Disegna la tua storia con un’immagine di Etiliyle – Sghego e il suo esercizio

Questa splendida immagine di Etiliyle mi ha dato lo spunto di creare un nuovo racconto ambientato a Venusia.

Buona lettura.

Venusia è un minuscolo puntino nella pianura di Ludilandia. Non c’è nulla a parte Sghego e poco altro.

Sghego fa da bar, trattoria e ritrovo per i venusiani. Insomma se si vuole incontrare qualcuno, quello è l’unico posto. Non c’è altro: o prendere o lasciare.

Quattro tavoli sotto il pergolato e altrettanti al suo interno. Un tavolo è sempre occupato da quattro venusiani che passano mattina, pomeriggio e sera a giocare a carte. Sono ospiti fissi e non fanno nient’altro che partite interminabili. Insieme alle napoletane non manca mai il calice di vino rosso, che viene centellinato come una reliquia.

Il gioco preferito è la scopa. Più di rado si gioca allo scopone scientifico, più complesso e impegnativo. Le coppie sono fisse e le partite accanite. Non di rado finisce a spintoni e urla con invettive che le sentono tutti i venusiani. In questi casi Sghego interviene a riportare la calma. Due pacche sulle spalle dei contendenti e la minaccia di tenerli lontani dai suoi locali per molto tempo. Uno spauracchio per Mario, Martino, Alberto e Marino, i quattro dell’Ave Maria del gioco. Un DASPO in piena regola che agisce da deterrente. Si mettono calmi in un amen. Il solo pensiero di essere banditi per mesi o per sempre fa sparire tutti i propositi bellicosi. In realtà è più scena che arrosto.

D’estate sotto il pergolato, d’inverno all’interno. Pioggia o neve non li scoraggia a venire puntuali come orologi svizzeri alle nove del mattino. Si siedono nel tavolo in angolo, tolgono le carte dal suo contenitore e Alberto estrae il quaderno dalla copertina nera e dai fogli a quadretti. Qui sono appuntati date e ore d’inizio partita dove segnano i punti delle coppie.

«Dovevi calare il sei e non il cinque» redarguisce Mario prendendo un ori dal tavolo.

Il suo compagno, Martino, scuote il capo e disquisisce sulla sua giocata. «Non conosco le tue carte ma quel cinque ha un senso» e cala un altro cinque di denari per recuperare la carta precedente.

Il mucchietto di prese sale davanti a Mario ma Alberto fa scopa con un Re e sogghigna felice. «Così si gioca, pantofoloni» ride felice.

Alberto richiama l’attenzione di Sghego per ordinare un altro giro di vino e qualche tartina. «Mettila sul conto di Mario e Martino» sghignazza irriverente. «Tanto questa partita l’hanno già persa».

«Non dire gatto, se non l’hai nel sacco» rimbecca acido Martino, che con un asso prende tutto e chiude la partita.

Quello che rende unico Sghego, oltre ai quattro giocatori, è il posto. Incassato tra due case con davanti il viale alberato, coi muri ricoperti dall’edera dona un senso di tranquillità. Il pergolato è ricoperto dalla vite americana, che in autunno si colora di rosso. L’edificio è un vecchio stabile di pietra ingrigita dal tempo. La pavimentazione è un acciottolato leggermente sconnesso formato da sampietrini di porfido scuro. L’interno è spartano. Un bancone non più lucido, che mostra tutte le sue smagliature legate alle diverse generazioni che si sono alternate dietro di esso, ha alle spalle uno specchio che occupa tutta la parete. Quattro tavoli di ferro smaltato occupano la sala interna e stanno tra il bancone e la porta d’ingresso. Una porta girevole consente l’accesso alla cucina e alla dispensa. Le pareti avrebbero necessità di una bella rinfrescata ma Sghego afferma che così hanno un’aria vissuta.

 

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Disegna la tua storia con un’immagine di Marzia – La stanza

Marzia mi ha lanciato un nuova sfida. Partendo dall’immagine che segue, devo costruire una storia.

fornita da Marzia

Io ci provo. Il giudizio lo lascio a voi.

Buona lettura

Carola è sempre stata curiosa. Ama le avventure, che qualche volta hanno rischiato di finire male. Come quella volta che ha azzardato l’esplorazione della Fortezza da sola.

La Fortezza è il simbolo di Venusia, un patrimonio comune a tutti i venusiani. Non ha padroni, fuorché gli abitanti di Venusia. Si erge sulla montagna, quel dosso alto poco più di duecento metri, tanto che chiamarla così fa sorridere tutti fuorché loro.

La Fortezza è un luogo ricco di misteri, abitato da fantasmi e frequentato solo dai più coraggiosi. Carola è una di questi.

Un giorno di giugno di qualche anno addietro Carola si è inerpicata sulla montagna passando nel bosco degli spiriti, altro luogo poco amato e frequentato dai venusiani.

Arrivata dinnanzi al grande portone di quercia, che è sempre chiuso si ferma a rifiatare. Per aprirlo serve una robusta chiave, che pende malinconica dal battocchio di ottone. Lo sanno tutti dove si trova e basta infilarla nella toppa e girare con foga per aprire il battente che silenzioso si apre.

Dunque Carola, dopo aver provato a spingere il portone, qualora qualche altro ardimentoso fosse entrato prima di lei, prende la chiave che è di proporzioni generose e pesa un chilo e mezzo. La infila nella serratura e la gira con forza. Dopo un mezzo giro si blocca. Riprova. Niente dopo un mezzo giro non ha intenzione di muoversi.

Carola freme per la novità che la incuriosisce. “Cosa la blocca?” si chiede con lo sguardo meravigliato. “È la prima volta che mi capita”. Osserva la chiave ma non nota nulla di strano. Dà una sbirciatina nella toppa e non vede nulla.

«Questa è proprio bella» esclama con voce squillante. «La chiave si rifiuta di girare».

Ha appena finito di dire queste parole che la chiave infilata nella serratura inizia a girare in silenzio come se fosse dotata di anima. Carola non si scompone nel vederla ruotare senza che qualcuno la muova. Spinge il pesante portone che cigolando sui cardini si apre mostrando il suo interno polveroso. Ride soddisfatta e incuriosita. “Si tratta del famoso fantasma Beniamino” si dice, mentre varca la soglia. “Tutti ne parlano ma nessuno l’ha visto. Sarò io la prima vederlo?”

Muove alcuni passi verso l’androne, quando il portone in silenzio si chiude, lasciandola al buio. Carola come è abituata a fare porta a tracolla uno zainetto rosso, dove appesa c’è una potente torcia. La prende e illumina l’androne. Il fascio luminoso percorre le pareti e il pavimento. Non ci sono tracce di passaggi umani ma nemmeno di animali. Questa la rassicura. Nessuno è pronto a giocarle qualche brutto scherzo.

Con passo marziale si dirige verso lo scalone che porta al piano nobile. Sente solo il rimbombo delle sue scarpe sul pavimento lastricato con pietre d’ardesia. Un suono familiare per lei. Procede senza cautele convinta di essere sola o al massimo seguita dal fantasma.

Salita al primo piano percorre il corridoio che la porterà alla stanza dei giochi. L’ha chiamata così perché ci sono bambole rotte e carrozzine sgangherate. È la sua stanza preferita. “Strano” pensa vedendo la porta socchiusa. “Di solito è chiusa”. Un raggio di luce filtra dall’apertura come se ci fosse una fonte luminosa attiva là dentro.

Le finestre sono sempre chiuse. L’impianto elettrico non esiste. Dal soffitto pende un lampadario di rame dove le candele sono consumate da secoli senza che nessuno abbia mai provveduto a cambiarle.

La curiosità in Carola aumenta un passo dopo l’altro. Si chiede chi abbia aperto le finestre o messo candele nuove nel lampadario.

«Forse è stato Beniamino» borbotta, stringendosi nelle spalle.

Spinge la porta è nota che c’è ancora più disordine. Una carrozzina per bambole rovesciata, pezzi d’intonaco caduti dal soffitto. Il lampadario penzola sghembo.

Carola guarda stupita che tutto è fuori posto. Non ricordava nulla di simile quando un mese prima l’aveva visitata. Le imposte sono aperte e le finestre lasciano entrare l’aria fresca del mattino che solleva minuscoli vortici di polvere.

Sta lì a bocca aperta nel centro della stanza, quando sente chiudere la porta e lo scatto della serratura. Si gira ma non vede nulla. Prova a fare forza sulla maniglia ma il battente rimane fermo.

«Forza Beniamino» esclama con voce squillante Carola per nulla impressionata. «Fatti vedere, così possiamo giocare insieme».

Però tutto tace e la porta rimane chiusa.

Passano i minuti lenti e la situazione non si sblocca. Carola dà segni di nervosismo, camminando per la stanza a scatti. Si avvicina alla finestra ma questa guarda il cortile d’onore al centro della fortezza. Anche l’altra finestra dà sull’interno. Le sembra di udire delle voci. «Aiuto» urla sperando che qualcuno ascolti il grido.

Le parole si perdono come inghiottite da un buco nero. Eppure ne è certa di aver udito voci familiari. Si sporge ma riesce a vedere solo uno spicchio del cortile. Un acciottolato scuro di pietre di fiume. Si siede sconsolata sul pavimento coperto di polvere appoggiandosi con le spalle alla parete, quando sente girare la chiave dall’esterno. Si stava rassegnando a passare la giornata chiusa là dentro, quando vede spuntare la testa castana di Sandra.

«Che ci fai qua dentro?» chiede basita, scorgendola col le mani che stringono le gambe.

«Niente» mormora con un filo di voce. «Ti aspettavo».

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Disegna la tua storia con un’immagine di Etiliyle – Il tramonto

Ho finito di leggere una raccolta di racconti sul mare, scritti da più autori

che potete trovare qui.

Così m’è venuta la voglia di scriverne uno, molto ridotto, che ha come sfondo il mitico paese di Venusia e i suoi abitanti, alquanto bizzarri.

Per prende l’abbrivio mi ricordavo una splendida immagine di Etiliyle. L’ho cercata e la propongo.

https://etiliyle.files.wordpress.com/2019/04/etiliyle-luca-molinari-photo-beach-dark-sunset.jpg?w=685

e adesso buona lettura

Se qualcuno a Venusia sale sulla montagna, un rilievo alto poche centinaia di metri, non vede altro che una calma piatta intorno: la pianura di Ludilandia.

I venusiani pensano che la terra non sia rotonda, perché l’orizzonte è una linea diritta senza curve o gobbe.

Così per loro la montagna è quella piccola gobba adagiata alle spalle di Venusia. Le sue pendici sono ricoperte da un fitto bosco, quello che loro chiamano il Bosco degli Spiriti, e in cima sta il Castello, che appartiene a tutta la comunità.

Per chi osa salire fin lassù vede solo la pianura tutt’intorno e niente altro. Un’altra credenza è che il mare sia un’invenzione di qualche comico, perché per loro il mare è quel gruppo di stagni che stanno a occidente di Venusia. Non vedono altra acqua, a parte quel fiumiciattolo che scorre di fianco la strada che conduce a Ludi.

Il loro orizzonte è limitato. Così la terra è piatta e il mare è un’invenzione di qualcuno per burlarsi di loro.

Quando Ermete ha deciso di raggiungere il mare, i compagni di scopone lo hanno preso in giro alla partenza, dicendo che non l’avrebbe mai visto, perché non esiste. Lui ha mostrato un mappamondo dove il mare è colorato di azzurro e la pianura di verde. Nuove risate e altri lazzi per dimostrare il loro scetticismo.

Quando è ritornato per raccontare la sua esperienza, nessuno ha creduto alle sue parole. Ermete ha mostrato delle fotografie ma loro hanno continuato a dire che sono immagini manipolate con Photoshop. Così si è rassegnato a conservare la memoria del mare dentro di sé.

Proprio oggi in una scatola da scarpe ha ritrovato quelle vecchie, si fa per dire, immagini che documentano che il mare esiste. Ricorda bene il lungo viaggio attraverso contrade mai viste né sentite. Parole che assomigliano al venusiano ma pronunciate con una cadenza diversa. Poi la spiaggia l’ha affascinato con quella sabbia color miele, dove ha notato ombrelloni e lettini variopinti disposti in ordine lungo file parallele.

Quello che l’ha incuriosito di più è stato tutta quella gente nuda, distesa sotto il sole. Lui con le scarpe, i calzoni lunghi e la giacca ha intuito di essere fuori posto in quel luogo. Qui le donne indossano mutande ridottissime e il solo reggiseno, mentre gli uomini hanno i boxer, che lui porta sotto i pantaloni e che mai ha mostrato in pubblico.

A Venusia sarebbero finiti in prigione per oltraggio al pubblico pudore. “Ma ci sono le carceri a Venusia?” si è chiesto osservando quella moltitudine di persone quasi nude.

Ermete sorride a quel pensiero, perché si è informato su quella strana usanza, scoprendo che sulla spiaggia è l’abbigliamento usuale. Qui, gli hanno spiegato, sono visti come diversi le persone come lui, vestite con l’abbigliamento cittadino.

In un angolo della scatola trova un pugno di quella sabbia, che capricciosa si è infilata ovunque. Dentro le scarpe, nelle pieghe dei pantaloni. “Mi è sembrato un delirio eliminarla” ricorda sorridendo. “Ne ho trovato dappertutto, compresi i boxer”.

Però quello che gli è rimasto impresso con nitidezza è stato il tramonto.

Il sole è sceso sempre di più inabissandosi nel verde del mare. Si aspettava che sfrigolasse a contatto con l’acqua ma invece niente. Ha solo incendiato un paio di nuvole in cielo, mentre l’acqua ha cambiato colore. È diventata rossa a strisce. Una vera magia, che nemmeno il più bravo illusionista può realizzare.

La spiaggia si è spopolata con lentezza. Gli ombrelloni sono stati chiusi, i lettini accatastati.

Il silenzio è rotto solo dal suono del mare che come una ninna nanna accompagna le ombre sempre più scure.

Ermete ripone nella scatola questi ricordi e sospira, perché un giorno ripercorrerà quel tragitto per osservare di nuovo la magia del tramonto.

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Disegna la tua storia – un’immagine di Etiliyle – lo stagno al tramonto

Una splendida immagine di Etiliyle e delle mie pessime parole a corredo

https://etiliyle.files.wordpress.com/2019/03/etiliyle-riserva-al-tramonto-luca-molinari-photo.jpg?w=685

Immagine tratta dal blog di Etiliyle

A ovest di Venusia ci sono una serie di stagni piccoli o grandi contornati da canne palustri, che spesso nascondono insidie. La riva, occultata dalla vegetazione, cede sotto il peso dei passi dell’incauto che si è avventurato in mezzo, rischiando di rimanere impantanato nel fango. Una situazione sgradevole perché si sprofonda sempre di più se qualcuno non l’aiuta a uscire.

I ragazzini conoscono il pericolo e saggiamente lo evitano ma gli adulti hanno più spocchia e ogni tanto qualcuno ci casca.

Poi in uno stagno c’è una lontra che sembra Arsenio Lupin tanto è inafferrabile. Tutti dicono averla vista ma nessuno ha prodotto le prove della sua presenza. Pino, un ragazzino dagli occhi grandi color nocciola, l’ha vista. Si sono guardati con sorpresa per qualche secondo, prima che lei fosse sparita nel folto del canneto.

“È inutile dire che l’ho incontrata” pensa mentre saltando percorre il sentiero che lo riporta a casa. “Tanto non mi crederebbe nessuno”.

Le canne andrebbero tagliate ma nessun venusiano lo vuol fare, perché gli stagni sono di tutti e di nessuno. E quindi alzano le spalle se qualcuno osa timidamente di accennare al loro taglio per eliminare i pericoli che nascondono.

«Perchè io?» afferma Roberto, alzando gli occhi al cielo. «Non è mica mio lo stagno. Appartiene a Giuseppe».

Giuseppe chiamato in causa scuote il testone riccioluto in segno di negazione.

«Non possiedo stagni» ribatte con un sorriso ironico sulle labbra. «Domanda a Pietro».

E così da una persona all’altra tutti negano di essere i proprietari degli stagni. Però se qualcuno mette nelle vicinanze il cartello ‘Proprietà privata. Vietato l’accesso’ si scatena un putiferio che è difficile da reprimere. Tutti protestano perché Ermete ha piantato il cartello di divieto senza averne i titoli. E la sciarada della proprietà diventa un rompicapo senza soluzione.

Le canne crescono rigogliose, sempre più fitte e lussureggianti per la gioia delle anatre che possono nascondersi ai predatori.

Insomma gli stagni sono abbandonati a se stessi ma i pochi ragazzini di Venusia gioiscono perché nessun può impedire loro di fare il bagno.

Però lo spettacolo è al tramonto quando il sole incendia le canne che si riflettono nell’acqua verde. La superficie acquista tonalità che dal verde diventa rossa per poi virare al nero, quando il sole troppo basso all’orizzonte smorza i toni e fa arrossire le nuvole in cielo.

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Disegna la tua storia con un’immagine di Marzia -Una strana fotografia

Marzia di Alchimie mi ha mandato questa fotografia.

immagine inviata da Marzia

È una fotografia particolare ma vi lascio alla lettura.

Buona lettura

Pippo, che in realtà si chiama Ernesto, sta svuotando la casa di zia Gina, che anche lei aveva un nome diverso: Euridice. Sembra una costante ma nessuno della famiglia Nometti è conosciuto col suo vero nome.
Il padre di Pippo era Gino che faceva di nome Olao. La sorella di Gino, nonché zia di Pippo, è la famosa Gina, che morendo gli ha lasciato in eredità il casale di campagna e diecimila pertiche di campi, coltivati a maggese.

Pippo, aprendo l’armadio di noce della camera da letto di zia Gina, si è imbattuto in una scatola per scarpe piena di fotografie che sembrano piuttosto vecchie. Sono tutte in bianco e nero, qualcuna ingiallita, altre con gli angolini, quelli che un tempo si usavano per esporle negli album di famiglia. Altre ancora avevano delle date scritte da una mano femminile.

«È la scrittura di zia Gina?» mormorò, girando il retro di una fotografia di gruppo.

19 agosto 1919’ legge Pippo seguito dal nome della località ‘Venusia’ e dall’elenco delle persone del gruppo ‘Gino, Michele, zia Egle, zio Loris, Anneta, Nino, nonna Tina, nonno Bricco’.

Pippo sorride, perché a parte Gino, che era suo padre, gli altri sono dei perfetti sconosciuti. Stringe gli occhi per osservare meglio il viso di suo padre, che avrà avuto sì e no dieci anni.

«Forse Anneta e Nino sono i miei nonni» ammette a malincuore Pippo, perché in effetti non solo non li ha mai conosciuti ma ne ignora pure i nomi.

Mette a parte questa immagine sbiadita e vecchia di cent’anni e continua la rassegna facendo diversi mucchietti. Le immagini di famiglia a sinistra, quelle con paesaggi al centro e i viaggi a destra. Tutte le altre non catalogate sul coperchio.

Pippo si ferma nella selezione. Ha un sussulto e torna su quella fotografia con bisnonni e nonni e la gira.

«Venusia?» ripete con tono interrogativo. «Ma che paese è? Ma dove si trova? Mai sentito nominare».

Una reazione giustificata per una località che gli è sconosciuta.

Prende il fido telefono e fa una ricerca. Pensa che zia Gina gli abbia voluto tirare un bidone, inventandosi un paese fantasma.

Venusia è un minuscolo paese di Ludilandia, quasi impossibile da individuare sulle carte geografiche. Solo quelle molto dettagliate in scala 1:1000 è riportato dove si trova. Abitanti 369. A zero metri sul livello del mare…

«Ci devo andare» dice Pippo, riponendo l’immagine sul mucchietto famiglia.

Arrivato sul fondo della scatola vede una fotografia singolare, completamente diversa da tutte le altre. C’è una ragazza appesa in alto, in apparenza nuda nella parte inferiore, con la gonna che le copre il viso. La testa è in basso e le gambe in alto come se fossero a cavalcioni di un’asta.

Pippo ride. La posizione è innaturale. Guarda il retro è bianco o meglio c’è il timbro dello sviluppatore con una data. ‘19 ago 2019’.

«Mi prende in giro!» esclama basito Pippo. «Sviluppata oggi?»

Non può credere a quel timbro. Una foto vecchia, senza dubbio vista la grana del cartoncino e i bordi frastagliati, tipici di mezzo secolo prima.

Pippo l’osserva con attenzione. «Come può reggersi su quella traversa sottile col sostegno di una sola gamba?» esclama sorpreso, scuotendo la testa.

“Hanno usato Photoshop per confezionare un fake” riflette cercando di capire chi possa aver messo quest’immagine insieme alle altre.

«l casale di zia Gina è chiuso da almeno cinque anni» dice Pippo, infilando il cartoncino nella tasca interna della giacca. «Un burlone sapendo che venivo ha voluto tendermi un tranello».

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Disegna la tua storia con un’immagine di Sabry – Carola o la ragazza che sogna

C’è una nuova entrata tra le muse ispiratrici per disegnare una storia che ha come sfondo Venusia. Sabry ha pubblicato sul suo blog questa immagine e mi è piaciuta.

Buona lettura

Carola è una ragazza, si fa per dire visto che ha venticinque anni, che sogna osservando gli oggetti che la circondano.

Lo era da piccola, che rimaneva per ore a guardare le nuvole in cielo sospinte dal vento che soffia da levante.

È cresciuta ma non ha smesso di sognare.

D’estate quando il vento toglie la calura da Venusia e rinfresca l’aria si avvia verso la fortezza che si erge sulla montagna come un blocco grigio contornato ai suoi piedi dal bosco degli spiriti. Definire montagna quel dosso appena pronunciato sulla piana di Venusia è un bel azzardo. Avrebbe la stessa valenza di considerare quel gruppo di case che compongono il paese una metropoli. Però per i venusiani è la montagna.

Carola nel periodo estivo fa ogni pomeriggio quella passeggiata di tre quarti d’ora attraverso il sentiero che taglia il bosco degli spiriti fino a raggiungere la fortezza.

Si siede sui gradini di ardesia grigia che portano all’ingresso e osserva la pianura. Una piana che si perde sull’orizzonte senza case o strade degne di questo nome.

Osserva il sole che tinge di rosso il cielo e imporpora le nuvole che da bianche cambiano colore. Dapprima rosate poi sempre più rosse. Una meraviglia. Allunga una mano per cogliere quel colore che assomiglia alla sua gonna.

Indugia mentre sogna un mondo diverso ricco di sfumature e di pensieri positivi. Si alza sospirando. Deve tornare prima che le ombre della sera rendano disagevole il sentiero nel bosco.

Non ha paura come la maggioranza dei venusiani ad attraversarlo. Per lei non ci sono spiriti. Né buoni, né cattivi. C’è solo il bosco con i suoi rumori e le sue ombre, gli animali che osservano il suo passaggio e il canto degli uccelli nel folto degli alberi.

La discesa è più rapida della salita e deve arrivare a casa prima che Riccardo, il suo compagno, ritorni da Ludi, dove lavora come grafico.

I raggi del sole filtrano tra le chiome degli alberi e ogni tanto un’apertura tra i rami mostra le nuvole che corrono nel cielo.

Si ferma, solleva il capo e osserva. Sogna di essere sul quel destriero bianco che galoppa nell’azzurro verso mete lontane.

«Chissà dove arriverà?» esclama a bocca aperta con l’aria sognante. «Verso il mare che non ho mai visto ma so che c’è oppure la montagna che qualche volta dalla fortezza ne scorgo le cime più alte?»

Carola riprende a camminare di passo svelto, perché l’oscurità infittisce e la strada da percorrere è ancora lunga.

 

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Disegna la tua storia – immagine di Etiliyle – Le nuvole

Giusto con omaggio ferragostano vi delizio – ma sarà vero – con questa storia. L’immagine è di Etiliyle ed è splendida.

https://etiliyle.files.wordpress.com/2019/04/img_20190407_11204021278689794752291104..jpg?w=685

Buona lettura.

Pino ha sempre la testa fra le nuvole e si perde con la fantasia a rincorrerle nel cielo.

Sì, insomma, ha una bella immaginazione. Non che sia un difetto ma qualche volta lo è. Fantasticare fa bene ma non deve esagerare, perché potrebbe capitare, come è capitato, di rischiare di farsi male.

Pino è il figlio di Roberto, che non ha mai sopportato Venusia, senza trovare la forza di tornare a Ludi. Non ci sono molti bambini a Venusia, anche perché quei pochi che nascono, quando cominciano a frequentare le superiori a Ludi, non vedono l’ora di crescere un po’ e abitare là.

A Venusia non esiste nessun tipo di scuola o di asilo, perché sarebbe uno spreco. Bambini in età scolare sono in media una dozzina ma tutti spaiati con l’età. Quindi si radunano in casa dell’uno e dell’altro dove alcuni venusiani, quelli più istruiti, impartiscono le lezioni. Li preparano da privatisti per l’esame di quinta elementare e quello di terza media. A quattordici anni un scuola bus li viene a prendere per condurli a Ludi a frequentare le superiori. Quelli più bravi frequentano anche l’università, ma gli altri cominciano a lavorare.

Pino è uno dei pochi bambini nati a Venusia. Gli altri sono d’importazione. Non sorridete al pensiero che i bambini assomiglino alle mercanzie, perché arrivano coi genitori quando hanno quattro o cinque anni e poi restano lì finché non fuggono a Ludi.

Ci sono due cose che i venusiani faticano a digerire: i neonati e gli animali.

Di animali non ce ne sono molti. Giusto un paio di cani. Di gatti ce ne è uno solo che vive la sua indipendenza con sussiego. Va e viene e difficilmente accetta qualche carezza. Per i neonati la situazione è leggermente complicata, perché coppie disposte a mettere al mondo prole ce ne sono poche e le poche nicchiano alquanto.

Quindi quando Pino è nato da Roberto e Andrea c’è stata una piccola rivoluzione. Non nel senso di rivolta ma di cambio di abitudini. Erano anni che non si festeggiava una nascita e così fu festa grande. Venusia quasi non si riconosceva perché le feste erano abolite da un pezzo.

Tornando a Pino e alla sua fervida immaginazione, bisogna dire che la fantasia lo porta lontano inseguendo le anatre che si fermano nello stagno. Una sera di fine settembre, è appostato tra i canneti a sbirciare il moto delle anatre. Si levano in volo per poi tornare eleganti a posarsi sulle acque placide. Immergono la testa mettendosi a perpendicolo con la superficie. Tutte attività che Pino ha sempre osservato. Però questa sera sembra che ci sia più movimento e le anatre appaiono inquiete come se avvertissero un pericolo.

Il ragazzino si avvicina ancora di più verso l’acqua per osservare meglio i movimenti, quando… Splash cade in acqua e le anatre volano via starnazzando “Quac, quac, quac”.

Pino annaspa cercando di riguadagnare la riva, quando una mano robusta lo agguanta riportandolo sulla terra gocciolante.

«Pino, ti è andata bene» dice una voce familiare, mentre lui arrossisce sputando l’acqua ingoiata.

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“Domani nella battaglia pensa a me”

Il post che pubblico era stato pensato per un contest che scade domani. L’unico vincolo posto era che il racconto di 3500 battute doveva finire con la frase “Domani nella battaglia pensa a me”.

Oggi ho deciso di non partecipare per un dettaglio del regolamento che riporto integralmente.

DIRITTI D’AUTORE: gli autori, per il fatto stesso di partecipare al concorso, cedono il diritto di pubblicazione in ogni tipo di formato al promotore del concorso senza aver nulla a pretendere come diritto d’autore. I diritti rimangono comunque di proprietà dei singoli autori. Eventuale materiale inviato non sarà restituito e resterà a disposizione degli organizzatori per l’utilizzo a fini promozionali.L’ammissione al concorso implica infatti l’accettazione dell’utilizzo, della pubblicazione e della diffusione della propria opera sia in luoghi pubblici che privati con ogni mezzo attualmente conosciuto (a mero titolo esemplificativo: tv, radio, internet, telecomunicazioni, sistemi analogici e/o digitali, on line e off line) o che verrà inventato in futuro, in tutto il mondo, sia unitamente al contest contest “PODCASTORY –Domani nella battaglia pensa a me” (anche al fine di attività di comunicazione e promozione dell’evento delle edizioni successive) sia collegata a future attività degli organizzatori a favore della propria utenza. Tutto ciò senza ricevere e/o pretendere alcun corrispettivo a proprio favore, essendo ogni pretesa dell’utente soddisfatta dall’opportunità di partecipare.

In pratica conservo i diritti ma non li posso sfruttare.

Quindi ho pensato bene di pubblicarlo qui.

Buona lettura.

tratta da wiki commons – licenza Creative Commons 4.0 – riproduzione in scala della piana di Waterloo. autore Chris Mckenna

A Venusia le feste non sono mai gradite, diciamo sopportate. Quindi il Carnevale passa quasi inosservato ma neppure Natale o Capodanno sfuggono alla regola.

A Venusia ognuno fa gli affari suoi senza mischiare il diavolo e l’acquasanta. I venusiani sono personaggi strani ma Roberto lo è doppiamente.

Quando qualcuno si chiede il motivo, dovete sapere che Roberto è arrivato per sbaglio a Venusia. Aveva solo cinque anni e da allora è sempre rimasto a Venusia. Solo per sbaglio? Calma e gesso se avete la pazienza di leggere le spiegazioni, altrimenti fate come volete.

Venusia è un piccolo puntino anonimo nella vasta pianura di Ludilandia. I suoi abitanti vivono nel loro minuscolo mondo e oltre alle feste non amano i bambini ma nemmeno gli animali. Ne nascono pochi, perché non sopportano i loro pianti da neonati, dover cambiare i pannolini e tante altre amenità del genere.

«Inquinano» affermano in coro i venusiani per giustificare il loro ostracismo. «E poi costano una fortuna mantenerli».

Così quei pochi che nascono, più per un errore materiale che per l’amore tra una coppia, una volta adulti scappano a Ludi, la capitale della regione. Non tutti per amor di verità ma gran parte. Alcuni restano, qualcuno arriva al seguito dei genitori.

Sembrerà strano ma se i giovani scappano, gli adulti arrivano. I rari viaggiatori che tornano da Venusia, una volta a Ludi ne decantano i pregi.

«È un posto da favola» spiegano convinti. «Si vive tranquilli. I ritmi sono lenti. Niente stress».

Non solo questo. Aggiungono: «Con poca spesa si vive molto meglio che a Ludi».

Quindi qualche famiglia, stanca dei rumori di Ludi e delle difficoltà di vivere, decide di trasferirsi a Venusia. Dapprima prendono in affitto una casa e se si trovano bene con pochi venusi la comprano. Non mancano le buone occasioni e l’offerta supera di gran lunga la domanda, facendo rimanere basso il prezzo. Sono case basse di legno e mattoni col giardino davanti e l’orto sul retro.

Quando Roberto è arrivato a Venusia, anche se aveva solo cinque anni si è messo di traverso, perché doveva giocare senza compagni. Questo lo scocciava non poco. Era felice perché fino a quattordici anni la scuola era in casa. Non esistono scuole a Venusia per mancanza di materia prima. Poi se qualcuno vuol continuare, deve fare il pendolare con Ludi dove si trovano le superiori e l’università.

«Quando sono grande» aveva promesso Roberto col cipiglio dello scontento, «me ne torno a Ludi. Qui pare di essere in prigione».

Roberto è diventato grande: lo scontento non è mai passato ma non è mai andato via da Venusia. Ha trovato l’anima gemella che sopporta la sua malinconia e le sue paturnie. Lui col muso lungo e lo sguardo torvo, lei solare e sempre allegra. Come abbiano potuto fare coppia, è un mistero per tutti i venusiani. Da loro è nato un bel bambino, Pino, che adesso ha dieci anni. Roberto, tanto per mostrarsi diverso dagli altri, adora il figlio e gli ha trasmesso la curiosità di conoscere la natura. A differenza degli altri venusiani non frequenta Sghego, l’unica osteria del paese. Odia giocare a carte ed è astemio. Preferisce curare l’orto e lavorare il legno con molta abilità. Intaglia mobili e altri oggetti, che vende ai venusiani per pochi venusi. Il costo della materia prima. Da qualche mese sta lavorando a creare un esercito di legno. Man mano che comandanti e soldati sono pronti, li dispone con cura su un tavolaccio che riproduce la piana dove si è svolta la battaglia di Waterloo con l’esatta disposizione dei due eserciti contrapposti.

Roberto ha lasciato per ultimo Napoleone, che sistemato sul campo di battaglia urla soddisfatto: «Domani nella battaglia pensa a me».

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Un'emozione indelebile: la prima guida

tratta dal web - Conceptcarz.com
tratta dal web – Conceptcarz.com

Avevo quasi diciotto anni quando ho imparato a guidare l’auto con tutta l’incoscienza di quell’età.
Erano i primi anni sessanta; le vacanze estive iniziavano all’incirca a metà giugno per terminare a ottobre, quasi quattro mesi senza fare niente. Era un tempo infinito tra calura e noia. Così molti noi si erano trovati un’occupazione estiva che da un lato riempiva una parte del tempo, dall’altro permetteva di mettere in tasca qualche liretta, che non faceva mai male.
Anch’io non ero sfuggito alla regola. Mentre alcuni andavano in campagna a raccogliere la frutta e altri lavoravano nello zuccherificio della zona, io andavo a lavorare nel distributore di benzina di zio Lino. In realtà non si chiamava così. Però per me era sempre stato lo zio Lino, anche se scoprì qualche anno più tardi che il suo vero nome era un altro: Olindo.
Dalle mie parti è sempre esistita una curiosa usanza, che consisteva nel dichiarare all’ufficiale dell’anagrafe un nome, del quale appena il padre era uscito se ne perdevano le tracce. I nomi non erano i soliti, ai quali siamo abituati, come Paolo, Mario, Anna, e così via. Ma reminiscenze scolastiche come Penelope, Laerte o per i melomani Aida, Radames oppure quelli pseudo esotici Widmer, Wilmer. Però avveniva anche un’altra curiosità, che era meno spiegabile del caso precedente. Il nome anagrafico era tradizionale ma era sostituito da un altro. Per cui un Paolo diventava Vittorio senza nessuna spiegazione logica. Nessuna intenzione di produrre la lista delle varianti ma una semplice casistica, perché la fantasia non aveva limite.
Come d’incanto dunque i neonati assumevano sembianze umane, come se al momento della nascita non lo fossero. Da quel attimo topico dell’uscita dall’ufficio anagrafe credevano di chiamarsi coi nomi standard, come tutti i comuni mortali. Poi scoprivano al momento del matrimonio che il loro vero nome era di tutt’altro genere. Un alzata di spalle accompagnava la scoperta, che ignoravano fino al momento del trapasso. Ma questo oramai non aveva più alcuna importanza, a parte il necrologio. Ferrari Radames detto “Gino”. Quindi anche lo zio Lino non era sfuggito a questa consuetudine. Per me è rimasto sempre lo zio Lino.
Visto che siamo in argomento accenno a un’altra curiosa abitudine: quella degli Scutmâj ovvero di identificare una persona con un sopranome, il più delle volte curioso e inspiegabile. Diciamo che erano i nickname ante litteram. Anche in questo caso il vero nome, di norma tradizionale e banale, si perdeva nella notte dei tempi per riaffiorare come d’incanto sull’annuncio funebre affisso all’angolo della strada.
Ma torniamo a quella lontana estate. Il distributore dello zio Lino era situato in una posizione altamente strategica. Di autostrade non se ne parlava e tutti percorrevano le statali che collegavano le varie città. Dunque da quel punto passava tutto il traffico dei turisti tedeschi, austriaci, olandesi che dal Brennero e dal Tarvisio raggiungevano i luoghi di villeggiatura lungo l’Adriatico. In luglio e agosto il lavoro non mancava, anzi spesso c’era un ingorgo pauroso.
Naturalmente mi facevo bello col mio tedesco scolastico, distante anni luce da quello parlato realmente, mentre loro rispondevano in un italiano degno di Sturmtruppen del mitico Bonvi. Sembrava di assistere alle comiche di Ridolini. Però in compenso sganciavano sempre la mancia dopo ogni rifornimento con mia grande soddisfazione per questo guadagno extra.
Il distributore aveva un enorme piazzale sempre ingombro di auto e camion. C’era anche un punto per il lavaggio delle autovetture. Un uomo mingherlino e minuto, che ho conosciuto come “Pipi”, era l’addetto a lavare le macchine. Il suo vero nome non l’ho mai saputo, perché l’ho sempre sentito chiamare così.
Poco distante stava una baracca di legno verde, dove vendevano gelati Alemagna, granite colorate e angurie, di modeste dimensioni, rotonde, che adesso sono state sostituite da quelle oblunghe enormi senza sapore. C’era sempre la coda a comprare qualcosa. Le granite erano preparate all’istante macinando pezzi di ghiaccio staccati da enormi stecche che un camioncino portava due o tre volte al giorno. Poi venivano colorate con gli sciroppi Toschi alla menta, al lampone o al limone. Io preferivo quella alla menta, che trovavo dissetante.
Pipi era un lavoratore infaticabile, perché a volte sembrava un automa. Prendeva la macchina da lavare tra quelle parcheggiate sotto il sole implacabile di luglio, la metteva sull’elevatore all’interno del modulo in muratura, la lavava, la riportava nel punto dove io e l’altro ragazzo provvedevamo ad asciugarla, non prima di una sgommata e relativa brusca frenata per asciugare i tamburi dei freni. E questo decine di volte al giorno con regolarità da cronometro svizzero,
Un giorno mancavano poche settimane ai diciott’anni mi disse: “Metti questa al posto di quella che prendo” e mi allungò le chiavi. Io lo guardai sgomento, mentre le chiavi sembravano di fuoco sulla mano e la testa cominciava a ribollire come un pentolone sulla fiamma per l’agitazione di fare quei cinque metri che dividevano i due posti. Sono stati i cinque metri più lunghi della mia vita, perché sembravano cinquemila chilometri. Avviato l’auto, a balzelloni, come se stesse facendo la danza del ventre, parcheggiai la cinquecento rossa nel posto designato. Avevo fatto un’autentica doccia di sudore, tanto ero bagnato per il terrore di sfasciare qualcosa. Dopo tre o quattro tentativi con relativo spegnimento del motore, riuscì a compiere le successive operazioni senza intoppi, mentre la macchina docile come un agnellino percorreva quei pochi metri prima di essere parcheggiata.
Il passo successivo fu quello di portare fuori dal lavaggio l’auto per portarla nel buco lasciato libero da quella prelevata da Pipi: un’operazione svolta con precisione e sicurezza. Le vampate di calore per l’agitazione stavano diventando un pallido ricordo.
Infine il ciclo completo: prelevavo l’auto da lavare, la mettevo sull’elevatore, avendo cura di centrare con precisione i bracci retrattili, la riportavo fuori ad asciugare.
A parte le prime volte che sentivo il cuore battere come la grancassa della marcia di Radetzky, poi percepivo un senso di appagamento, di essere leggero come una piuma, di non provare emozione alcuna.
Pipi possedeva una vecchia Topolino, che adesso farebbe la gioia di molti collezionisti, sempre perfetta e oliata. Mi consentiva, nei rari momenti di relax, di fare qualche giretto nel piazzale sempre guardato a vista per non combinare guai.
Un giorno disse: “Vieni con me. Andiamo al deposito a prendere delle lattine di olio”. E mi mise in mano le chiavi della Topolino, mentre si sedeva lato passeggero. Lo guardai storto e preoccupato, perché un conto era girare in un piazzale fra macchine ferme a bassa velocità ma fare una decina di chilometri in mezzo al traffico cittadino era ben altro affare. Inoltre non avevo un benché minimo straccio di documento che mi autorizzasse a circolare su strade pubbliche.
Nonostante le mie rimostranze fu irremovibile e molto incosciente, perché non aveva la minima idea di come avessi potuto reagire di fronte a una situazione di pericolo oppure intricata.
La Topolino aveva una particolarità, come molte delle auto della sua epoca. Per cambiare marcia serviva la famosa “doppietta” ovvero un leggero tocco dell’acceleratore per consentire agli ingranaggi di sincronizzarsi senza udire quel terribile rumore di ferraglia detta in gergo “grattata”. Eseguita senza l’assillo del traffico mi riusciva abbastanza bene in virtù di una certa sensibilità uditiva e tempismo coordinato, frizione – cambio. Però adesso ero ansioso e nervoso con la testa in fiamme, un senso di angoscia che mi premeva sul petto per la paura che un vigile mi fermasse per un controllo, mettendomi in galera.
Percorsi poche centinaia di metri, tutte le ansie e le paure erano svanite, dissolte come la neve al sole, mentre con somma incoscienza andavo verso un punto critico che non avevo preso in considerazione. C’era da passare un sottopasso, dove al termine della risalita era posto un semaforo, che creava code infinite. Se avevi fortuna, trovavi il via libera senza fermarti, ma poiché la sfiga ci vedeva benissimo, apparve un bel rosso fuoco con l’auto a metà salita. Panico, nervosismo, angoscia erano le prime avvisaglie che penetravano nella mia testa, perché sapevo che col verde sarebbe stata la catastrofe.
Lo guardai con aria interrogativa, mentre lui disse serafico: “Tacco e punta. E tutto andrà bene”.
Tacco e punta?” replicai con la bocca secca e arida come il deserto del Sahara.
Si” proseguì tranquillo e sereno “Tieni pigiata la frizione con la marcia innestata, metti la punta del piede destro sul freno e il tacco sull’acceleratore. Quando viene il verde lasci la frizione dolcemente e accelera col tacco, prima di togliere la punta dal freno”.
Detto così sembrava tutto facile, ma per me, in preda al panico e con le mani strette al volante, era come scalare l’Everest. Naturalmente fu un flop colossale, perché riuscì a spegnere anche il motore con il concerto di clacson dietro di me che non finiva più. A balzelloni e a strattoni dopo due verdi persi per colpa mia riuscì a superare l’ardua salita, accompagnato da insulti e maledizioni di decine di automobilisti inviperiti.
Arrivati a destinazione, senza altri inconvenienti, mi sembrava di essere uscito dalla doccia senza asciugarmi, tanto ero sudato per l’agitazione. Avevo la testa svuotata da ogni pensiero, che si erano nascosti subdolamente in qualche angolo remoto, e la pressione arteriosa a livelli pericolosi. Poi queste sensazioni svanirono per incanto, perché la soddisfazione intima di avere guidato senza provocare danni, salvo le maledizioni di qualcuno, e per giunta in maniera impeccabile era veramente enorme.
Il viaggio di ritorno filò tutto liscio, perché il terribile sottopasso, affrontato in senso inverso, era totalmente innocuo per l’assenza di un odioso semaforo nella rampa di risalita.
Per quell’anno non ci furono altri esperimenti di guida senza rete, né a rischio di infarti, a parte i soliti giretti nel piazzale. Coi soldi guadagnati sotto il sole cocente a riempire di super tanti serbatoi o asciugare faticosamente delle auto lavate mi ero pagato l’autoscuola e le relative lezioni di guida. Ovviamente le guide erano più rilassanti, con l’appendice di un documento rosa che mi abilitava a condurre un’auto.
L’idea di guidare significava molto per me, perché ero convinto che avere la padronanza di un’auto mi aiutasse a crescere e maturare psicologicamente e una maggiore consapevolezza dell’importanza della propria vita. Non potevo permettermela, perché costava troppo, ma per la guida dovevo ringraziare Pipi, che consciamente o incoscientemente mi aveva consentito di memorizzare movimenti e di valutare spazi e tempi nel condurre una macchina.

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