Quando un asteroide fulminò le larghe intese…

Anni fa, credo il 2012, alla formazione del governo delle grandi intese i Wu Ming lanciarono una sorta di contest che aveva per tema le larghe intese e un asteroide che le distrusse. Io con molti altri ho partecipato e tutti i vari racconti sono stati raccolti in pdf. Quello che segue è il parto della mia testa.

Buona lettura

origine NASA

Dopo aver valicato monti, disceso valli, guadato fiumi e disarcionato altri presunti cavalieri che temerari l’avevano sfidato, Ser Lancilotto del Lago continuava la sua ricerca. Voleva proseguire l’avventura, anche se ormai era vecchio e le forze venivano a mancargli.

Era nel territorio del Galles, o forse lì vicino, ma non aveva molta importanza il luogo, perché gli avevano detto che c’era nei paraggi un convento di suorine molto graziose, allegre e servizievoli.

«Questa avventura non me la voglio perdere!», disse al suo fido consigliere, Ser Johnnie di Lothian, che scuoteva la testa.

«Ormai sei vecchio. Prenditi il riposo del guerriero».

«Starei fresco!».

«Perché?».

«Perché? E me lo domandi?».

«E io te lo richiedo».

«Oziare è il padre di tutti i vizi».

«Hai tanti nipoti con i quali puoi giocare alla guerra».

«Non è la stessa cosa che fare una ricerca».

Così si armò, lucidò corazza e scudo, affilò la spada e partì tutto solo senza manco il fido scudiero Ser Jon Greenish.

All’uscita del castello un soldatino di vedetta gridò: «Un uomo solo al comando», ma il ser Cavaliere finse di non aver udito.

«Tutta invidia» esclamò, facendogli un marameo.

Cavalcava da molti giorni senza trovare l’indicazione giusta. Chi gli diceva «È dietro quel boschetto», chi «Avanti cento passi, svolta a destra. Lì al centro c’è il convento», chi dalla cima del Colle lo benedisse «Se trovi le larghe intese, lì sta il convento».

Fatto sta, fatto non si sa, il ser Cavaliere brancolava nel buio, perché la notte era scesa senza che lui l’avesse autorizzata a presentarsi.

Trovava irriverente che non gli avesse chiesto il permesso.

«Ohibò!», disse addocchiando un bel fico ombroso.

«Se fosse un fico femmina sarebbe stato meglio ma accontentiamoci».

Detto e fatto. Si fermò lì sotto la chioma verde.

«Qui mi ficco», e messo lo scudo sotto la testa si addormentò.

Nei paraggi girava Morgana, la fata, una bella tipetta dispettosa e poco riguardosa nei confronti di Ser Lancilotto, col quale aveva più di un conto in sospeso. Cambiava mille aspetti ma la capigliatura rossa restava sempre rossa.

Dicevano le malelingue che era una strega e produceva mille incantamenti per distorcere la verità. «Tutte maldicenze! Io ricerco solo la mia verità», urlava ai quattro venti senza che nessuno la cagasse.

Oddio, quando si incaponiva sul serio, si metteva di traverso ed erano dolori, soprattutto per Ser Cavaliere, che minacciava di metterla ai ferri, sulla brace a bruciare. Lei rideva e sgusciava via come un folletto.

«Prendimi, se ci riesci!», gli gridava con ghigno feroce.

Comunque Morgana, la fata, sembrava guidata dal radar, che ai tempi di re Artù era ancora da inventare. Per finzione poetica fingiamo che ci fosse, e piombò sull’incauto Ser Lancilotto del Lago, che dormiva alla grossa, pensando di essere unto dal re Artù.

«To! Chi si vede. Il ser Cavaliere addormentato!», e senza pensarci su due volte fece un bell’incantesimo. Una gabbia dorata, larga e comoda ma dotata di solide sbarre.

«Mentre dormi il sonno dell’ingiusto, vado alla ricerca del nipotino Ser Henry di Lothian e lo ficco lì insieme a te».

In uno svolazzo di piume e di ciocche rosse sparì nella notte.

«Ma torniamo a Ser Lancilotto del Lago», disse la voce narrante che si accoccolava bene davanti al pc, altra invenzione del demonio che ai tempi di re Artù manco si sognavano che esistesse.

Dunque il prode ser Cavaliere dormiva alla grossa, e sognava la sua regina che faceva evoluzioni nella sala del trono tra musici e cantori abbarbicata attorno a una pertica. Era un burlesque ante litteram, tra un codazzo di dolci damigelle che gli allietavano la vista e non solo quella.

Urlava a squarciagola: «Bunga, bunga» senza conoscerne il reale significato. Gli aveva fatto colpo quel grido ma ignorava che era un grido degli aborigeni australiani. Quindi ser Cavaliere l’aveva fatto diventare il suo grido di guerra durante le interminabili notti invernali.

Lasciamo il nostro Ser Lancilotto del Lago dormire e sognare, ignaro di quello che la terribile Morgana, la fata, aveva in mente e progettato.

Il giovin Ser Henry viaggiava ignaro del suo destino seguendo quel vecchio marpione di Ser Pier Bears di Sanah, che aspirava a fare le scarpe a re Artù.

«Ditemi, Maestro, dove stiamo andando».

«Seguimi e taci».

«Però vorrei sapere».

«Il troppo sapere fa male».

«Non lo sapevo».

«Ora lo sai».

Ser Pier, armato di lente, era alla ricerca di whim, quei fastidiosi insetti che facevano cri cri quando il caldo si fa atroce, e stavano ai margini del monte che voleva scalare.

«Dove si sono nascosti?».

«Chi, Ser Pier?».

«Ma chi vuoi che siano?».

«Io non lo so».

«Sei troppo giovane e ingenuo».

«Dunque Ser Pier non volete dirmelo?».

«Uffa, quanto siete petulante!».

Ser Henry mise il broncio e se ne stette lontano da Ser Pier, offeso e indignato.

«Forse faceva meglio a stargli accanto, ma si sa che la gioventù morde il freno e vuole sopravanzare i vecchi», continuò petulante la voce narrante.

Era tutto ingrugnato a braccia conserte, quando gli apparve una bellissima fanciulla bionda dagli occhi azzurri e dal fisico avvenente. Una bella topa, pensò Ser Henry.

«Mio signore, perché ve ne state in disparte tutto solo soletto?».

«Ma chi siete, mia dolce damigella?» e le fece gli occhi dolci.

«Sono Siren, della casata di Broad Agreements».

«Che bel nome Siren».

«Anche voi siete un bel giovine».

Ser Henry arrossì al complimento ma strinse gli occhi pensieroso.

«Ma questa casata mi è sconosciuta».

«Ma no, non può essere».

«Ma dico di sì!».

«Vengo come messaggero di mio padre, il valoroso Ser Menhult».

«Non sapevo che questo prode cavaliere avesse una figlia così avvenente».

Con gli occhi la spogliava e avrebbe desiderato darle un morso sul quel collo bianco e lungo.

«Venite con me. Il Ser Cavaliere vi aspetta».

«Ser Lancilotto del Lago?»

«Sì, mio signore».

«Dov’è? Vi seguo subito».

«E abbandonate Ser Pier?».

«Ma chi se ne frega!» e fece una fragorosa risata.

«Ben detto, mio signore. La nostra casata è lieta di avervi con noi».

Balzato a cavallo, galoppò furiosamente verso il fico, dove stava ancora dormendo Ser Cavaliere.

Morgana, la fata, rideva sotto i baffi, anche se non c’erano o almeno non erano ancora cresciuti.

«Corri, sciocco, corri in braccio a Ser Lancilotto del Lago! Vedrai cosa ti aspetta».

Arrivati al fico, Ser Henry vide un bellissimo palazzo. Era una pura illusione ordita dalla terribile strega. Entrò accolto da servitù ossequiante, che erano topi e lucertole travestiti da uomini e donne. Altra magia di Morgana, che continuava a tormentare i propri baffi inesistenti, ridacchiando.

Ser Henry si precipitò ad abbracciare Ser Cavaliere.

«Finalmente possiamo giostrare insieme».

«Certamente», rispose stiracchiandosi.

«Quando si comincia?».

«Cosa?».

«La ricerca».

Ser Lancilotto del Lago strinse gli occhi.

La ricerca? Eh no, caro giovanotto! Tu sei giovane e mi freghi tutte le suorine. Mica mi faccio fottere da uno sbarbatello! Adesso ti depisto”.

«Quale ricerca?».

«Ma quella per la quale sei partito».

«Ah! Ho capito».

«Dunque quando partiamo?».

«Eh! Uhm!».

«Dicevate?».

«Quella è già finita».

«Allora quale?».

«Ci devo pensare… Sì, sì…».

«Vi sto ascoltando».

«Dobbiamo ricercare la germanica e metterla con le spalle al muro…».

«E poi…».

«E poi si vedrà!», concluse Ser Cavaliere.

Morgana, la fata, proruppe in una gran risata.

«E lei chi è?».

«Siren».

«Una gran bella gnocca».

La strega si avvicinò ai due e disse loro: «Una risata vi seppellirà!».

«Cosa?», domandò interdetto Ser Henry.

«Aspettate e vedrete», e sparì.

Ser Lancilotto del Lago ci rimase male.

«La gnocca dov’è volata?».

«Non la vedo più, Ser Cavaliere».

Mentre si guardavano intorno alla ricerca di Morgana, la Fata, sentirono dei botti sopra la testa.

«Pare che grandini».

«Però sono grossi i chicchi».

«Pare anche a me».

Poi una musica demenziale dei Punk a Rock dei Mahones cominciò a percuotere le loro orecchie.

«Ser Cavaliere…».

«Dimmi…».

«È il terremoto. Ci muoviamo?».

«Non ci capisco un cazzo».

«Cosa?».

«Spegni la radio, per Dio!».

«Perduti?».

«Non capisci un cazzo… spegni la musica!».

«Ue! Stiamo ballando!».

Ser Cavaliere scosse la testa ma tutto traballava minacciosamente mentre la musica saliva di tono. Il rombo si avvicinava sempre di più.

«Ser Cavaliere, mi pare di…».

«Ser Henry, cosa ti pare?».

«Vedo una basilica con degli stendardi bianco e gialli…».

«Già brillo di prima mattina. ’Sti giovani, pappemolli».

«C’è anche un fiume sporco…».

«Il cervello in pappa… se non ci fossi io… tutto a puttane…».

«E un palazzo…».

«Ma che dico? Puttane? No, dolci damigelle…».

Un bel botto, uno scossone con rumore di fondo che cresceva.

«Ma spegni quella cazzo di tv!».

«Cos’è la tv?».

Non avevano finito di dire queste parole, quando un rumore furibondo e una fiammata allucinante li avvolse in un sudario di morte.

«Ser Cavaliere, cosa abbiamo fatto?».

«Le larghe intese, Ser Henry».

«Ma che male abbiamo fatto?».

«Non l’hai ancora capito?».

«No!».

Ma non ci fu più tempo per ulteriori spiegazioni, perché fumo e fiamme, rombo e sibili li seppellirono. Un asteroide aveva centrato quel palazzo artificiale costruito da Morgana, la fata, per prendersi una rivincita su di loro.

Dopo il boato assordante, con le orecchie che fischiavano, sentivamo ancora quella musica.
Dove fino a un istante prima si trovava Ser Henry, capo del governo di larghe intese, si apriva una spaventosa voragine. Dall’enorme cratere si levavano nubi di fumo nero.

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E adesso… che faccio?

Nuovo raccontino recuperato dai fondi del cassetto.

Buona lettura.

Foto personale

«E adesso … Che faccio?»

Sono agitata col cuore in gola. Mi specchio e non mi piaccio. Non perché sia brutta, anzi tutt’altro. Sono più alta di tutte le mie compagne. Però c’è qualcosa che non mi piace e mi mette ansia.

«Mi chiamo Rosa. Odio il mio nome. Non capisco perché abbiano avuto un così pessimo gusto da affibbiarmelo. Solo per essere il dileggio di compagne e compagni».

La irritavano quel continuo: «Come sei bella, Rosa!» C’era un risolino di scherno nel pronunciare quelle parole e io ne soffrivo terribilmente. Mi mettevo in un angolo, voltando le spalle agli altri.

Sembravo in castigo ma era volontario. Una auto punizione per quel sarcasmo con cui pronunciavano il mio nome.

Passano i giorni mentre io cresco. Sono la più bella di tutte le mie compagne.

Mia madre dice che sono la migliore di tutti, ma i motti di derisione proseguono più intensi di prima.

«Potevano darmi qualsiasi nome ma non quello. Rosa è un bellissimo fiore profumato che fiorisce per molti mesi all’anno. Tutti lo colgono e lo mettono in bella mostra. Ma io non posso vantarmi del mio nome».

Mi isolo e non lego con nessuno. Come posso farlo quando sono il dileggio di tutti?

Un altro anno è passato, mentre il mio fisico è diventato morbido e sodo. Sono sbocciata come una rosa.

“Maledetto nome!” Sono esacerbata dai risolini di scherno.

Non riesco più a trattenermi. Vorrei essere un tappo di champagne per sbottare e mettere a tacere tutti.

«I miei compagni e le mie compagne hanno nomi altisonanti. Ercole, il forte, Elena la splendente, Bruno e Bianca, che fanno coppia fissa. E ancora Tommaso, che chiamo affettuosamente Tom, all’americana. Chiara e Alba, altre due inseparabili. Dove c’è l’una, c’è sempre l’altra. Luna, dalla pelle argentea».

Non mi do pace. Sempre in movimento ma quel ritornello mi accompagna ovunque vada: «Ma come sei diventata bella, Rosa».

Anziché essere orgogliosa di quel complimento mi fa venire il magone, perché specchiandomi mi vedo uno splendore, la più bella di tutte ma non ne traggo un piacere.

“Cosa me ne faccio di questa bellezza?” mi domando mentre giro libera per i campi che sono dietro la mia casa. “Tutti mi prendono in giro e finirà col portarmi male”.

Me lo sento, che quel nome mi porterà sfortuna.

L’estate con la sua luce accecante e la calura che mozza il fiato è alle mie spalle, mentre l’autunno è alle porte. Gli alberi si tingono di mille colori lasciando cadere ai loro piedi le foglie a formare un tappetto multicolore. Per l’aria si odora il profumo del mosto che fermenta nelle botti.

Abito un casale di campagna e nella fattoria c’è un gran fermento.

«Sederino Rosa è la migliore di tutte. Ha carne soda e profumata. Sarà una delizia…». Queste parole che un giorno di novembre umido e piovigginoso ho ascoltato mi hanno messo in agitazione. Il motivo lo conosco.

Allora corro grufolando, muovendo il codino vezzosamente, verso l’angolo più lontano del mio recinto.

«Maledetto nome! Diventerò prosciutti e salami» dico piangendo.

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Mi chiamo Annie Valentine Cook e sono nata il 14 febbraio… parte terza

Con questa si conclude il mini racconto scovato in fondo al cassetto. Qui trovate la prima e la seconda parte.

Buona lettura.

copertina Amanda e il bosco degli elfi

Un giorno, aveva circa trent’anni, incontrò un uomo che definì “incredibilmente bello” e se ne innamorò perdutamente tanto che non si accorse nemmeno che era sposato con una donna gelosa e possessiva.

Stava salendo al primo piano per raggiungere il monolocale dove viveva da single, quando Susie, la moglie, l’affrontò decisamente.

«Siete una puttana!» le urlò in faccia sulla prima rampa, afferrandola per i capelli e strattonandola. «Lasciate stare il mio Paul!»

«E perché mai dovrei?» chiese ingenua Annie Valentine.

«È mio marito…».

«Tuo marito?» e sgranò gli occhi blu che sembravano contenere tutto il cielo. «Forse avete sbagliato Paul… Quello che frequento è libero come un uccello…”. Cercò di liberarsi dalla presa della donna, che la teneva inchiodata al corrimano per i capelli.

«Sì, come un uccello in gabbia. E la gabbia dorata sono io» replicò ironica con un sorriso storto.

«Lasciatemi!» Aveva il viso contratto da smorfie di dolore, perché lei tirava con vigore i suoi capelli.

«Certo!» e la scaraventò giù dalle scale. «E questo è nulla se vi vedo ronzare ancora attorno a Paul».

L’atterraggio non fu morbido ma nemmeno disastroso, perché era finita su rotoli di corda che le lasciarono solo dei lividi per qualche giorno.

L’uomo, conteso dall’amante e dalla moglie, telefonò una settimana più tardi.

«Mi spiace» cominciò senza troppi tentennamenti come se non dovesse giustificare nulla. «Susie, l’avrai conosciuta, è troppo gelosa ed è capace di tagliarti la gola e di evirarmi, se ti frequento ancora».

Così per l’ennesima volta fu lasciata.

Annie Valentine sull’amaca osservava nel crepuscolo della sera il mare appena increspato da spume bianche. Si domandò perché arrivata a quarant’anni non era ancora riuscita a trovare un compagno stabile ma solo tanti effimeri fantasmi che comparivano e sparivano senza lasciare tracce.

“Io dono tutta me stessa ma loro mi portano via ogni volta brandelli della mia anima senza chiedermi il permesso. Ormai ne è rimasta solo qualche piccola briciola. Non riesco nemmeno più a piangere, perché le ho esaurite tutte. Vorrei un uomo che mi rispettasse e donasse un pizzico d’amore sincero ma non lo trovo. L’unico era…”.

Vide una figura che lentamente camminava sulla battigia, illuminata dal sole morente. Questa si fermò e facendosi schermo la mano, la osservava dalla spiaggia come se fosse incerto se proseguire nella camminata o dirigersi verso il cottage di Annie Valentine.

Lei smise di dondolarsi e aspettò ansiosa.

Prese una decisione e si avviò deciso.

«Ciao, Annie».

«Ciao, Jack».

Si guardarono in silenzio incapaci di parlare. Poi Annie Valentine si alzò dall’amaca e gli prese la mano.

«Vieni». E lo trascinò verso la veranda.

L’uomo si lasciò condurre docilmente verso il patio laterale della casa, come se fosse guidato da un’entità superiore. Si sistemarono su due poltrone di vimini sempre muti e senza parole.

«Ti aspettavo» disse, tenendogli sempre stretta la mano tra le sue. «Sapevo che saresti arrivato. Oggi è un bel giorno».

Jack la guardò incredulo, perché non era vero che era capitato volontariamente da lei. Era giunto per caso su quella spiaggia poco frequentata e nascosta da un canneto di giunchi e mangrovie. Era solo il caso che l’aveva condotto lì. L’aveva riconosciuta ed era rimasto incerto se fermarsi a salutarla oppure no. Non aveva mai saputo dove abitava dopo essersene andato cinque anni prima in una notte stellata di agosto e lo ignorava, finché non si era imbattuto nel cottage durante la passeggiata solitaria.

Era stata l’ennesima serata burrascosa tra accuse e pianti, tra difese timide e sguardi infuocati. Così aveva deciso di troncare ogni rapporto con quella donna affascinante ma decisamente insopportabile. La loro relazione durava da tempo, anche se non ricordava quanto. “Un anno? Oppure due?” e si chiese se avesse importanza richiamare alla memoria la durata esatta. Concluse che erano i ricordi che doveva rammentare, il resto erano dettagli insignificanti. Il flusso della memoria prese a fluire come un tranquillo corso d’acqua che placido scende verso il mare.

Era iniziata sotto i migliori auspici, pareva un rapporto solido basato su un feeling preciso: amore e sesso, equamente suddivisi. Lei era passionale e donava tutta se stessa senza calcoli o fini nascosti. Lui aveva colto quella passione ricambiandola con uguale fervore. L’amore era sbocciato come una rosa in maggio. Da prima timido e acerbo come un bocciolo, poi in tutto il suo fulgore durante la fioritura ma alla fine era sfiorito, appassendo con la perdita dei petali che malinconicamente cadono a terra fino a rimanere nulla.

Una coppia perfetta agli occhi degli osservatori esterni. Lui alto, abbronzato coi capelli biondi, lei esile come un giunco nonostante i suoi trentacinque anni, dalla pelle ambrata come il miele scuro delle api di montagna e con quei due splendidi occhioni blu porcellana.

Però dopo poco iniziarono i contrasti, le incomprensioni, le rotture improvvise e le riconciliazioni inaspettate in un caleidoscopio di gesti e di parole. Jack mal sopportava il fare civettuolo di Annie Valentine, sempre pronta a raccogliere i sorrisi e gli ammiccamenti dei corteggiatori. Per lei non c’era nulla di male perché era un gioco a nascondino innocente e casto. Per lui era come se gli lanciasse una sfida che doveva raccogliere per allontanare quei calabroni insistenti. In questa alternanza di chiaro e di scuro, di esserci o nascondersi esternava di essere gelosa, perché lo voleva tutto per sé egoisticamente. Non sopportava che lui osservasse le altre donne, doveva essere sufficiente tutto quello che gli donava.

Il fluire dei ricordi s’interruppe, spezzando quel silenzio che era calato tra loro.

«Non dici nulla. Hai forse perso la parola?» Usò un tono dolce per far comprendere che era felice accanto a lui.

«Sto meditando che la vita è strana. Il destino ci conduce la dove meno ce lo aspettiamo». Non aveva smesso di fissarle quegli occhi blu che l’avevano stregato la prima volta, quando l’aveva conosciuta.

Annie Valentine corrugò lievemente la fronte e strinse le palpebre.

«Perché?»

«Oggi non dovevo fare questa passeggiata. Avevo un impegno importante, un incontro di lavoro ma all’ultimo istante è saltato tutto. Mi sono ritrovato libero e senza una meta precisa dove andare. Così ho cominciato a camminare per Main Street e soprappensiero mi sono trovato su questa spiaggia solitaria e nascosta che non conoscevo. Sono stato incerto se proseguire oppure ritornare verso le vie centrali popolate di persone chiassose e colorate…». Jack strinse le labbra e provò a riordinare le idee.

«Continua» lo sollecitò. «Continua il racconto, ti ascolto. La tua voce è musica per le mie orecchie».

«Percepivo la necessità di riflettere su di me e sulla mia vita passata, presente e futura. Quindi ho deciso di proseguire la camminata. Il sole al tramonto, il mare infuocato dai raggi solari che si immergevano nelle acque dell’oceano hanno fatto il resto».

Jack osservava quel viso che non pareva invecchiare ma rimanere sempre uguale a se stesso: giovanile e senza rughe come se il tempo si fosse fermato cinque anni prima. La fissò prima di porre quell’interrogativo che lo stava tormentando da quando lei l’aveva invitato sul patio. Una domanda stimolata dalla curiosità di conoscerne la risposta.

«Perché sapevi che sarei venuto?» chiese senza abbassare lo sguardo.

«Il cuore» rispose Annie Valentine. Una risposta semplice. «Il cuore» ripeté con calore.

L’uomo scosse il capo. Non era la risposta giusta. Il cuore può pensarlo ma il destino decide senza tenerne conto. «No. Il cuore comanda la mente ma non il destino».

Fece una breve pausa inspirando l’aria calda del tramonto prima di ripetere la domanda. «Come facevi a essere così sicura che sarei arrivato?». Adesso era certo che l’aveva compresa.

«Sono qui da giorni, da mesi, da anni in attesa del tuo arrivo senza perdere la speranza di rivedere il tuo viso, di riascoltare la tua voce, di toccare le tue mani. Come puoi osservare la pazienza è stata premiata».

Trasse un profondo respiro prima di riprendere la spiegazione.

«Da quando mi hai lasciato senza concedermi nemmeno il saluto conclusivo dopo l’ultima notte di passione, ho venduto la vecchia casa e mi sono trasferita qui in attesa del tuo ritorno. Sono stati anni bui e silenziosi senza una luce che li rischiarasse. Ho avuto pazienza senza mai perdere la fiducia in me stessa e la speranza che un giorno saresti passato di qui».

Annie Valentine tacque fissandolo senza incertezze negli occhi.

Jack non comprendeva il senso di quelle parole. Si erano lasciati burrascosamente cinque anni prima senza mai incrociarsi neppure casualmente. Per lui quel capitolo era chiuso per sempre e aveva cancellato dalla sua mente quel viso morbido e vellutato, quegli occhi luminosi e quello splendido corpo. «Mai e poi mai avrei ricominciato. Ho sofferto troppo per riprendere un rapporto eccitante e stimolante ma altrettanto snervante e ricco di imprevisti».

La mano calda di lei gli trasmetteva un senso che non riusciva a decifrare. «Ma oggi sono qui e la magia dell’esserci ha preso il sopravvento sulla razionalità del ignorare».

Annie Valentine, quando si erano frequentati, viveva in bella casa di legno sulla Main Street circondata da un giardino ben curato. Adesso era in cottage al limite della battigia, isolato e lontano dal caos chiassoso e dai rumori della città.

«Come potevo immaginare di trovarti qui?» Di nuovo sorgeva la domanda che lo stava assillando dal momento che l’aveva rivista. Scosse il capo perché non poteva credere che l’avrebbe incontrata dopo tutti quegli anni. Aveva giurato che sarebbe uscita dalla sua vita per sempre e non sarebbe mai più rientrata. “Per sempre? Che vacua parola è questa, priva di significato perché per sempre è solo un effimero spazio temporale che dura meno della nostra vita”. Invece si ritrovava sulla veranda di un cottage, seduto a osservare quegli occhi, che l’avevano stregato tanti anni prima, con lei che le teneva la mano.

Percepì che il vecchio fuoco non era morto ma covava silenzioso sotto uno spesso strato di ceneri. Era stata sufficiente una piccola scintilla per riattizzarlo, mentre riprendeva vigore. Si domandò se era saggio riallacciare i fili del passato, che erano pieni di nodi che non potevano essere sciolti. “Non è pericoloso credere che cinque anni siano passati invano, che ieri è oggi e che oggi sia domani?”. Una forza irrazionale lo stava prendendo per mano per condurlo verso un domani del quale non conosceva i contorni. Non si riconosceva in quest’uomo tanto diverso da quello pragmatico e freddo che era conosciuto da tutti.

Anche Annie Valentine avvertiva l’urgenza di trattenerlo. Era stato l’unico uomo della sua vita al quale aveva donato e dal quale aveva ricevuto qualcosa in cambio, anche se come tutti gli altri l’aveva lasciata. “Poco. Ma sufficiente a scaldare il cuore. Jack non crede che il cuore abbia avuto una grossa parte nel suo arrivo qui. Il cuore comanda anche il destino che si piega ai suoi desideri”.

Percepiva che era giunto il momento di piantare le radici, di costruire un futuro non più incerto e nebbioso ma chiaro e limpido. Era forte stavolta la sua volontà di costruire un percorso comune abbandonando i vecchi sentieri fino a quel momento battuti senza apprezzabili risultati. Dovevano tracciarne uno totalmente nuovo ma insieme e con la forza di un sentimento che non era mai morto.

Questa volta non avrebbe offerto il suo corpo per trattenerlo ma sarebbe stato lui a decidere se per il sì o per il no.

Non temeva una risposta negativa. L’avrebbe accettata come aveva accolto tutto quello che la sua vita le aveva offerto fino a quel istante. Nondimeno aveva una certezza perché il cuore non l’aveva mai ingannata come facevano gli altri sensi. Erano mesi che preparava la tavola per due ed erano mesi che la sparecchiava come se fossero in due a cenare.

«Fermati qui con me stasera» chiese con un tono dolce e vellutato. Non era una preghiera ma un invito da accettare o respingere. «La tavola è pronta. Le candele basta accenderle».

«E cosa serve per una cena serale al lume di candela?» La voce era ironica ma era incrinata dal desiderio di rispondere sì.

«Solo amicizia,..» e fece una pausa a effetto prima di riprendere il discorso. «Se però è amore, ti ritrovi qui a colazione».

FINE

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Mi chiamo Annie Valentine Cook e sono nata il 14 febbraio… parte seconda

Ecco la seconda parte di questo vecchio racconto. La prima parte la trovate qui.

Buona lettura.

Alba – foto personale

Si sentiva sola nella grande casa prospiciente il mare, che intravedeva attraverso l’ampia vetrata del salone. Un mare blu trasparente appena increspato da onde basse invitava a essere solcato dalla fantasia imbarcata su una minuscola nave a vela.

Vedeva i velieri corsari che si avvicinavano alla costa per rapire fanciulle per i loro piaceri e fare bottino di oro ed argenti. Sentiva un brivido di piacere nella schiena al pensiero di essere ghermita, afferrata da uomini rudi e forti e trascinata sulla battigia prima di sparire nella stiva oscura e maleodorante. Però il pirata Barbanera l’avrebbe portata nella sua stanza per possederla nel grande letto posto a poppa.

La sua mente continuava a fantasticare su questa storia, che avrebbe gettato nel terrore più di una donna, un’avventura invece che lei pregustava nei minimi dettagli.

Sarebbe diventata la donna del pirata Barbanera, che avrebbe atteso a terra, tremante di paura e piena di ansia ogni volta che lui avesse solcato il mare per le scorribande corsare.

Lei sarebbe corsa verso il suo uomo abbracciandolo e baciandolo, mentre lodava Dio che l’aveva preservato dalla morte.

Avrebbe ascoltato impaziente rannicchiata fra le braccia il racconto dell’ultima avventura, che narrava di morte e di orrori, di oro e argenti, di vascelli spagnoli sventrati e bruciati.

Poi non sazia avrebbe chiesto di raccontare gli altri assalti, le battaglie con gli spagnoli, i saccheggi e le canzoni corsare.

Così tutta la notte prima di giacere con lui nel letto sottratto al Viceré delle Antille per godere della passione e dell’amore del pirata.

Il sole calava rosso e infuocato sull’oceano, quando si svegliò dal sogno che aveva cullato fra le braccia, mentre si ritrovava sola sull’amaca a dondolarsi.

E pianse la sua solitudine.

Era una splendida bambina coi capelli scuri e la carnagione leggermente ambrata come se si fosse dorata sotto il sole. Quel colore metteva in risalto il viso delicato e due grandi occhi blu porcellana, ereditati dal padre e spiccavano nel complesso di quella figura acerba. Quando il primo giorno della Primary School si presentò al cancello del college, la suora guardò male prima lei poi la madre e storse il naso.

«Non si accettano bambine di colore. Avete sbagliato ingresso. Più avanti c’è la scuola pubblica» disse con tono acido sbarrando il passo.

Patricia la fulminò e senza aprire bocca avanzò trascinando Annie Valentine per guadagnare il grande portone.

«Dove credete di andare?»

«Nel St. Therese’s College. Ora fattevi da parte, perché devo entrare». Patricia aveva lo sguardo fiammeggiante e accennò a spingere da parte la suora. «Se non vi sbrigate, domani andrete a spazzare i corridoi».

L’alterco, che stava radunando una piccola folla di curiosi, non sfuggì alle attenzioni di Madre Marie, la superiora, che accorse immediatamente.

Annie Valentine era frastornata, perché non comprendeva tutto quel trambusto. Avrebbe fatto volentieri a meno di andare a scuola ma la madre le aveva spiegato che era un posto dove avrebbe conosciuto altre bambine e imparato a leggere e a scrivere. Però il primo impatto non era quello che le avevano descritto i genitori. Suore altezzose, bambine che arricciavano il naso vedendola.

«Che sta succedendo?» chiese Madre Marie, osservando prima la consorella poi la donna di colore.

«Nulla» rispose calma Patricia. «Questa suora» e la indicò col capo «mi ha sbarrato l’accesso senza motivo. Mi ha impedito di accompagnare Annie Valentine Cook, mia figlia, di entrare nella scuola, alla quale è iscritta».

Il nome le suscitò un ricordo e un lampo nella mente. Era la figlia di un commodoro della Royal Navy. A Plymouth era conosciuto e stimato, soprattutto adesso che infuriava la guerra, con l’Inghilterra sotto attacco, un personaggio importante da trattare con tutti i riguardi.

«La prego di scusare sorella Agnes, che non l’ha riconosciuta. È un onore avere nel nostro college la figlia del commodoro Cook». Con falsa deferenza si mise da parte per farle entrare senza prima fulminare con un’occhiataccia la suora guardiana, per nulla convinta del proprio errore.

Non fu l’unico episodio sgradevole che Annie Valentine conservava nella mente di quei lunghi sette anni trascorsi in questa scuola esclusiva e altezzosa tra angherie e piccoli soprusi che subì da suore e campagne.

Con immenso sollievo salutò tutti nell’agosto del 1947 quando per l’ultima volta varcò quel cancello che le erano apparse come le sbarre di una prigione dorata. Adesso era una splendida ragazzina di tredici anni dal seno acerbo e dalle movenze feline e suscitava l’ammirazione dei coetanei e le invidie delle altre ragazze magre e dal viso deturpato dall’acne giovanile.

La rigida educazione religiosa del college lasciarono un’impronta indelebile nel suo carattere ingenuo e aperto. Mostrava verso il suo prossimo una fiducia spontanea e sincera, senza ravvisare malizie o fraintendimenti. Questa semplicità nel carattere la rendeva vittima di sottili tranelli, nei quali cadeva quasi senza accorgersene.

Quando nel dicembre dello stesso anno salpò coi genitori per fare ritorno nell’isola di Antigua, la sua spensierata innocenza fu oggetto di molte attenzioni da parte di uomini che avrebbero desiderato possederla. Sembrava più matura della sua età, come se fosse una ragazza di qualche anno più vecchia. Sarebbe caduta nella rete di queste persone se i genitori non l’avessero tenuta sotto controllo.

A diciotto anni era diventata una splendida fanciulla corteggiata da moltissimi uomini. Era un fiore da cogliere ma non era ancora arrivato il momento di recidere il gambo. Lei era indecisa a chi donarsi per prima, non vedeva inganni nelle loro attenzioni ma un sottile gioco di corteggiamento.

“Le suore mi hanno insegnato di mantenermi pura fino al giorno del matrimonio” si diceva mentre sdraiata sulla sabbia bianca della spiaggia di Deep Bay si dorava sotto il sole di giugno. “Mi domando per quale motivo dovrei conservarmi casta. Sento un forte richiamo verso gli uomini. Loro mi ronzano attorno fastidiosi come calabroni. Ma tutto questo mi eccita e mi stimola eroticamente”.

Era luglio 1955, quando seduta sul molo del porto di St. John’s vide sbarcare da una nave da crociera un ragazzone biondo, alto come una guglia della cattedrale. Rimase affascinata, lo seguì con lo sguardo finché non sparì tra la calca della folla. Stanca e annoiata riprese la strada di casa, mentre il sole picchiava duro. Non pensava più a quel ragazzo, quando all’improvviso lo incrociò su High Street. Ebbe un tuffo al cuore, si fermò per osservarlo con cura mentre camminava spedito con una piccola valigia verde.

“Dove sarà diretto?” si chiese, sperando che le chiedesse qualche informazione.

Come se un sottile filo avesse guidato i pensieri dell’uomo, lui si fermò alla ricerca di qualcuno. La vide ferma sul marciapiede e si avvicinò.

«Mi scusi» e posò la valigia per terra. «Saprebbe indicarmi dove si trova Green Bay Hotel? Mi hanno dato le indicazioni ma credo di essermi smarrito».

Annie Valentine non rispose subito come se fosse stata colpita da un’improvvisa afasia, poi si riscosse sfoderando un sorriso luminoso, mostrando una dentatura perfetta e candida.

«Se vuole, l’accompagno. Le spiegazioni sarebbero complicate».

«Grazie volentieri» e riprese la valigia.

Così iniziò l’avventura con John, un gallese galante ma rude e infingardo, che le fece conoscere i primi segreti del sesso. Annie Valentine si sentì attratta da lui a prima vista e perse il senso delle proporzioni. Non riuscì a distinguere le bugie evidenti che raccontava dalle verità che non volle mai accettare. Il loro rapporto fu tumultuoso nonostante l’opposizione di Patricia, che aveva intuito la vera natura di quel ragazzo biondo come il grano maturo.

«Lascialo» disse un giorno di settembre sua madre. «Ti sta nascondendo la verità su di lui e la sua famiglia. È un bugiardo nato. Ci evita come la peste, perché sa che smaschereremo le sue presunte verità in un batter d’occhio».

«Pat» disse la ragazza, che chiamava sempre sua madre col nick. «Lo amo e lui ama me. Mi ha chiesto di sposarlo. Se fosse per lui anche domani».

«Bene» rispose sorridente come se la gatta che era in lei avesse avvistato il topolino col quale giocare prima di ucciderlo. «Invitalo domani sera a pranzo. Io e tuo padre saremo lieti di accoglierlo come futuro genero».

Annie Valentine riferì a John l’invito di sua madre per la sera.

«Alle otto di domani sera. Sarai puntuale?» domandò con la voce tremolante per una risposta negativa.

«Puntualissimo. Sarà un vero piacere incontrare i tuoi genitori» replicò sorridente e gentile.

Il giorno dopo era sparito. Si era volatilizzato. Nessuno sapeva dov’era, nemmeno gli amici più fidati. Qualcuno affermò d’averlo visto sul traghetto notturno diretto alla Giamaica, altri imbarcarsi su una nave salpata verso il continente. John non si fece più vivo, lasciando Annie Valentine nel dolore più atroce col cuore spezzato. Pianse per lunghi giorni, nonostante Patricia tentasse di consolarla e farle intuire che tutto sommato le era andata bene, perché quel gallese era un farabutto, un bugiardo matricolato.

Lei era troppo sincera e passionale per non cadere nei tranelli dei corteggiatori. A volte era persino ingenua nel non credere alle evidenze dei fatti.

…Continua…

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Mi chiamo Annie Valentine Cook e sono nata il 14 febbraio… parte prima

Questo racconto scritto nel lontano 2008 nasce dalla lettura di un incipit tratto da “Sex and the City” di Alexandra Eminsley, De Agostini trad. di Ida Rubini, pag 286 €15 ©Onions Publications Ltd 2007 ©Istituto Geografico De Agostini, Novara, 2008. Letto sull’inserto del sabato di La Repubblica “ALMANACCO DEI LIBRI” di sabato 9 febbraio 2008.

Buona lettura

Copertina Luca e altri racconti

«Mi chiamo Annie Valentine Cook e sono un bel mistero per me stessa. Non indovinerete mai perché il mio secondo nome è Valentine. Lo sapete già? È vero. Avete centrato il bersaglio. Sono nata il giorno di San Valentino. I miei genitori, un brillante ufficiale della Royal Navy e una ballerina di flamenco si sono sposati giovanissimi. Lui aveva ventidue anni, lei diciotto. Mia madre, Patricia, è originaria delle Indie Occidentali nella meravigliosa isola di Antigua. È bella, bellissima, una creola dalla pelle ambrata come il miele scuro delle montagne. Il giorno di San Valentino del 1933 ha visto un ufficiale della Royal Navy alto e impeccabile nella sua uniforma bianca scendere dall’incrociatore Queen Victory, attraccato nel porto di Sant John’s. “Quell’uomo sarà mio” si disse convinta. Era John Mark, mio padre. È stato un colpo di fulmine e si sono sposati due giorni dopo, perché J.M., come lo chiamava Patricia, doveva ripartire con la sua nave da guerra. Tre mesi dopo è tornato a prenderla per portarla in Inghilterra, dove sono nata il 14 febbraio del 1934. Avevano previsto una vita sentimentale per la loro primogenita di tutto rispetto. Il mio visino a cuore, il mio secondo nome, Valentine, e la mia data di nascita non potevano che condurmi alla passione e all’amore, dovunque dirigessi i miei passi. Invece no, l’unico risultato tangibile è stato di essere mollata. Mollata al ristorante, mollata nella tromba delle scale, mollata al cimitero: che importa dove? Dovunque ho diretto i mie passi, qualcuno ha pensato bene di calpestarmi. Se Left1 fosse una località, il sindaco avrebbe già dovuto consegnarmi la chiave della città. E se Left fosse un reame ne sarei la regina».

Annie Valentine Cook ormai era oltre la soglia dei quarantanni e non li dimostrava. Splendida pelle dorata in modo naturale, eredità della madre Patricia, e portamento austero, assunto dal padre John Mark, la rendevano gradevole agli occhi degli uomini. Questi si accalcavano attorno a lei come api in un campo di lavanda. Però analogamente al comportamento degli imenotteri dopo avere succhiato tutto quello che c’era da poppare se ne andavano senza alcun rimorso, svolazzanti in cerca di altro cibo. A differenza delle api operaie, tutte femmine, loro erano maschi solo desiderosi di impollinare Annie Valentine.

Così cominciavano le storie e così finivano in fretta le stesse. Lei era passionale e calda come la madre, ma a differenza della genitrice non riusciva a conquistare nessuno.

Patricia e John Mark si conobbero in un locale notturno delle Indie Occidentali, prima che la federazione di smembrasse negli anni seguenti in un nugolo di micro stati. Lei era originaria di Montego Bay, ma aveva vissuto dall’età di sei anni nella capitale di Antigua, Sant John’s, dove lavorava come danzatrice di flamenco al Kitty’s Hall. Lui era di stanza da un anno a Port Royal come ufficiale della Royal Navy nell’isola caraibica della Giamaica. Quella sera si recò con altri ufficiali da Kitty’s ad assistere allo spettacolo, dove la stella era Patricia. Quando lo vide entrare, decise di superarsi per attirare i sguardi di quell’ufficiale alto e imponente dai lineamenti regolari. A lei sembrava un dio della mitologia greca e avrebbe fatto carte false pur di conoscerlo.

“Devo farlo mio adesso oppure mi sfuggirà per sempre” si disse mentre sensuale ballava sull’onda della musica.

Lui rimase folgorato da quel corpo flessuoso ed erotico che si muoveva con grazia al ritmo del flamenco. Non riusciva a staccarle gli occhi da dosso. Ne aveva sentito parlare dagli altri ufficiali che c’erano stati nelle serate precedenti. Rifletté che la realtà superava di gran lunga l’immaginazione.

“Ci devo parlare. Come? Non lo so ma ci devo riuscire prima di lasciare il locale” si disse mentre l’osservava senza battere ciglio. Era alto, biondo con gli occhi blu porcellana, che avevano incantato più di una ragazza, ma lui cercava l’esotico, la donna particolare senza trovarla almeno fino a quella serata. Credeva in una leggenda orientale, che aveva ascoltato tante volte durante i viaggi nell’estremo oriente nel mar della Cina. Parlava di un filo rosso invisibile che lega le vite di due persone. Non aveva importanza il sesso ma contava che queste due un giorno si sarebbero incontrate senza lasciarsi mai più. Non sapeva quando ma era certo che sarebbe accaduto. Così il fato o meglio Eros decise che Patricia e John Mark si incontrassero. Tutto capitò per caso o almeno così apparve in apparenza. Lui era seduto al tavolo con Paul, David ed Eddie, quando lei passò nelle vicinanze volutamente per farsi notare e ammirare dall’uomo che aveva stabilito che sarebbe stato suo. Un bianco alticcio l’afferrò per un braccio per darle un bacio e stringerla a sé, ma lei non gradiva quelle attenzioni grossolane, mentre cercava di divincolarsi. John Mark si alzò e dall’alto del suo metro e novanta scaraventò a terra il malcapitato ubriaco, liberandole il braccio. L’uomo cominciò a imprecare con mio padre e, prima di poter reagire, fu preso da due buttafuori e senza troppi complimenti gettato come uno straccio fuori dalla porta.

«Grazie» sussurrò Patricia, mentre lo guardava languida.

«Siediti qui con noi».

«Non posso sedermi coi clienti del locale» disse, prima di aggiungere. «Però al termine dello spettacolo, sì».

«A che ora?» La guardava fisso negli occhi senza accennare a nessun movimento del viso.

«A mezzanotte».

«Bene. A quell’ora ti aspetterò qui».

Patricia si allontanò sotto il suo sguardo attento e interessato

John Mark sorridente si sistemò al tavolo e finì il suo rum. Diede un’occhiata circolare ai compagni tavola e mostrò una bella dentatura candida.

«Amici. Voi potete rientrare a bordo. Io resto a terra. Oggi è il mio giorno di permesso».

«Hai colpito e affondato quel naviglio leggero» replicò ironico Paul.

Una risata concluse quella battuta a cui lui rispose per nulla imbarazzato: «Però tu avresti voluto affondare quella splendida giunca».

«E chi avrebbe rifiutato un simile boccone» ribatté David.

A mezzanotte in punto riapparve Patricia, ancora più luminosa negli abiti sgargianti delle isole caraibiche.

«Dove?» le chiese, porgendole la mano.

«A casa mia» e gliela strinse con sensuale movimento.

Nessuno dei due si era presentato, come se conoscessero i loro nomi da una vita. La notte fu splendida come il cielo stellato di quel 14 febbraio.

Fu un autentico colpo di fulmine e due giorni dopo erano sposi. John Mark doveva ripartire con l’incrociatore per le esercitazioni navali.

«Patricia rimase da sola a Sant John’s per tre mesi. Mio padre, richiamato in patria, la portò con sé a Plymouth, un posto uggioso rispetto al clima di Antigua»

Annie Valentine sospirò a quei ricordi che sua madre le aveva raccontato tante volte. «Il 14 Febbraio del 1934 nacqui io, Annie Valentine, la loro primogenita in quella città che era diventata la nostra residenza, anche quando John Mark rimaneva lontano per mesi».

Annie crebbe e frequentò la Primary School presso le suore di Santa Teresa, che era una specie di collegio chic ed esclusivo di quella cittadina nel sud ovest dell’Inghilterra nella contea di Devon. Suo padre si congedò a trentacinque anni dalla Royal Navy e d’accordo con Patricia decise di tornare in Antigua, dove aveva intenzione di aprire un locale alla moda nella capitale dell’isola. Il progetto andò in porto anche con l’aiuto di Patricia, la cui bellezza non era per nulla sfiorita nella grigia e nebbiosa Plymouth.

Annie crebbe, completò gli studi presso una scuola privata gestita da inglesi e diventò una splendida ragazza.

Adesso, ormai quarantenne, desiderava un uomo con cui avere un figlio e condividere gli anni futuri, ma trovava solo persone desiderose di soli rapporti carnali e basta.

Si era lasciata sprecare troppo concedendosi per passione e amore mai corrisposti. Era un fiore da cogliere e non da impollinare, da succhiare e da abbandonare dopo essere stata sfruttata. Sapeva donare all’uomo del momento un’intensità di passione e un amore che non aveva paragoni, ma il suo modo di proporsi ingenuo e sincero invece di avvicinare gli uomini, li allontanava inesorabilmente.

CONTINUA…

1Left è il participio passato di to leave ovvero lasciato, abbandonato. Piccolo gioco di parole.

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Metti una sera a teatro – parte seconda

La seconda e ultima parte del racconto. La prima la trovate qui.

Foto personale

Irene si alzò e uscì prima che Jacques Saint Just salutasse il pubblico e si ritirasse nel camerino.

«Dov’è il camerino dell’artista?» chiese all’addetto del ingresso.

«Nel corridoio la seconda porta» rispose indicando con la mano il percorso.

Si avviò con passo deciso verso il punto dove l’uscio si confondeva con la parete. Era in preda all’agitazione per l’emozione, che l’aveva turbata, facendola piombare in anni lontani. Bussò con discrezione e attese che qualcuno si facesse vivo.

«Desidera?» chiese una donna facendo capolino dalla porta appena socchiusa.

«Devo vede Monsieur Saint Just» disse con un filo di voce come se questa non volesse uscire dalla gola.

«Non è possibile. Deve aspettare la fine del concerto» replicò accennando a richiuderla.

«Ho un appuntamento con lui rispose con un tono convincente.

«Aspetti» e sparì.

Dopo qualche istante ricomparve e le fece cenno di seguirla.

La contessa sentì crescere dentro di sé un mix esplosivo di gioia e angoscia che lottavano tra loro. La decisione di vedere il pianista era stata emotiva, irrazionale ma adesso pareva pentita dell’iniziativa. Non poteva più tornare indietro. Entrò in una stanzetta disadorna e lo vide.

«Jacques!» esclamò con gli occhi che ridevano per la gioia allargando le braccia per abbracciarlo.

«Irene! Che bella sorpresa! Non sapevo che tu fossi qui».

L’artista si alzò dalla sedia, stringendola forte. Un abbraccio che pareva non finire mai.

«Lasciati ammirare!» mormorò osservandola. «Sei più bella di quella che ricordavo. Allora eravate una fanciulla acerba, ora siete una donna meravigliosa piena di charme e nel fiore della vita».

Le labbra si unirono in un bacio caldo e passionale. Poi si staccarono per scrutarsi a vicenda. Erano commossi per essersi ritrovati dopo tanti anni. L’occhio era lucido ed era pronto a lacrimare.

Le girò intorno, stentando di riconoscere quella fanciulla alla quale aveva insegnato i primi rudimenti di musica nella Parigi scapestrata e bohemien del dopoguerra. Irene lasciò scorrere una lacrima, ricordando quegli anni felici trascorsi con Alberto e tutti quegli artisti che l’avevano allevata e coccolata come se fossero tanti padri e tante madri.

«Oh!» un sospiro e basta. Avvertiva la necessità di ascoltare quella voce calda e di essere tenuta stretta da quelle mani affusolate da pianista. «Oh, Jacques!» ripetè con la voce roca per l’emozione.

«Sst!» e le mise un dito sulla bocca. «Tenez» le disse allungandole una sedia. «Aspettami fino al termine del concerto. Nessuno verrà a disturbarti» e uscì per riprendere a suonare.

La signora Massone si girò verso il fondo e cercava la contessa con lo sguardo senza vederla. Si aggirò per la sala e nel vestibolo alla sua ricerca.

«Irene se ne è andata» confidò a Ivana con tono deluso. «Quel pianista francese non era di suoi gradimento».

«Io l’ho trovato fantastico. Suonare con quel antico pianoforte dal timbro forte e deciso è stata una delizia per le mie orecchie» rimarcò aggrottando le sopracciglia. Non comprendeva i motivi per cui era venuta, se poi non aveva apprezzato la musica.

«Rientriamo. Tra qualche istante il concerto riprende» disse Paola spingendo verso i loro posti l’amica.

Irene si sedette immobile sulla sedia, mentre in lontananza udiva quel suono melodioso. Quei lontani giorni adesso sembravano vicini come se fosse ieri. Quel ragazzo gentile, più vecchio di lei di qualche anno, era diventato un uomo, affascinante e gentile. “Se mi vedessero tutte quelle odiose filistee, pronte solo a pettegolare, e quello sciocco di mio marito, smorto come un cencio slavato, capirebbero quanto ero felice a Parigi. Ero in una casa sempre allegra e piena di gente sincera e rumorosa”. Era venuto finalmente il tempo di parlare a cuore aperto con qualcuno che stimava e amava. Voleva sentire la sua opinione, cosa avrebbe potuto dirle sulla sua condizione. La musica, che debole arrivava alle sue orecchie, accompagnava in sottofondo i suoi pensieri mentre rigida sedeva in quella stanzetta scarsamente illuminata e disadorna.

Avvertì l’aprirsi della porta e lo vide entrare pallido e sudato, ancora fremente per l’impegno nel suonare il fortepiano.

«Jacques» disse alzandosi per accoglierlo.

Lui la scostò con gentilezza. «Lasciami asciugare il sudore e poi sono da te».

Dopo qualche attimo le prese le mani e gliele baciò. «Quanti anni sono passati dall’ultima volta che ti ho vista?» chiese fissandola negli occhi.

«Troppi» fu la sola risposta che seppe dare.

«Sei una donna affascinante e meravigliosa. Ma raccontami di te» le chiese tenendole sempre la mani con forza.

«Oh, no. Ci vorrebbe troppo tempo e non ne abbiamo a sufficienza» rispose dispiaciuta.

«Allora mi racconterai mentre di accompagno a casa oppure c’è qualcuno che ti aspetta?»

«No, sono sola. Parleremo di noi durante il tragitto».

«Bene. Il tempo di raccogliere le mie cose, salutare qualcuno e poi sono pronto» spiegò mentre metteva in una borsa qualche oggetto, appoggiato su un tavolino d’angolo.

Uscirono e le disse di attenderlo. Sparì inghiottito da una porta che nella semioscurità del corridoio si materializzò per dissolversi di nuovo.

Irene rimase nell’ombra, osservando gli ultimi spettatori che rumorosamente si avviavano verso il portone di uscita. Aveva le guance che avvampavano di calore per l’agitazione interiore, mentre la testa le girava per la forte emozione della vista di Jacques.

«Eccomi» disse ricomparendo vicino a lei. «Possiamo andare».

La prese sotto il braccio mentre scendevano lo scalone appena illuminato da poche lampade, mentre le ombre dei quadri continuavano a scrutarli, disapprovando.

«Chiamo un taxi?» chiese premuroso, stringendola con calore.

«No. Possiamo fare quattro passi a piedi. La mia casa non dista molto. E poi avrei l’auto parcheggiata in quella grande piazza laggiù» e indicò col capo un lontano chiarore sullo sfondo di una via dritta.

L’uomo gettò uno sguardo distratto verso quel punto che non gli diceva nulla e riprese a parlare.

«Dunque raccontami tutto. Come stai? Cosa fai?»

«Oh, Jacques! Non sai quanto ho sofferto. Mi hanno torturata, imponendomi il loro stile di vita. Non potevo sfuggire alla loro persecuzione. Non potevo scappare, perché ero senza un soldo, nemmeno per affrancare una lettera e chiedere aiuto. Mi hanno costretta a riprendere gli studi, a prendere lezioni di bon ton, a stare in società. Un mondo frivolo e senz’anima, pronto solo a bruciare sul rogo della vanità chi osava starsene ai margini o chi era dissenziente. Avrei voluto fuggire. Ma dove?»

Irene fece una pausa per consentirgli di replicare.

«È terribile quello che dici. Una condizione orribile». Tacque per invogliarla a proseguire.

«Ero senza amici, senza nessun col quale confidarmi. Mi sentivo sola. Avrei voluto morire. Bon Dieu, tu poi non immagini cosa dicevano di Alberto, che era il diavolo, anzi il capo di tutti i diavoli dell’universo. Non potevo difendere mio padre, perché secondo loro ero stata la vittima sacrificale di un uomo senza testa e senza ritegno. Riesci a concepire mio padre come se fosse un arcidiavolo? Tu l’hai conosciuto…».

«Sì, lo ricordo bene. Un gran uomo pieno di amore disinteressato verso gli altri» e fece un sorriso, mentre la stringeva con maggior vigore.

Erano ancora sotto i portici del Collegio, quando le pose una domanda. «Ci fermiamo da qualche parte, così possiamo continuare la nostra chiacchierata al caldo?»

«Se non hai fretta possiamo fermarci nella dependance della mia villa. È l’unica cosa che possiedo. È tutta mia e là mi rifugio per ritrovare me stessa».

Camminarono spediti lungo il viale, mentre lei le raccontava altri particolari della sua vita.

«Dopo qualche anno al termine degli studi il conte Cittadini chiese la mano a mio zio Matteo, che fu ben felice di rispondere sì. Così finii sposa di quest’uomo grigio e monotono. Ero diventata la sua prigioniera senza possibilità di fuga. Sono sposata da cinque anni ma mi sembrano cinque secoli».

«Mon Dieu!» esclamò Jacques. «Hai avuto un’esistenza travagliata, a quanto pare».

«Sì» affermò con la voce ridotta a un sussurro, mentre si scostava. «Siamo arrivati» e prese una chiave per aprire il cancello.

Si avviarono per un viottolo oscuro verso una costruzione bassa e buia, contornata da piante e cespugli che apparivano come neri custodi dell’abitazione.

Sentiva scorrere il sangue nelle vene come mai le era capitato negli ultimi anni dopo tanto grigiore della vita matrimoniale. Era felice e spaventata allo stesso istante. Era rapita dall’uomo che stava al suo fianco ma ne percepiva anche la pericolosità. “Cosa ci vado a fare nella dependance?” si chiese trepidante e ansiosa. Era un tuffo nel passato, a quel passato che non aveva mai smesso di sognare neanche quando faceva all’amore con Antonio, suo marito. Le serviva per sopportare quell’atto che compiva senza amore e senza stimolo solo per adempiere a un dovere, perché così le avevano insegnato.

Ma è veramente un dovere oppure una costrizione?” rifletté mentre in silenzio si avvicinava alla porta d’ingresso. Sapeva che stava varcando le colonne di Ercole e avventurarsi in un mare ignoto. Però avvertiva la necessità di condividere con qualcuno che aveva amato il contenuto di quello che provava dentro di sé. Fremeva sia per l’impazienza di passare quell’uscio sia per il terrore di quello che sarebbe successo.

Sei ancora in tempo, Irene” pensò. “Puoi fermarti lì e ringraziarlo per la compagnia. Ma lo vuoi proprio mandare via?” Si coricò per prendere la chiave dalla fioriera accanto alla porta.

Entrarono e accese le luci, che illuminò una stanza di modeste dimensioni.

«Ecco questo è il mio regno che nessuno prima di te ha mai violato» disse mostrando con un ampio gesto della mano la camera dinnanzi a loro. «Ecco qui i miei tesori, i miei ricordi».

Le pareti erano ricoperte coi quadri del padre, su un mobile basso campeggiava una sanguigna dove era ritratto Jacques al piano. Ovunque c’erano ricordi di Parigi, del padre, dei loro amici.

«Ti piace» chiese trepidante, perché sentiva pulsare dentro di sé l’emozione e la gioia dell’amore, come una quindicenne in preda a una crisi ormonale.

Lui si guardò in giro, poi osservò la donna. Si tolse il cappotto e la sciarpa che gettò in un angolo, mentre lei tremava per un amore selvaggio come se fosse il primo della sua vita. Percepiva che doveva donarsi, che la doveva possedere ma non osava fare il primo passo. Rimase ferma e muta in mezzo alla stanza con il mantello ancora in dosso.

«Vieni» le disse avvicinandosi. «Ti aiuto a togliere…».

«No!» gridò in un sussulto di vergogna ma non si mosse e lo lasciò fare.

«No! Non toccarmi!» ripeté più di una volta ma senza opporre resistenza. Poi si abbandonò voluttuosa fra le sue braccia.

Era quasi mezzanotte quando rossa in viso, accaldata e coi vestiti in disordine fece l’ingresso nella villa.

Si avviò verso la scala per raggiungere la sua stanza.

«Sei tornata?» chiese Antonio, uscendo dal salotto del pianoterra. La scrutò, la guardò con attenzione e tenendo un libro in mano si informò sulla serata.

«Com’è andata?»

«Ottima musica» rispose preparandosi a salire per sfuggire all’occhio del marito.

«Sei spettinata» incalzò seguendola.

«C’era vento mentre rincasavo».

«Ma la macchina…».

«L’ho lasciata al parcheggio. Desideravo fare due passi. La serata è fredda ma il cielo è limpido. Buona notte, caro» aggiunse, mentre con passo deciso salì i gradini che portavano alla zona notte.

Arrivata nella sua stanza si tolse i vestiti con calma, annusandoli per sentire ancora l’odore di Jacques.

Ti ho ritrovato, Jacques! Non mi sfuggirai di nuovo! Domani ti rivedrò e fuggirò con te!” si disse mentre si spazzolava i capelli prima di coricarsi.

Jacques ritornò all’hotel dove alloggiava, ritirandosi nella sua stanza.

Prima di coricarsi, annotò sul diario, come sua abitudine per leggerlo poi insieme a Yvette.

Cara Yvette, non immaginerai mai chi ho incontrato al concerto? Irene. Sì, proprio lei! Ti ricordi? La figlia di Albert. È diventata una donna affascinante, moglie di un rispettabile cittadino dell’alta borghesia e per di più un nobile. Dicono che sia molto ricco. Ormai non è più una di noi con suo modo di fare civettuolo e aristocratico. Non la riconosceresti più, tanto è cambiata nel modo di porgersi. Pensa che crede di riaccendere quei fuochi ormai spenti da tempo con la credenza tutta femminile di farlo ricordando il passato. Ce qui est passé est bien passé. Che noia! Non riuscirebbe a eccitare più nessuno di noi. È veramente banale e deprimente. Spero che non capiti pure a te una così totale metamorfosi. Sarebbe deludente. Ha parlato male del marito dicendo che è tedioso. Sì, proprio così. Noioso e monotono, tanto che ho pensato al quel modo di dire che usiamo noi. È talmente grigio che non lo sopporterebbe nemmeno la sua ombra. Domani mattina dovrò evitarla mentre faccio l’ultima passeggiata per la piazza principale e poi volo da te tra le tue braccia, mon Chérie. Non vedo il momento di stringerti a me.

Adieu, à demain!

Bisou, mon Chérie

FINE

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Metti una sera a teatro – parte prima

Nuovo vecchio racconto in due parti.

foto personale

Irene, avvolta nella cappa bordata di ermellino, saliva lenta lo scalone di ardesia del Collegio San Carlo nella zona centrale della città. Alzò la vista verso i quadri disposti lungo le pareti, che arcigni parevano seguirla con gli occhi. Si strinse ancor di più nel mantello come per proteggersi da un nemico invisibile. Continuò a salire cercando di distogliere lo sguardo e non pensare a loro.

Aveva deciso di partecipare a questa serata di musica classica per un motivo molto particolare ma l’aveva relegato in fondo all’anima per non pensarci troppo. Non era sua abitudine a partecipare a questi eventi, ma stasera faceva un’eccezione.

Con un sottile senso d’inquietudine percorse il corridoio silenzioso che portava nel vestibolo del piccolo teatro collocato all’interno di questo Collegio secolare. Si udivano solo il ticchettio dei suoi tacchi e nulla più. Avvertiva un senso di pace passare tra questi muri che avevano visto numerose generazioni di studenti impegnati ad apprendere il sapere ma nel contempo percepiva che aveva sbagliato a venire. Erano sensazioni contrastanti che non riusciva a conciliare ma le provocavano un senso di angoscia ed euforia allo stesso tempo.

Il vestibolo era una stanza quasi quadrata. Sulla sinistra stava una serie di appendini con una signora avanti nell’età che teneva in mano dei dischetti bianchi. Di fronte c’era l’ingresso al teatro e sulla destra un’apertura che mostrava un corridoio buio. Era una stanza anonima senza disegni sulle pareti.

Irene entrò e si avvicinò al tavolo per pagare il biglietto d’ingresso e prendere il programma della serata, che scorse velocemente senza molto interesse. Non amava la musica classica, in particolare quella strumentale ma aveva deciso di presenziare a questo concerto atipico.

Si guardò intorno alla ricerca di visi amici ma erano tutte facce sconosciute. Comprese di essere nel posto sbagliato: lei vestita in maniera ricercata, loro in jeans e maglione senza nemmeno abbinare troppo i colori. Li udiva parlare ad alta voce come se profanassero il luogo, che invitava al raccoglimento e al silenzio. Stava già meditando di andarsene, quando vide l’amica, la signora Massone, che in realtà era una semplice conoscente un po’ pettegola e invadente. Nonostante questi pensieri negativi tirò un sospiro di sollievo per non sentirsi sola.

Le due donne si mossero all’unisono una verso l’altra per salutarsi.

«Buona sera, contessa Cittadini» disse allegra con un tono vellutato della voce, porgendole la mano.

«Buona sera, signora Massone. Anche lei qui ad ascoltare questa serata di buona musica?»

«Sì» gorgheggiò un po’ maligna, vedendola senza il consueto accompagnatore. «Ma la vedo sola. Il signor conte non è venuto? Non apprezza i virtuosi del pianoforte?»

Irene stette in silenzio per qualche attimo per soppesare le parole della risposta. Era evidente che Giancarlo non c’era e non stava al suo fianco. Giudicò la domanda impertinente ma sfoderò un bel sorriso carico d’ironia.

«Mio marito ha preferito rimanersene al calduccio accanto al camino, piuttosto che affrontare il freddo della sera».

Un lieve sorriso increspò il viso della signora Massone. «Saggia decisione. È stato più avveduto di noi donne, che abbiamo privilegiato la voglia di evasione al caldo della casa».

«Ops…» esclamò voltandosi verso chi le stava alle spalle. «Sono stata scortese. Non le ho presentata la mia carissima amica. La contessa Irene Cittadini” e poi facendosi di lato continuò: «Questa è la mia compagna delle scorribande serali. La signora Boschetti».

Uno scambio incrociato di mani e un borbottio che assomigliava a un «piacere» concluse le presentazioni, prima che calasse un silenzio imbarazzato.

«Se non vi dispiace prendo posto in sala» affermò Irene con tono basso, allontanandosi per sedersi nelle ultime file, vicino all’ingresso. Voleva porre fine all’imbarazzo di una conversazione che non era mai decollata.

Il teatro era piccolo e raccolto con un palcoscenico di modeste dimensioni. Un minuscolo palco stava a metà parete sulla destra. Era il teatro privato dei duchi della città dove si ascoltava musica o modeste rappresentazioni teatrali. Delle poltroncine di velluto rosso completava l’arredamento. Il colpo d’occhio era tutt’altro che impressionante. La sala era già piena per metà di giovani e meno giovani. Il brusio era tutt’altro che ovattato ma un parlare ad alta voce.

Irene capì che questa serata non era come immaginava e il pubblico tutt’altro che raffinato.

La signora Massone la osservò, mentre la contessa si sedeva compunta in un posto esterno, e prendendo sotto braccio la signora Boschetti la guidò verso le prime file.

«Vede» spiegò pettegola sottovoce. «La contessa ha una bella e interessante storia dietro di sé. Lei è la figlia di Alberto Pierotti, il fratello minore di Matteo Pierotti, quel ricco uomo d’affari, che sicuramente conosce».

Un lieve cenno del capo avvalorò l’affermazione dell’amica. Conosceva bene la storia della famiglia Pierotti. Tuttavia non interruppe il racconto, anche se non era una novità quello che stava ascoltando.

«Alberto era uno scapestrato. Amava girare tra le osterie a bere e ubriacarsi come tanti poveracci e appena poteva scappava a Bologna al Caffè San Pietro, dove si radunavano pittori e scrittori. Lui ambiva a diventare pittore e non ne voleva sapere di studi o mettere la testa a posto. Nel 1939 aveva solo vent’anni con la guerra imminente e dietro l’angolo, quando scappò a Parigi, nascondendosi tra i pittori della rive guache a Montparnasse. Lì scollinò la guerra e l’occupazione tedesca».

«Ma non era imprudente starsene all’estero in un paese non proprio amico?» chiese la signora Boschetti, fingendo di ignorare questo dettaglio.

«Ha ragione, Ivana ma al ragazzo mancava il senso pratico e la prudenza del fratello. Era un autentico buono a nulla, che amava vivere di espedienti piuttosto che fare una vita normale».

Un sorriso comparve sui loro volti, che giudicavano questi atteggiamenti più adatti a giovani senza testa sul collo che a una persona saggia e matura.

«Poi negli anni tumultuosi del dopoguerra conobbe una donna senza censo, che sposò in gran segreto. Era una donna del popolo con scarsa cultura e neppure troppo bella. La famiglia di origine non seppe nulla finché non nacque Irene, la signora che le ho presentato stasera».

Fece una piccola sosta nel parlare per prendere fiato e osservare se Ivana voleva porre delle domande.

«Prosegua, Paola. Non conoscevo questi dettagli sui signori Pierotti e sulla contessa» mentì senza arrossire.

«Come le ho detto Alberto era uno scapestrato senza testa e senza talento. Viveva di espedienti e piccoli lavori, facendo debiti a profusione. Sembra che la madre di Irene sia morta qualche mese dopo la nascita della ragazza. Ma qualcuno vocifera che sia fuggita con un uomo ricco e importante. Tralasciando questi miseri pettegolezzi, la ragazza fu cresciuta in qualche modo dal padre e dai suoi amici in un ambiente malsano e privo di scrupoli o moralità, finché a vent’anni anche Alberto morì lasciandola sola. Lo zio Matteo, di animo generoso, l’accolse nella sua villa, appena fuori la città, e le consentì di completare gli studi. Le diede un futuro meno ambiguo e grigio del padre trasformando una ragazza senza cultura ed educazione in una splendida fanciulla ammirata da tutti. Dicono che abbia acquisito la bellezza dalla madre, che nessuno ha mai potuto ammirare. Però si vocifera che fosse nata da una relazione adulterina».

Ivana strinse gli occhi. Questo dettaglio lo ignorava. In effetti le risultava che la moglie di Alberto fosse piccola e con lo strabismo di Venere, mentre la contessa era alta coi capelli biondi e affascinante.

Paola fece una piccola pausa voltandosi leggermente verso le ultime file della sala per osservare Irene, che compunta teneva in grembo la mantella.

«È una stupenda donna nel fiore della maturità a dire il vero» fece notare Ivana, accostandosi all’orecchio dell’amica.

«Molti corteggiatori si fecero avanti ma alla fine la spuntò il conte Cittadini, che la sposò. Non hanno figli ma pare che sia una coppia affiatata» concluse la signora Massone strizzando un occhio in modo complice.

«Una storia interessante che non conoscevo, Paola» mentì mantenendo il viso severo. «Ma ora…» e non concluse il pensiero perché il pianista aveva fatto il suo ingresso, accompagnato dal caloroso applauso dei presenti.

Subito il vociare ad alta voce si trasformò prima in un brusio poi in silenzio, mentre gli ultimi ritardatari prendevano posto in sala e veniva chiusa la porta.

L’artista fece un inchino e in un italiano approssimativo si presentò.

Irene lo vide e cercò di nascondersi. Mentre occultava il nervosismo serrò le mani sulla mantella. Alle prime note dello strumento una forte ondata di emozioni l’assalì salendo verso il volto per poi scendere verso il basso. Osservò con attenzione Jacques Saint Just, i capelli ancora lucidi e scuri, la mani diafane e affusolate, che scivolavano leggere a sfiorare i tasti del fortepiano.

La musica settecentesca di Haydn e di Muzio Clementi riempì la sala che ascoltò in silenzio i virtuosismi del pianista fino all’intervallo. Un lungo ed entusiastico applauso accolse la fine della prima parte del programma.

CONTINUA…

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Era una sera d’estate…

Altro vecchio racconto estratto dal fondo del barile.

la copertina

Era una bella giornata d’agosto, senza una nuvola e senza un soffio di vento. La strada per cui il reggimento camminava era larga diritta e lunga che non se ne vedeva la fine, e coperta d’una polvere finissima che si sollevava a nuvoli, penetrando negli occhi, nella bocca, sotto i panni, e imbiancando barbe e capelli. A destra e a sinistra della strada non un albero, non un cespuglio, non un palmo d’ombra, non una goccia d’acqua. La campagna era secca, nuda e deserta, e le poche case sparse qua e là parevano disabitate. Non si poteva fermar lo sguardo sulla via né sui muri, né sui campi, tanti vi batteva. Si camminava a capo basso e a occhi socchiusi, era una bellissima giornata d’agosto e una pessima giornata di marcia. Il reggimento camminava da poco più di un’ora.

Tratto da “La vita militare” di Edmondo de Amicis, Avagliano editore, pagg. 454, 15€.

Matteo distese le gambe, appoggiandosi allo schienale del divano, mentre il foglio di giornale scivolava di lato sul pavimento.

Incrociò le mani dietro la nuca per impedire ai pensieri di volare leggeri nella stanza, mentre lui era concentrato dove aveva letto quelle parole trovate nell’inserto del giornale.

Il flusso delle idee dapprima era leggero e frizzante, poi assunse un andamento tumultuoso e prorompente come un torrente al disgelo primaverile.

Dove ho letto questo breve incipit?” si domandò, mentre lo sguardo spaziava sui libri disposti nella sala. Erano ordinati e sistemati con cura in base al genere e autore su due pareti.

Non amava conservarli all’interno di spazi chiusi, ma preferiva tenerli su scaffali aperti, perché respirassero come respirava lui.

Li sentiva vivi e pulsanti con un loro cuore e una loro anima, li coccolava con lo sguardo come parte di se stesso, li estraeva con cura, mentre lasciava vuoto il posto.

Aveva quasi duemila libri, mentre la parete scoppiava, perché ogni posto era occupato. Qualcuno era sistemato sul tavolo davanti alla parete.

Doveva decidere se smettere di comprare nuovi libri o eliminare quelli che non interessavano. Però si domandò, corrugando la fronte, quali erano da rimuovere, perché non ce ne era uno che non avesse una sua storia.

Così i nuovi si stavano ammonticchiando sulla scrivania, ma presto la pila sarebbe diventata instabile, quindi urgeva prendere una decisione.

La libreria era formata da aste di alluminio fissate alla parete, su cui appoggiavano tavole di legno nero spesse due dita e larghe una spanna. La loro lunghezza erano di due dimensioni: una più piccola che aveva necessità di due appoggi e una più grande che appoggiava su tre mensole.

L’uso sapiente delle tavole combinate in modo vario consentiva di creare un gioco appariscente sulla parete, dove negli spazi rimasti vuoti erano inseriti alcuni quadretti colorati.

Aveva riempito due pareti fin quasi al soffitto. Sotto una delle due librerie stava un mobile chiaro, che ospitava dischi di vinile, cd e l’impianto hi-fi.

Aumentare le tavole della libreria si scontrava con due problemi non risolubili, perché su una parete c’era la finestra che portava luce nella stanza e su quella di fronte la porta che consentiva l’accesso.

Nella stanza non c’era più posto per i suoi libri, quindi urgeva trovare una soluzione.

Matteo continuò a ruotare lo sguardo sulle pareti, sperando di risolvere il problema, come se possedesse la bacchetta magica. Nonostante questi crucci, era soddisfatto della biblioteca che aveva messo insieme.

Aveva delle piccole manie nella scelta del formato e dei generi di libro, perché era un po’ tocco e narciso. Odiava i formati economici o pocket, perché la qualità della carta era scadente e perché erano scritti troppo in piccolo. La copertina morbida non era di suo gradimento perché si rovinava facilmente e poi di solito era brutta. Quindi andava alla ricerca di libri cartonati o a copertina rigida. Non sempre riusciva nel suo intento.

Degli autori preferiti aveva raccolto con pazienza tutti i libri col risultato che a volte lo stesso racconto era presente in due pubblicazioni distinte.

Si girò verso sinistra lentamente e vide allineati in bella mostra i romanzi e racconti di Calvino, che ammiccavano sorridenti e invitanti con la copertina rigida di tela grigia con la sopra copertina bianca.

In basso la raccolta dei gialli Mondadori con la loro copertina di tela colorata, ormai introvabili nelle librerie, raggruppati per autore: Rex Stout, Ellery Queen, Agatha Christie. Non un solo volume, ma tutti, raccolti con certosina pazienza nel corso degli anni rovistando tra migliaia di libri messi in vendita come rimanenze.

Matteo si domandò quando denaro aveva speso per raccogliergli, ma la soddisfazione non aveva prezzo e questo lo rendeva felice.

Ora indugiava su un libro ora su un altro, sorpreso di non ricordare che erano lì a portata di mano, pronti per essere sfogliati ancora una volta.

Li aveva letti tutti, proprio tutti, ma non una sola volta. Alcuni li aveva riletti tre, quattro volte. Non importava se ormai conosceva a memoria frasi e immagini, se la trama non aveva più segreti. Però il gusto di assaporare ancora la lettura era troppo forte, troppo intenso per non farlo ancora una volta.

Ricordava che aveva poco più di dieci anni, quando con regolarità prendeva a prestito dalla scuola un libro alla settimana, che divorava in poche serate. Si, perché non cessava di leggere finché non arrivava all’ultima pagina.

In quegli anni si formò nella sua mente l’idea di creare una biblioteca da curare con amore. Molti di quei libri scolastici, ormai consunti e logori per essere stati sfogliati innumerevoli volte, sono stati acquistati molti anni dopo e messi nella libreria.

Matteo abbassò la vista e vide il foglio con in bella mostra l’incipit, ma nonostante gli sforzi non riusciva a localizzare il libro da cui era stato tratto.

Lo raccolse e cominciò a leggere la lettura centrale, un inedito di norma, un piccolo racconto. Questa volta era diverso, perché un grande regista parlava del cinema attraverso il ricordo di tanti colleghi.

Sospirò e si concentrò nella lettura.

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Un amore non corrisposto

Proseguo nel riesumare vecchi racconti. Oggi è il turno di ‘Un amore corrisposto’

Buona lettura.

Copertina Kindle – La kitsune

Com’era avvenuto? Non lo sapeva neppure lui ma di una cosa era certo: qualcosa era cambiato.

“Dove?” si domandò, dondolandosi da un piede all’altro.

Riprese a camminare incerto e confuso con le mani in tasca e la testa incassata nel giaccone. Faceva freddo e tirava un’aria che non invitava a stare all’aperto. Il cielo era plumbeo, di un colore che non prometteva nulla di buono. Le nuvole basse formavano una cappa che contribuiva a deprimere Antonio.

Aveva diciotto anni e frequentava il primo anno di università.

«Nulla di eclatante» era solito dire a chi gli chiedeva cosa facesse.

Cosa volesse dire con quella frase non lo sapeva ma gli piaceva dirlo a tutti quelli che lo interrogavano a quale facoltà era iscritto.

«Frequento il primo anno di Università, quella della mia città» aggiunse in modo criptico alla solita frase un giorno di novembre. Antonio passeggiava con Giovanni, un amico che conosceva da quando era all’asilo.

«Ma perché niente di eccezionale?» chiese con tono curioso, strizzando gli occhi. «Eppure mi sembra che poi…».

«Poi, cosa?» ribattè fissandolo dritto negli occhi con lo sguardo lucido. «Quando tra tre anni, se sarò bravo, uscirò con quel pezzo di carta, cosa me ne farò? Lo metterò sotto vetro con una bella cornice marrone elegante e sobria, perché tutti quelli che entravano in casa possano ammirarla oppure la userò per trovarmi un posto di lavoro?»

«Non saprei. Pensavo che…» mormorò impacciato.

«Pensavi male. E tu cosa fai?»

«Tutto e niente. Non frequento l’università. Dopo la maturità lavoro nella ditta di mio padre».

«Beato te! Un posto ce l’hai assicurato…» esclamò Antonio, dandogli una pacca amichevole sulla spalla.

«Veramente avrei voluto frequentare l’Università come te ma mio padre mi ha detto “Cosa ti serve quel pezzo di carta? L’azienda è sana e genera profitti e quindi denaro, molti più soldi di quelli che potrai guadagnarne usando quel attestato che chiamate laurea”. Così non mi sono iscritto e sono entrato nella ditta. Lavoro ma alla sera sento la lingua secca come se non bevessi da molti giorni».

Antonio lo osservò stupito, perché, se suo padre avesse avuto un’azienda, non avrebbe avuto dubbi sulla strada da intraprendere. Però era un semplice impiegato di banca, un classico colletto bianco, grigio e anonimo, che sarebbe arrivato alla pensione, sempre che ci sarebbe riuscito, ancora più ingrigito. Non era quella la fine che voleva fare. Si sentiva creativo, avrebbe voluto dare sfogo alla sua fantasia ma sapeva bene che sarebbe stata dura la sopravvivenza.

«Non ho la tempra di chi, ignorando tutto, si lancia nel mondo dell’arte senza la preoccupazione di avere un pezzo di pane per mangiare» concluse con tono amareggiato.

Si conosceva bene compresi i suoi limiti, il frutto di tutti gli insegnamenti dei suoi genitori. Era cresciuto col mito del posto fisso, facendo un passo alla volta e solamente se era sicuro che non comportasse dei rischi.

Si salutarono con un abbraccio con la promessa di rivedersi presto.

“Sono un pavido” rifletté camminando per le vie della città con le spalle incassate nel giaccone. Faceva freddo per via di un vento di tramontana che si insinuava dentro con perfidia. Mentre vagava solitario per le vie della città svuotate per il gelo e la serata che si avvicinava, ricordò Ines, una vecchia fiamma o nuova. Dipendeva dall’angolazione con cui osservava il loro rapporto.

Ines era una ragazza solare col sorriso permanente sulle labbra mentre lui percepiva di essere un musone scontroso e introverso.

“Vorrei parlarle, dirle quello che provo ma non riesco. Mi sento impacciato, imbarazzato. Mi si secca la lingua, che si attorciglia in bocca. Le parole non escono e divento timido”.

L’aveva vista mille volte ma una mattina di dicembre la guardò sotto un aspetto che non aveva mai notato prima. Era una giornata soleggiata, fredda e senza nebbia, evento raro e insolito nella sua città. Aveva due ore di buco tra una lezione e quella successiva ma non aveva nessuna voglia di rintanarsi in biblioteca. Il cielo terso e il sole che riscaldava tiepido l’aria l’avevano invogliato a sedersi sulla panchina del parco retrostante l’Università. Era seduto a pensare che la sua vita sarebbe stata grigia come quella di suo padre e questo gli generava un grande rammarico. Percepiva che non sarebbe stato felice e avrebbe rimpianto sempre la non decisione di andarsene lontano e vivere romanticamente come un bohémien.

Scrollò il capo e si mise a osservare il parco con le grandi magnolie e le aiuole spoglie.

La vide con un’amica che chiacchieravano ridendo, mentre percorrevano il vialetto alla sua sinistra. Guardò con curiosità come gettava da un lato, in un certo modo allegro, la testa Prima di quel momento non se ne era mai accorto. Era un movimento, che lo colpì, istintivo e naturale. Il capo si muoveva verso destra mentre i capelli scivolavano su viso. Un colpo veloce per riportarli dietro l’orecchio. “L’ho osservata tante volte ma non avevo mai notato questo gesto che non sono riuscito a classificare. Però mi ha dato una scossa emotiva come se fosse la prima volta che la vedevo” ricordò con un pizzico di nostalgia.

Il gesto della mano rapido e coordinato faceva scivolare la manica del cappotto indietro verso il gomito, mostrando un polso esile e candido. La mano non era affusolata e neppure aggraziata. Piccola e leggermente tozza con le dita corte e grosse. Restò affascinato da quella gestualità che lisciava i capelli lunghi e setosi dopo averli riportati dietro l’orecchio. Aveva una grazia che lo ipnotizzava e non riusciva a staccare gli occhi da quelle mosse. Quel giorno di dicembre l’aveva guardata con occhi diversi. Forse il sole oppure quel modo di muoversi l’avevano stregato. In un altro contesto avrebbe giudicato i movimenti come normali e non degni di essere osservati.

Ne udì la voce e sentì come sottolineava le parola, una qualunque, con un tono che pareva musica. C’era un suono caldo nella sua voce.

“Quante volte l’ho ascoltata nei corridoi del liceo ma mi era sempre apparsa priva di grazia con quell’inflessione strascicata della esse e quel tono ruvido e freddo. Ma ora…”. Antonio era immerso in questo ricordo non troppo lontano e gli sembrava di vederla e ascoltarla vicino a lui. Poi lentamente, come in una dissolvenza fotografica, era uscita dai suoi pensieri.

«Sei un pavido» borbottò a mezza voce, mentre analizzava il suo comportamento in quella circostanza. «Se non ti fai notare, non potrà mai accorgersi di te. Inseguila, fermala e parlale come sai fare con gli scritti. Riuscirai a colpirle il cuore».

Qualcosa gli diceva che quello era amore, ma si domandò se conosceva il significato esatto di quella parola.

«So cosa vuol dire Amore. Lo scrivo nei miei racconti che parlano di Amore tra madre e figli, tra un uomo e una donna ma anche fra due persone dello stesso sesso. Quello che ho descritto tante volte con minuziosa pignoleria, ora perde di significato e non so cogliere questo fiore, lasciandolo appassire. Questo sentimento lo osservo con la morte nel cuore perché è vizzo e senza un’anima».

Benché sapesse che l’amore gli avrebbe recato dolore, tormento e umiliazioni, non smise di pensare a Ines nei giorni seguenti, a quello che aveva notato quel giorno di dicembre. Un amore che non aveva controparte gli dava spine e distruggeva la pace interiore. Nulla era più come prima ma nel contempo era riuscito a dare forma a qualcosa d’impalpabile: il sentimento dell’amore,

Un altro ricordo di quel giorno gli tornò in mente. Si era alzato dalla panchina, ma gli pareva di camminare a venti centimetri da terra. Non gliene era importato nulla se quelle sensazioni gli avrebbero procurato dolori e tormenti. Tuttavia lo aveva accolto con gioia e lo curò con tutte le sue forze, perché sapeva che esso l’avrebbe reso ricco e vivo come aspirava.

Aprì gli occhi, mentre anche l’ultima immagine spariva.

Un raggio di sole filtrava dalle imposte ma Ines sarebbe rimasto un amore non corrisposto.

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Un viaggiatore un giorno in treno – parte seconda

Questa è la seconda parte di un vecchio racconto, La prima la potete trovare qui.

copertina di carta
Un giallo Puzzone

Rimasi scioccato e senza parole. Quell’uomo dai capelli bianchi e dal viso affilato come una lama mi guardò prima torvo poi addolcì l’espressione.

«Ma lei dovrebbe avere almeno ottant’anni per essere Paolo Morier dissi riacquistando l’uso della parola e colorito nel volto.

«Infatti» replicò visibilmente scocciato dalla mia incredulità e diffidenza. «Ho ottanta tre anni. E poi confronti la fotografia che sta a pagina…» e cominciò a sfogliare il libro, finché non trovò quello che cercava.

«Guardi» e mi mise sotto il naso una fotografia di un ragazzo giovane dai capelli scuri e con un pizzetto alla Italo Balbo.

Convenni che il taglio degli occhi e la forma del naso sembravano le copie conformi di quelle che vedevo accanto a me.

«Ora sono smagrito, coi capelli candidi e senza pizzetto ma sono io nel resto dei dettagli».

«Già» ammisi laconicamente ma ancora non potevo credergli che la persona accanto a me fosse il protagonista del romanzo che teneva in mano.

«Mi dica» proseguii con tono dubbioso, «chi è per lei l’autore? Come ha potuto scrivere una simile storia?»

Un raro sorriso illuminò quel viso leggermente rugoso, mentre la ragazza della battaglia navale si era girata verso di noi ascoltando con attenzione la nostra conversazione.

«Michi, vuoi la rivincita?» si udì distinta la voce del ragazzo che non si era accorto dell’interesse della compagna alle nostre parole.

«Sss! Non disturbarmi» replicò con un sussurro appena accennato.

«Chi è?» domandò ad alta voce, facendo girare quasi tutti i viaggiatori del vagone. «Chi è? Lo sapessi!» Urlò come un tuono in piena notte.

«E secondo lei come ha potuto scrivere questo romanzo?» chiesi con un tono più moderato.

«Lo sapessi!» ribadì questa volta meno irritato.

Non riuscivo a comprendere come Arduini, l’autore, fosse collegato con questa persona, che era molto più vecchia di lui e che difficilmente avrebbe conosciuto nella sua vita.

Dunque mentre stavamo conversando in maniera quasi sincopata, gli domandai di raccontarmi la sua storia.

«Guardi» sospirò. «Guardi, la mia vita è come un reality» e cominciò con un racconto al limite dell’incredibile.

«Mio padre era ricco, molto ricco. Possedeva una banca che portava il suo nome. Una banca piccola con un solo sportello e degli uffici discreti e ovattati ubicati nel centro di Milano. Da qui passava tutto il gotha dei gerarchi milanesi e tanti altri personaggi che amavano l’anonimato per trasferire le proprie ricchezze in Svizzera. Allora ero all’università ma andai a lavorare presso mio padre. Specialmente ora che la guerra si avvicinava. Mio padre riuscì con abilità a convincere il federale di Milano, una persona influente, a certificare che la mia presenza in città era vitale. Così mi evitai l’arruolamento e quel tritacarne che era guerra».

Prese un fazzoletto per asciugarsi le labbra prima di riprendere a parlare.

«Era dicembre 1942. Il giorno non lo ricordo ma l’immagine è viva nella mia memoria. Quel giorno un certo Michele Scialopoti, che conoscevo vagamente, venne da me per chiedermi un prestito di mille lire. Era una cifra enorme a quei tempi ma io disponevo di un conto personale a sei cifre, frutto delle donazioni di mio padre e mio nonno. Mi implorò a tal punto che cedetti il denaro in cambio di un pagherò che sarebbe scaduto un anno dopo. Nella notte tra il 7 e 8 agosto 1943 Milano subì un furioso bombardamento. Io nella fuga durante la notte, al buio perché la città era oscurata, caddi e persi i sensi. Quando mi risvegliai, mi trovai in uno stanzone con decine di altre persone del tutto sconosciute. Non capivo nulla e nonostante i miei tentativi di mettermi in contatto con mio padre finì su un treno con altri deportati. Colto da febbre altissima durante il viaggio persi conoscenza e poi non ricordo più nulla».

Era il racconto più fantastico che avessi mai ascoltato. Cercai di dissimulare la mia incredulità e gli posi altre domande, alle quale rispose in maniera ancora più incredibile.

«Di solito i romanzi sono opere di fantasia e non riproducono la realtà. Oppure sono in difetto?» mi domandò a bruciapelo.

«No. Di norma gli editori li chiamano non-fiction, perché si collocano a metà strada tra la fantasia e la realtà. Però questo è stato catalogato come fiction, ovvero opera di pura fantasia…».

Paolo Morieri alle mie parole aprì il testo a caso e lanciò un urlo, udito distintamente da tutti i compagni di viaggio.

«Vede» disse indicando una pagina. «Mi dice che oggi è ‘martedì’, il martedì dell’aldilà, dove io annuso dei fiori. Non sente il profumo di lavanda?»

Mi avvicinai e provai ad annusare. Sentivo solo l’odore della stampa fresca e null’altro. Non dissi nulla. Non volevo innescare un altro contenzioso, anche se lui continuava a elencare fiori e odori. Io non percepivo per nulla.

«E qui» aggiunse indicando una fotografia. «Sono nudo che ballo con una fanciulla discinta! Ma non so ballare e quella giovane donna non la conosco!»

«Si calmi» dissi cercando di tranquillizzarlo.

«Sarebbe tranquillo lei, se mio padre o qualche conoscente lo leggesse?»

«Certamente» replicai poco convinto.

«Io no! Ballare nudo con una donna che non si conosce non mi pare un modo educato di comparire in un libro».

«Però quella pagina è davvero seducente» provai a contraddirlo.

«Sarà ma c’è da vergognarsi. Come potrò tornare in ufficio nella banca di mio padre senza essere oggetto del dileggio dei colleghi?»

Indubbiamente aveva ragione ma non potevo ammetterlo. Quindi preferì glissare sull’argomento.

Stavo per replicare, quando una voce femminile un po’ gracchiante uscì dagli altoparlanti del vagone.

«Milano. Stiamo entrando nella stazione Centrale di Milano. Trenitalia ringrazia i signori passeggeri. ..».

Mi distrassi un attimo.

«Signor Morieri viene con me a Vigevano dall’autore del libro?»

Allibito non vidi nulla accanto a me. Solo il libro aperto sulla pagina con la sua fotografia.

FINE

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