Elena world's

Tratto da ilturista.info
Tratto da ilturista.info

L’azzurro del cielo impallidiva, accecato dal sole di luglio che da giorni picchiava duro. Nei giorni scorsi la temperatura aveva sfiorato i quaranta gradi e il vento era una lama rovente. Nella giornata odierna non sarebbe arrivato nulla a mitigare il clima. Questo lo sapeva anche Elena, quando si avviò verso l’Università. Indossava un vestito leggero di lino bianco e calzava dei sandali bassi. I capelli raccolti dietro la nuca. Occhiali da sole per attenuare il riverbero della luce violenta di luglio.

Per lei oggi era importante: il giorno della laurea, attesa da cinque anni. Il 16 Luglio 2004 si sarebbe laureata in lingue con una tesi tutta in inglese sui grandi poeti britannici. Era stata preparata con cura nei mesi precedenti in tutti i dettagli, compresa la pronuncia. Per migliorarla aveva trascorso a maggio tre settimane a Londra. Un full immersion nello spirito british. Che magnifica vacanza! Quanti ricordi piacevoli! Non era la prima volta che andava all’estero. Era stata con gli amici in Grecia e in Croazia, con un gruppo di studenti di lingue a Malta e Monaco di Baviera in un progetto di scambio tra università europee. Però mai le era stato permesso di fare un viaggio fuori dell’Italia senza il contorno di persone conosciute e fidate. Questa volta ci andava sola soletta senza accompagnatori o guardie del corpo,

I genitori non avevano visto di buon occhio queste tre settimane da affrontare senza il supporto di persone affidabili. Non erano propensi, perché, secondo loro, lei avrebbe rischiato di incappare in mille pericoli. Pensavano che una giovane ragazza di ventitré anni avrebbe fatto chissà quali e quanti brutti incontri in una grande metropoli piena di insidie. Stupri, violenze, sequestri e, mah!, quant’altro ancora. Elena invece era eccitata e non vedeva l’ora di imbarcarsi per Londra. Anche il viaggio in aereo era per lei una novità. Insomma quante nuove esperienze erano concentrate in queste tre settimane!

Era arrivata la prima volta anche per lei… Inghilterra e Londra, una città, vista finora nelle cartoline e basta, un autentico mito. Racconti fantasiosi, meraviglie da esplorare e gustare. Erano gli ingredienti delle narrazioni di chi c’era stato o millantava di esserci andato. Tuttavia era difficile spiegare a un osservatore esterno, cosa provava alla vigilia della partenza Elena, una laureanda in lingue, che raggiungeva un sogno cullato da molti anni.

Il battesimo del volo andò benissimo senza problemi o apprensioni particolari. La partenza non le mise i brividi, come Giulia, un’amica, le aveva detto. Si sentì proiettata verso il cielo, mentre la terra si allontanava sotto con rapidità. Le Alpi dai colori scuri, macchiate qua e là da puntini bianchi. Il verde dei boschi della Francia. Un braccio di mare, superato in un baleno. Poi la picchiata verso Heathrow. A terra le fece impressione l’aeroporto, immenso e pieno di gente di tutte le razze e nazionalità, dove era facile perdersi nei corridoi, punteggiati di ricchi negozi. Un autentico porto di mare, che dista un quarto d’ora da Londra Paddington, prendendo Heathrow Express. Durante il trasferimento in treno ebbe modo di conoscere e apprezzare la verde campagna inglese. A maggio è nel suo massimo splendore. Gliene avevano parlato ma la vista superò di gran lunga le descrizioni. Sarebbe stato difficile esprimere con parole quello che lo sguardo vedeva.

Aveva prenotato una camera in un hotel nel centro a Londra. Giunta a Paddington doveva prendere due metrò, i famosi “tube” londinesi, scendendo a Bond Street. Il primo impatto con questi mitici mezzi di trasporto fu forte, perché sono diversi dalle U-bahn di Monaco di Baviera, bianche quasi asettiche. Qui erano tutto un colore dagli ingressi alle carrozze. Era impossibile il paragone con la metropolitana romana, sporca e asfissiante per il calore. Sotto la superficie di Londra si respirava aria pulita e fresca. Già da subito aveva cominciato ad amare questa città. L’impatto l’aveva stordita favorevolmente.

Scesa a Bond Street, Elena camminò col naso all’insù per la curiosità di osservare tutto quello che la circondava. Una breve passeggiata la condusse in Manchester Street, dove stava l’omonimo hotel. Quello che per tre settimane sarebbe stata la sua casa. L’albergo era carico di anni. Un grazioso edificio del 1919 in mattoni rossi, piccolo e raccolto, vicinissimo a famosi locali di attrazione e di shopping, a due passi da Regent’s Park e dalle sponde del Tamigi.

Era mattino inoltrato, quando si presentò alla reception del Hotel per espletare le incombenze della registrazione. Elena scalpitava per tornare fuori, per conoscere Londra. La stanza non era grande ma comoda e funzionale. Deposti i bagagli, una breve rinfrescata, un cambio di vestiti per stare più comoda e via per le strade di Londra a fare la turista. La giornata odierna l’avrebbe sfruttata per fare conoscenza con questa città, che amichevole le stava dando del tu. Dal giorno dopo la musica sarebbe cambiata, perché doveva frequentare la scuola per perfezionare la sua dizione e per approfondire le basi grammaticali e sintattiche.

Al termine del secondo giorno le era bastato per capire che tre settimane non sarebbero state sufficienti per godersi Londra nella sua interezza.

La scuola ospitava circa ottocento studenti, provenienti da oltre sessanta paesi. Tutti impegnati a rifinire la loro pronuncia e la conoscenza della lingua.

Una babele di idiomi e persone diverse tra loro per cultura e abitudini. Elena si guardò intorno smarrita. ”Non mi basteranno le tre settimane per conoscerli tutti!”.

Il pacchetto che aveva scelto prevedeva, oltre a dieci ore di intenso studio in aula, anche molteplici attività. La giornata cominciava presto e finiva tardi senza un attimo di sosta. Una frenesia senza fine. Tra queste l’aspettava la gita in barca sul Tamigi, visitare monumenti e musei, trascorrere alcune serate al pub insieme ai compagni. Tuttavia non era tutto, perché nei momenti di libertà, pochi a dire il vero, voleva andare in giro per la città a fare shopping.

La gita sul Tamigi fu emozionante ma non solo. Fu un qualcosa che superò la sua immaginazione. Aveva pensato, leggendo il depliant che fosse la solita uscita su un barcone, come talvolta le era capitato d’estate sulle spiagge del Gargano. In realtà l’enorme imbarcazione, che solcava lentamente un fiume sporco e grigio, sembrava più una discoteca semovente che la classica barca turistica. Ragazze e ragazzi ballavano sotto raffiche di musica sparate a mille watt tra luci al laser e ombre cinesi, intervallate da una breve sosta nel capiente ristorante posto nella parte superiore. Musica, birra, allegria mescolate tra loro come ingredienti di una torta della nonna accompagnarono questa serata speciale, tanto che per molti mesi a Elena rimase stampata nella sua mente, mentre faceva il resoconto agli amici.

Come conviene in tutte le aule scolastiche, Elena aveva stretto amicizia con un gruppetto di ragazze e ragazzi di colore e razze diverse, con cui trascorreva gran parte del suo scarso tempo libero. Per magia scoccò quell’empatia che rende familiare la vicinanza e l’affiatamento, nonostante le palesi differenze esistenti tra loro di linguaggio e cultura. Però lo stare insieme, il trascorrere le ore libere in gruppo cementò la loro amicizia, superando tutte le diversità e le barriere culturali e religiose.

Purtroppo, come tutte le cose belle, anche queste tre settimane finirono. Anzi volarono via in un baleno. A Elena sembrò ieri di essere atterrata a Heathrow. ”Tutte le esperienze, che per un attimo ti portano via dal mondo in cui vivi, ti restano per sempre nel cuore” si disse, mentre preparava il bagaglio per tornare a casa. “Al di là del posto in sé, che alla fine resta lì immutabile, si può tornare sempre a Londra. Ma per quanto si possa pianificare il ritorno, non sarà mai come queste tre settimane. È il momento che conta, sono le persone che incontri, che costituiscono almeno il 70% di ciò che vivrai. La stessa cosa è stata per i miei due mesi a Monaco di Baviera, le mie tre settimane a Malta. Niente sarebbe stato senza le persone che hanno incrociato il mio cammino”.

Il rientro fu con tanti rimpianti e molti abbracci. “Scrivimi” fece col gruppo di amici, ben sapendo che dopo un po’ i contatti si sarebbero sfilacciati. ”Alla prossima volta, Londra!” disse mentre l’aereo si staccava da terra.

Le giornate di esercizio con la lingua, con le prove di esposizioni, con le registrazioni della sua voce riempirono i giorni che mancavano alla laurea. Il 16 luglio Elena festeggiò con i genitori e gli amici il traguardo raggiunto.

Era felice ma preoccupata, perché sarebbe cominciata la parte più difficile della sua vita. Finita la sbornia dei festeggiamenti, delle meritate vacanze senza il pensiero degli esami autunnali, si domandò inquieta e smarrita: ”Che lavoro intraprenderò?”

I genitori premevano, affinché lei trovasse un’occupazione nella scuola. Questo non era il suo pensiero e nemmeno l’obiettivo a breve. La domanda continuava a ballare nella testa di Elena. Si piegò malvolentieri alle loro pressioni e presentò alle scuole medie e superiori, disseminate nel Gargano, la domanda per insegnare lingue (inglese o tedesco). Non aveva molte speranze, che fossero accolte. Anzi in cuor suo avrebbe voluto che la chiamata non arrivasse mai. Invece, ironia della sorte, le diedero un incarico annuale in una scuola media di un paesino non molto distante da San Severo, dove risiedeva. Accettò a denti stretto solo per accontentarli.

Iniziò a insegnare.

L’anno scolastico fu travagliato, perché non riuscì a tenere a bada quei ragazzini, che la mettevano in difficoltà nonostante avessero solo dodici anni. Finii a giugno stremata e stressata. La sua corporatura già esile di per sé divenne ancora più diafana. Era sull’orlo di una crisi depressiva. Durante i mesi estivi cancellò dalla mente la scuola, sperando che il nuovo anno cominciasse senza di lei. Avrebbe avuto la scusa valida per dedicarsi alla ricerca di un lavoro, che lei definiva “serio”. Le sue preghiere non furono esaudite e si ritrovò con un altro incarico in un paesino della provincia di Foggia.

Se il primo anno fu angosciante, il secondo fu un’esperienza terribile. Quei ragazzini erano davvero delle pesti e i genitori ancora di più. Aveva degli incubi notturni e, quando prendeva la macchina per arrivare a scuola, era preda di attacchi di panico. Sull’orlo di una crisi di nervi, decise di cercare un posto come receptionist in uno dei tanti hotel della costa pugliese e di chiudere l’esperienza disastrosa nella scuola. Non ci pensò due volte: alla conclusione dell’anno scolastico sarebbe partita la ricerca. Addio scuola. Addio ragazzini pestiferi e mortiferi. Addio genitori invadenti e permalosi.

Non fu facile ma, come tutte le esperienze di ricerca di lavoro, le permise di acquisire esperienza nel trattare con le persone. Fece numerosi colloqui, conobbe molti albergatori e alla fine fu premiata. Un hotel, che lavorava prevalentemente con clientela straniera, praticamente tutto l’anno, la assunse in prova, vista l’ottima conoscenza del tedesco e dell’inglese.

Così terminò la sua carriera di insegnante e iniziò quella di receptionist.

L’hotel era molto grande e dotato di molte risorse: dalla piscina alla palestra, dalla sauna al kindgarten, dagli animatori agli insegnanti di ballo. Si trovava sulla costa, nella zona di Peschicci, ed era un grande edificio con annessi bungalow e piccole costruzioni destinate al divertimento in tutto immerso nel verde.

Le erano stati offerti due locali con bagno nel seminterrato dell’edificio principale, dove all’occorrenza poteva trattenersi per la notte o riposarsi durante le pause.

All’inizio non pensava che dopo il periodo di prova la confermassero, perché aveva pasticciato in più di una occasione ma con suo grande stupore e gioia le dissero che sarebbe rimasta.

Il personale era numeroso anche nei momenti di maggiore calma, perché era come un minuscolo villaggio. Con alcuni di loro legò fin da subito, con altri i rapporti rimasero freddi e distaccati.

Col primo stipendio si fece un regalo: un bel portatile su cui scrivere tutto quello che le passava per la mente tanto da diventare il suo compagno fidato e inseparabile.

Questi sono stati i suoi primi appunti.

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L'innocenza colpevole

da visionarium-3d.com
da visionarium-3d.com

Con questo atto suggello la mia innocenza colpevole, che, sebbene fino all’ultimo non poté essere provata, perlomeno affrancherà e santificherà il mio spirito. Mi libererà da un pesante fardello: quello di sapere di essere innocente e colpevole allo stesso tempo. Sono io l’assassina di Cassandra. Era un angelo, che ho dissolto nell’aria. Quando? Non lo rammento ma sicuramente il ricordo si perde nella notte del tempo. Sì, sono io la donna che gli amici, i parenti, i conoscenti cercano giorno e notte. Tra affanni e voglia di vendetta. Ebbene sì, ho ucciso Cassandra! Sono la persona che dovete incolparsi, perché solo a me spetta l’amaro onere del titolo di omicida. Tuttavia, mentre il sangue mi scorre via impazzito e macchia questo biglietto di addio, c’è una cosa che devo ancora dire a mia discolpa”.

Era maggio 2012. Il cielo era pulito senza una nuvola. Il sole picchiava duro. Faceva troppo caldo per non essere ancora estate. La terra si era seccata e spaccata, perché la pioggia tardava a venire. L’erba intorno al casolare nella campagna emiliana stentava a crescere, diventando gialla e secca.

Si erano date appuntamento in quella casa rurale dai muri scrostati e dagli interni che odoravano di chiuso e di muffa.

“Vieni alle cinque del pomeriggio” aveva detto.

“Ci sarò” le rispose.

Rebecca non aveva un’idea sui motivi dell’incontro ma la curiosità era forte. Quando arrivò, Cassandra non c’era ancora. Una zaffata di abbandono e di aria viziata la avvolse. Aprì le finestre per fare entrare l’afa del pomeriggio.

“Sempre meglio di questa puzza” si disse.

Girò per le varie stanze per ingannare il tempo che non passava mai. Aspettò a lungo l’arrivo di Cassandra. Il sudore le aveva appiccicato la camicia di lino al corpo, mostrando che non aveva nulla sotto. La vide arrivare in bicicletta coi capelli rossi al vento.

Rebecca le aprì la porta per farla entrare. Si accomodarono in quella che una volta era la cucina. Un tavolo sporco di polvere, tre sedie rustiche e impagliate, una vecchia stufa economica arrugginita, una madia con uno sportello di sghimbescio e tante, tante ragnatele.

“Siediti” le disse imperiosa, indicando la sedia.

“Perché siamo qui?” le chiese.

“Sei troppo curiosa. Sii paziente e lo saprai”.

Rimanerono in silenzio, finché non udirono dei passi all’esterno. Rebecca si voltò verso la porta ma non fece in tempo a voltarsi. Non poté vedere chi stava entrando. Cassandra le legò le mani dietro lo schienale e le mise un bavaglio sulla bocca. Non poteva muoversi ma poteva ascoltare. I passi si fermarono alle spalle mentre lei si dispose davanti.

“Ti aspettavo” disse con voce ferma.

“Sono venuta” rispose una voce sconosciuta.

Una breve pausa mise termine quello scambio di battute. Rebecca non capì chi fosse. Le sembrava una voce che provenisse dall’oltretomba.

“Allora si comincia. Hai paura?” le chiese la donna.

“No. Sono serena” replicò ferma Cassandra.

Rebecca si domandò cosa avessero in mente le due donne ma non poteva parlare. Il bavaglio le impediva di dire una sola parole. Era costretta a sentire le loro voci.

Non è un’apologia della morte di Cassandra. Non è nelle mie intenzioni. Troppo tempo è passato e voglio svelare una verità che è rimasta sepolta, mezza fuori e mezza dentro, ignorata e marcita nei meandri di me stessa per tutti questi anni. C’era dunque una persona con noi. Una donna sconosciuta. Udì solo la voce ma la riconoscerei tra milioni di uomini. Un diavolo torvo, una serpe, una sfinge, che cantava parole d’Inferno, così cariche di polvere e d’invidia che sembrava che le lettere dovessero prendere fuoco. Tuttavia a Cassandra suonavano così soavi e sublimi che rimaneva incantata ad ascoltare, colpita violentemente da quelle parole vuote, come niente l’aveva mai scossa prima d’ora”.
Lei gli ha detto che doveva morire tra i dolori dell’inferno, osservando la sua vita che scorreva via col sangue delle sue vene. Gli ha detto: “Muori e strappati il cuore. Mettici un cervello al suo posto”.

Ero annichilita ma incapace di scongiurare e disperdere quelle parole. Immobile ascoltavo quei deliri senza comprenderne i motivi. Finora ho vissuto nel rispetto del silenzio e dell’omertà che Cassandra mi aveva imposto. Guardavo con le mani legate e ascoltavo con la bocca bloccata dal bavaglio, mentre Cassandra era libera di uccidere se stessa in nome dell’atrocità. Disse che questo era il ‘progresso’ che l’avrebbe resa una donna migliore, più felice. Non potevo fare nulla, mentre il suo personale demone batteva le mani in segno di soddisfazione. La osservai fare quello che le aveva richiesto con orrore e disperazione. Quando si afflosciò sul pavimento, la vidi, rapita nelle spire nero pece di quella donna. Lei si dimenava contenta, mentre quella diavolessa sghignazzava in maniera orribile. Svenni per il terrore. Quando rinvenni, era già sera ed ero nuovamente libera. Non vidi il corpo di Cassandra. La cercai ovunque ma invano. Solo una chiazza rosso scuro era il segno dell’amica. La bicicletta era ancora appoggiata al muro esterno. Disperata ritornai a casa e non riuscì a dormire per molte notti. Udivo ancora le parole di Cassandra e di quell’essere infernale. Ero disperata perché non ero riuscita a salvarla dalla dannazione eterna. Sono passati molti anni ma il rimorso è cresciuto nel tempo. Non posso tacere ancora a lungo senza spiegare a chi in tutto questo tempo non ha mai disperato di vederla tornare sorridente e felice”.

Il foglio cadde per terra, raccogliendo alcune stille di sangue.

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L'amico

dal blog http://steppo1977.wordpress.com/2011/01/17/amico-chi/
dal blog http://steppo1977.wordpress.com/2011/01/17/amico-chi/

Quando ti raccontano che l’amicizia è la forma più pura e crudele d’amore, non mentono:
di banalità se ne dicono tante, ma questa è vera. Pura verità. Perché ti domandi curiosa? Perché ritieni che sia una crudeltà verso i sentimenti che provi verso un’altra persona?

L’amicizia non è nient’altro che un amore senza la pretesa di esserlo, è affetto imbandito a senso unico, per il puro piacere di offrire e offrirsi. A un amico dai tutto, quasi fosse una parte di te, senza l’alibi dell’attrazione. Per questo, quando l’amicizia muore, lascia nel cuore la cancrena di una nostalgia incurabile. Ed è peggio di un amore interrotto o calpestato, perché col tempo capisci che tutto sommato era giusto che finisse così. Te ne fai una ragione col tempo. Il tempo scorre e sbiadisce tutto, fuorché le rughe che si accumulano sul viso.

All’amante puoi perdonare l’infedeltà, perché la chimica dei sensi è anarchica e irrequieta; perché la dimensione del piacere non ha un orizzonte fisso, né odora di duraturo. Quando l’amante sparisce o ti tradisce con un’altra persone, ti affanni tra ricerca e rimpiazzi per scovarne un altro che possa surrogare il precedente. La fedeltà è un optional dai contorni evanescenti. Ora c’è, un istante dopo è sparito.

A un amico concedi poco sul piano del tradimento o forse non concedi nulla. Lui ti deve essere fedele per definizione, come tu gli devi essere devoto. C’è simbiosi fra noi, quella che non esiste con l’amante. Così devi calpestare quel sentimento amoroso che germoglia, cresce e mette radice dentro di noi. Capisci perché l’amicizia è una gabbia dove imprigioni emozioni e sensazioni?

Quando hai quindici anni, non comprendi questa sottile linea di confine e preferisci pensare all’amicizia in senso astratto. Tanto più sei giovane, tanto meno perdoni il tradimento di quello che incautamente ritieni un amico. Perché? Ti manca l’esperienza per capire che i punti fermi nella vita sono come punti di sutura: chiudono la ferita, ma lasciano nella carne dentate mostruose. Meglio sarebbe l’imperfezione sottile del vecchio cordolo, una lacrima fatta di carne. Tuttavia in quell’età non riesci a vedere nell’amante un volto passeggero che transita davanti a te e sparisce come il treno nella curva dopo la stazione.

Giulia scuote la testa. Si sta pettinando i capelli, mentre ragiona sull’amante, che avrebbe rivisto tra poche ore, e sull’amicizia con Nicolò. É insoddisfatta del matrimonio, contratto sette anni prima senza amore e senza pathos. Sperava che col tempo e la vicinanza sarebbe nato amore e complicità. Tuttavia non è avvenuto nulla di tutto questo. Se ne è accorta subito ma non ha trovato la forza di troncarlo. Così stancamente si trascina da un amante a un altro senza trovare nessuno stimolo, nemmeno quello sessuale. É solo un modo per ingannare il tempo. Sa che anche Alex, suo marito, la tradisce ma questo aspetto non la preoccupa per nulla. Tra loro non è mai sbocciato niente, neppure l’intesa a letto. La loro unione è stato un fatto puramente tecnico, legato alle famiglie di origini.

Suo padre possedeva un industria chimica che navigava in acque turbolente e stava andando a fondo. Aveva la necessità di trovare un partner finanziario che lo portasse in salvo. Antonio, il padre di Alex, aveva una necessità opposta: doveva trovare un industriale per riciclare del denaro sporco, che aveva accumulato illecitamente. Così suggellarono l’intesa, che blindarono con il matrimonio tra i loro rampolli, anche se loro non erano d’accordo.

Fin dalla prima notte fissarono i paletti della loro unione. Agli occhi della gente dovevano mostrarsi come una coppia modello ma nel letto ognuno portava chi voleva. Nessun obbligo di fare sesso tra loro. Se ne avessero avuto voglia entrambi, si poteva, altrimenti nulla. Di figli nemmeno parlarne. Sarebbero stati solo d’impiccio.

Giulia scaccia questi pensieri infastidita, perché è Nicolò il vero oggetto della sua riflessione. Lo conosce dalla scuola media e tra loro è nata un’amicizia vera, assai rara tra un ragazzo e una ragazza. Lui è stato sempre il primo a correre in suo soccorso, quando è incappata in qualche disavventura amorosa e non solo. Con lui si confida su tutto anche sui particolari più intimi e scabrosi, come non fa con Elena, l’amica del cuore, alla quale tace le proprie intimità. Giulia lo considera un fratello e non un possibile amante.

Per me amicizia ha un significato ben preciso. Uso con sobrietà questa parola, anche se per molti è un termine da sventolare con forza, come fosse un fazzoletto alla partenza del treno. Per tante amiche basta la semplice conoscenza di qualcuno, per definirlo amico o amica. Per me no. Amicizia è sapere che puoi contare su qualcuno per parlare dei tuoi problemi. L’amico è quello che senza secondi fini ti dice che stai facendo una sciocchezza. Se tu poi lo mandi a quel paese, sorride e incassa, perché sa che poi ti pentirai di averlo detto. Quante volte è successo?

Giulia sospira su queste parole. Si guarda allo specchio. Nicolò era proprio così.

Sì, un amico è quello che, se stai attraversando un momento psicologicamente duro, lo percepisce senza che tu glielo dica. E tiene la tua mano senza aprire bocca, perché ha quella sensibilità per comprendere che in quel momento è l’unica cosa da fare. Nicolò è sempre stato così. Ha preso molti calci nei denti, spesso per colpa mia senza protestare. Se ha sbagliato, ha avuto l’umiltà di chiedere scusa. Se ho sbagliato io, accetta le mie giustificazioni, senza aprire bocca. Sì, è stato un amico che, trovandosi sulla linea di confine, anche per un attimo, ha avuto la forza di guardarla e di non oltrepassarla. Quando però…

A Giulia scivola una lacrima nera di mascara, quando ricorda quel giorno.

Accade quello che lei non ha mai pensato che avesse potuto succedere. É venuto il giorno che ci ha provato. Nicolò è a conoscenza che i rapporti col marito sono freddi, perché glielo ha confidato da tempo, da quando è tornata dal viaggio di nozze. Conosce ogni particolare della sua vita matrimoniale: stanze separate, amanti da entrambe le parti, rapporti sessuali pressoché inesistenti.

Un sabato di maggio, due settimane prima, Alex è in viaggio con l’ultima fiamma, l’ennesima della collezioni di amanti. Lei sta attraversando un periodo nero. L’ultimo uomo si è rivelato un meschino profittatore, che voleva fare sesso solo a pagamento. Ne parla con l’amico, rivelandogli che si sente sola e delusa.

“Alex è via con una donna, della quale mi ha detto il nome, che ho dimenticato subito. Vorrei avere un uomo nel mio letto ma questo rimane freddo” dice a Nicolò per telefono.

Lui è arrivato poco dopo, a metà mattino, per tenerle compagnia. Giulia è nella stanza da letto e indossa un camicia sottile e trasparente con niente sotto, mentre davanti allo specchio si prepara per uscire.

Lui si avvicina come fa sempre, quando sono insieme. Lei continua a truccarsi senza prestare attenzione ai suoi movimenti. Sa che è un amico fedele. Nessuna minaccia proviene dal suo muoversi nella stanza.

Nicolò si pone alle spalle, le cinge i seni e la bacia sul collo.

“Ti amo” sussurra con trasporto.

Giulia lo respinge con furore.

“Come ti permetti? Vattene e non farti più vedere!” esclama rabbiosa.

Nicolò esce dalla stanza senza dire una parola. Sa di aver commesso un errore che l’amica non gli avrebbe mai perdonato.

Sono passate due settimane da quel giorno e lei non lo ha cercato per fare la pace, come altre volte. Lui non la chiama, perché la conosce troppo bene. Preferisce far decantare la rabbia di Giulia, mentre si dà del somaro per quel gesto sciocco e inconsulto.

Adesso nel silenzio della casa si guarda allo specchio. Il tempo scorre ma resta immobile, seduta sullo sgabello. Sa che tra mezz’ora arriverà Alfonso, l’ultimo amante, ma le è passata la voglia di uscire con lui per recarsi al ristorante. Conosce il percorso di quella sera. Cena, poi a letto per finire la giornata. E’ solo noia e nessun piacere. Sente il carillon del campanello di casa.

“Suona” si dice, restando immobile.

Passano i minuti e di nuovo quello squillo imperioso. Giulia continua a guardare lo specchio dove vede le sue nudità. Adesso è il telefono che reclama la sua attenzione. Non risponde. Poi un’altra chiamata e un’altra ancora. Lei resta immobile. Non muove un muscolo. Alla fine cala il silenzio.

Riflette e capisce l’errore.

“Nic, ti aspetto” gli dice al telefono.

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