Un amore non corrisposto

Proseguo nel riesumare vecchi racconti. Oggi è il turno di ‘Un amore corrisposto’

Buona lettura.

Copertina Kindle – La kitsune

Com’era avvenuto? Non lo sapeva neppure lui ma di una cosa era certo: qualcosa era cambiato.

“Dove?” si domandò, dondolandosi da un piede all’altro.

Riprese a camminare incerto e confuso con le mani in tasca e la testa incassata nel giaccone. Faceva freddo e tirava un’aria che non invitava a stare all’aperto. Il cielo era plumbeo, di un colore che non prometteva nulla di buono. Le nuvole basse formavano una cappa che contribuiva a deprimere Antonio.

Aveva diciotto anni e frequentava il primo anno di università.

«Nulla di eclatante» era solito dire a chi gli chiedeva cosa facesse.

Cosa volesse dire con quella frase non lo sapeva ma gli piaceva dirlo a tutti quelli che lo interrogavano a quale facoltà era iscritto.

«Frequento il primo anno di Università, quella della mia città» aggiunse in modo criptico alla solita frase un giorno di novembre. Antonio passeggiava con Giovanni, un amico che conosceva da quando era all’asilo.

«Ma perché niente di eccezionale?» chiese con tono curioso, strizzando gli occhi. «Eppure mi sembra che poi…».

«Poi, cosa?» ribattè fissandolo dritto negli occhi con lo sguardo lucido. «Quando tra tre anni, se sarò bravo, uscirò con quel pezzo di carta, cosa me ne farò? Lo metterò sotto vetro con una bella cornice marrone elegante e sobria, perché tutti quelli che entravano in casa possano ammirarla oppure la userò per trovarmi un posto di lavoro?»

«Non saprei. Pensavo che…» mormorò impacciato.

«Pensavi male. E tu cosa fai?»

«Tutto e niente. Non frequento l’università. Dopo la maturità lavoro nella ditta di mio padre».

«Beato te! Un posto ce l’hai assicurato…» esclamò Antonio, dandogli una pacca amichevole sulla spalla.

«Veramente avrei voluto frequentare l’Università come te ma mio padre mi ha detto “Cosa ti serve quel pezzo di carta? L’azienda è sana e genera profitti e quindi denaro, molti più soldi di quelli che potrai guadagnarne usando quel attestato che chiamate laurea”. Così non mi sono iscritto e sono entrato nella ditta. Lavoro ma alla sera sento la lingua secca come se non bevessi da molti giorni».

Antonio lo osservò stupito, perché, se suo padre avesse avuto un’azienda, non avrebbe avuto dubbi sulla strada da intraprendere. Però era un semplice impiegato di banca, un classico colletto bianco, grigio e anonimo, che sarebbe arrivato alla pensione, sempre che ci sarebbe riuscito, ancora più ingrigito. Non era quella la fine che voleva fare. Si sentiva creativo, avrebbe voluto dare sfogo alla sua fantasia ma sapeva bene che sarebbe stata dura la sopravvivenza.

«Non ho la tempra di chi, ignorando tutto, si lancia nel mondo dell’arte senza la preoccupazione di avere un pezzo di pane per mangiare» concluse con tono amareggiato.

Si conosceva bene compresi i suoi limiti, il frutto di tutti gli insegnamenti dei suoi genitori. Era cresciuto col mito del posto fisso, facendo un passo alla volta e solamente se era sicuro che non comportasse dei rischi.

Si salutarono con un abbraccio con la promessa di rivedersi presto.

“Sono un pavido” rifletté camminando per le vie della città con le spalle incassate nel giaccone. Faceva freddo per via di un vento di tramontana che si insinuava dentro con perfidia. Mentre vagava solitario per le vie della città svuotate per il gelo e la serata che si avvicinava, ricordò Ines, una vecchia fiamma o nuova. Dipendeva dall’angolazione con cui osservava il loro rapporto.

Ines era una ragazza solare col sorriso permanente sulle labbra mentre lui percepiva di essere un musone scontroso e introverso.

“Vorrei parlarle, dirle quello che provo ma non riesco. Mi sento impacciato, imbarazzato. Mi si secca la lingua, che si attorciglia in bocca. Le parole non escono e divento timido”.

L’aveva vista mille volte ma una mattina di dicembre la guardò sotto un aspetto che non aveva mai notato prima. Era una giornata soleggiata, fredda e senza nebbia, evento raro e insolito nella sua città. Aveva due ore di buco tra una lezione e quella successiva ma non aveva nessuna voglia di rintanarsi in biblioteca. Il cielo terso e il sole che riscaldava tiepido l’aria l’avevano invogliato a sedersi sulla panchina del parco retrostante l’Università. Era seduto a pensare che la sua vita sarebbe stata grigia come quella di suo padre e questo gli generava un grande rammarico. Percepiva che non sarebbe stato felice e avrebbe rimpianto sempre la non decisione di andarsene lontano e vivere romanticamente come un bohémien.

Scrollò il capo e si mise a osservare il parco con le grandi magnolie e le aiuole spoglie.

La vide con un’amica che chiacchieravano ridendo, mentre percorrevano il vialetto alla sua sinistra. Guardò con curiosità come gettava da un lato, in un certo modo allegro, la testa Prima di quel momento non se ne era mai accorto. Era un movimento, che lo colpì, istintivo e naturale. Il capo si muoveva verso destra mentre i capelli scivolavano su viso. Un colpo veloce per riportarli dietro l’orecchio. “L’ho osservata tante volte ma non avevo mai notato questo gesto che non sono riuscito a classificare. Però mi ha dato una scossa emotiva come se fosse la prima volta che la vedevo” ricordò con un pizzico di nostalgia.

Il gesto della mano rapido e coordinato faceva scivolare la manica del cappotto indietro verso il gomito, mostrando un polso esile e candido. La mano non era affusolata e neppure aggraziata. Piccola e leggermente tozza con le dita corte e grosse. Restò affascinato da quella gestualità che lisciava i capelli lunghi e setosi dopo averli riportati dietro l’orecchio. Aveva una grazia che lo ipnotizzava e non riusciva a staccare gli occhi da quelle mosse. Quel giorno di dicembre l’aveva guardata con occhi diversi. Forse il sole oppure quel modo di muoversi l’avevano stregato. In un altro contesto avrebbe giudicato i movimenti come normali e non degni di essere osservati.

Ne udì la voce e sentì come sottolineava le parola, una qualunque, con un tono che pareva musica. C’era un suono caldo nella sua voce.

“Quante volte l’ho ascoltata nei corridoi del liceo ma mi era sempre apparsa priva di grazia con quell’inflessione strascicata della esse e quel tono ruvido e freddo. Ma ora…”. Antonio era immerso in questo ricordo non troppo lontano e gli sembrava di vederla e ascoltarla vicino a lui. Poi lentamente, come in una dissolvenza fotografica, era uscita dai suoi pensieri.

«Sei un pavido» borbottò a mezza voce, mentre analizzava il suo comportamento in quella circostanza. «Se non ti fai notare, non potrà mai accorgersi di te. Inseguila, fermala e parlale come sai fare con gli scritti. Riuscirai a colpirle il cuore».

Qualcosa gli diceva che quello era amore, ma si domandò se conosceva il significato esatto di quella parola.

«So cosa vuol dire Amore. Lo scrivo nei miei racconti che parlano di Amore tra madre e figli, tra un uomo e una donna ma anche fra due persone dello stesso sesso. Quello che ho descritto tante volte con minuziosa pignoleria, ora perde di significato e non so cogliere questo fiore, lasciandolo appassire. Questo sentimento lo osservo con la morte nel cuore perché è vizzo e senza un’anima».

Benché sapesse che l’amore gli avrebbe recato dolore, tormento e umiliazioni, non smise di pensare a Ines nei giorni seguenti, a quello che aveva notato quel giorno di dicembre. Un amore che non aveva controparte gli dava spine e distruggeva la pace interiore. Nulla era più come prima ma nel contempo era riuscito a dare forma a qualcosa d’impalpabile: il sentimento dell’amore,

Un altro ricordo di quel giorno gli tornò in mente. Si era alzato dalla panchina, ma gli pareva di camminare a venti centimetri da terra. Non gliene era importato nulla se quelle sensazioni gli avrebbero procurato dolori e tormenti. Tuttavia lo aveva accolto con gioia e lo curò con tutte le sue forze, perché sapeva che esso l’avrebbe reso ricco e vivo come aspirava.

Aprì gli occhi, mentre anche l’ultima immagine spariva.

Un raggio di sole filtrava dalle imposte ma Ines sarebbe rimasto un amore non corrisposto.

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Un viaggiatore un giorno in treno – parte seconda

Questa è la seconda parte di un vecchio racconto, La prima la potete trovare qui.

copertina di carta
Un giallo Puzzone

Rimasi scioccato e senza parole. Quell’uomo dai capelli bianchi e dal viso affilato come una lama mi guardò prima torvo poi addolcì l’espressione.

«Ma lei dovrebbe avere almeno ottant’anni per essere Paolo Morier dissi riacquistando l’uso della parola e colorito nel volto.

«Infatti» replicò visibilmente scocciato dalla mia incredulità e diffidenza. «Ho ottanta tre anni. E poi confronti la fotografia che sta a pagina…» e cominciò a sfogliare il libro, finché non trovò quello che cercava.

«Guardi» e mi mise sotto il naso una fotografia di un ragazzo giovane dai capelli scuri e con un pizzetto alla Italo Balbo.

Convenni che il taglio degli occhi e la forma del naso sembravano le copie conformi di quelle che vedevo accanto a me.

«Ora sono smagrito, coi capelli candidi e senza pizzetto ma sono io nel resto dei dettagli».

«Già» ammisi laconicamente ma ancora non potevo credergli che la persona accanto a me fosse il protagonista del romanzo che teneva in mano.

«Mi dica» proseguii con tono dubbioso, «chi è per lei l’autore? Come ha potuto scrivere una simile storia?»

Un raro sorriso illuminò quel viso leggermente rugoso, mentre la ragazza della battaglia navale si era girata verso di noi ascoltando con attenzione la nostra conversazione.

«Michi, vuoi la rivincita?» si udì distinta la voce del ragazzo che non si era accorto dell’interesse della compagna alle nostre parole.

«Sss! Non disturbarmi» replicò con un sussurro appena accennato.

«Chi è?» domandò ad alta voce, facendo girare quasi tutti i viaggiatori del vagone. «Chi è? Lo sapessi!» Urlò come un tuono in piena notte.

«E secondo lei come ha potuto scrivere questo romanzo?» chiesi con un tono più moderato.

«Lo sapessi!» ribadì questa volta meno irritato.

Non riuscivo a comprendere come Arduini, l’autore, fosse collegato con questa persona, che era molto più vecchia di lui e che difficilmente avrebbe conosciuto nella sua vita.

Dunque mentre stavamo conversando in maniera quasi sincopata, gli domandai di raccontarmi la sua storia.

«Guardi» sospirò. «Guardi, la mia vita è come un reality» e cominciò con un racconto al limite dell’incredibile.

«Mio padre era ricco, molto ricco. Possedeva una banca che portava il suo nome. Una banca piccola con un solo sportello e degli uffici discreti e ovattati ubicati nel centro di Milano. Da qui passava tutto il gotha dei gerarchi milanesi e tanti altri personaggi che amavano l’anonimato per trasferire le proprie ricchezze in Svizzera. Allora ero all’università ma andai a lavorare presso mio padre. Specialmente ora che la guerra si avvicinava. Mio padre riuscì con abilità a convincere il federale di Milano, una persona influente, a certificare che la mia presenza in città era vitale. Così mi evitai l’arruolamento e quel tritacarne che era guerra».

Prese un fazzoletto per asciugarsi le labbra prima di riprendere a parlare.

«Era dicembre 1942. Il giorno non lo ricordo ma l’immagine è viva nella mia memoria. Quel giorno un certo Michele Scialopoti, che conoscevo vagamente, venne da me per chiedermi un prestito di mille lire. Era una cifra enorme a quei tempi ma io disponevo di un conto personale a sei cifre, frutto delle donazioni di mio padre e mio nonno. Mi implorò a tal punto che cedetti il denaro in cambio di un pagherò che sarebbe scaduto un anno dopo. Nella notte tra il 7 e 8 agosto 1943 Milano subì un furioso bombardamento. Io nella fuga durante la notte, al buio perché la città era oscurata, caddi e persi i sensi. Quando mi risvegliai, mi trovai in uno stanzone con decine di altre persone del tutto sconosciute. Non capivo nulla e nonostante i miei tentativi di mettermi in contatto con mio padre finì su un treno con altri deportati. Colto da febbre altissima durante il viaggio persi conoscenza e poi non ricordo più nulla».

Era il racconto più fantastico che avessi mai ascoltato. Cercai di dissimulare la mia incredulità e gli posi altre domande, alle quale rispose in maniera ancora più incredibile.

«Di solito i romanzi sono opere di fantasia e non riproducono la realtà. Oppure sono in difetto?» mi domandò a bruciapelo.

«No. Di norma gli editori li chiamano non-fiction, perché si collocano a metà strada tra la fantasia e la realtà. Però questo è stato catalogato come fiction, ovvero opera di pura fantasia…».

Paolo Morieri alle mie parole aprì il testo a caso e lanciò un urlo, udito distintamente da tutti i compagni di viaggio.

«Vede» disse indicando una pagina. «Mi dice che oggi è ‘martedì’, il martedì dell’aldilà, dove io annuso dei fiori. Non sente il profumo di lavanda?»

Mi avvicinai e provai ad annusare. Sentivo solo l’odore della stampa fresca e null’altro. Non dissi nulla. Non volevo innescare un altro contenzioso, anche se lui continuava a elencare fiori e odori. Io non percepivo per nulla.

«E qui» aggiunse indicando una fotografia. «Sono nudo che ballo con una fanciulla discinta! Ma non so ballare e quella giovane donna non la conosco!»

«Si calmi» dissi cercando di tranquillizzarlo.

«Sarebbe tranquillo lei, se mio padre o qualche conoscente lo leggesse?»

«Certamente» replicai poco convinto.

«Io no! Ballare nudo con una donna che non si conosce non mi pare un modo educato di comparire in un libro».

«Però quella pagina è davvero seducente» provai a contraddirlo.

«Sarà ma c’è da vergognarsi. Come potrò tornare in ufficio nella banca di mio padre senza essere oggetto del dileggio dei colleghi?»

Indubbiamente aveva ragione ma non potevo ammetterlo. Quindi preferì glissare sull’argomento.

Stavo per replicare, quando una voce femminile un po’ gracchiante uscì dagli altoparlanti del vagone.

«Milano. Stiamo entrando nella stazione Centrale di Milano. Trenitalia ringrazia i signori passeggeri. ..».

Mi distrassi un attimo.

«Signor Morieri viene con me a Vigevano dall’autore del libro?»

Allibito non vidi nulla accanto a me. Solo il libro aperto sulla pagina con la sua fotografia.

FINE

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Un viaggiatore un giorno in treno – parte prima

Un vecchio racconto riesumato in fondo al PC.

Le linee parallele si incrociano

Andare a vivere in un romanzo inedito aveva i suoi vantaggi. Tutte le noiose banalità quotidiane che sbrighiamo nella vita reale intralciano lo scorrere della narrazione e quindi sono in genere evitate. L’automobile non aveva bisogno di fare il pieno, al telefono non si sbagliava mai numero, c’era sempre acqua calda a sufficienza e c’erano solo due tipi di aspirapolvere quello verticale e quello che ci si trascina dietro. C’erano altre differenze più sottili. Per esempio, non ti dovevano mai ripetere una frase perché non l’avevi capita bene, non c’erano due persone con lo stesso nome, non si parlava mai contemporaneamente né si aveva il fastidio di avere una parola sulla punta della lingua. Soprattutto, sapevi sempre chi era il cattivo. Ma c’erano anche alcuni svantaggi. Una carenza di colazioni…1

In realtà non le ho scritte io queste poche battute ma le leggevo seduto in treno mentre andavo a Milano per incontrare una persona importante, almeno per me.

Immerso nei miei pensieri, viaggiavo in incognito e non sapevo il perché o meglio non volevo rivelare la mia vera identità ai miei compagni di viaggio.

Sono un vincente e non amo le sconfitte ma questi non sono gli argomenti dei miei pensieri in questo momento. Sembro un viaggiatore qualsiasi ma in realtà sono un editor di fama. Devo raggiungere l’autore di un romanzo che avrà sicuramente successo. Il mio editore mi dice che sono arrivate centomila prenotazioni. Ma credo che abbia esagerato. In Italia il successo comincia a diecimila copie e sono pochi i romanzi che superano questa quota”.

Dunque ero sprofondato in queste elucubrazioni mentali, che qualcuno ama chiamare con altro nome, quando ripercorrevo la storia di questo romanzo.

Il mio editore, del quale non rivelerò il nome, una mattina di novembre mi chiamò al telefono.

«Pietro» mi disse aprendo la comunicazione. «Ho un manoscritto inedito che mi è arrivato per vie traverse ..».

«Marco, non me la dai da bere. Se l’hai accettato, vuol dire che lo sponsor era forte. Tu cestini i romanzi inediti se non sono accompagnati da una nota veramente valida. O l’autore è qualcuno della casta o per qualche imprescindibile combinazione una persona con gli attributi ti ha imposto di leggerlo. Ti conosco da troppo tempo per non conoscere come operi».

«Pietro non complichiamo le cose senza far polemiche sterili. Il manoscritto è nelle mie mani e tu devi leggerlo. L’incipit mi pare favoloso. Potremmo avere per le mani il caso letterario dell’anno. Te lo spedisco per fax ..»

«Sarai impazzito? Vuoi intasarmi il fax? Se è solo cartaceo, scannerizzalo e mandami il file».

«E va bene. Come vuoi tu, Pietro. Però perderò un sacco di tempo ..»

«Per quando vuoi il mio parere?»

«Se fosse per me, immediatamente. Però restando serio, una settimana dopo la ricezione del manoscritto ..»

«Veramente io intendevo del flusso scansionato. Non del cartaceo. Comunque vuoi solo un parere positivo o …»

«Oppure hai chiuso con me. Vedo che sei ancora sveglio. Domani sulla tua scrivania troverai il pacco col romanzo» e chiuse la conversazione senza nemmeno salutarmi.

In realtà il romanzo era veramente ben scritto e avrebbe incuriosito anche il lettore più scafato e difficile. Trattava di una vicenda ai limiti del normale o forse era più corretto ammettere che era una storia del paranormale per nulla ingenua ma ben costruita. Ambientata nei giorni nostri, era incentrata sulla figura di un giovane, Paolo Morieri, morto nel 1943, che si era presentato sull’uscio dello scrittore, pretendendo mille lire che gli aveva prestato qualche mese prima. Il personaggio al momento della morte aveva solo vent’anni ma era l’erede di un impero finanziario che avrebbe potuto comprare tutta l’Italia. Insomma avrete compreso che pareva una trama inverosimile come se un morto fosse resuscitato dopo sessant’anni e il tempo non avesse avanzato di un secondo. L’aspetto anomalo era che lo scrivente non era ancora nato nel 1943! Era un autentico grattacapo, del quale non vi svelerò la fine. Vi toglierei il gusto di leggerlo.

Lo scrittore, Alberto Arduini, era un famosissimo ricercatore del paranormale, una specie di medium, un’autentica autorità in quel campo. Avevo capito perfettamente perché il mio editore volesse un parere assolutamente positivo sul manoscritto. Era una vera bomba editoriale. Dovevo riconoscere che aveva avuto l’imbeccata giusta.

Sei mesi più tardi l’editore mise in moto tutta la batteria dei pubblicitari e critici letterari, il marketing al gran completo e dichiarò che aveva prenotazioni per oltre centomila copie. L’intera tiratura iniziale sarebbe andata esaurita nel giro di pochi minuti. Già vedevo le code prima delle aperture delle librerie, un po’ era capitato coi romanzi di Henry Potter.

Io non ho mai creduto a quel numero ma si sa che sono diffidente. Però oggi è il gran giorno. Il libro è stato stampato e fa bella mostra nelle vetrine di tutte le librerie d’Italia”. Stavo andando a conoscere l’autore. Avevo preso con me una decina copie, che distribuì ad alcuni viaggiatori, selezionati secondo il mio intuito come i più idonei a leggerlo, presenti sul ETR1000 che collegava Roma a Milano. Volevo vedere come reagivano alla lettura del romanzo.

Dopo qualche tempo osservai le persone che avevano ricevuto una copia e rimasi interdetto.

Vedo che la prima copia, donata alla ragazza carina e sveglia qualche posto davanti a me, è usata come tavolino per una partita a battaglia navale con il compagno che le sta di fronte. L’anziana signora, destinataria della seconda, lo sta sfogliando distrattamente come se fosse annoiata. L’unico che lo sta leggendo avidamente è un signore dai capelli bianchi e dal viso ancora giovanile, sistemato accanto a me”.

Continuavo a rimuginare i miei pensieri, pensando che forse le centomila copie fossero molto meno. A parte il viaggiatore accanto a me, gli altri non parevano eccessivamente interessati al libro. Anzi a dirlo in tutta schiettezza non gliene importava nulla. Avevano preso l’omaggio ma avevano preferito tornare alle loro occupazioni abituali. Chi leggeva la Gazzetta dello Sport, chi correggeva le bozze di qualcosa di più importante del romanzo.

Ero profondamente deluso e mi stavo incupendo alquanto pensando a quello che avrebbero scritto su Anobii. Era vero che molti guardavano con sospetto a quella comunità di lettori, che definivano saccenti e criticoni. Alla fine la loro opinione valeva molto di più di tanti prezzolati critici che scrivevano quello che detta loro l’editore.

Chiusi gli occhi mentre il paesaggio della Toscana scorreva rapidamente dal finestrino. Mi assopì ma forse fu solo un attimo perché rividi quello che era rimasto impresso prima di chiuderli. Solo il viaggiatore accanto a me continuava a leggere senza posa il romanzo, mentre la ragazza diceva «A2». Udì in risposta «Colpito». La battaglia navale era più interessante del Caso strano di un creditore fantasma, il titolo del libro.

Visto che non alzava gli occhi, né prestava attenzione alla hostess, che voleva offrire un quotidiano e qualcosa da bere e mangiare, decisi di parlare con lui.

«La storia la sta appassionando» dissi con tono cordiale come si usa con gli amici.

L’uomo alzò la testa dal libro e mi fissò con attenzione come se lo avessi distolto dall’occupazione più importante della sua vita.

Ripetei la domanda: «Interessante?»

«Interessato!» ribattè con voce chiara e decisa. «Interessato!» replicò come se non avessi udito la prima risposta. «Veramente notevole è la storia! Pare quasi che il protagonista morto abbia passato il suo tempo a dettare le pagine a suo zio»

Il tono della voce era secco e il viso corrugato.

Concordai con lui, annuendo col capo vistosamente.

«Forse dipende da dove si trova il protagonista …» dissi muovendo il capo.

«Secondo lei dove si trova ora il protagonista?»

«Forse in paradiso oppure in purgatorio …».

«E non perché all’inferno?» domandò, osservandomi con quegli occhi acquosi da vecchio.

«Non mi sembra il posto adatto. Non mi pare che in vita abbia combinato chi sa quali malanni o sfracelli da meritare …».

«Sì» disse come per convincermi che non fosse il posto giusto per Paolo Morieri, il protagonista della storia.

«Lei cosa pensa? Paradiso o purgatorio?» chiesi con delicatezza.

«In paradiso forse no ma in purgatorio lo vedo benissimo. Ma in realtà lo vedo meglio…» replicò con pacatezza, mentre gli occhi brillavano come se avessero riacquistato lucentezza.

«Dove, se non sono indiscreto» lo sondai con cautela. Il suo pensiero mi incuriosiva e in un certo senso stimolava la mia vanità professionale.

«A Vigevano» rispose senza tradire una benché minima emozione.

Lo scrutai con attenzione mentre sobbalzavo per l’affermazione.

«A Vigevano? E perché?»

«Se si trovasse in purgatorio, sarebbe un piccolo errore ma se è Vigevano …».

«Ma cosa c’entra Vigevano con il Caso strano di un creditore fantasma

«Nulla. Infatti. Se però si trovasse a Vigevano…».

«Ma non si trova a Vigevano» replicai alzando la voce.

La ragazza, che stava giocando a battaglia navale, fu distratta dalla mia esternazione e invece di dire «A3» e mettere fine alla partita urlò «A9». «Hai perso!» replicò di rimando il compagno.

«In realtà non si trova a Vigevano ma sta passando da Bologna» ribatté con tono serafico.

Ebbi l’impressione che il nervosismo stesse travolgendo le mie difese ma che quello che stava affermando era in qualche modo collegato al Caso strano di un creditore fantasma. L’intuito non mi aveva mai tradito e anche stavolta mi stava mettendo in guardia. Lo osservai con maggiore attenzione e aspettai che dicesse qualcosa.

«Forse qualche influenza astrale…» cominciai con cautela, visto che era ammutolito.

«Basta!» replicò mettendosi eretto. «Sembra che da un mese a questa parte io sia diventato il caso nazionale di signore, attratte dal paranormale e da signori caustici e diffidenti sui giornali e in TV. Signore, si da il caso che io sia Paolo Morieri. Non sono morto. E non sono mai stato morto. E quando morirò nel giorno che mi sarà destinato, dopo aver letto questo dannato libro, non percepirò di essere al sicuro in nessun luogo dove mi metteranno!»

CONTINUA…

1 Incipit tratto da “Il pozzo delle trame perdute” di Jasper Fforde- ed. Marcosy Marcos, trad. di Daniele A. Gewurz, pagg. 400 17€ – Jasper Fforde 2003 – Marcos y Marcos 2007

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Dal diario di uno scrittore – estate 1972

Avevo scelto di lasciare un porto sicuro per avventurarmi in un mare ignoto, del quale non conoscevo i potenziali pericoli. Però mi dicevo: “Devo inseguire i miei sogni e cercare nuove esperienze. Se non adesso, quando?” Sì, perché ero un giovane di belle speranze che credeva in se stesso e negli ideali coi quali era cresciuto.

Dunque pieno di entusiasmo irresponsabile mi ero gettato tutte le paure dietro le spalle e avevo deciso di accettare un nuovo lavoro in una grande città. Conoscevo bene quello che stavo lasciando ma in ugual misura ignoravo quello che mi avrebbe aspettato.

“E poi se non si rischia che vita posso attendermi nel futuro?” mi dissi nell’affrontare questo cambiamento radicale nelle abitudini e nelle conoscenze. Tutto era novità, tutto era incognito: dai nuovi colleghi di lavoro alla metropoli con la fama di tritapersone.

Così cominciai una vita di pendolare tra Ferrara e Milano. Il lunedì mattina all’alba prendevo il treno dei lavoratori fino a Bologna e da lì l’Intercity per Milano. Al venerdì facevo l’operazione inversa. Una vita che non mi piaceva ma non potevo fare altrimenti. Finché non c’erano delle certezze, non potevo tramutare quella vita randagia, fatta di treni pieni e perennemente in ritardo in una più regolare senza la necessità degli spostamenti settimanali.

Quei viaggi snervanti e inconcludenti mi permettevano di osservare una moltitudine di persone molto diverse tra loro e con le quali condividevo questi spostamenti. La maggior parte all’andata la raccoglievo tra Piacenza e Milano, mentre altri salivano e scendevano in Emilia. Erano rari quelli che salivano a Bologna per raggiungere Milano. Nonostante le facce fossero sempre le stesse, era per me un mondo sconosciuto da esplorare e comprendere. Il tempo non mi mancava. In realtà era l’unica cosa della quale ce ne era in abbondanza.

Mi domandavo con un pizzico di curiosità, mentre li osservavo: ”Chissà cosa pensano di me, ammesso che se ne siano accorti”. Mi piaceva quel fantasticare su di loro, quel pormi delle domande e formulare le relative risposte, essendo conscio che mai avrebbero trovato repliche esaustive e certe. Però mi serviva per far trascorrere il tempo perché altrimenti sarebbe stato lungo e noioso.

Era stupefacente come fossero ripetitivi, grigi e senza fantasia. Il lunedì mattina gli uomini parlavano solo di rigori non concessi, di arbitri venduti, di gol fantasma. Le ragazze della gita fuori porta col moroso, della lite da comare con la pseudo amica, che tentava di soffiare il ragazzo. Le donne erano più silenziose, assonnate e stanche e leggevano Grazia o Intimità senza partecipare troppo alla varie discussioni. Era una costante. Ormai sapevo tutto di loro. Bastava origliare i loro discorsi.

Ascoltarli, vedere le loro facce ingrigite e senza sorriso mi permetteva di analizzare se questo vivere aveva un senso. Intuivo e comprendevo che un’esistenza da pendolare era squallida, rafforzando la volontà di diventare uno stanziale.

Però non era questo di cui volevo parlare. “Di loro ne parlerò un’altra volta, se ne avrò tempo e se voi avrete voglia di leggermi”.

Per accorciare il tempo del viaggio, tra uno scossone e un altro, tra una fermata normale e una straordinaria in mezzo alla campagna, viaggiavo accompagnato da un libro, che mi faceva da tutore e compagno di strada. Ero un gran divoratore di carta stampata, della quale mi piaceva odorare il profumo, udire il fruscio delle pagine sotto le dita. Col tomo ben in vista leggevo e ascoltavo, memorizzando entrambe le informazioni.

“Vedo già il sorrisino di compatimento sulle vostre labbra. Ebbene non so come facevo. Eppure è la pura verità. Oggi non ci riesco più ma allora ci riuscivo benissimo. Ricordo un corso, dove in un test si doveva scorgere in un groviglio di segni un’immagine. Si dà il caso che io ne vedevo due contemporaneamente con grande sorpresa del docente”.

Così mi venne l’insana voglia di scrivere un romanzo. Non mi ero mai cimentato in questa prova, limitando le mie ambizioni letterarie alla poesia come un emulo di novello Leopardi. Quando ero al liceo, mentre osservavo dalla finestra il resto dell’antico campanile della vicina chiesa, avevo sognato di trasformarmi in un poeta riverito e coccolato da tutti. Erano sogni giovanili, perché nessun poeta, per quanto famoso, aveva fatto fortuna. Allora non lo sapevo ma mi serviva per fantasticare onorificenze e gloria a gogò, riverito e ammirato da tutti. Così come un poetastro della domenica scrivevo compulsivamente poesie, che avevo l’ardire di donare alle mie presunte fiamme. Poi i sacri furori giovanili si erano assopiti, mentre mi era rimasto il gusto di leggere.

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«Lo scoiattolo si svegliò di soprassalto nel cuore della notte… Cos’è il dopo?, pensava. Ne aveva parlato una volta alla formica, ma lei aveva alzato le spalle e aveva detto di non aver mai sentito parlare del dopo e che perciò non doveva essere niente… Ma allo scoiattolo questo non bastava. La gazza gli aveva detto una volta che dopo era il contrario di prima, ma allora che cos’era prima?»i.

“Che bel incipit!” mi dissi, mentre leggevo le prime righe di questo straordinario libro dello scrittore olandese Toon Tellegen. Un emulo moderno di Esopo aveva raccolto in questo voluminoso libro ben trecento storie di animali del bosco che vivevano di luce propria come persone uniche e soprattutto umane.

I protagonisti erano loro, gli abitanti del bosco letterario di Tellegen. In una selva illuminata da sorrisi compiacenti e da feste di compleanno ognuno di questi speciali animali poteva trovare quello che gli piaceva dalla torta ai canditi.

Le loro storie erano un mix di aspetti che quotidianamente percepiamo. Un inno all’amicizia, alla curiosità, all’avventura e allo stesso tempo all’ozio ma piene di passioni e contraddizioni risolte con soave intelligenza, anche quando erano le più angoscianti.

Affascinato dai loro racconti, dai dialoghi o pensieri che più che animaleschi parevano un summa di buon senso, decisi che la mia strada sarebbe stata quello dello scrittore.

“Altro sogno o realtà?” mi domandai curioso come lo scoiattolo di Tellegen, protagonista della prima storia.

Un lunedì mattina di luglio armato di un blocco e di penna stilografica cominciai a elaborare il plot del futuro romanzo che mi avrebbe consegnato ai posteri come lo Scrittore, che avrebbe goduto di fama imperitura. Ovviamente erano solo fantasie ma l’immaginazione non mi mancava e l’ego di smisurata superbia nemmeno.

“Come comincio?” fu la prima domanda alla quale non riuscivo a dare un buona risposta. Tutto pareva banale ma erano le idee che mancavano o forse la spinta decisa e solerte di parole per avviare un discorso qualsiasi.

“Pessimo inizio. Tanto entusiasmo ma risultati deludenti” conclusi amaramente arrivato a metà tragitto tra Bologna e Milano.

Il blocco rimaneva vergine e la stilografica chiusa. Aprì nuovamente il libro di Tellegen e trovai finalmente l’ispirazione.

«Non passava giorno che lo scoiattolo se ne andasse in giro. Al mattino si lasciava cadere sul muschio giù dal faggio, oppure, a volte, dalla punta di un ramo finiva nello stagno proprio sul dorso di una libellula, che poi senza fiatare lo portava sull’altra riva. Prendeva sempre la prima strada che gli si parava davanti. Ma se poi gli capitava un viottolo laterale lo imboccava, e se gli riusciva di scordarsi dei progetti che aveva per la giornata, se li scordava. Così un giorno stava andando dall’elefante, che traslocava e aveva bisogno di aiuto, quand’ecco che vide un sentiero sabbioso tutto pieno di curve. Lo prese. C’era un cartello che diceva: STRADA VERSO IL LIMITE. E’ lì che voglio andare!, pensò lo scoiattolo. Ma con grande dispiacere incontrò subito un’altra deviazione…»

“Ecco quello che ci vuole!” riflettei, mentre osservavo una ragazza, che l’amica chiamava Laura. “Ecco la mia protagonista!” Come se mi fossi svegliato di botto dopo un lungo sonno senza immagini, avevo scoperto la scintilla che avrebbe fatto di me lo Scrittore.

Però non potevo scopiazzare qualcosa che non avevo scritto io, anche se avrei potuto mettere un avvertenza di chi era la paternità di quello in corsivo.

“No, no. Meglio usare l’idea e scrivere un qualcosa di mio”. Così cominciai a riempire le pagine con la mia scrittura rotonda e precisa. Il sogno di scrivere qualcosa diventava realtà e il romanzo “Non passava giorno …” pure.

Non passava giorno che lo scoiattolo se ne andasse in giro allegro e spensierato per il bosco con la sua grande coda imponente, della quale era molto orgoglioso. Era un tipetto strano e pieno di risorse ma totalmente imprevedibile. Al mattino capitava sovente di lasciarsi cadere sul morbido muschio ai piedi dell’abete preferito, rimbalzando per la gioia con una grande capriola. Ma se era ispirato dalla natura, volava dalla punta di un ramo per finire nel torrente, che scorreva allegro nel bosco. Però non cadeva nell’acqua ma sul dorso di una libellula, che passava casualmente di lì e che lo traghettava sull’altra riva. Quando incontrava una strada, prendeva sempre la prima che vedeva senza pensarci su due volte. Se poi incrociava un sentiero laterale lo infilava, e se aveva dei progetti per la giornata, se li scordava regolarmente. Ma nulla poteva modificare il suo carattere allegro e giovale, pronto a dare il suo aiuto senza secondi fini nascosti. Così una mattina di buon ora stava andando dall’orso bruno, che traslocava dalla sua tana e aveva chiesto aiuto alla comunità del bosco, quando vide un sentiero ancora umido per la rugiada della notte che serpeggiava tra abeti e faggi, naturalmente lo prese senza esitazioni. All’imbocco c’era un cartello un po’ scolorito che diceva: STRADA VERSO …. E nient’altro. ‘E’ lì che devo andare!, pensò lo scoiattolo tutto allegro, ma con grande rammarico dopo pochi saltelli incontrò un’altra deviazione…”

Laura leggeva l’inizio della favola, che aveva scritto tanti anni prima, quando aveva sedici anni.

Era una mattina fredda, ma serena e soleggiata di marzo, quando salì nel sottotetto alla ricerca del vestito rosso dismesso alcuni anni prima. Non sapeva nemmeno lei perché aveva intrapreso quella ricerca tanto stramba quanto insolita, ma forse voleva semplicemente ingannare se stessa, perché ne conosceva perfettamente il motivo…

Ormai avevo scatenato la mia fantasia e difficilmente mi sarei fermato. Il treno era in movimento non solo realisticamente, come potevo percepire dal rollio meccanico del vagone ma anche metaforicamente attraverso la mia scrittura. E continuai a scrivere, viaggio dopo viaggio finché non arrivai alla parola fine.

“Ora che sono arrivato in fondo che me ne faccio di tutta questa carta?” mi domandai, mentre lo rileggevo durante un viaggio di ritorno nell’ottobre dello stesso anno.

“Cosa si fa? Si manda all’editore che ti fa firmare un sontuoso contratto e il gioco è fatto! Tu sei il nuovo scrittore emergente che diventerà il caso letterario dell’anno!”

Ancora fantasia e mancanza di umiltà. Magari fosse stato così semplice. In realtà trovare un editore disposto a investire su di te non era facile come entrare in un bar per un caffè.

Tanti cortesi rifiuti: «Il suo manoscritto non interessa la nostra linea editoriale» era la risposta più garbata ma c’era anche di peggio. Ormai deluso e disilluso di scovare un editore, un giorno ricevetti una lettera da una casa editrice, Orsobianco Edizioni, che si mostrava disponibile a pubblicare il romanzo. Nessun anticipo ma la miseria di qualche liretta per ogni libro venduto, ammesso ma non garantito che fossi riuscito a vendere qualcosa.

“Meglio questo che niente” mi dicevo mentre firmavo il contratto con questa casa editrice.

Così iniziò l’avventura di questo romanzo.

iToon Tellegen – “Lettere dal bosco” Donzelli Editore . Trad. Davide Santoro – 2007 Ho commesso un falso storico anticipando l’uscita trentacinque anni prima. Solo per finzione letteraria.

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Un viaggio, un incubo – ventottesima e ultima puntata

Cala la tela sulla storia di Simona. Si conclude questo racconto. E meno male dirà qualcuno. Per chi volesse, a suo rischio e pericolo, rileggere tutte le puntate le trova qui.

da Pixabay credits AdinaVoicu

Simona con gli occhi arrossati per la lunga veglia viene visitata per certificare la violenza subita e formalizza la denuncia verso Mark. La stanchezza annulla l’esame sgradevole che si aggiunge agli eventi spiacevoli della vacanza americana. Deve rispondere a molte domande che lei giudica odiose come se lei fosse l’imputata e non la vittima. Deve ripetere all’infinito ogni dettaglio sul perché non ha chiesto aiuto o come è stata drogata.

«È sicura di non essere stata consenziente all’inizio?» domanda il legale di Mark che vuole generare sospetti sulla versione di Simona.

«Perché è partita dall’Italia per incontrare il signor Flannagan? Perché non ha denunciato il tentativo di violenza di due giorni prima?» e altre domande ripetute con monotona e metodica violenza nello sforzo di trovare una breccia, una crepa nella quale insinuare dubbi e incertezze per favorire la liberazione di Mark. È un calvario, uno stillicidio che dura per molte ore prima che possa tornare al residence senza che nessuno corra in suo aiuto.

È pomeriggio inoltrato quando Simona rientra nella suite, accolta da Irene che ignora la liberazione avvenuta molte ore prima.

Si getta estenuata e affamata sul divano a ricapitolare tutti gli eventi accaduti per l’amica.

“Il sogno della notte precedente è stato una visione premonitore, perché l’ho vissuto nella realtà” riflette addentando un sandwich a base di formaggio, salse varie e pollo. Ha fame e non fa una piega sul miscuglio di sapori per nulla amalgamati.

«Irene» esclama Simona tra un sorso di caffè e l’altro. «Ho avuto un incubo l’altra notte» e lo descrive senza tralasciare nulla.

«Sembra incredibile» conclude pulendosi la bocca. «L’appartamento del sogno, nel quale ero rinchiusa, era quello di Mark! E sono stata salvata dal suono di un telefono come stamattina. Sono coincidenze oppure ho vissuto in anticipo gli avvenimenti di questa notte?»

Irene scuote il capo perché non sa come rispondere, ma giudica strana l’analogia tra sogno e realtà.

«Simo, non pensarci più!» la rassicura. «Ora tutto è finito. Questa è stata una pessima avventura che potrai raccontare ai tuoi figli, quando sarai vecchia».

Simona sorride con amarezza, perché forse non avrà figli a cui raccontare la sua pericolosa avventura.

«Quali figli?» chiede spalancando gli occhi nocciola. «Dopo questa esperienza rimarrò single a vita! Di uomini non ne vorrò avere vicino per un bel pezzo! Ci vorrà tempo prima che possa dimenticare questo incubo».

Percepisce che non dimenticherà come ha trascorso la notte e il senso di angoscia che l’ha attanagliata nelle lunghe ore di veglia.

Una lunga doccia, il boccone appena gustato non riescono a risollevare il suo morale. Comprende quanto imprudente sia stata nel compiere la traversata dell’oceano. Una lezione bruciante l’ha imparata sulla propria pelle: non si deve fidare degli amici virtuali.

Gli incontri possono diventare una trappola pericolosa.

Il viaggio si è trasformato da piacere a incubo, mentre lei desidera riprendere l’aereo al più presto per dimenticare queste giornate orribili.

the end

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Un viaggio, un incubo – ventisettesima puntata

Allegri ragazzi questa è la penultima sofferenza che vi infliggo. Sempre per i curiosi trovate qui le altre ventisei.

Simona vede esplodere la finestra. Chiude gli occhi d’istinto per proteggersi dalle schegge di vetro. Un frastuono impressionante proviene dall’ingresso. Chiude gli occhi e reprime le lacrime che vogliono sgorgare impetuose. Il cuore batte forte per l’agitazione. Forse quelle ombre intravviste dalla finestra sono i suoi angeli salvatori. Scaccia il pensiero per non illudersi: la realtà potrebbe farle male.

Percepisce che Mark si è staccato dal suo corpo, disturbato dai passi e dal rumore di vetri infranti. Dopo un istante di silenzio sente che sta imprecando nello slang newyorchese. L’unica parola che capisce è “fuck”, l’ha sentita ripetere troppe volte. Immagina che sia una parola volgare ma ne ignora il significato. È una breve illusione. Di nuovo le sue mani sono sul suo corpo mentre Mark riprende ad ansare.

Todd e Dick fanno irruzione nella stanza e trovano un uomo nudo che tiene in mano qualcosa di sospetto. Cosa stia facendo non è chiaro. È accanto a un corpo disteso sul letto. La stanza è immersa nella penombra e faticano a distinguere la figura.

Todd, incerto se pronunciare le frasi di rito quando arresta qualcuno, lo sente parlare sconnesso con minacce e blandizie, mentre si volta verso di loro.

Un lezzo insopportabile di sudore, misto a urina e altri odori non distinguibili colpisce le narici. Accendono la luce per illuminare il locale.

Lo spettacolo li lascia interdetti.

Una donna nuda è legata alle spalliere del letto e un bavaglio di fortuna le copre la bocca. La luce improvvisa l’acceca, stringe gli occhi per proteggerli dal lampo abbagliante.

«È miss Ferrari!» urla sovrastando le voci esterne e le imprecazioni di Mark.

Simona sente una voce amica e tira un sospiro di sollievo. È solo un fugace istante Poi ricorda il suo stato. Si sente umiliata essendo nuda senza la possibilità di coprirsi. “Cosa m’importa” si dice per dimenticare il suo stato. “Tanti uomini mi hanno vista nuda e due in più non fanno differenza”.

È sollevata, perché la sua avventura si sta concludendo. Vorrebbe abbracciarli, ringraziarli ma non può. Aspetta che sciolgano i lacci e le diano qualcosa da indossare.

Sente la voce di Dick cattiva che urla verso Mark. Poi altre voci che non conosce e un vociare confuso che viene dall’ingresso.

Con gli occhi chiusi aspetta che qualcuno si ricordi di lei liberandola.

Mark, vistosi in difficoltà, reagisce chiedendo l’aiuto degli altri coinquilini contro gli intrusi che hanno violato la sua privacy e rovinato i suoi piani.

Dick l’afferra saldamente senza troppi complimenti, mentre Todd va sulla porta mostrando il distintivo del NYPD al nugolo di curiosi che affollano il corridoio.

«State indietro e tornate nei vostri appartamenti. Questa è un’operazione di polizia» dice con voce forte, azionando la chiamata per John e Ricky.

Il vociare confuso si trasforma in un brusio appena distinguibile, mentre i più ritornano da dove sono venuti. Alcuni impiccioni continuano a stazionare sul limitare della porta nel tentativo di captare voci o immagini.

Todd presidia l’ingresso finché non arrivano i due poliziotti a dargli il cambio.

Mark sbraita e si agita sperando di sfuggire alla morsa ferrea di Dick, che lo tiene sdraiato a terra immobilizzandolo con un ginocchio sulla schiena. Dick è incattivito e si trattiene dal dargli una pesante lezione per non compromettere l’esito dell’intera operazione.

«Se non la smetti con le buone, lo farai con le cattive» esplode con voce dura, bloccando ogni movimento o tentativo di svincolarsi.

L’uomo continua a vociare chiedendo l’assistenza di un legale.

«Avete violato il mio appartamento, mi bloccate senza motivo. Vi farò passare un brutto quarto d’ora, non appena potrò contattare il mio avvocato». Sbraita irosamente.

Todd lo ammanetta, mettendogli il distintivo sotto il naso.

«Chi passerà un brutto quarto d’ora sarai tu, maledetto porco!» gli urla nelle orecchie, snocciolando i reati commessi. «Sequestro di persona, violenza privata e sessuale, resistenza è quanto basta per sbatterti in galera e buttare via la chiave!»

Gli uomini sembrano essersi dimenticati di Simona, che respira con affanno e non può parlare.

Dick gira lo sguardo e incrocia quello di Simona che implora di essere liberata e di coprirsi, prima che arrivino frotte di poliziotti e giornalisti a invadere l’appartamento. Capita la richiesta con delicatezza scioglie i lacci. Rimuove il rudimentale bavaglio. Simona respira a pieni polmoni con boccate avide di aria.

Si mette ritta, mentre Dick lancia vestiti e intimo. Vorrebbe pulirsi ma non è il momento. Infila le mutandine un po’ sfilacciate e indossa il reggiseno. Scende dal letto per mettersi polo e gonna jeans. A piedi nudi cerca le scarpe che trova sotto la sua tracolla.

Simona si massaggia polsi e caviglie piagate dai lacci che hanno lacerato la pelle. Le ferite sanguinano e sono dolorose.

Vorrebbe baciarli, abbracciarli, ringraziarli, ma si trattiene. Si sente sporca, lercia, ma la voglia di libertà annulla ogni pudore o sensazione sgradevole. Ci sarà tempo per farsi una bella doccia calda per ripulire i cattivi odori che si trascina addosso.

«Mi avete salvata da una brutta situazione» ringrazia con un filo di voce. «Non so se sarei uscita con le mie gambe da qui».

Dick la osserva e conviene che è una bella donna. Non sa quanti anni possa avere, ma la figura snella e ben modellata accende il suo interesse di uomo. “Senza dubbio ha un corpo che meriterebbe ben altre attenzioni. Nonostante la pessima avventura conserva un fascino che attira. Se fosse disponibile” riflette, distogliendo la mente dall’immagine di Simona nuda.

Per esorcizzare il risveglio del desiderio, si domanda sui motivi che hanno spinto la giovane italiana a compiere un viaggio così lungo e infilarsi in una storia dai contorni strani e pericolosi. È sicuro che mancano dettagli importanti nel racconto fatto a suo tempo.

“Un banale incontro a Central Park e nulla più? Eppure c’è un buco di dodici ore tra l’abboccamento mattutino e il tentativo serale di penetrare nella camera. Cosa è successo? Qualcosa è avvenuto tale da sconvolgere sia l’italiana sia Flannagan per originare tutto questo. Ma cosa? Anche se tutto sembra terminato nel migliore dei modi, glielo chiederò per togliermi questa curiosità”.

Osserva l’uomo ammanettato, rivestito sommariamente in attesa di essere portato alla centrale di polizia, e non prova nessuna pietà, ma una sorda rabbia per il suo comportamento.

“Merita una dura punizione! Quello che ha fatto o tentato di fare non è spiegabile a meno che non soffra di turbe psichiche. Non è più giovane e neppure piacente. Eppure è riuscito ad attirare una bella donna come miss Ferrari! Da quel poco che ho letto sembra avere una discreta posizione sociale. Ha agito in modo sconsiderato. Quando fosse riuscito a scoparla, come si sarebbe comportato? Una violenza sessuale non sarebbe passata sotto silenzio, quindi… Rabbrividisco al solo pensiero di cosa avrebbe fatto poi! Povera miss Ferrari”.

Si avvicina in silenzio a Simona e le sussurra: «Sarà una giornata dura per te oggi, ma è sempre meglio di quello che ti avrebbe riservato questo porco».

Simona sussulta, mentre osserva il poliziotto, il suo salvatore. Adesso si accorge che è un bel uomo, molto di più di Mark. Si interroga come possa pensare all’aspetto fisico di una persona di sesso maschile dopo avere passato una notte così drammatica. “Sono veramente irrecuperabile al solo pensiero di osservare un uomo non come persona, ma come possibile amante” e scuote la testa mentre si avvia verso l’ingresso.

È stato un pensiero fuggevole ma rappresenta la spia che qualcosa in lei non funziona. Come nel sogno la sua disavventura si è risolta nel migliore dei modi. Emette un sospiro di sollievo. È pronta a lasciare l’appartamento e scacciare l’incubo di Mark.

Vorrebbe sputargli in faccia o dargli un calcio nei coglioni ma si trattiene, mentre Dick l’accompagna fuori passando tra due file di curiosi che la squadrano, la spogliano.

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un viaggio, un incubo – ventiseiesima puntata

Siamo a quota meno tre dalla vetta. Qui ci sono le altre venticinque puntate.

Foto di Quintin Gellar da Pexels

Il piano di Dick non è complesso e può funzionare anche senza l’aiuto di un pizzico di fortuna che non guasterebbe.

«Sono certo che l’eccessiva sicurezza del nostro tipo ci agevolerà nel rintracciare l’appartamento» incomincia illustrando quello che ha in mente.

È convinto che non abbia spento il telefono, perché secondo i tabulati di Verizon è sempre rimasto acceso anche nei giorni precedenti. Non si capisce perché lo dovrebbe fare stanotte.

Del telefono di miss Ferrari dà quasi per scontato che se ne è dimenticato o forse non l’ha nemmeno cercato. Dick è convinto che con tutta probabilità non ci ha pensato per nulla, poiché ha dato per assodato che nessuno la cercherà. L’unico dubbio è che abbia carica a sufficienza per stare acceso l’intera notte.

Secondo le ultime informazioni in questo momento il cellulare di Mark è fermo nel caseggiato del Bronx.

Dick prova a chiamare il numero di Mark che squilla una, due e più volte. Un sorriso soddisfatto illumina il suo viso.

«Todd, chiama il numero di Miss Ferrari, mentre io faccio lo stesso con l’altro» suggerisce Dick pensando di creare confusione.

Lo fanno e poi smettono. Adesso devono solo mettere in atto il suo piano.

«Se ci sbrighiamo, lo dovremmo cogliere con le mani nel sacco» afferma Todd persuaso che l’idea di Dick si rivelerà vincente.

Todd chiama i suoi uomini e li informa che tra poco li raggiungerà. Devono fare attenzione ai movimenti nel caseggiato.

Arrivati a sirene spente, tutti e quattro perlustrano i dintorni del complesso. Vogliono essere certi che Mark non possa sgusciare dalle loro mani come un’anguilla. Il passo successivo sarà la localizzazione dove Miss Ferrari è tenuta prigioniera.

John e Ricky salgono le scale di sicurezza con circospezione alla ricerca di finestre illuminate o di voci umane. Sono le cinque passate da poco e con ogni probabilità sono ben pochi gli inquilini svegli a questa ora. Cercano di fare il minimo di rumore per evitare che qualcuno senta e faccia baccano allarmando l’individuo cercato. La perlustrazione dura circa mezz’ora e alla fine credono di aver localizzato l’appartamento: si trova al quinto piano. Rumori sospetti e movimenti al suo interno li convincono che sia quello giusto.

«Todd, c’è un appartamento al quinto piano, che ha luci accese appena visibili. Si sentono rumori di passi e una voce maschile che sembra parlare da solo. Cosa dice non riusciamo a comprenderlo» comunica Ricky con un filo di voce appena percettibile.

«Restate lì senza farvi notare, pronti a bloccare eventuali tentativi di fuga. Al mio segnale entrate dalla finestra».

Todd e Dick raggiungono il piano segnalato per dare l’avvio al progetto elaborato durante il viaggio.

Compongono il numero di Mark, sperando di captare con certezza da quale porta arriva il tono di chiamata.

Sentono rumori nel corridoio di destra, ma non riescono a localizzarli con precisione perché la comunicazione cessa.

Todd ricompone il numero dell’uomo, Dick quello di Simona e scoppia il putiferio. Adesso sono certi della porta: è l’appartamento 517.

«Fuck!» impreca sottovoce con tono volgare il poliziotto. «Ho scambiato il cinque col sei! Sono stato troppo precipitoso nel leggere il numero. Ora sarebbe già libera».

Ricky lo richiama confermando che hanno individuato con precisione la finestra da dove arriva quella sinfonia di suonerie e rumori che stanno svegliando mezzo caseggiato.

«Okay. State pronti a intervenire. Dobbiamo beccare quel porco con le mani nella marmellata».

Loro si devono tenere pronti a sfondare la finestra, mentre Todd e Dick faranno lo stesso con la porta d’ingresso.

Sentono passi confusi con imprecazioni dietro la porta come se qualcuno fosse in agitazione.

Armeggiano silenziosi con la pistola LockAid che apre tutte le serrature in modo sicuro col minimo rumore. Todd non potrebbe usarla senza l’autorizzazione del giudice ma se ne frega. Si sentono i click dei cilindri che scattano sotto la pressione delle linguette della pistola. La porta di dischiude ma una catenella impedisce l’apertura completa.

Senza pensarci, danno un paio di spallate robuste alla porta che si spalanca con un frastuono che sveglia l’intero edificio.

Quasi in contemporanea il rumore di vetri infranti fa da contraltare con quello generato da Todd.

Non si preoccupano delle voci provenienti dall’esterno, mentre si precipitano all’interno.

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Un viaggio, un incubo – venticinquesima puntata

Calma ragazzi ancora un piccolo sforzo e poi questo incubo sarà finito. Per i più temerari qui può trovare le puntate precedenti.


Foto di Eneida Nieves da Pexels

Vedendola irrigidirsi, Mark rinforza il bavaglio con un asciugamano sulla bocca.

«Shut! Ora non potrai urlare!» grida con tono cattivo nell’orecchio sinistro di Simona. «È vero che non sentirò i tuoi lamenti, né le suppliche, ma vedrò l’espressione dei tuoi occhi. Aspettami, tramp! Un secondo e sarò da te! Vedrai come godrai quando ti scopo».

Ha un sogghigno diabolico, mentre gli occhi di Simona tentano di reggere lo sguardo senza mostrare il terrore che ha dentro di sé.

Mark tiene in mano il resto di un panetto di burro con cui ha spalmato il sesso di Simona. Ghigna divertito.

«Questo è miracoloso» urla minaccioso nelle orecchie, mentre lei sostiene lo sguardo di sfida.

Con calma riprende ad applicarlo e ansa per il piacere toccandole il pelo che si unge e diventa lucido.

Le fantasie erotiche, che il gesto scatena, lo fanno venire di nuovo, lordando le gambe di Simona.

«Fuck!» impreca mentre cosparge di burro tutto il corpo. Ansa mentre tocca i capezzoli duri con la speranza di rianimare il suo membro.

Simona volge il viso verso la finestra. Vede un chiarore filtrare attraverso il vetro, mostrando la sagoma della scala antincendio.

Le sembra di vedere delle ombre. Sbatte gli occhi ma pensa che sia solo suggestione. Torna concentrarsi su Mark che ha ripreso a ungerla. È il seno il suo obiettivo. I capezzoli si induriscono sono il suo energico massaggio.

Lo sente mentre riprende ad ansare e strofinarsi sul fianco destro. Il suo è un roco grido di una persona in preda a forte eccitazione sessuale.

Simona volge il viso verso sinistra dove sta la finestra per non incontrare quello di Mark che alita vicino a pochi centimetri.

Ha un moto di schifo per questa vicinanza. Vorrebbe urlare ma il grido si smorza in gola.

Ha un sussulto perché vede qualcosa. “Un’ombra?” Pensa. “No. Due”. Si chiede chi possano essere. “Due inquilini senza le chiavi di casa?” Scuote il capo perché non è possibile. Vorrebbe agitare una mano per richiamare la loro attenzione ma non può. Si è dimenticata di Mark, di quello che sta facendo, della sua eccitazione, perché si è concentrata su due possibili angeli salvatori.

“Calma, Simona” si dice continuando a osservare i movimenti di quelle due ombre. Non si accorge che Mark si è quasi disteso sopra di lei. Il rumore del suo respiro sempre più eccitato non la distrae, concentrata su quelle due ombre, che le appaiono la scialuppa di salvataggio nel naufragio della nave.

Un rumore infernale lo sorprende e si guarda intorno smarrito alla ricerca dell’origine.

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