Konnie parte nona

Su Caffè Letterario è stata pubblicata la nuova puntata di Konnie, che potete leggere anche qui.

Oggi nel 1476 nasceva a Ferrara Alfonso primo d’Este, il protagonista del mio romanzo storico i tre cunicoli , insieme a Giacomo anche lui nato a Ferrara il 21 luglio di molti secoli dopo.

I tre cunicoli – carteaceo

È la storia romanzata dell’amore tra Alfonso e Laura Dianti col contorno di altri personaggi in parte reali e in parte di fantasia.

10agosto 2144 Bozen ore 10

Sono passati sei mesi da quando Konnie ha fatto una sortita all’esterno. Il compleanno degli ottanta è passato e avverte tristezza come se incombesse su di lui una sciagura. In realtà da troppo tempo è solo e avverte che la sua ora si avvicina a grandi passi. Non ha più stimoli. Le pagine bianche del suo diario sono finite da oltre un anno ma anche se ce ne fossero altre non saprebbe come scrivere i suoi pensieri. Non ha materiale per la scrittura.

Si trascina stancamente da una stanza all’altra e questa apatia è cresciuta un giorno dopo l’altro. Si è accentuata da quando ha fatto sei mesi prima una sortita fuori dal bunker. Avverte dolori articolari ed emicranie. Ogni tanto ha eruzioni cutanee dolorose che crescono. Ricorda bene le raccomandazioni di Marie, sua madre. «Non uscire se i sievert superano il valore di uno. Potresti rimanere in vita solo con l’aiuto di cure ospedaliere. Purtroppo gli ospedali non esistono più».

Però lui non ha intenzione di trasformare il bunker nel suo sarcofago come è stato per i suoi genitori. «Preferisco morire all’aria aperta. Le mie ossa diventeranno polvere».

Anche le scorte di cibo sono ridotte al lumicino. «Forse bastano per una settimana o anche meno».

Konnie si agita inquieto tra dolori e paure dell’ignoto. Si alza dalla sedia a fatica ma ha deciso. «Esco e sarà quel che sarà!» A fatica si trascina nella sua stanza. Prende una cartella di cuoio nero dove dentro ci mette il diario, la piantina del bunker e la sua localizzazione. Poi ci aggiungerà le chiavi per aprire le porte. In una sacca di iuta grezza infila qualche capo di vestiario, e le vivande rimaste. Spegne la luce e si avvia verso l’uscita. Il generatore atomico garantirà la corrente elettrica per molti anni. Quindi terrà in vita l’area del freddo, la purificazione dell’aria e tutto quello che funziona in modo elettrico. È l’unico apparato che non ha mai destato preoccupazioni.

Fa i gradini che lo conducono all’esterno con grande fatica. Gli manca il fiato e sono ancora più sdrucciolevoli rispetto all’altra volta. Non sembrano finire mai. Prima di aprire la porta che lo conduce all’esterno si appoggia alla parete socchiudendo gli occhi. Deve calmare il battito cardiaco e regolarizzare il respiro.

Esce e rimane abbagliato. La luce intensa ferisce la sua vista. Chiude gli occhi e li copre con una mano. Avverte un calore intenso sulle guance e sulla testa. Il suo corpo è abituato alla temperatura costante del bunker e alla luce soffusa delle lampade interne.

S’inginocchia perché gli mancano le forze per restare ritto. Si fa forza per alzarsi usando un bastone da montagna di suo padre.

È preso tra due fuochi: proseguire o ritornare nel bunker. «No, non posso tornare indietro. Devo andare avanti per vedere se incontro qualche essere umano». La decisione è presa senza tentennamenti.

Konnie non conosce nulla di quello che vede intorno a lui. Alla sua destra ci sono dei ruderi. «Forse è la casa dei miei genitori o meglio quello che resta». Sono cresciuti degli alberi all’interno e dei rampicanti sui pochi muri in piedi. Davanti delle erbe sono alte quasi come lui. Ricorda vagamente che sua madre gli aveva descritto la presenza di un giardino ben curato tra l’abitazione e la strada. Ride perché adesso ci sono solo erbacce che con fatica fende per raggiungere la strada o quello che resta.

Alle sue spalle osserva incassata due speroni rocciosi una stretta gola, mentre davanti si apre una pianura.

parte una, parte due, parte tre parte quattro parte cinque parte sei parte sette parte ottava 

Foto di cottonbro studio: https://www.pexels.com/it-it/foto/persone-che-tostano-bicchieri-di-vino-3171837/

Il 21 luglio è anche una data molto cara a me. È il mio compleanno

Tanti auguri.

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Konnie – parte settima

Su Caffè Letterario è stata pubblicata la settima puntata di Konnie che potete leggere anche qui.

Buona lettura

Le cime delle montagne intorno si tingono di rosa e le ultime stelle si confondono col cielo.

Alba si muove grugnendo. Avverte dolori alle spalle e formicolio alle mani. Si drizza eretta, guardandosi stupita intorno. Non si trova nella sua cameretta nella Città del Sole ma sulla nuda terra, dura e scomoda. Poi scoppia in una risata liberatoria. Ricorda che con Matteo sono usciti dalla calda cuccia della Città del Sole per esplorare quello che c’è tra loro e Bozen.

Il ragazzo si sveglia per le risate di Alba. Distende le articolazioni che sono intorpidite per la postura sconnessa assunta durante il sonno.

«Sveglia, dormiglione!» Urla la ragazza trattenendo la risata. «La giornata è splendida e la vista è mozzafiato».

Fatta la colazione col caffè liofilizzato e qualche galletta abbrustolita si rimettono in viaggio dopo avere ripiegato la tenda. Continuano a segnare il loro passaggio mentre scendono verso valle. Sono alla ricerca della strada che secondo la carta porta al Passo Pordoi e da lì a Canazei.

«Eppure per costruire il nostro rifugio» borbotta Matteo, «di certo c’era una strada o un sentiero che serviva per il trasporto del materiale e delle persone. Questo mi ha raccontato Michele qualche anno fa».

Alba scuote il capo. «Ci dovrebbe essere ma la natura in assenza degli umani ha ripreso possesso di tutto il suo regno e cancellando tracce e ricordi».

Il ragazzo scuote la testa perché non è d’accordo. “Almeno una traccia ci dovrebbe essere rimasta ma sembra tutto bosco e basta”.

Quando il sole, leggermente velato da nubi bianche frastagliate che si muovono veloci nel cielo azzurro, è alto, i due ragazzi decidono per una breve sosta. Sono affaticati perché gli zaini pesano e devono prestare attenzione a non mettere i piedi su pietre o rocce per evitare passi falsi. Trovano una piccola radura ricoperta da enormi felci e fiori sconosciuti. La filmano a memoria futura. Fa caldo, un caldo afoso che potrebbe presagire un violento temporale. Il contatore geiger segnala un livello di radioattività di circa due sievert o poco più, ancora alto e pericoloso.

Sentono muovere qualcosa tra le felci come una specie di guaito. Matteo impugna quel coltellaccio che dondola sul suo fianco. Spunta un muso con la lingua rossa a penzoloni. Gli occhi implorano cibo e il corpo si muove sofferente come se fosse ferito. Il ragazzo rinfodera l’arma. Ha capito che non è una minaccia.

«Un cane oppure un lupetto?» Chiede Alba, gettandogli la galletta che stava mangiando.

L’animale si sdraia poco distante e afferra con le zampe anteriori il cibo che sgranocchia in fretta.

«Ha fame il cucciolo!» ridacchia Matteo dando un colpetto sulla spalla della ragazza.

Ridono vedendolo mangiare con avidità quel pezzo di pane. Alba gli lancia un cubetto di carne secca, che l’animale prende al volo masticandolo con vigore. La lingua a penzoloni fa intuire che oltre la fame abbia pure sete. Matteo si guarda intorno alla ricerca di qualcosa dove possa versare l’acqua. L’unico oggetto è una foglia verde che recide con un colpo del coltellaccio. La gira e dalla borraccia fa cadere delle gocce. Il cucciolo si frappone con la lingua per bagnarsi la gola.

Alba gli accarezza la testa. Un gesto che gradisce. «Ciao Cucciolo! Noi andiamo». I due ragazzi riprendono a scendere a zig zag ma si fermano subito. Qualche passo dietro loro c’è il lupetto intenzionato a seguirli.

«Bene, abbiamo la scorta» ridacchia la ragazza, che riprende la discesa. Il cucciolo sia pure a fatica si è accodato a qualche metro di distanza. Zoppica come se avesse una ferita alla zampa anteriore destra. Si fermano per vedere cosa non funziona. Il lupetto si lascia visitare e con la lingua lecca la mano di Matteo.

«Ha una brutta ferita infetta ma non solo» spiega il ragazzo con tono serio, mentre prende del disinfettante dalla sacca che porta a tracolla. «La zampa è più corta delle altre. Ecco perché il branco l’ha abbandonato».

Finita la medicazione riprendono la discesa col lupetto che si è sistemato tra loro. La sua andatura è meno zoppicante ma comunque fatica a tenere il loro passo.

«Finalmente!» esclama Matteo scorgendo sulla loro destra il segno di una vecchia strada tutta sconnessa e ricoperta da arbusti ed erba. La pavimentazione in macadam è quasi sparita ma camminare è più agevole rispetto al bosco.

Fatti tre tornanti sentono il rumore dell’acqua che scorre tra i massi, mentre Cucciolo sparisce attratto da quel suono.

«Andiamo a vedere. Possiamo riempire le tanichette con acqua fresca» suggerisce Matteo infilando un groviglio di rovi.

È una piccola cascatella che forma una pozza, prima di fluire a valle. I due ragazzi ridono vedendo Cucciolo che beve con abbondanza. Riempiono le tanichette di tessuto appese alla cintola e pensano di fermarsi per la notte nella piccola radura adiacente al minuscolo laghetto formato dal piccolo salto d’acqua tra le rocce. Però capiscono che il posto non è salubre vedendo il lupetto che si allontana dopo essersi dissetato.

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Konnie – parte sesta

Su Caffè Letterario è stata pubblicata la sesta parte del racconto Konnie, che potete leggere anche qui.

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Konnie ha quasi ottant’anni. Gli mancano poco più di sei mesi al compleanno. Si sente stanco con le forze che giorno dopo giorno tendono a scemare. Con lentezza strascicando i piedi va a controllare la radioattività esterna. Sa che è un proforma perché decresce con molta lentezza. «Due sievert» scuote la testa pronunciando queste due parole. Però sente il richiamo di uscire, di vedere cosa c’è là fuori, di scoprire un mondo ignoto.

«Non importa se morirò!» Ammette con se stesso con tono fatalistico. «Tanto dovrò morire. Se non oggi, domani. Finora ho visto solo queste pareti grigie. Anzi quasi nere!» Ridacchia socchiudendo gli occhi. «Fuori ci saranno altri colori oltre al bianco, il grigio e il nero di questo bunker?»

Mette una polo nera stinta, calza delle scarpe che gli stringono i piedi, indossa un paio di jeans che stanno dritti da soli. Prende le chiavi che gli permetteranno di rientrare dopo la passeggiata all’esterno.

Con passo strascicato e col cuore che batte a mille apre la porta che gli consente di risalire in superficie.

Accende la torcia per illuminare i gradini. È la prima volta che li percorre. Prova una sensazione strana, quasi sconosciuta: brividi di freddo. Un acre odore di muffa, di aria stagnante assale le sue narici. Fa una smorfia. Rimpiange l’aria asettica del bunker. Mette il piede sul gradino che sembra scivoloso. Lo illumina: è ricoperta da una patina di verde che imbratta la scarpa. Quando prova a caricare il peso sulla gamba, questa tende a scivolare verso il basso. Si afferra al corrimano che avverte ruvido e si issa sul gradino superiore e così con gli altri. Ne avrà fatti una dozzina e ha il fiatone. La tentazione di invertire la marcia è forte ma la curiosità vince sulla stanchezza che gli attanaglia i polpacci.

Rifiata, sta sudando e quella sensazione di freddo è sparita. Passo dopo passo, gradino dopo gradino arriva in cima. Le scale sono finite. Illumina una porta d’acciaio dalle cui fessure filtra una lama di luce.

«Ci dovrebbero essere delle chiavi appese per aprirla» mormora mentre dirige il fascio luminoso in modo circolare. «Eccole!»

Le afferra, mentre sfiora la tasca per sentire le altre. Apre e fa due passi fuori. Rimane accecato. Per lunghi istanti i suoi occhi percepiscono solo una luce troppa intensa che gli impedisce di vedere cosa lo circonda. Ha un brivido di freddo, sente la pelle accapponarsi, la bocca comincia a tremare senza che lui riesca a fermarla. Strizza gli occhi, riducendoli a una fessura, in modo istintivo porta la mano sinistra sulla fronte. Quello che vede lo terrorizza: è tutto bianco che riluce sotto i raggi del sole. Sulla sua sinistra osserva dei ruderi, sulla destra una distesa candida. «È questo il mondo esterno?» Si gira e rientra nella cavità che ospita il suo mondo.

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Konnie – parte quinta

 

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Su Caffè Letterario è stata da poco pubblicata la quinta parte del racconto Konnie. Di seguito qui la potete leggere.

15 agosto 2144

Il gran momento è arrivato Alba e Matteo curvi sotto il peso degli zaini salutano tutti. «Arrivederci! Tra quattro settimane torniamo con la speranza che possiamo uscire da questa Città del Sole senza problemi!»

È tutto un abbraccio e un arrivederci condito da qualche lacrima e tanti consigli. Poi dopo le ultime pacche sulle spalle entrano senza timori nella stanza che li separa dal mondo esterno. Un clack sonoro suggella la chiusura. Si tratta di aspettare che l’altra porta si apra per uscire e cominciare la nuova esplorazione.

«Alba, a destra o sinistra?»

La ragazza consulta la bussola, un retaggio del mondo antico che è sparito per l’insania di qualche potente. La pone sulla carta che servirà per raggiungere Bozen. «A sinistra. Dovremo trovare un paese o meglio un gruppo di paesi che prendono il nome di Livinallongo o quello che resta di loro».

Scendono attraverso un’abetaia non senza qualche difficoltà. Abeti crollati a terra e un sottobosco irto di spine e di rovi che coprono forre e altre insidie. Devono fare attenzione perché non esistono sentieri e sentono il rumore sordo dell’acqua che scorre senza vederla o individuare dov’è. Mettere un piede in fallo può rappresentare la fine della loro vita, perché nessuno li verrà a cercare.

Nell’uscita precedente si sono limitati a girare nelle vicinanze e non è stato facile ritrovare la strada del ritorno verso l’ingresso della Città del Sole. Si sono persi più volte perché è sembrato a loro di essere passati di lì mentre non era vero. Quindi l’esplorazione è stata piuttosto un girare confuso, a volte in tondo. Questa volta segnano con dei segnali il tragitto che fanno per raggiungere la strada, ammesso che esista ancora.

La protezione contro le radiazioni e il peso degli zaini non consente di muoversi con agilità mentre scendono con prudenza verso il fondovalle. La luce incerta del bosco non aiuta i due ragazzi che si fermano per calmare l’agitazione interna. La discesa è ripida più di quello che ricordano quando un mese fa hanno fatto la prima uscita.

«Mat, sei sicuro che stiamo scendendo nel modo giusto?» mormora con tono affranto Alba che sta sudando copiosamente dentro la tuta, mentre il casco si appanna. Si ferma, aspetta che la visibilità torni accettabile.

Matteo ritorna sui suoi passi e affianca la ragazza. «Premi questo bottone» e le indica un pulsante verde all’altezza delle orecchie. «Serve per togliere l’umidità all’interno del casco».

«Grazie, Mat! Non ricordavo questo dettaglio che Arturo ha aggiunto per evitare situazioni come questa».

Come la prima volta hanno perso il senso del tempo. Non hanno strumenti per misurarlo. Si basano sul sole. Il cielo è sereno privo di nuvole, mentre il sole declina dietro le montagne di fianco. Però non sarà sempre così, perché una giornata nuvolosa o grigia per la pioggia li trarrà in inganno.

«Alba, cosa ne pensi se cerchiamo un posto per la notte? Le ombre si fanno lunghe e il buio infittisce» propone Matteo che ha notato le sue difficoltà a muoversi con scioltezza. La stanchezza può diventare pericolosa in montagna, specialmente in un ambiente di sicuro ostile.

La ragazza annuisce, perché stava per proporlo. Avrebbero sperimentato il riparo costruito da Arturo. Scendono ancora più a valle finché un trovano una radura circondata da alberi molti alti che non sono abeti o larici. L’erba è giallastra, secca come se fosse da tempo che non piovesse. Decidono di sistemarsi sotto una folta chioma di albero. Qui dal terreno affiorano robuste radici e l’erba è rada e bassa.

Hanno da poco posizionato la tenda, quando di colpo si passa dal chiarore del giorno al crepuscolo della sera. Il cielo è ancora chiaro ma nel bosco l’oscurità diventa notte. Accendono una torcia alimentata da combustibile nucleare che illumina l’area dove sono accampati.

La stanchezza e lo stress compiono il miracolo di farli addormentare subito. Un sonno senza immagini.

[continua]

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Nuovo post su Caffè Letterario

Su Caffè Letterario ho pubblicato un nuovo post che replico anche qui.

21 Luglio 2144 – Sarntal

Sono passati cento anni da quando il mondo si è autodistrutto con’insensata guerra atomica. Era tutto cominciato vent’anni prima, nel 2024, con guerre regionali in Europa, in Medio Oriente, in Africa. Poi le scaramucce hanno innescato altri incendi in Asia e in America centrale. E il fuoco è divampato ovunque. L’industria della guerra prosperava sfornando munizioni, armi sempre più letali, droni guidati da quella che con grande pompa chiamavano Intelligenza Artificiale, AI per tutti. Pochi si arricchivano col sangue di molti innocenti.

Poi è stato un tutti contro tutti esiziale. All’inizio è stata qualche atomica tattica, che di tattico ha avuto solo il nome, perché le aree contaminate sono cresciute mese dopo mese, anno dopo anno. Alla fine il botto finale ha chiuso la partita nel 2044. La contaminazione radioattiva ha raggiunto valori insopportabili. Dieci e oltre sievert in ogni parte del globo terrestre senza eccezioni di sorta. La gente ha cominciato a morire tra atroci sofferenze, gli animali a sparire. I più ricchi si sono rifugiati nei propri bunker atomici per non morire come mosche sulla carta moschicida. I meno fortunati invece sono morti. Le città sono diventate luoghi spettrali dove la natura ha ripreso il sopravento, cominciando a sgretolare tutte le opere umane.

Amelia con Alfredo e un gruppo di amici pacifisti dopo essersi sgolati invano contro le scelleratezze di una guerra globale hanno deciso di costruire una città sotterranea per salvare un nucleo di uomini accomunati da un unico ideale: pace e concordia. Hanno realizzato una specie di Città del Sole sotto terra, simile a quella idealizzata da Tommaso Campanella molti secoli prima. Il posto individuato è sotto le montagne tra Veneto e Alto Adige. Sono riusciti appena in tempo a finirla e rifugiarsi lì, quando il mondo è collassato auto distrutto dall’insensatezza di chi stava al potere.

Cento anni dopo gli eredi di quel nucleo di visionari, che avevano compreso il pericolo che stavano correndo, hanno deciso di uscire dalla loro Città del Sole. La radioattività è ancora alta ma con le protezioni adeguate è possibile cominciare a muoversi all’esterno con cautela.

Quando si sono rifugiati sotto terra erano diverse centinaia di coppie con bambini e qualche anziano. Adesso sono cresciuti a un migliaio di persone tra giovani e adulti e ogni spazio della Città del Sole si è saturato nel tempo. La convivenza non è mai stata minacciata dagli egoismi personali. Però è arrivato il tempo di mettere il naso fuori per osservare cosa è rimasto della civiltà umana con la visione futura di ripopolare un mondo che a tutti appare ignoto.

Il loro modello non è verticista ma tutti sono alla pari. Le decisioni vengono prese dopo una pacata discussione che valuta tutti gli aspetti. Quando hanno pensato di uscire nel mondo di sopra, in modo collegiale hanno stabilito che solo gruppi di volontari si sarebbero avventurati all’esterno, tenendosi in contatto tra loro e con la Città del Sole. Ignorano cosa avrebbero trovato nell’ambiente esterno e come si presenta in questo momento il vecchio mondo che hanno conosciuto solo attraverso vecchi video e fotografie e dai racconti dei genitori o nonni. Nessuno di loro l’ha mai visto di persona. Il muoversi fuori dalla Città del Sole è un salto nel buio. Ignorano quali pericoli avrebbero affrontato.

Alba e Matteo, due giovani di vent’anni di terza generazione, si offrono volontari insieme a un’altra dozzina di coppie per esplorare l’ignoto. Con l’ausilio degli anziani pianificano le aree da esplorare con l’aiuto di vecchie cartografie dell’Istituto Geografico Militare molto dettagliate. Vengono caricate su vecchi tablet a colori che serviranno loro come guida per orientarsi. Dovranno camminare a piedi in assenza di altri mezzi di locomozione. Avranno scorte alimentari per circa dieci giorni. Quindi dovranno regolarsi per il rientro alla Città del Sole. L’unica arma di difesa sarà un alpenstock che servirà loro per aiutarsi a camminare nei sentieri di montagna. Per ripararsi nella notte dovranno arrangiarsi.

Indossate le protezioni e caricati sulle spalle gli zaini Alba e Matteo salutano la comunità e si avviano guidati dal GPS solare verso il mondo esterno.

La luce del giorno acceca i loro occhi abituati a quella artificiale della Città del Sole. Devono schermarsi per abituare la loro vista a qualcosa di insolito. Quello che vedono è molto diverso dai video osservati sotto terra. La natura appare di un verde più intenso e lascia filtrare debolmente delle spire di luce attraverso il fogliame fitto di alberi che non riconoscono. Si muovono con cautela nel sottobosco costituito da piante basse e spinose costellate da fiori dai colori vivaci, quasi violenti. È un mondo tutto nuovo quello che appare ai loro occhi curiosi. Anche i rumori sono delle novità per le loro orecchie abituate ai suoni ovattati e leggeri della Città del Sole. Devono abituare i loro sensi a sensazioni diverse di quelle vissute per vent’anni. Non possono sperimentare il gusto e il tatto per ragioni di sicurezza, né le diversità del mondo che stanno scoprendo.

Dopo dieci giorni ritornano al loro caldo nido. Descrivono un ambiente selvaggio dove è difficile muoversi perché non esistono più sentieri o strade come sono segnate sulle mappe. Hanno rischiato di finire in fondo a burroni perché il terreno è franato a valle. Hanno incontrato animali strani che li hanno osservati come intrusi. Hanno percepito suoni mai ascoltati. Quando le chiome degli alberi si sono diradate per mostrare il cielo, hanno visto figure bianche correre sullo sfondo azzurro, lasciandoli basiti. Ai loro occhi ingenui è apparso un mondo fantastico che hanno faticato a descrivere al loro rientro.

Anche gli altri gruppi hanno parlato di un ambiente che ha superato la loro immaginazione. Tutti hanno concordato che per le prossime esplorazioni bisogna migliorare l’attrezzatura da portare per rendere più comodo il trascorrere della notte e difendersi dai pericoli che si possono incontrare.

Tuttavia la curiosità di esplorare quello che sta fuori la loro Città del Sole è troppo forte per rinunciare a capire se sarà possibile riemergere dal sottosuolo. Così in accordo col resto della comunità Alba e Matteo decidono di eseguire un’escursione molto più lunga nel tempo verso la città più vicina: Bozen.

[fine prima parte]

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15 ottobre 1950

Su Caffè Letterario è stato pubblicato un nuovo articolo che potete leggere anche qui.

La Maharani Gayatri Devi osservava gli alberi del giardino interno nel palazzo di Japur e provava un filo di nostalgia per essere lì e non altrove. Avrebbe desiderato stare a Londra, dove aveva studiato prima del matrimonio con il Maharaja Sawai Man Singh II. Con l’indipendenza dell’India nel 1947 aveva perso lo status regale pur conservando il titolo di principessa.

Era di una bellezza misteriosa come molte delle maharani. Aveva lasciato alle spalle un’infanzia felice trascorsa lontano dall’India. Dapprima a Londra, poi a Losanna. Erano i ricordi londinesi quelli più felici anche se erano lontani nel tempo.

Si domandò se Lord David Mounbatton si ricordava di lei. Erano coetanei, entrambi nati nel 1919 a distanza di pochi giorni. David era nato il 12 maggio e Gayatri il 19 dello stesso mese a Londra. Lei era restata nella capitale inglese fino all’età di dodici anni, prima di ritornare a Cooch Behar nel West Bengal, dove il padre era il principe Jitendra Narayan di Cooch Behar. La madre Indira Raje di Baroda, una principessa della casta Maratha, era innamorata dell’Europa. Ritornò con la figlia quasi subito a Londra, dove la iscrisse in un college esclusivo, il Monkey Club, per avviarla alla professione di segretaria.

Lord David era il figlio cadetto di un Sea Lord inglese, legato alla corona inglese. Si incontrarono al ballo delle debuttanti che tutti gli anni si teneva in febbraio presso il Monkey Club. Gayatri avrebbe compiuto diciott’anni qualche mese più tardi. Ballarono tutta la sera senza stancarsi mai. Parevano una coppia affiatata. Impeccabili nei movimenti, sempre sorridenti con tutti. Lui alto e biondo, lei più bassa e dalla capigliatura corvina. C’era contrasto nei visi: lord David dal pallore chiaro, Gayatri dalla carnagione olivastra. Anche gli occhi erano del tutto diversi. Lui un azzurro ceruleo, lei scuri quasi neri. Però era un gradevole accostamento.

Si frequentarono fino a giugno, quando il padre le ordinò di ritornare senza indugi in India. Si salutarono scambiando la promessa di non perdersi di vista. Gayatri non sapeva che era stato combinato il suo matrimonio con quello che sarebbe diventato, qualche anno più tardi il Maharaja di Japur. Una fastosa cerimonia suggellò le nozze e l’anno successivo divenne la Maharani.

Lei però non aveva dimenticato quel lord inglese alto e biondo dal sorriso dolce, che aveva popolato i suoi sogni di diciottenne. Questo ricordo rimase confinato dentro di lei, anche se ogni tanto riaffiorava il desiderio di conoscere la sua sorte.

Gli anni trascorsero lieti e spensierati, appena lambiti dalla seconda guerra mondiale, che percepiva lontana dai fasti della corte di Japur. Poi arrivò l’indipendenza dell’India e la perdita del suo status regale, senza che questo incidesse minimamente nella sua vita.

Lei era sempre la Maharani, rispettata con deferenza dai suoi concittadini. Continuava a vivere in un’ala del palazzo reale, come se non fosse successo nulla nel 1947.

Il 15 ottobre del 1950 era una giornata soleggiata e calda nonostante fosse la stagione dei monsoni. Gayatri osservava il giardino da una finestra dei suoi appartamenti. In un angolo della stanza stava la dama di compagnia più fidata, che lavorava su un piccolo telaio. Era bassa di statura e coi capelli corvini. La Maharani lo guardò incerta se chiamarla oppure no. Si alzò e si diresse verso la camera da letto.

Da un secretaire aprì un cassettino, nascosto da una ribalta, e prese un sacchetto di pelle. Lo aprì e controllò il contenuto. Erano i gioielli indossati tredici anni prima durante il ballo delle debuttanti. Un collier di diamanti e rubini, un paio di orecchini a goccia, un bracciale d’oro tempestato di rubini e smeraldi. Li ripose nel sacchetto e richiuse il cassetto.

Tornò nella stanza dove Amrisha aveva continuato a lavorare al telaio. L’osservò e rifletté. Aveva saputo che tra quindici giorni un fratello della donna, un cadetto della ‘marine de commerce’, si sarebbe imbarcato su un aereo con destinazione Londra. Qui doveva armare una nave alla fonda a Newcastle upon Tyne in Inghilterra. Di lei poteva fidarsi sia per la discrezione sia per la fedeltà. Sarebbe stato il vettore più sicuro per trasmettere quello che per anni aveva conservato con gelosa segretezza.

Si avvicinò, mentre la ragazza sollevava il viso. Un viso ovale incorniciava due grandi occhi scuri.

«Vieni, Amrisha. Ho bisogno di parlarti» le susssurò con tono autoritario, accennando col capo di sedersi accanto a lei.

«Mi dica, Maharani» rispose con voce deferente.

«Devo trasmettere un cofanetto a Londra in assoluta segretezza. Nessuno deve sapere che proviene da me».

La ragazza strinse le labbra, perché aveva intuito chi doveva trasportarlo.

«Mio fratello, Banshidhar, partirà per Londra il due novembre insieme ad altri suoi compagni. Lui potrebbe portare con sé il suo pacchetto».

«È una persona fidata?» Le domandò, conoscendo già la risposta.

«È la discrezione fatta persona. Sapendo che è lei, Maharani, lo sarà ancora di più» ribattè di slancio con tono sicuro.

«Quando lo vedi?»

«Lo saluterò tra quindici giorni, quando passerà dall’abitazione dei miei genitori a Baroda» rispose abbassando gli occhi.

«Prima che tu parta per Baroda, ti consegnerò il pacchetto e una lettera. Grazie, Amrisha. Puoi tornare alle tue occupazioni» e la congedò.

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20 luglio 2013 – Mont Blanc

Copertina Daniele

Su Caffè Letterario è stato pubblicato un nuovo racconto. Lo potete leggere anche qui.

Dal nevaio addossato alla parete rocciosa spuntava un luccichio bruno simile a quello di un oggetto di rame esposto al sole.

Jacques Philpott si fermò un istante per osservare meglio.

Le rocce non luccicano” si disse, mettendo a fuoco il punto da dove provenivano i riflessi.

Si spostò di lato rispetto alla posizione iniziale ma osservò che la coltre di neve fresca adesso era tutta uniforme. Non notava più nessun bagliore dalla nuova ubicazione.

«Eppure qualche istante fa…» borbottò scuotendo il capo.

Jacques era un bel ragazzone di Les Houches, un sobborgo di Chamonix, un po’ orso ma mai scortese. Amava la montagna e in particolare il Mont Blanc, che vedeva tutti i giorni dalla finestra della sua stanza. Quando compì sedici anni, eseguì la prima escursione sul massiccio che si ergeva in tutta la sua imponenza davanti ai suoi occhi. Adesso che di anni ne aveva ventuno lo conosceva come le tasche dei suoi jeans.

«È una montagna infida anche se appare benevola» era solito confidare agli amici. «Non ci si può dare confidenza, perché subito ti tradisce. Una donna è più fedele». La sua era una battuta maschilista ma di elementi femminili ce ne erano pochi nel giro delle sue amicizie e le poche, che erano tutte più maschi di quelli autentici, ridevano a quella boutade.

Era il 20 luglio del 2013, quando di mattina presto era uscito di casa per compiere l’ennesima escursione sul Mont Blanc. Portava con sé un paio di corti sci, le racchette da neve, dei ramponi da ghiaccio e uno zaino con vivande e qualche indumento pesante qualora il tempo virasse improvvisamente al brutto. In montagna non c’era mai da fidarsi che il tempo rimanesse stabile.

La giornata si preannunciava bella e senza vento. Il cielo senza una nuvola cominciava a schiarire e le stelle brillavano ancora nitide, quando avviò il suo 4X4 a inerpicarsi verso il Mont Blanc.

Voleva essere all’inizio del ghiacciaio del Bossons, quando albeggiava per affrontarlo con la luce del sole. Era immenso, bello ma estremamente infido e pericoloso da affrontare con un’illuminazione incerta: crepacci e seracchi erano sempre in agguato. Era la sua intenzione iniziare l’escursione presto per raggiungere la base del Mont Blanc du Tacul per mezzogiorno.

Lasciata l’auto vicinissima alle ultime propaggini del Glacier des Bossons, Jacques mise sulle spalle gli sci, le racchette, i ramponi da ghiaccio e lo zaino. Si avviò verso la lingua di ghiaccio che scendeva dal Mont Blanc come un lungo serpente candido.

Facendo attenzione a dove poneva gli scarponi, saggiando il terreno davanti a lui, si muoveva con cautela, perché i grossi cumuli di neve fresca nascondevano insidie e pericoli.

«Quest’anno è caduta neve anche poche settimane fa» mormorò tenendo gli occhi ben aperti. «Quindi devo stare vigile e attento».

Erano le undici quando arrivò alla base rocciosa del Mont Blanc du Tacul, uno sperone che si erge a più di 4200 metri, di poco più basso della cima del Mont Blanc.

Non era sua intenzione scalarlo, lo aveva già fatto altre volte, ma voleva ammirare la spettacolare vista della vallata sottostante. Era fermo a rifiatare prima di riprendere la via del ritorno, quando notò lo strano luccichio. Non riusciva a localizzarlo con esattezza, perché era sufficiente spostarsi e il candore del nevaio diventava immacolato.

«Devo fare attenzione nel muovermi per non provocare una valanga che sarebbe fatale» affermò avanzando a piccoli passi, tenendo sotto controllo il nevaio.

Il tempo passava, mentre Jacques era alla ricerca dell’oggetto che mandava bagliori a intermittenza.

«Forse affiora appena dalla neve. Cambia l’angolo della luce che lo illumina, quando mi sposto» borbottò fermo sugli sci osservando intorno.

Non perdeva d’occhio la massa nevosa addossata alla parete del Mont Blanc du Tacul, pronto a cambiare veloce la direzione, se vedeva qualche impercettibile movimento.

Nonostante le condizioni climatiche favorevoli ogni muscolo del suo corpo era in tensione, molto di più del normale.

La perlustrazione dell’area circostante assorbì le sue energie mentre il tempo passava inesorabile. Ricominciò a muoversi con estrema cautela. «Altri cinque minuti e poi riprendo la via di casa. Ho perso mezz’ora in ricerche inutili e infruttifere. Potrebbe essere un gancio perso da chi sa chi».

Immerso in queste riflessioni, notò una piccola massa scura, sommersa da un velo di neve, a qualche decina di metri alla sua destra.

«Ecco la cerca è terminata. I riflessi che avevo notato provenivano da qui».

Prima di avvicinarsi si assicurò che nessun distacco di neve fosse presente nelle vicinanze.

«La prudenza non è mai troppa» affermò muovendosi con circospezione.

Passò una mano per togliere la neve ghiacciata e mise a nudo un coperchio brunito. Con lentezza scavò intorno con gesti misurati e calmi, finché una piccola cassetta non apparve dal candido nulla. La sollevò con un po’ di sforzo. Non pesava molto. Quindi decise di prenderla con sé, assicurandola con la corda che teneva nello zaino. Ridiscese di qualche centinaia di metri, allontanandosi dal nevaio per osservarla meglio.

«Ha strani simboli sul coperchio» notò con un misto di curiosità e stupore. «Forse sono cinesi… oppure no».

Scorse questi simboli “मेड इन इंडिया”, scritti sul coperchio, sbiaditi ma leggibili.

È inutile sprecare tempo nel tentativo di decifrarne il significato” rifletté osservando il contenitore che presentava una chiusura insolita. “Non pesa molto ma come l’ho legato è solo d’impiccio per i movimenti”.

Si inginocchiò per controllare se poteva metterla nello zaino.

Togliendo le vivande e la giacca, ci sta. Mangio qualcosa e quello che non sta nelle tasche, lo getto. La giacca la indosso sopra questa più leggera”.

Guardò l’orologio. «Porca miseria! Già l’una! Il tempo è volato via. Devo sbrigarmi. Il Glacier des Bossons con le ombre lunghe del pomeriggio è assai pericoloso» esclamò avviandosi a valle.

Come previsto la discesa non fu agevole. Anche se lo aveva percorso molte volte, il ghiacciaio pareva essere vivo, cambiando fisionomia a ogni istante. I crepacci che aveva evitato nella mattinata adesso parevano essersi spostati. Alcuni erano più larghi, altri quasi chiusi. Alcuni seracchi erano crollati per effetto del rialzo termico di mezzogiorno. Era quasi giunto al termine, quando avverti sotto gli scarponi un tremolio. Si bloccò, facendo un balzo indietro. A pochi centimetri si era aperto un baratro senza fine dinnanzi a lui. Ebbe un moto stupore e si lasciò scappare un «Merde! Per poco non finivo in fondo a questo crepaccio!».

Sentiva le gambe pesanti e una certa rigidità nel corpo, quando alle cinque uscì dal Glacier, dopo aver rischiato più di una volta di finire male. La luce ingannevole del sole ormai più basso delle cime l’aveva tratto in inganno sovente ma si era salvato unicamente perché i riflessi erano pronti. Lasciata la lingua ghiacciata e tornato sul terreno nudo, tirò un sospiro di sollievo.

«Anche stavolta è terminata bene» esclamò incamminandosi verso il suo fuoristrada, che l’aspettava tra il termine della carrareccia e il ghiacciaio. Si diresse verso Les Houches.

Arrivato a casa, estrasse dallo zaino la cassetta.

«Chissà quali tesori contiene» esclamò, osservando la serratura.

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Una sera di mezza estate Benedetta…

Copertina Daniele

Benedetta è annoiata. Sbadiglia e intreccia le mani dietro nuca. «È una serata noiosa» e guarda fuori dalla finestra senza vedere nulla. I vetri bagnati non riflettono luci esterne. Si alza e si sistema davanti al computer. Spera di trovare un diversivo per spegnere la noia. Naviga un po’ e poi si collega a Youtube.

«Di solito ci sono video interessanti ma stasera pare un mortorio» borbotta con tono affranto.

Si mette ritta, spalanca gli occhi, non ci vuol credere. «Moreno ha pubblicato sul suo canale un video che è stato visto 65891 volte in due giorni!»

Ricontrolla. Il numero è giusto, anzi si è incrementato di tre unità. Controlla i video precedenti e i numeri sono impietosi: due, dieci, ventidue, zero,…

«Ma cos’ha di tanto interessante da suscitare la curiosità di tanti navigatori?»

Clicca per vederlo. Durata venticinque secondi. Un titolo insignificante “Pratoline”. Le prime immagini sono tremolanti, quelle successive sfocate. Nessun audio, né sottotitoli. Una miseria di video. Riapre il video e non cambia nulla.

«Non è possibile che Moreno col suo video abbia attirato oltre sessantaseimila navigatori» esclama sgranando gli occhi. Il contatore delle visite continua a girare a ritmo folle. «È pur vero che ho dato tre esami massacranti ma è strano non aver sentito nulla dal gruppo. Domani chiamo Luciano. Di sicuro ne saprà di più.»

I ricci rossi si muovono al tempo di musica. Da Itunes sta ascoltando l’ultimo pezzo di Cassandra Wilson. Decide di scaricare l’intero CD sul Ipod. Domani se lo gusterà con le cuffiette mentre va in Università con la metropolitana.

Benedetta è stanca, anzi stressata per l’esame sostenuto in mattinata. Le si chiudono gli occhi. Lei dorme sulla parte sinistra del letto e sul comodino c’è una bella pila di libri che aspettano di essere letti. Prende quello che sta in cima rischiando di far franare a terra gli altri. Dondolano pericolosamente ma per fortuna restano al loro posto.

È una serie di racconti scritti da una scrittrice bengalese dal nome complicato. Sono le storie di giovani bengalesi, come l’autrice, che vivono in America. Alcune sono veramente stranianti, altre allegre. Benedetta ha iniziato a leggere la storia di Neha e Asim. La trama la prende talmente che immagina di viaggiare da Oakland, dove vivono, a Chittagong insieme a loro. In questa città sono rimasti i nonni materni, Hita e Shamsur. Hanno ricevuto un cablo che li ha informati che il nonno era morto e tra due giorni ci sarebbero stati i funerali con la relativa cremazione. I due fratelli non hanno molto tempo per aspettare un volo diretto. Puntano su Mumbai, da lì con voli interni sperano di raggiungere in tempo Chittagong. Un viaggio massacrante per i fusi orari e per le tappe intermedie. Alle sei di mattina, ora locale, arrivano stravolti a destinazione al Shah Amanat International Airport. Noleggiano una macchina con autista e dai finestrini osservano un paesaggio che non è più a loro familiare. Quartieri degradati e altri puliti, accattoni che dormono nei giardini, lussuose macchine e altre che sembrano uscite da un rottamatore. Una leggera nebbia dovuto allo smog e all’orario ovatta le immagini che appaiono sfocate.

Per Benedetta quel contrasto sono una novità. Aveva letto che in quell’area del sudest asiatico ricchezza e povertà stanno a stretto contatto ma non immaginava che fosse così scioccante. Osserva i due fratelli che anche loro sgranano gli occhi per la sorpresa. Vivono ad Oakland dove sono nati e cresciuti. Lei lavora come ricercatrice nel campus della locale università e lui è odontotecnico. Neha, la sorella più grande, propone a Asim di andare a Bhasam Char, visto che il funerale del nonno si tiene all’imbrunire. «Solo due ore di traghetto. Quando eravamo piccoli, siamo venuti per visitare i nonni che ci hanno portati lì in gita.»

Asim scuote il capo. «Ora è nonna Hita ad aver bisogno di noi. Non possiamo lasciarla sola.»

Neha sorride. «Hai ragione. Ma per mezzogiorno siamo di ritorno. Rimaniamo con lei tutto il pomeriggio.» Poi ordina all’autista di portarli al porto dei traghetti.

Sono a metà strada, quando un turbine sconvolge quel tratto di mare nella Baia del Bengala.

Benedetta apre gli occhi stordita. Intorno non c’è assolutamente nulla tranne la sabbia e una luce abbacinante. La t-shirt di cotone azzurra è appiccata alla pelle, mostrando i segni del piccolo seno. Mani e gambe sono ricoperte di sabbia finissima chiara. Si sente smarrita. «Eppure ero sul traghetto.» Geme, mettendosi seduta. Le ultime immagini sono sfocate. Il vecchio che le ha offerto un fascio di foglie di betèl come segno di rispetto e di buon auspicio, lo sguardo adulto del neonato che la madre allatta placidamente. Poi il cielo sempre più scuro, gli animali sulla barca agitati, schiamazzi di gabbiani. Due marinai con gli occhi iniettati di sangue urlano indicando che i giubbotti sono sotto, nella stiva. Lo scafo imbarca acqua, le urla, il terrore, poi il buio.

Si sente osservata. Si gira con lentezza in circolo. Strilla. «Ahhhh!» Chiude la bocca impietrita dal terrore. Una scimmia a qualche metro di distanza la guarda di sbieco. Si muove con calma, sperando di non eccitarla. Però in apparenza non ha intenzioni bellicose. «Ti sei svegliata! Da dove vieni?»

«Parli? Sei tu che parli?» Balbetta con voce incerta.

«E chi se no? Vedi qualcun altro qui? Ma senti questa!» Puntualizza la scimmia che dal tono sembra innervosirsi.

«No, no, hai ragione.» Si affretta a calmarla. «È che non ho mai sentito una scimmia parlare. Dove sono?»

La scimmia fa una smorfia. Forse voleva sorridere. «Non lo so! Ero Bhasar Chor, prima che scomparisse. Mi son svegliata qui come te qualche giorno fa.»

Benedetta strabuzza gli occhi. Tutto gli sembra incomprensibile come se vivesse un sogno impossibile. «Come, scomparsa?» Farfuglia incespicando sulle parole. «La guida sul traghetto ci ha detto che è nata cinquant’anni fa dal nulla…»

«La guida! La guida? Ma dove vivi? Lo sai o no che le variazioni climatiche originate dall’effetto serra generano fenomeni estremi sempre più frequenti?»

«Sì,sì, ma…»

«Lo Tsunami del 2004 ha spazzato città e isole intere. Un’amica a Pucket s’è vista annegare due dei piccoli senza poter farci niente.»

«Mioddio! Sì, sì ma…noi ora cosa facciamo?» Benedetta ricorda di non essersi presentata e allunga la mano ma la ferma a mezz’aria imbarazzata. «Benedetta.»

«Chiamami Challow.» La scimmia si muove facendole segno di seguirla. «Vieni che t’insegno ad acchiappare granchi e gamberi. Sarà la nostra colazione, pranzo e cena. Poi speriamo di trovare qualcosa per ripararci dal sole. Rischiamo di bruciarci.»

La t-shirt, che non ricorda di possedere, e i calzoncini corti con qualche strappo che mostrano l’intimo, si sono asciugati. Sente pizzicare la pelle. La sua carnagione candida sta diventando rossa.

Challow prende un granchio e glielo porge. Lei prova a mangiarlo dopo aver rotto il carapace e spezzate le chele. L’interno è dolce.

Alza gli occhi su, verso il cielo azzurro. Vede proiettata un’ora 9:43. È il soffitto della sua casa di Lambrate. Quasi le dispiace di non essere più con Challow, perché tutto sommato era simpatica.

«Peccato! È stato solo un sogno.»

Benedetta adesso è sveglia.

«Il video di ieri sera e il racconto della… Dai, telefoniamo a Luciano!»

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Il sogno del mare

Su Caffè Letterario ho appena pubblicato un nuovo post.

Lo potete leggere anche qui.

Fu di sera, già di buio; era ottobre. Il cielo era coperto. Il giorno avevamo vendemmiato e attraverso i filari vedevamo nel mare grigio avvicinarsi le vele d’una nave che batteva bandiera imperiale.” (Italo Calvino, Il visconte dimezzato. I meridiani – Arnaldo Mondadori Editore)

Marco era un ragazzino magro e ossuto come possono esserlo a dieci anni. Era in quell’età prepuberale in cui era ancora indefinito.

Era al mare ai primi di settembre, quando la stagione sta per lasciare il posto all’autunno. Il cielo era grigio scuro striato di qualche nuvola rossastra. Camminava sulla spiaggia deserta in attesa di rincasare per la cena serale, quando scorse una nave sull’orizzonte. Si fermò a osservarla scivolare snella.

Andava a vela come i vecchi vascelli, quelli di cui aveva diversi poster nella sua cameretta. Era incantato perché sembrava che volasse tra cielo e acqua, perché lì l’orizzonte si confonde. Si notavano solo le vele candide che si stagliavano sul grigio del cielo e due luci. Una a poppa e una prua.

«Chissà dove sta andando?» bisbigliò in un sussurro appena accennato.

Si ritrovò sul ponte di comando lucido a guidare quella ciurma indisciplinata, mentre il timoniere teneva la barra a dritta.

Si sgolava e imprecava ad alta voce. «Alzate la vela maestra! Mollate il fiocco! C’è troppo vento, virate a manca col vento contro!»

La sua voce roca e tagliente dava ordini secchi come schioppettate che arrivano diritti alle orecchie dei marinai.

Il veliero cavalcava agile l’onda bianca, pronta a scendere nell’incavo del mare e poi salire su quella successiva. La prua sottile tagliava il verde marino, mentre una danza di salti e tuffi l’accompagnava.

Marco era ritto come un fuso sulla plancia sferzato dal vento. Alle sue narici arrivava il profumo della salsedine.

«Marco! Che stai a fare imbambolato in riva al mare? La cena è pronta e si sta raffreddando!» Era sua madre che lo chiamava con tono di due ottave più forte del normale.

Il sogno svanì e corse veloce verso casa. Si tolse le scarpe piene di sabbia umida, si lavò le mani velocemente e si sedette tra Flora e Andrea, i suoi fratelli.

Sono passati quarant’anni dal quel incontro serale sulla spiaggia con un vascello che solcava le acque grige del Mar Tirreno. Ormai cinquantenne continua a sognare il mare, mentre osserva corrucciato il brulicare di uomini indaffarati e spenti che si agitano nelle vie della città dove risiede. Odia questa vita anonima e convulsa, ama l’aria aperta, il mare e la sua salsedine, i velieri senza essere ricambiato.

È in piedi davanti alla finestra del suo ufficio che domina la piazza del Mercato, pieno di bancarelle che vendono un po’ di tutto. Il suo sguardo si perde nell’orizzonte lontano alla ricerca del mare.

È marzo, ma il tempo per rifugiarsi nella vecchia casa delle vacanze in riva al mare tra i filari di vite e il noce dalle larghe chiome non è ancora arrivato. Deve aspettare maggio con le giornate lunghe e calde. Poi ogni fine settimana sarebbe corso là a respirare il profumo del mare.

Si strugge dalla malinconia e dal ricordo, perché non è potuto diventare un marinaio. I suoi vecchi non hanno voluto, doveva diventare Dottore, avere una casa in città, una moglie e dei figli belli come lui.

«Papà» disse un giorno di trent’anni prima, «anche all’Accademia navale divento Dottore».

Suo padre fu irremovibile. Doveva andare a Firenze all’università per diventare Dottore.

Marco chinò il capo. All’esterno sembrò rassegnato a seguire il diktat paterno, ma dentro coltivava l’idea del mare e della vita da marinaio. Rimase un sogno inespresso, perché al termine degli studi trovò Mara e la sposò.

Si trovava bene con lei, anche se il mare non le piaceva. Diceva che le incuteva paura e non sapeva nuotare. Mara ricambiò il suo amore verso Marco. Nacquero due figli belli che assomigliavano a lui. Sara e Andrea, come il fratello minore, morto giovanissimo.

Marco divenne uno stimato professionista con un ufficio in un vecchio edificio storico. Comprò una casa singola con un piccolo giardino nel quartiere più in della città.

Si rassegnò a malincuore a vivere fra cemento, auto, rumori e polvere in un’abitazione che molti gliela invidiavano, ma che a lui stava stretta.

A questi pensieri gli viene un groppo in gola. Lui ha soddisfatto i suoi vecchi ma dentro di sé si sente infelice. La casa in città l’ha comprata. La moglie c’è come pure i due figli belli come lui. Ha disponibilità di denaro ed è stimato e ricercato. Se suo padre fosse ancora in vita sarebbe felice di vedere il suo ragazzo che ha raggiunto l’obiettivo dei suoi sogni.

Marco per vedere il mare deve andare da solo nella vecchia casa delle vacanze. È spoglia e vuota dopo che i suoi vecchi uno alla volta in punta di piedi se ne sono andati nel piccolo cimitero in fondo alla strada.

Quell’abitazione non la ha voluta mai cedere, come le quindici pertiche di vigna ormai inselvatichitasi. Casa e vigneto sono tenuti in ordine da Giuseppe, il vecchio fattore.

Mara e i due ragazzi non hanno mai voluto vederla sperando che la vendesse.

Marco si mette là dove a dieci anni ha visto la nave con la bandiera imperiale. In quel punto all’orizzonte il cielo si confonde con il mare. Là il sole si inabissa colorando di rosso terra, acqua e cielo. Lui sta lì a bocca aperta per aspirare il gusto del sale che arriva da dietro le dune.

Ancora qualche settimana di supplizio a respirare cemento, poi da solo avrebbe preso quel viottolo polveroso che conduce alla vecchia casa senza luce e senza acqua. Con gli scuri incrostati di sale e le pietre rosse che sono imbiancate. È un casale troppo grande per lui ma avrebbe vissuto nelle stanze al pianoterra.

L’ampia cucina col camino di pietra che guarda l’orizzonte. Un tavolo rustico inscurito dal tempo. Qui sarebbe stato di vedetta, mentre mangia osservando il mare. La vecchia sala da pranzo col divano di cretonne liso e dai colori indefiniti. Questo è il suo letto. Avrebbe riattivato il camino per cuocere e riscaldare l’ambiente.

Sul fratino in cucina avrebbe scritto il suo amore per il mare alla luce della lampada a olio. Qui i ricordi di quaranta anni fa lo conducono per mano.

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La fiamma – seconda parte

La bambina senza nome

La seconda parte è pubblicata anche su Caffè Letterario.

La prima parte la trovate qui.

Ecco la seconda e ultima parte

Camminò per tre lune e tre soli, quando, incespicando nel buio, la sua mano percepì una superficie secca e ruvida. La tastò facendo scivolare le dita della destra e il palmo su di essa. Emise un gemito di dolore. Qualcosa di minuscolo si era incuneato sotto l’unghia dell’anulare. Era un pezzo di legno, una scheggia non di più. Forse era una parte di un ramo strappato dal vento oppure uno arbusto rotto dal passaggio di qualche animale. Lo infilò nella bisaccia che portava a tracolla. Tastò il terreno intorno alla ricerca di altre schegge, che ripose insieme alla prima.

Preso dalla frenesia, dal desiderio sfrenato di creare una luce in quel buio così profondo, si accucciò sul terreno. Estrasse quei pezzetti di legno che dispose a formare una piccola piramide. L’ultimo lo afferrò saldo nella destra e cominciò a sfregare, sbattere la pietra contro il pezzo di legno, finché all’improvviso apparvero una, due, tre scintille e si sprigionò una grande fiammata. Dal mucchietto si levarono delle lingue di fuoco che illuminarono il buio della notte. Lui arretrò impaurito per la magia della luce. Si avvicinò e avvertì calore. Si allontanò e il freddo riprese il sopravento. Tornò dove ardevano i legnetti. Raccolse altri pezzi che aggiunse alla pira e il fuoco riprese vigore. Sgranò gli occhi stupito, avvertendo che quella prodigiosa fiamma fosse una magia miracolosa ma anche pericolosa. La facilità, con cui da quel pezzo di legno si erano sprigionate delle lingue rossastre che salivano verso l’alto, era a dir poco prodigiosa. Eppure fino a pochi giorni prima il cielo aveva riversato sulla terra una pioggia torrenziale che l’aveva trasformata in un immenso pantano fangoso.

Quella fiamma però aveva un che di strano e terribile, di affascinante e misterioso. Il modo in cui le scintille guizzavano e si riunivano, vorticavano nell’aria nera, si espandevano e ritiravano la loro luce ardente gli faceva crescere una sensazione di paura e curiosità. Attrazione e repulsione erano i sentimenti che provava senza rendersi conto che si stava muovendo verso il fuoco, sempre più vicino. Se all’inizio, avvicinandosi percepiva dolore sul palmo delle mani, adesso non sentiva più nulla ma solo piacere. Più si accostava, più si accorgeva di non percepire calore, come se le fiamme che danzavano davanti a lui non fosse null’altro che una visione. Le scintille si fondevano davanti ai suoi occhi delineando forme nuove, segrete, svelando immagini diverse. All’improvviso nell’eterno caos del falò, qualcosa apparve e prese vita, unendosi con il suo corpo in una elegante danza. Capelli ardenti, le linee sensuali della bocca, il braciere degli occhi, le dita come lingue di fuoco, i seni morbidi e caldi, il ventre perso nelle vampe. Quella terribile e stupenda creatura lo attirava verso di sé, lo riscaldava con le sue parole e con la passione che sprigionavano i movimenti del suo corpo. Infondeva in lui un calore mai provato prima, che lo avvolgeva, lo faceva sentire strano, stanco in un limbo di piacere e tortura. La fiamma lo avvolse, bruciò i suoi miseri vestiti, lo irradiò di forza ed energia trascinandolo con sé e dentro di sé. Le mani roventi lo cinsero e le labbra cercarono le sue, con la lingua di fuoco caldo che danzava sul suo palato, esplorando la sua bocca. Lui, non potendo capire altro che la sensazione bellissima e tremenda del fuoco, ovunque sopra il suo corpo, rimaneva immobile. Gli occhi divorati dalle fiamme, le labbra schiuse in quell’ardente bacio. Nel crescendo di calore sentì a un tratto la sensazione intensa del piacere, che saliva e aumentava, stimolata dal furore di quelle mani, di quel corpo focoso. Nel delirio del rogo desiderò di possedere quella donna e le sue mani si mossero attraverso di lei.

Preso da quel bacio di fuoco carezzò il grembo caldo di lei, sentendo la fiamma vibrare sotto il suo tocco. Quella figura riprese vigore e ardore e dal ventre salirono fiammate azzurre di piacere. Lui era ormai diventato parte del fuoco, fiamma lui stesso e sopra la pira in fiamme accarezzò con desiderio la donna, risalendo e scendendo con la mano, seguendo le curve di quel corpo perfetto.

Lei, in risposta, lo avvolse nel fuoco della passione, lo spinse dentro di se avviluppandolo tra le fiamme. Lui, immerso nella smania del piacere, non percepiva il dolore del fuoco e del suo corpo in combustione. Godeva del piacere della fiamma. L’abbracciò traendola verso di sé. Le fiamme azzurre aumentarono. Nell’aria risuonava il gemito strano della donna e quello soffocato di lui, chinati l’uno sull’altra, ansimanti. All’improvviso il volto dell’uomo fu investito da una vampata di fiammate rosse. La lingua rossastra si contorse come mossa dal vento. La sua bocca rovente lo avvolse completamente.

Le vampate azzurre si alzarono in alto per gli scatti felini del bacino di lei. Lui sentì la bocca rovente allontanarsi dalla sua. Lei si alzò, attraversandolo totalmente, infiammandogli le viscere e lo cinse di nuovo tra le braccia, stringendo le gambe attorno ai suoi fianchi.

Lui travolto dal desiderio e dalla passione la strinse forte a sé. Lei imprigionata nella sua stretta perdeva man mano la sua parvenza di fiamma, avvolta dalle vampe azzurre del godimento. I loro corpi, le loro essenze erano ormai un’unica cosa, stretti l’uno all’altra in un incendio blu e rosso da cui si alzavano urli e gemiti. Le fiamme azzurre li avvolsero entrambi, tuonarono nei loro ventri, li gettarono nel delirio di un immenso piacere. I loro movimenti convulsi li facevano apparire come un unico grande essere di fuoco. Le vampate celesti si fusero nei loro corpi divenuti un’unica fiamma, finché il piacere non si estinse e di loro non rimase altro che cenere.

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