli occhi. Però non era il momento di piangere in quel posto dove era conosciuta come la fidata segretaria di Mattia. Quindi era il caso di ricacciarle in gola. Si sarebbe sfogata più tardi.

Ordinò, mangiò in silenzio senza alcuno stimolo in fretta, perché voleva fuggire per dare sfogo alla rabbia e alla delusione.

Ripensandoci bene, era stato meglio che non fosse avvenuto nulla e non avesse palesato il suo desiderio verso di lui. Mentre masticava il cibo senza percepire il sapore, disse a se stessa che sarebbe stata incauta manifestare le emozioni che erano in lei, perché aveva un marito verso il quale provava affetto e un figlio che era nell’età di transizione, né bambino, né ragazzo. Avrebbe potuto compromettere quasi vent’anni della sua vita con il desiderio verso Mattia senza percepire minimamente se lui avrebbe gradito le sue attenzioni. Pagò come le era stato ordinato, nonostante che il proprietario insistesse che solo un pasto era stato consumato, e si avviò verso l’ufficio per consentire alle lacrime di sgorgare copiose dagli occhi.

Mattia era impaziente di arrivare a casa per sentire la voce di Michela e dare corpo alle domande che gli avrebbe posto.

La situazione con Laura era troppo compromessa per pensare di ricomporre una frattura che era diventata un solco amplissimo. Doveva prendere una decisione, per quanto fosse dolorosa per lui, perché doveva preservare Michela, la figlia tanto amata quanto desiderata, da ulteriori sofferenze.

Sì,“ si disse mentre guidava nervoso nel traffico caotico di Milano, “devo chiudere con Laura. Stasera le comunico che intendo divorziare e dare mandato al mio avvocato per avviare le pratiche. Non posso permettermi di perdere anche Michela, che ultimamente vedo molto sofferente ed emotivamente agitata”.

Arrivato in casa vide la figlia distesa sul divano che dormiva, mentre teneva stretto il telefono in attesa di un messaggio che non sarebbe arrivato.

Michela aprì gli occhi e abbracciò il padre.

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Silvia e Laura

Su Caffè Letterario è stato da poco pubblicato un nuovo post che potete leggere anche qui.

Buona lettura

Gli occhi di Silvia si posarono sul giallo dei campi di colza che abbracciavano la strada da entrambi i lati, mentre si era protesa verso Laura, che guidava con andatura tranquilla. Percepì l’impulso di sfiorarle la nuca. Nell’incavo del collo aveva intravisto quel giallo abbagliante che si univa ai verdi intensi delle piante primaverili ed al bianco delle nuvole gonfie di vento. Gli stessi colori pulsavano in lei adesso per la semplice vicinanza.

«Chissà come sarebbe stato lo stage di Young. Mi dispiace che tu non ci sia potuta andare. Come abbiamo detto a tutti, era una buona occasione per vedere al lavoro un grande trainer, e un metodo lontanissimo da quello italiano». Risuonavano nell’abitacolo le parole di Laura appena sovrastate dal rumore del motore.

Silvia le sorrise, pensando alla telefonata del giorno precedente, perché ricordava bene quello che lei aveva detto a Laura. «Potrei dirti che ho seguito un desiderio improvviso, ma non sarebbe la verità. La verità l’ha detta il mio corpo che ribolliva tra le tue mani». Silvia aveva pensato che qualsiasi cosa venisse da Laura le sembrava un dono grande da assaporare e da godere con lentezza, anche se erano solo pochi minuti e non una giornata intera.

«Silvia, non so se stiamo tenendo un atteggiamento corretto, ma soprattutto se io lo assumo nei tuoi confronti. Però forse ti faccio del male» proruppe all’improvviso Laura rompendo il silenzio.

«Cosa dici?» Replicò quasi stizzita, mentre cercava la sua mano. Laura teneva fisso lo sguardo sulla strada come se il contatto non si fosse materializzato.

«Il male non sempre si fa con l’intento di nuocere» rispose con tono pacato, mentre tentava invano di placare l’intimo subbuglio che cresceva più intenso.

«Non ti seguo». Silvia corrugò la fronte e la voce diventò incerta e titubante come se il cielo si fosse oscurato all’improvviso e minacciasse tempesta «Ho voglia di provare i costumi per lo spettacolo. Desidero stare con te nella tua casa sul lago. Sento che mi parlerà di aspetti che non conosco. Io ti ho vista solo in quell’aula o all’interno del teatro. Ho voglia della tua vicinanza, della tua pelle, delle tue parole. Questo non è male. Non può essere il male».

Mentre Laura cercava di domare il demone del desiderio, che si affacciava nella mente, sfiorò il viso di Silvia, che cominciò ad accarezzarle la mano con la guancia finché lei non sorrise.

Il borgo, che era la meta del viaggio, apparve repentino dopo una curva, mentre uscivano da un piccolo bosco di querce e castagni nella campagna ondulata della Brianza.

Il lago splendeva in lontananza quando Laura si infilò in un dedalo di stradine, attorniate da piccole case antiche. Silvia chiese di scendere, perché voleva percorrerle a piedi. Laura sorrise a questa richiesta, perché le sembrava una bambina con il viso solcato dalle emozione di chi vede per la prima volta un mondo nuovo tutto da scoprire.

In quelle vie strette e poco baciate dal sole c’era il negozio di costumi teatrali più ricercato dalle compagnie Loro arrivarono in silenzio tenendosi per mano.

La proprietaria riconobbe subito Laura che conosceva di vista dai tempi in cui faceva la costumista teatrale, accogliendole affabilmente. Raccontò di aver aperto la sua attività da dieci anni in questo borgo lontano dalle strade di grande scorrimento e di non aver risentito dello spostamento da Milano. I suoi costumi e la sua competenza continuavano ad essere ricercati dalle compagnie sia professionali che amatoriali.

«Cerchiamo i costumi delle protagoniste per una piccola rappresentazione di ‘Romeo e Giulietta’, che farò con i miei allievi del secondo anno tra poco meno di un mese». Spiegò Laura con tono professionale e garbato.

«Che taglia?» Rispose la costumista con una punta di incertezza mista a dubbio, perché le sembrava strano che venisse una persona sola a provare i costumi per le diverse interpreti.

«Li proverà lei, che è Nutrice» continuò Laura con voce decisa e secca ritenendo inopportuno dare altre spiegazioni.

La proprietaria in silenzio andò nel retrobottega a prendere due costumi uno per Giulietta ed uno per Nutrice. Mentre li provavano, ne avrebbe presi altri, anche se sapeva che sarebbe stata fatica inutile. Era certa che avrebbero scelto questi, ignorando gli altri. L’esperienza maturata in tanti anni e la conoscenza dei gusti di Laura le suggerirono che i due costumi avrebbero messo in risalto la figura di questa ragazza minuta e pallida. Si domandò quale strano rapporto intercorresse tra le due donne tanto diverse per aspetto ed età.

Silvia entrò nel camerino con un abito blu di broccatello, si tolse i jeans e la canotta, rimanendo con le sole mutandine. Sentì alle sue spalle una presenza che le accarezzava la nuca con la lingua. Si girò delicatamente e guardò in silenzio con gli occhi che scintillavano di piacere nel sentire il desiderio crescere dentro di lei.

«Come va?» La proprietaria stava davanti al mucchio di costumi da provare. Laura chiuse la lampo sulla schiena di Silvia che le sorrise maliziosa, mentre uscivano dal camerino. L’abito faceva risaltare la pelle chiara. Il taglio impero le sottolineava il seno. Era semplicemente perfetto. L’effetto era quello atteso.

Che sto facendo? Potrebbe essere mia figlia” si disse mentre un pensiero doloroso attraversava la mente di Laura. Guardò Silvia che le sorrideva con una grazia che non aveva mai avuto prima di allora, piena di luce, e si rincuorò, ricambiando il sorriso.

«Ora il costume della nutrice, il tuo. Mia saggia Nutrice» disse con voce leggera e sonora Laura per interrompere quel flusso di pensieri che aleggiavano minacciosi nella testa.

La scollatura arricciata dell’abito esaltava il piccolo seno di Silvia e la linea semplice seguiva i suoi fianchi. Si sentiva per la prima volta una giovane bellissima donna, sotto lo sguardo attento e dolce di Laura.

La proprietaria era soddisfatta perché aveva intuito cosa cercavano. Ripose con cura nelle confezioni i ricchi abiti di Giulietta e della Nutrice. Laura saldò il conto, mentre percepiva netto lo sguardo curioso della costumista su di loro. Però era una donna di teatro, dove la libertà e la capacità di non restare in un ruolo prestabilito erano valori condivisi. La proprietaria uscì dal bancone per salutarle e le baciò sulle guance, come si usa nell’ambiente, mentre Laura stringeva la mano di Silvia. E uscirono coi pacchi a dondolare sulle loro gambe.

La casa non era molto distante appena fuori dal paese e il lago splendeva davanti a loro illuminato da un luminoso sole di aprile.

Silvia lo vedeva attraverso il finestrino ed assaporava ogni sfumatura della luce che increspava la quiete dell’acqua. Le pareva che Laura fosse serena accanto a lei, mentre la vedeva sorridere con tenerezza.

Arrivarono davanti ad una casetta bianca, semplice e isolata, circondata su due lati da un fitto faggeto. Il prato prospiciente l’ingresso era ben curato con macchie di rose che stavano fiorendo.

Entrarono accolte da una vasta stanza con il camino in un angolo e la cucina a vista dalla parte opposta, mentre una scala in legno portava al soppalco, dove troneggiava un letto matrimoniale.

Laura aveva scelto mobili rustici di legno fulvo e tappeti etnici. Silvia si soffermò a lungo davanti ai calchi di maschere greche, alle maschere africane di legno, a quelle della commedia dell’arte.

«Chissà quanti pezzi hai…» iniziò Silvia stupita per la quantità e la varietà di maschere appese alle pareti ed in ogni dove.

«Non ne ho di maschere a casa» la interruppe subito Laura per troncare domande imbarazzanti «Qui c’è la collezione che avevo prima di sposarmi. Qualche pezzo è dono di mio marito, ma quando ho smesso di viaggiare non ho più aggiornato la mia raccolta».

«Cosa è successo?» chiese titubante, come se avesse il timore di aprire un cesto del quale ignorava il contenuto.

«Ho avuto un grave crollo nervoso durante la gravidanza e dopo la nascita di mia figlia. Michela è stata allevata dal padre, anche se io nominalmente sono la madre. Io non sono quella donna che ho voluto mostrare, per non mandare in pezzi la mia vita esteriore composta da marito e famiglia». Sottolineò queste parole con un sorriso pieno di dolore e proseguì che la maternità non voluta aveva trasformato l’amore per Mattia in rancore sordo mai dissimulato nonostante che lui la colmasse di attenzioni.

«Come ti ho detto, non è stato un desiderio improvviso quello che ho provato per te. È che mi hai permesso di far emergere la parte del mio essere nascosto e mai conosciuto». Le sorrise con dolcezza stringendole la mano, mentre Silvia spiegava come si fosse sentita attratta da lei.

Lei cercava aiuto e protezione, amore e desiderio. Aveva sentito a poco a poco che la loro vicinanza si stava trasformando in qualcosa di diverso, quando ebbe la certezza dei suoi sentimenti durante l’incontro di qualche giorno prima.

Erano al centro della stanza e si fissavano con intensità pronte ad esternare le loro sensazioni, ma Laura si sentiva in dovere di spiegare, di precisare, di rendere manifesto quello che in tutti questi anni aveva trattenuto dentro di sé.

«Sto maturando l’idea di andare via da casa, di separarmi da mio marito, di pensare a me stessa con una visione differente della mia vita».

Era consapevole che la casa in cui viveva le andava stretta, mortificava la sua creatività, si sentiva prigioniera di un cliché, che era estraneo alla sua personalità.

«Percepisco che ho delle colpe verso di lui, e soprattutto verso mia figlia, che ha più o meno la tua età. Entrambi mostrano affetto verso di me, che non riesco a ricambiare. Intuisco che devo stare da sola coi miei pensieri e le mie emozioni per ritrovare la calma che in questi anni ho smarrito. Non temere, perché un posto per te ci sarà sempre».

Silvia abbracciò Laura che cominciò a piangere.

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Elisa e Silvia

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Elisa tornata nelle prime ore del pomeriggio si accorse che Silvia era rientrata ed era uscita di nuovo. Sospirò, perché sperava di vederla lì in attesa pronta a discutere con lei.

Peccato” si disse respirando rumorosamente “Ora tocca a me restare in attesa a tormentarmi con dubbi ed incertezze”.

Rimase seduta in silenzio mentre la penombra avanzava nella casa finché non senti un calpestio nell’ingresso.

Non diede il benvenuto a Silvia, mentre pensava a cosa dire. Tutti i pensieri erano svaniti persi nel buio della casa e ora non c’era tempo per raccoglierli e rimetterli in sesto.

Ne troverò degli altri”. Rifletté per trovare il coraggio di affrontare la figlia. “Ora non penso a niente, poi le parole fluiranno da sole e si comporranno come d’incanto”.

Silvia andò nella sua stanza, poi in cucina alla ricerca di qualcosa da mangiare, perché il pensiero di incontrare Elisa e discutere con lei l’aveva lasciato fuori dall’uscio di casa. Adesso pensava a placare la fame.

Quando vide la madre nella stanza buia seduta composta in silenzio, rimase un primo istante sorpresa e poi ricordò il motivo che l’aveva condotta a rientrare in città.

«Ciao» disse con tono neutro. «Cosa fai al buio? Perché non mi hai salutato quando sono entrata?» Dopo aver acceso le luci della sala aspettò le risposte in mezzo alla stanza.

«Ciao» fu la replica laconica di Elisa, che rimase seduta in silenzio.

Silvia spazientita dal suo tacere si fermò irritata e nervosa di fronte alla madre. «Hai detto che intendevi parlarmi. Non riesco immaginare l’argomento visto che sono anni che ti rifiuti di parlare con me e Sofia».

Ignorava i motivi che l’avevano indotta a richiederle di tornare a casa con urgenza.

Poi tacque aspettando che Elisa facesse uscire qualche suono dalla bocca, anche se aveva molti dubbi che avrebbe avuto il coraggio di farle una predica su come conduceva la sua esistenza.

Ricordava con quale asprezza stava a tavola con loro senza pronunciare una qualsiasi parola o dare segno di ascoltare le loro chiacchiere. Sembrava assente e in trance rapita, assorta in mille altri pensieri. Poi spariva come un fantasma fino alla prossima apparizione.

Elisa come se si fosse svegliata in quell’istante raccolse i pensieri che aveva preparato. Si concentrò sul tono di voce da usare.

«Silvia» e fece una piccola pausa.

«Silvia» riprese con la voce incrinata dal timore di non riuscire a esprimere i suoi pensieri. «Sei ormai una donna ed io non sono stata in questi anni quello che si dice una madre priva di pecche. Però non posso fare a meno di disapprovare il rapporto che hai con l’insegnante di recitazione, quella regista ormai matura con cui ti vedi e ti senti».

Si fermò osservando la figlia in piedi dinnanzi a lei senza distogliere lo sguardo.

Silvia diventò rossa per l’ira che stava montando e aprì la bocca per urlarle in faccia tutto il malumore che aveva covato in questi anni, ma non uscì alcun suono. Non ne fu capace. Sembrava che fosse stata colpita da un’improvvisa afasia.

«Siediti accanto a me e calmati» proseguì, facendole posto sul divano.

Elisa parlò con pacatezza a tono basso mentre Silvia calmava a poco a poco il tumulto interno che le aveva impedito di proferire parola.

Discussero sul rapporto con Laura, su i suoi errori, commessi con le figlie, dei rapporti tesi con Riccardo. Fu un confronto serrato e aspro allo stesso tempo.

Silvia difese con ostinazione la scelta di evitare gli uomini che identificava col padre, che per lei era un traditore. Non comprendeva perché Elisa non voleva accettare la sua volontà di escludere gli uomini dai suoi pensieri. Però espose tutto questo in modo confuso senza riuscire a esporre con una logica stringente le sue idee.

Elisa senza fretta e con pacatezza smontava le teorie, le argomentazioni, i pensieri, perché le affermazioni era prive di solidità, sconnesse. Avrebbe avuto vita facile a convincerla nel lungo termine, se Silvia avesse proseguito nella sua esposizione confusa.

Non aveva fatto però i conti con la testarda ostinazione della figlia, che riusciva a rendere razionali i propri pensieri tramite le risposte della madre.

«Mamma» disse ergendosi davanti a lei. Si era rinfrancata e aveva acquisito lucidità nell’esporre le sue opinioni. «Siamo qui da tempo e nessuna delle due è riuscita a persuadere l’altra. Non capisco perché dopo anni di silenzio e di disinteresse ora vuoi convincermi che il mio rapporto con Laura è sbagliato. Inoltre hai coinvolto anche Riccardo, che non vedo e non sento da oltre quattro anni e con il quale non intendo riallacciare nessun rapporto. Ormai sono una donna e la mia sessualità la decido io».

Senza salutare si rinchiuse nella sua stanza. Per sbollire le tossine della lunga discussione mise le cuffiette dell’IPOD per ascoltare i Coldplay. Mentre la musica invadeva col suono martellante la sua mente, lei si sentiva come un uccello in gabbia.

Elisa rimase per un po’ seduta percependo che era fallita prima come moglie poi come madre. Il suo rapportarsi con le altre persone era quello di porsi al centro dell’attenzione facendo affidamento su un potere che era solo nella sua immaginazione.

Pensava di diventare archeologa e girare il mondo, ma era diventata schedatrice di ruderi, reperti fatiscenti e qualche crosta sfuggita alle ruberie. Un momento di scoramento l’assalì, mentre stava pagando il prezzo della tensione accumulata in tutti questi anni. Era svuotata di tutto dai pensieri alle forze, mentre pensava al ruolo a cui era stata condannata senza che lei avesse opposto resistenza.

Si alzò con gli occhi pieni di tristezza per andare, ma non lo sapeva nemmeno lei.

Aprì la porta e sparì.

Silvia, che aspettava la madre nella stanza per chiudere il discorso, udì la porta chiudersi e poi il silenzio che calava nella casa.

Tolte le cuffiette andò nella sala, dove trovò appoggiato sul divano il telefono di Elisa che pulsava per una chiamata in arrivo e un paio di SMS in attesa di essere letti. Corse alla dependance nella speranza vana di trovarla immersa nei suoi pensieri, ma anche lì regnava buio e silenzio.

Si accasciò disperata mentre le lacrime bagnavano il suo viso. Ora sapeva che non l’avrebbe più rivista.

Altra variante della copertina del nuovo romanzo che andrà in prenotazione nei prossimi giorni per consegna 1 settembre.

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Elisa 2

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Elisa uscì, nel vapore del mattino d’aprile, già toccato dai primi raggi di sole. Si diresse in campagna. In poco più di trenta minuti di cammino raggiunse attraverso un sentiero una collina bassa circondata da vigne. A quell’ora la radura era silenziosa di voci umane. Spesso la tranquillità di quel luogo accoglieva i suoi passi in ogni stagione dell’anno.

Elisa osservava ogni dettaglio. Il fruscio di qualche piccolo animale nell’erba, gli uccelli che cominciavano i loro canti nascosti tra le fronde degli alberi. Godeva del respiro della collina sul viso, ancorché freddo quella mattina. L’inverno era finito ma i suoi occhi non erano ancora sazi di guardarlo.

Amava il freddo e le dispiaceva che il clima fosse divenuto più mite negli ultimi tempi, sottraendole in parte la possibilità di ammirare le opere d’arte che la natura scolpiva nel gelo.

Negli anni della maturità aveva riscoperto la sua passione più antica, messa da parte in quelli che lei chiamava gli anni dell’inganno.

Quella mattina voleva fotografare l’erba bagnata, la nebbia vinta dal sole. Lasciò che la bellezza di quel luogo le si dischiudesse in particolari che mai aveva notato.

La collina era ricoperta di vegetazione spontanea, e appena si scendeva un poco, si aprivano le vigne e semplici giardini. C’erano ancora dei ricci di castagno in terra, caduti nell’autunno passato, e le foglie nocciola li coprivano e li rivelavano, attraverso il suono che emettevano sotto i suoi passi delicati.

Era stata su quella radura in cima alla collina un giorno in cui aveva nevicato. Si sentiva quasi un lupo nella neve. La sua mente era silenziosa e piena di pace.

Quella mattina scattò duecento fotografie. Era stata ben contenta di passare alla fotografia digitale. Non era una purista, e seppure aveva iniziato con quelle tradizionali, non capiva per quale motivo non doveva accettare quell’innovazione tecnologica che consentiva di studiare più agevolmente le inquadrature in centinaia di scatti, per poter scavare in un soggetto fino ad avvicinarsi alla sua anima.

Silvia l’aveva vista uscire con un semplice cappello di feltro, guanti leggeri e stivali per non affondare nella neve e le augurò sorridendo «Divertiti, mamma».

Conosceva l’abitudine di sua madre una volta a casa: avrebbe scaricato le immagini sul computer dicendo, come sempre «Sono tutte brutte, solo qualcuna un po’ carina». Talvolta l’invitava a esaminare gli scatti con lei, ma succedeva di rado. Silvia non osava domandare alla madre di farla assistere alla “scoperta” delle foto, come era solito chiamare questo rito.

Elisa amava fotografare la campagna, ma soprattutto aveva la passione del disegno utilizzando le foto come rilievi al servizio di quello che aveva immaginato. Non aveva reale necessità di un supporto fotografico, la sua manualità e creatività erano eccellenti fin dai tempi della scuola, ma per lei si trattava di una specie di esercizio di precisione, che si basava sul riprodurre con esattezza l’immagine.

La sua passione per la fotografia era nata negli anni Ottanta, quando un amico di famiglia le aveva insegnato i rudimenti dell’arte, che in seguito aveva approfondito con corsi specifici durante gli anni di accademia.

In quel periodo la fotografia la aiutava a ritrovare serenità nei momenti in cui sembrava che nessuno, al di fuori della sua famiglia, la capisse o la tenesse in considerazione.

Oltre alla fotografia disegnava moltissimo. Se in gioventù amava molto il rosso pastoso e forte della sanguigna, negli anni della maturità aveva preferito i toni morbidi dell’acquerello e della tempera. Creava paesaggi con tinte soffuse e delicate ricavando l’ispirazione dalle sue fotografie.

A sua insaputa Silvia entrava nel laboratorio che Elisa aveva allestito in una piccola dependance accanto alla casa.

Prima di diventare la sua ‘officina’, l’area era stata utilizzata da Riccardo come locale di appoggio alla propria attività di vivaista.

Molti mesi dopo che l’ex marito se n’era andato, Elisa sentì che era giunto il tempo di ricostruirsi una vita propria. Nel silenzio aveva cominciato a lavorare alla dependance per renderla confortevole. Aveva imbiancato le pareti e ripulito il pavimento dai residui della vecchia attività. Aveva collocato un vecchio divano in pelle recuperato dalla casa dei genitori, sistemato un tavolo da lavoro su cui poneva i colori e quanto le serviva per dipingere. Talvolta si fermava lì a dormire.

Silvia sapeva dove trovare sua madre e immaginava che forse nella quiete della dependance sarebbe riuscita a trovare quella pace interiore perduta al tempo della rottura con Riccardo.

Dopo la separazione Elisa si era presa un breve periodo di aspettativa per assorbire tutte le amarezze subite, poi aveva ripreso il lavoro come schedatrice presso la Sovrintendenza ai Beni Artistici. Il fatto di spostarsi per raggiungere la località in cui erano conservate le opere e il trovarsi sovente a lavorare sola nelle antiche chiese favoriva la sua concentrazione. Amava quel lavoro, che non la occupava molte ore al giorno e la metteva a contatto con opere d’arte quasi sconosciute, che le sue analisi contribuivano a riportare alla luce.

Durante il ritorno dalla passeggiata mattutina rifletteva sulla sua situazione e sulle tante insoddisfazioni che aveva dovuto sopportare.

Sono stata troppi anni lontana da me. Presa dal piacere ad altri, che fossero quegli odiosi compagni di scuola, che fossero gli uomini più grandi ai quali mi sono concessa per sentire che potevo piacere, che fosse pure Riccardo, a cui non interessava nulla di me, di come stavo, di come vivevo la nostra relazione, la nostra vita insieme. Gli uomini credono che i problemi sessuali nascano in camera da letto. Chissà perché non riescono a vedere la sofferenza che ci fa ripiegare su noi stessi. All’inizio Riccardo sembrava interessato. Mi parlava con amore, mi ascoltava. Non potevo credere di aver conquistato un uomo così bello e affascinante. Invece non era vero nulla di tutto questo. Mi aveva presa per una lupa, come gli altri prima di lui. A me non interessava solo la sua carne, avevo bisogno di sentire l’importanza che avevo per lui. Ho compreso troppo tardi che non era disposto a nessun sacrificio per starmi vicino. È stato un buon padre, glielo devo riconoscere. Pieno di gioia con le bambine, un po’ troppo poco severo, forse. Silvia è come me, è introversa, non gli somiglia e non lo capisce. Sofia lo adora, e non farò mai nulla perché questo loro rapporto cambi. Sofia ha presa bene la nostra separazione. Almeno lei. Io non l’ho aiutata. Io non ho aiutato nessuno. Ne avevo appena per me. Non so se sono stata, e se sono una buona madre. Non credo. Specialmente per Silvia, che ha bisogno di qualcuno vicino, che le spieghi quello che vede succedere, anche adesso che è grande. Ma ancora non ho la forza per farlo”.

 

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Elisa

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Krimhilde e le fanciulle scomparse

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Elisa, una donna di statura media, aveva i capelli ricci e scuri. Gli occhi non erano molto espressivi per l’azzurro chiaro slavato senza luce che si smorzava sul viso troppo bianco. Ai tempi della scuola non aveva corteggiatori e questo l’aveva infastidita non poco. Mentre le compagne avevano nugoli di ragazzini brufolosi intorno, lei era sempre sola. Il seno era stato un altro suo cruccio. Era minuscolo, quasi invisibile, diversamente dalle compagne che ne avevano in abbondanza. In quel periodo faticava a comprendere quali sensazioni provassero a essere palpeggiate, perché lei non era l’oggetto del desiderio dei compagni.

Il suo carattere scontroso non aveva favorito i rapporti coi compagni. I maschi non la degnavano di uno sguardo. «È uno scorfano» era il loro migliore complimento. Le ragazze la snobbavano trattandola con superiorità. Per questi motivi aveva iniziato a guardare con attenzione al mondo degli adulti che le sembrava più interessante rispetto a quello dei coetanei. Non aveva mai visto un corpo nudo né femminile né maschile. Le uniche nudità erano le foto e i giornaletti hard che circolavano numerosi tra i banchi di scuola. I genitori erano stati discreti sia nei rapporti di coppia sia nel girare nudi per casa per non turbare la figlia e non avevano mai parlato con lei di sesso. Quello che sapeva l’aveva appreso dagli altri ragazzi senza comprenderne i meccanismi.

Elisa aveva fantasticato come avrebbe potuto essere un uomo adulto nudo e avrebbe voluto vedere suo padre se corrispondeva alle sue fantasie. La sua curiosità venne soddisfatta a quattordici anni una sera di fine giugno particolarmente calda. Non riusciva a prendere sonno, quando sentì dei rumori provenienti dalla stanza dei genitori, si alzò e non vista poté osservare prima la madre poi il padre che nudi andavano nel bagno. Il membro del padre la colpì perché non aveva immaginato che potesse essere così grosso e lungo. Tornata in silenzio a letto aveva cominciato a sognare in maniera confusa di essere posseduta da un uomo che aveva le sue sembianze. Alla mattina si era svegliata coi capezzoli turgidi e duri, con le mutandine bagnate e odorose di un profumo strano.

Continuò a sognare amplessi impossibili perché non aveva idea in quale posizione una donna doveva stare durante un rapporto sessuale finché un giorno non aveva sorpreso Angela, una ragazza di ventidue anni abitante nel suo caseggiato, negli scantinati con un uomo. Era sdraiata su un tavolo basso con le gambe aperte a penzoloni, con la gonna sollevata e gli slip su un piede. Era sovrastata da uno, che riconobbe come un vicino sposato con figli: aveva i pantaloni e le mutande abbassate. Aveva osservato con curiosità Angela e come lei assecondava l’andirivieni dell’uomo, inarcando la schiena. Era affascinata e non aveva staccato gli occhi dai loro movimenti. Adesso sarebbe stata in grado di trasformare i suoi sogni in qualcosa di reale. Ebbe modo di studiare altre volte questi amplessi. Sempre più spesso si trovava alla mattina bagnata e sempre con quell’odore strano. Capì che erano gli umori che la sua vagina emetteva durante i sogni notturni. Elisa in quell’estate si era trasformata da adolescente acerba a ragazza, mentre agli occhi dei coetanei rimaneva un’estranea, sempre più diversa.

Finite le medie, era il tempo d’iscriversi alle scuole superiori. Doveva operare una scelta. Era attratta dai monumenti antichi, dai ritrovamenti di reperti e amava il bello. Essendo brava a disegnare scelse l’Accademia di Belle Arti. In quel ambiente meno conformista, rispetto alla scuola frequentata fino allora, acquisì un’aria di mistero e divenne più impenetrabile ed enigmatica, sfuggente e sensuale. Il suo corpo emanava un odore mascolino che le donava un fascino tutto particolare. Gli occhi chiari senza luci si illuminavano nel momento in cui incrociava un uomo che le piaceva e come un’ammaliatrice catturava la loro attenzione con il suo sex appeal.

A sedici anni sembrava più matura della sua età. Attirava l’attenzione di uomini adulti o molto maturi che desideravano o speravano di avere rapporti sessuali, che lei riusciva a evitare all’ultimo momento per paura.

Quasi tutte le notti esplorava il monte di venere coperto da pelli soffici e serici per poi scendere con le dita tra le grandi labbra fino al imene che avvertiva elastico e morbido. Provava piacere nel sentire quella membrana flettersi dolcemente sotto la pressione delle sue dita. Si sentiva pronta a stare fra le braccia di uomo.

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Il tramonto

da pexels-pixabay

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Il tramonto l’aveva sempre affascinata. Si perse nell’assistere allo spettacolo del sole che calava dietro quel boschetto nella campagna piatta della pianura.

Camilla si era fermata sul ciglio della strada per fissare nella retina quel disco rosso che imporporava il cielo ricoperto da nuvole.

Era un fermo immagine che voleva conservare nella mente, mentre le ombre della sera diventavano lunghe e scure.

Riavviò la macchina e riprese il tragitto verso casa. Lo stradone era deserto, mentre i fari dell’auto tagliavano l’oscurità del giorno morente.

Spense la radio. Non voleva interrompere il flusso dei pensieri. La giornata odierna per Camilla era stata pesante e solo la visione di quello spettacolare tramonto aveva avuto il potere di spezzare la spirale negativa della sua mente.

Era cominciata male al risveglio. Carlo era indisponente più del solito. Non andava bene nulla. La camicia stirata, i pantaloni in tintoria, come se fosse colpa sua se lui li sporcava a tavola, la giacca sgualcita. Sembrava che volesse attaccar briga su ogni cosa.

«Sei noioso» aveva esternato Camilla, sbuffando, mentre davanti allo specchio modellava le labbra col rossetto. «Non sono la tua schiava».

Carlo urlò qualcosa che lei non capì a pieno o forse finse di non sentire. Alzò le spalle. “Urla quanto vuoi” pensò, mentre finiva di cotonarsi i capelli.

«Il caffè è freddo» gridò con voce stridula.

«Dovevi alzarti prima, anziché poltrire nel letto» rimbeccò Camilla, che cominciava a manifestare insofferenza alle parole del compagno.

«Ma io esco un’ora dopo di te» precisò Carlo.

Camilla sorrise e si morse il labbro, contando fino a dieci. Tutte le mattine era una replica dei suoi lamenti per il caffè. “Beato te, che puoi startene sotto le coperte un’ora in più” pensò, osservando con la coda dell’occhio la sveglietta sul ripiano di cristallo del bagno. Erano le sette e se non si sbrigava sarebbe arrivata tardi in ufficio. Doveva percorrere un bel tragitto. Almeno un’ora di viaggio. Questo tutte le mattine. Doveva tenersi almeno venti minuti di margine, perché un ingorgo o un incidente avrebbe allungato i tempi di percorrenza.

«Ciao» disse Camilla, afferrando le chiavi e la tracolla prima di uscire.

Carlo grugnì qualcosa come il solito.

Camilla viveva in coppia con lui da cinque anni ma il loro rapporto tendeva a deteriorarsi un giorno dopo l’altro. Il grande amore iniziale stava lasciando il posto alla freddezza di sopportarsi a stento. Quello che li teneva uniti al momento era il mutuo della casa ma presto anche questo pretesto sarebbe caduto. Almeno era la convinzione di Camilla, che doveva decidere se comprare l’altra metà dell’appartamento oppure vendere tutto e trasferirsi vicino al lavoro. Tutti i giorni doveva farsi una cinquantina di chilometri per raggiungerlo e questo cominciava a pesarle.

Se poi ci aggiungeva la difficoltà a trovare un parcheggio comodo vicino, il pensiero di trasferirsi diventava quasi certezza. Le piaceva l’idea di andarci in bicicletta o a piedi e tornare a casa durante la pausa pranzo. “Anche oggi devo sostare lontano” sbuffò, mentre infilava la sua Toyota tra due suv.

Camilla era interior designer senior in uno studio di architettura, dove progettava gli interni di appartamenti e uffici. Nonostante avesse poco più di trent’anni, aveva fatto carriera in fretta per la sua capacità di coniugare raffinatezza e praticità in maniera funzionale alle persone che dovevano vivere o lavorare in quei locali. Una dote professionale che era stata apprezzata dal capo dello studio.

Entrando nell’ufficio, aveva trovato un appunto del suo capo: una grossa grana da risolvere in fretta.

Il cliente Amos non è rimasto soddisfatto del lavoro di Anna. Puoi dare un’occhiata?

Un modo elegante per dire che il progetto era da rifare. Sbuffò indispettita perché la giornata minacciava a proseguire male dopo i prodromi del risveglio.

Se c’era un aspetto del suo lavoro che la innervosiva era dover intervenire sull’operato di qualche collega con gli inevitabili peggioramenti dei rapporti interpersonali. Nello studio oltre a lei c’erano altri tre che operavano nel suo campo e ognuno aveva la propria sensibilità e il proprio tocco personale nella progettazione. Agire su questo le creava ansia, perché si rischiava di rendere disomogeneo il colpo d’occhio complessivo oltre al loro astio.

Con Anna non c’era sintonia. Estrosa e innovativa badava poco al funzionale con ricadute negative sull’uso della concreto dell’ambiente da progettare. Camilla aveva convenuto che fosse stato un azzardo affidare il progetto del loft ad Anna, conoscendo come Amos fosse poco incline alle stravaganze moderne della collega. Ne aveva parlato con Marco ma lui era stato irremovibile, perché Anna aveva delle buone qualità potenziali ma doveva maturare nella sensibilità di adeguare le sue idee al cliente.

Adesso puntuale era scoppiata la grana e lei doveva metterci una pezza. Stava seguendo un progetto di riqualificazione urbana impegnativo e delicato, perché l’opposizione politica aveva gridato all’inciucio, quando l’amministrazione comunale aveva affidato allo studio tutti i lavori. Quindi sotto i riflettori mediatici il team, del quale faceva parte, doveva rispettare tempi e costi per non finire sulla graticola delle polemiche politiche. Staccarsi dal progetto, anche solo per mezza giornata, rischiava d’innescare dei problemi nella tempistica delle attività. Il percorso da seguire era stretto e loro non potevano uscire dai margini imposti dal bando.

Camilla non aveva un’idea né delle rimostranze di Amos né del progetto di Anna. “Mi scoccia un po’ andare a parlare con lei su questo” rifletté, sedendosi alla sua scrivania. Era consapevole che alla fine si sarebbe tramutato in un corpo a corpo l’intervento. Con Anna che difendeva le proprie scelte e lei che doveva trovare la quadratura del cerchio.

Si massaggiò le tempie per scaricare la tensione che in poche ore aveva accumulato, prima di cominciare la discussione.

Camilla fu un facile profeta. Dopo otto ore di estenuante battaglia riuscì a convincerla a modificare parzialmente il progetto per renderlo più funzionale e adatto alle esigenze del cliente.

Alle diciassette, quando uscì dallo studio per tornare a casa, aveva un grosso cerchio alla testa, che pareva scoppiarle, come regalo della battaglia con Anna. A questo si aggiungeva il pensiero di vedere Carlo, che faticava a sopportarlo. Avrebbe preferito rimanere in ufficio tutta la notte anziché sentire la sua voce.

La visione del tramonto ebbe il potere di sciogliere lo stress accumulato per affrontare una nuova serata col compagno.

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Zia Betta

foto personale

L’aria frizzante accarezza il viso di Jonny Twit come può esserlo in una giornata di metà primavera. La collina è di un verde smeraldo e gli alberi stanno mettendo le prime foglie.

Sulla sua cima sta un piccolo camposanto che il consiglio comunale vuole dismettere per trasferirlo in un altro posto meno impervio. La salita in terra battuta è difficile da fare quando le condizioni meteo non sono ottimali. Però non ha mai voluto procedere alla sua asfaltatura perché avrebbe deturpato il paesaggio.

Ogni parente avrebbe dovuto disseppellire i propri cari e poi trasferirli nel nuovo cimitero vicino al fiume.

Jonny Twit con la zia Betta, armati di pala, salgono lentamente lo stradello, preceduti da tante altre persone intenzionate a fare altrettanto. Zia Betta è una vecchietta rattrappita dal viso rugoso e dai capelli bianchi raccolti a crocchia. Tuttavia ha ancora molte energie da spendere nonostante l’età.

È tutto uno scavare, un sudore appena mitigato dalla brezza del mattino. Zia Betta si aggira tra le lapidi storte per i tumoli che si sono incassati nel terreno.

«Ma zia! Non è lo zio!» Urla Jonny Twit vedendola attorno a una lapide sconosciuta.

La vecchietta scuote il capo e continua con la pala a scavare, mentre Jonny Twit si precipita accanto a lei. «Ma è Pete Monkey!»

«Ma certo che Pete!» Rimbecca zia Betta. «Vuoi che non lo sappia! Ora chiudi il becco e aiutami a scavare».

Riprende la pala e continua ad affondarla nella terra soffice e grassa, mentre l’accumula di fianco alla fossa.

Un rumore sordo fa capire di aver raggiunto la bara che appare come nuova.

«Jonny non ce la facciamo a sollevarla» afferma sconsolata zia Betta che si guarda intorno alla ricerca di aiuto.

Scorge quattro uomini robusti che stanno sollevando una grossa bara poco distante.

«Ehi! Mi date una mano a portare questa a casa mia?»

Alzano il viso, si guardano e poi si dirigono dove stanno Jonny Twit e zia Betta. La imbragano per estrarla dalla fossa e poi la trascinano fino alla casa della vecchietta, deponendola nel salotto.

Zia Betta li ringrazia con le parole e un fascio di banconote.

Jonny Twit la osserva esterrefatto e la prega di non aprirla.

«Voglio vedere Pete» afferma risoluta la vecchietta che dà quattro colpi ben assestati facendo scivolare a terra il coperchio.

«Oh!»

Zia Betta ha gli occhi spalancati e la bocca aperta per lo stupore. All’interno Pete mostra un viso roseo, i capelli neri, le mani, appoggiate sul torace, bianche come se fosse morto da poche ore. Anche il vestito nero e la camicia bianca con la cravatta rossa sembrano appena usciti dalla lavanderia.

«Non è possibile! Sono passati sessant’anni da quando il mio amore è morto per un incidente stradale. Lui aveva ventitré anni e io venti. Però lui è rimasto giovane e io sono invecchiata! La morte ci conserva giovani, mentre la vita ci fa invecchiare! Non è giusto! La Morte vince sulla Vita!»

Jonny Twit è frastornato. Non capisce nulla di quello che zia Betta sta blaterando. “La morte ci conserva giovani, la vita ci fa invecchiare”. Gli sembra un’assurdità. «Zia Betta che stai dicendo?»

La vecchietta scuote il capo. «Io avevo vent’anni e lui ventitré e ci dovevamo sposare ma lui è morto. Adesso io ho più di ottant’anni e lui ne ha sempre ventitré. Io sono vecchia ma in vita, lui è giovane ma morto».

Jonny Twit conviene che il ragionamento non fa una grinza ma i conti non tornano. “Lui è morto ma noi siamo vivi. E c’è una bella differenza di condizione”. Sta per dire qualcosa, quando la pendola del salotto batte un colpo.

Nella cassa Pete Monkey assume un aspetto più vecchio come se i ventitré anni fossero diventati quaranta. Poi dopo un quarto d’ora batte un nuovo colpo, mentre il viso del morto diventa grinzoso con delle rughe pronunciate intorno agli occhi. La pelle diventa sottile e le mani ossute.

Zia Betta è sorpresa da queste repentine modificazioni e non riesce a biascicare una parola. Un altro colpo di pendola e i capelli diventano radi e bianchi e gli occhi si infossano. I vestiti si riducono in brandelli, mentre zia Betta comincia a saltare e ballare per la gioia. «Sta invecchiando!»

Un altro colpo della pendola e il corpo si rattrappisce, diventa solo pelle e ossa.

«È diventato più vecchio di me!» Urla felice, abbracciando Jonny Twit.

Poi altri colpi della pendola e il corpo diventa cenere e i vestiti minuscoli batuffoli di cotone. Nella bara c’è un tappeto di polvere grigia e quasi impalpabile. Basta un soffio per farla sollevare.

Una scampanellata furiosa distrae zia Betta e Jonny Twit dalla visione di Pete Mokey che non esiste più.

Jonny Twit si precipita alla porta,mentre zia Betta urla: «Non aprire!»

Troppo tardi e una folata di vento disperde tutte le ceneri.

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