Una vita – parte ottava

foto personale
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Mentre teneva sotto il braccio quello scricciolo effervescente come l’acqua frizzante, Luca si domandò stupito cosa avesse attirato la ragazza a legarsi a uno sconosciuto non certamente giovane, senza capelli e con la pancetta.

Forse Simona gliela aveva spiegato, mentre lo accompagnava nel bed and breakfast. Però lui non aveva ascoltato. immerso com’era nei ricordi e adesso non aveva il coraggio di chiederlo apertamente. S’era creato tra loro un’atmosfera di serena fiducia e non voleva incrinarla con domande inopportune. La strinse più vigorosamente per farle assaporare il calore che trasmetteva, ripromettendosi di prestare attenzione a quanto gli stava dicendo.

Simona si sentiva sicura e protetta da questo uomo dall’età indefinita ma dallo spirito giovanile. Appariva taciturno e leggermente svagato ma spandeva serenità a piene mani. Non conosceva nulla di lui, solo il nome “Luca”. Un po’ poco per affidarsi fiduciosa a uno sconosciuto ma percepiva che non le sarebbe capitato nulla di male, finché lui stava al suo fianco. Aveva compiuto ormai trenta anni e si sentiva vecchia nello spirito, perché non aveva combinato nulla di buono fino a quel momento.

La sua infanzia era stata tribolata e amara, segnata da un padre manesco e poco rispettoso del ruolo, da una madre troppo arrendevole, che aveva chiuso un occhio sulle attenzioni del marito verso la figlia. Aveva sei o sette anni, quando una zia la strappò dal quel mondo torbido, che rischiava di inquinare quella bambina, portandola lontana.

Simona aveva un carattere solare, estroverso e incline alla fiducia. Non aveva focalizzato bene le motivazioni che l’avevano costretta a dividere il letto coi genitori, a quei giochi strani ai quali partecipava assonnata e annoiata. Solo quando era diventata una ragazza aveva compreso come avesse ballato pericolosamente sul baratro del precipizio, nel quale sarebbe caduta senza il provvidenziale intervento di zia Lina.

L’affetto della zia e di Maria, la proprietaria del casale, sanò le ferite dello spirito. Dentro di lei rimase il guasto di un’infanzia rubata, che celò con molto impegno senza rivelarlo mai a nessuno. Qualche amore sfortunato, la morte della zia, la perdita delle radici l’accompagnarono nel difficile viaggio di emancipazione economica e fisica. Lasciò la casa accogliente di Maria, che per lei era la vera madre, per stabilirsi in un monolocale in centro paese vicino al bar dove lavorava da un paio di anni. Però quando si sentiva triste si rifugiava in quel casale nella stanza, dove adesso alloggiava Luca. Quella era stata per molti anni il suo regno ed era sempre vuota, a sua disposizione.

Quando Simona si era presentata alla porta con quell’ometto buffo, calvo e un po’ grassottello, Maria aveva intuito che poteva ospitarlo in quella stanza senza timore di urtare la sensibilità della ragazza.

Mentre passeggiavano fra una bancarella e un’altra, Luca percepì che Simona aveva un passato da far riemergere dalle tenebre. “Non è in questo clima festoso il momento più adatto per parlarne” si disse, mentre le acquistava dello zucchero filato. Non aveva pensato all’eventualità di fermarsi qualche giorno ma l’istinto gli suggerì che sarebbe stato opportuno restare lì per raccogliere le fantasie e le confidenze della ragazza. “Ci penserò domani” disse alla parte razionale che impertinente aveva fatto di nuovo capolino per dissuaderlo dal proposito, conscio che avrebbe dato ascolto alla parte sognatrice.

Qualche giovane lanciò occhiate non proprio cordiali a quella strana coppia che si aggirava tranquilla e sorridente tra banchi e le giostre. Forse pensavano al solito vecchio bavoso e danaroso, che si accoppia con una ragazza giovane e piacente. Luca non ci fece caso. Sereno come era accanto a Simona.

Osservarono del movimento verso uno spiazzo dove si ergeva un alto palo. Si diressero da quella parte. Simona sapeva cosa avrebbero trovato, mentre per Luca era semplice curiosità comprendere il motivo di tanto assembramento.

Era il momento dell’albero della cuccagna. Si fermarono per guardare le evoluzioni di gruppi di giovanotti, tesi a scalare quell’asta coperta di grasso con in cima una pentolaccia di coccio, che dovevano abbattere per conquistare il premio. Creavano una piramide umana ma alla fine mestamente il più leggero, che si issava agile sulle spalle degli altri, scivolava verso la base senza riuscire nell’intento di conquistare l’ambito premio. Risero e applaudirono quei tentativi infruttuosi e comici nell’epilogo. Poi si mossero in giro con gli occhi pieni di stupore, osservando quella folla festante, che si aggirava senza pensieri.

Luca le comprò dell’altro zucchero filato, le mandorle caramellate appena tolte dalla pentola di rame, il croccantino sottile. Ricordò che l’aveva fatto per Gloria, quando andavano alle giostre per la festa del patrono della sua città.

Simona percepiva che questa era una serata speciale, perché aveva trovato quel padre amorevole che le era mancato da sempre.

L’assenza di una figura paterna aveva segnato negativamente i suoi rapporti con i ragazzi, perché Simona avrebbe voluto trasfondere in loro quella mancanza, mentre loro cercavano una ragazza da amare e non da accudire.

Stanchi e appagati per il lungo girare, si sedettero su una panchina in attesa dei fuochi di mezzanotte.

«Luca» disse Simona, rompendo il silenzio. «Si fermi anche domani. È la mia giornata di libertà. Possiamo fare un salto al mare».

«Non lo so» rispose pacato mentre osservava quegli occhi vivaci e mobili. «Non le prometto nulla».

“Bugiardo” disse la parte razionale con tono di rimprovero. “Sai già che lo farai. Non puoi mentire a te stesso”.

“Ma no è vero” rimbeccò la parte creativa. “Lui deciderà al momento. Come sempre”.

Le due personalità di Luca presero a litigare, confondendolo, finché non le mise a tacere. Quello che lo rendeva incerto e terrorizzato era il pensiero del costume. Non ricordava da quanto tempo non fosse andato in spiaggia. Tuttavia questi pensieri sparirono in fretta.

Un botto squarciò il nero della notte, che si colorò di mille colori. Erano i tanti attesi fuochi che avrebbero suggellato la chiusura della lunga festa prima di darsi l’appuntamento al prossimo anno. Questo lo distolse dal dubbio di rispondere con un ‘sì’ o con un ‘no’. La meraviglia del cielo colorato gli fece dimenticare la richiesta di Simona.

Tutti a naso in su. «Oh! Oh!» esclamavano, osservando quella cascata di luci multicolore che striavano il cielo, mentre stormi di uccelli impauriti si levavano in volo per cercare nuovi ripari. L’abbaiare sguaiato dei cani era sovrastato dal rombo impetuoso degli scoppi, mentre i giardini ricolmi di persone commentavano lo spettacolo pirotecnico.

«È tempo di salutarci» disse Luca dopo che si era spento l’ultimo boato e tutto tornava buio e silenzioso.

«L’accompagno. Così non smarrisce la strada» ribatté Simona, decisa a trascorrere il resto della notte con lui, perché voleva parlare dei segreti che custodiva in fondo all’anima.

E si avviarono parlottando sottovoce verso il casale di Maria.

parte settima parte nona

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Una vita – parte settima

PREMIO SPECIALE “IL FOLKLORE NELLA TRADIZIONE POPOLARE” ZANETTI MIRKO – Palo della Cuccagna 9° CONCORSO FOTOGRAFICO NAZIONALE “PREMIO SEGAVECCHIA” - www.fotoamatoricotignola.it
PREMIO SPECIALE “IL FOLKLORE NELLA TRADIZIONE POPOLARE”
ZANETTI MIRKO – Palo della Cuccagna
9° CONCORSO FOTOGRAFICO NAZIONALE “PREMIO SEGAVECCHIA” – www.fotoamatoricotignola.it

Luca camminò a lungo, tornando spesso sui suoi passi alla ricerca del paese. Tutti gli incroci sembravano uguali, tutte le strade avevano una singolare comunanza familiare, come se avesse abitato sempre in quel posto ma alla fine stabilì che si era perso.

Rise di gusto, perché la mente razionale gli aveva giocato un bello scherzetto, cancellando ogni ricordo del pomeriggio.

“Segui l’istinto” gli raccomandò la fantasia. “Ritroverai facilmente la strada”.

Girò a sinistra al primo incrocio, poi a destra, infine a sinistra e vide la strada ingombra di macchine. «Sono arrivato» esclamò Luca con un sorriso franco.

La chiassosa vitalità di giovani e anziani gli infuse nuova linfa a gettarsi nella mischia della sagra tra mille odori sgradevoli di olio bruciato e suoni sgraziati di chi arringava la fiumana a comprare lozioni miracolose.

Un certo languore lo informò che lo stomaco reclamava la sua parte, perché l’aveva tenuto a digiuno. Si guardò intorno alla ricerca di qualcosa che non fossero wurstel bruciacchiati con cipolla stracotta o patatine in stick unte e bisunte. Notò in lontananza un chiosco assediato da una moltitudine di giovani. “Ecco dove si mangia” pensò Luca mettendosi in coda. Era il baracchino della piadina.

Fu un nuovo tuffo nel passato, quando trascorreva la settimana in tenda con gli amici sulla riviera romagnola. Piadina a mezzogiorno, replica alla sera erano i suoi pasti, perché riempiva lo stomaco togliendo il senso della fame. Doveva risparmiare per allungare la permanenza nel campeggio. Quando voleva fare bisboccia, sostituiva la piadina con fagioli borlotti liquefatti e tonno scadente in scatola. Erano tempi dalla felicità irriflessiva e istintiva che lo riempiva di gioia e voglia di vivere sopra e sotto le righe. Si sarebbe rifatto nel mangiare, tornando a casa, mentre il divertimento l’avrebbe soddisfatto lì.

Nuovi ricordi lo assalirono, mentre aspettava il suo turno per ordinare. La mente tornava a quando aveva diciotto anni. Aveva terminato la maturità scientifica, superata brillantemente nonostante la cornacchia del prof di lettere, che aveva faticato a dargli la sufficienza in italiano. Il risultato fu una bella media del sette, non male per quell’epoca, quando il sette era l’eccellenza, e gli servì per la borsa di studio all’università. Partì il primo di agosto, dieci giorni dopo la fine degli esami, su un vecchio treno a vapore, che costringeva a tenere chiusi i finestrini per non finire affumicati dalle polveri di carbone. Era con altri tre compagni di scuola. Tutti pronti a trascorrere quei quindici giorni di libertà, dormendo poco e divertendosi molto.

L’arrivo al campeggio avvenne su una carrozzella, perché un taxi era troppo costoso. Era più dandy ed eccentrico scaricare tenda e borsone da questa piuttosto che da un’anonima vettura verde di piazza. In una delle tante balere scalcinate e chiassose della costa incontrarono un gruppo di ragazze francesi, con le quali fecero subito comunella e coppia fissa. A Luca venne da sorridere, perché ovviamente gli toccò la più scorfano o meglio gli era rimasta di scegliere solo quella. O prendere o lasciare e restare solo. Non c’erano altre alternative. Era il più imbranato del gruppo e quando vedeva una ragazza andava in tilt e la mente segnalava ‘Game over’. Dunque due anni dopo Ersilia gli effetti erano sempre gli stessi. “Come avrei potuto cambiare?” pensò, mentre addentava con voracità la piadina.

La parte razionale gongolava e maliziosamente gli chiese il nome di quella francesina dai dentoni da coniglio, che urtavano i suoi duranti i baci bavosi. Anche qui niente di nuovo rispetto al periodo di Gloria. Non era ancora riuscito a baciare senza sbavare, senza fare il ‘limone’, che avrebbe acceso la passione nell’altra. “Che importanza può avere un nome per un’effimera storia, che è morta con la sua partenza per Parigi?” rimbeccò Luca per quella domanda inutile, perché lo aveva regolarmente dimenticato. Piccoli brandelli di memorie riaffioravano qua e là dal pozzo dei ricordi. Un viso sorridente, un carattere dolce e tranquillo, chiacchierate con un mix di lingue improbabili e ridicole e l’ultima notte trascorsa nella sua tenda teneramente abbracciati. Forse lei si sarebbe aspettata qualcosa di più, mentre Luca proprio non ci pensava. Non aveva ascoltato il corpo della francesina, non aveva saputo usare le mani come si doveva. Insomma il solito disastro che combinava Luca con le ragazze.

Un velo di malinconia scese per un attimo sui suoi occhi, subito spazzato dal ricordo di Ersilia, che aveva incrociata dopo il ritorno dal campeggio con ben altri risultati. Era stato forse l’effetto vacanza? Non lo sapeva ma aveva poca importanza per lui.

Mentre questi ricordi emergevano e poi sfumavano nel buio della notte stellata di luglio. stava sgranocchiando una piadina con spinaci, niente male si disse, quando una voce familiare gridò «Luca, Luca!»

Si guardò intorno, senza vedere un volto familiare, e tornò alla piadina, convinto di essere stato suggestionato in quel bailamme di suoni cacofonici e sovrapposti. Un’ombra si materializzò dinnanzi a lui. Alzò gli occhi per mettere a fuoco l’immagine.

«Simona» fu l’unico suono che la sua bocca emise. Se ne era scordato. Distratto dai molteplici ricordi, che affioravano ovunque come i funghi nel bosco, non aveva tenuto a mente l’appuntamento con la ragazza. Mentre la fantasia si affannava a estrarre dal cilindro tanti scampoli di vita vissuta, la parte razionale malignetta e gelosa si divertiva a confondere le idee a Luca.

«Ti ho aspettato dinnanzi al bar dove lavoro» disse col fiatone, come se avesse corso la maratona.

«Sono mortificato» riuscì a dire Luca contrito, «ma mi sono perso». Per rimediare alla figuraccia ordinò una piadina per lei, che si accomodò felice davanti a lui.

Chiacchierarono come due vecchi amici, che si ritrovavano dopo molti anni. Sembrava che dovessero smaltire tutto quello che era avvenuto nel frattempo. Finirono le piadine, innaffiate dall’albana secco. Luca ascoltava e annuiva alla valanga di parole che Simona riversava su di lui come una grandinata fuori stagione. Però la sua mente ogni tanto spaziava altrove, perso nei ricordi di Ersilia e rammaricato che il viaggio si stesse consumando in assenza della moglie.

Si domandò se lei avrebbe accettato un viaggio senza mete e senza obiettivi, solo guidato dal suo istinto. Scosse il capo. Questo viaggio era per lui la traversata del lago della memoria alla ricerca del tempo passato.

“Ma un passato esiste ancora?” si domandò incuriosito, mentre la ragazza narrava di come avesse smarrito molti anni prima le proprie radici.

«Andiamo a fare un giro tra i banchi» propose Simona, allungando le braccia, mentre si alzava. Pareva che volesse tenerlo stretto a sé.

Lei gli prese la mano, facendola passare sulla spalla. Sembravano padre e figlia che passavano in rassegna bancarelle e stand di giochi in attesa dei fuochi di mezzanotte.

parte sesta parte ottova

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Una vita – parte sesta

un disegno di Maria matthews
un disegno di Maria matthews

«A destra», «A sinistra», «Prenda quella stradina stretta», «Siamo quasi arrivati» diceva Simona con lo sguardo allegro nel dare le indicazioni del percorso, come un provetto navigatore. Forse ancor meglio di quella voce gracchiante del gadget elettronico.

Quel fiume di parole esuberanti, che stavano sovrastando Luca, lo riportarono indietro nel tempo agli anni giovanili. Era il momento delle speranze, dei sogni, dei primi amori. Il pensiero corse a Ersilia ma poi virò su Gloria. “Chissà dov’è?” si disse, mentre seguiva le istruzioni di Simona. “Vive ancora? È sposata, single, divorziata?” Di lei aveva perduto le tracce senza molte nostalgie.

“Perché questa ragazza che mi fa da navigatore mi ricorda Gloria?” si domandò Luca, mentre un velo di nostalgia calò sul suo viso. Eppure Gloria era stata solo la compagna di giochi e di avventure, vissuti più con la fantasia che nella realtà, ma di certo non aveva provato amore. Non si era posto nemmeno il quesito se l’amava, perché per Luca era l’amica, cresciuta giorno dopo giorno insieme a lui. “Certo abbiamo fatto le prime prove di baciare” si disse, sorridendo per la goffaggine di entrambi. La lingua inumidiva il viso e non le labbra. Gli abbracci, a ripensarci adesso, erano una pessima imitazione di quello che avevano visto al cinema, mentre la spingeva col suo corpo contro il muro del corridoio. Che splendida emozione aveva provato, quando aveva sfiorato le minuscole protuberanze sul petto, dure come il marmo, che affioravano sotto la camicetta. Ricordò che era arrossito, mentre aveva ritratto la mano per aver osato tanto. Gloria lo lasciava fare senza dire nulla. “Certo mi assecondava” pensò Luca, serrando le labbra. “Nella mia ingenuità di bambino non mi sono posto la domanda se le mie effusioni le avessero trasmesso qualche emozione”. Forse, riandando con la mente a quei momenti, Gloria si sarebbe aspettata qualche ardimento più temerario da parte sua, che non arrivò.

«Attento» urlò nelle sue orecchie la voce un po’ stridula di Simona.

Luca scacciò quei ricordi lontani per concentrarsi sulla guida. Aveva guidato come un automa e di certo non avrebbe saputo ritrovare la strada per ritornare in paese o allontanarsi da questi luoghi. “Se sono arrivato fin qui, seguendo l’istinto” si disse per nulla preoccupato, “da qui ripartirò con lo stesso spirito”.

«Siamo arrivati» lo avvertì Simona, che aveva descritto ogni angolo, ogni casa, ogni via con entusiasmo e passione, senza che Luca avesse ascoltato una sola parola.

Frenò dolcemente, mentre lo sguardo spaziò verso l’alto e verso il basso, inspirando l’odore della ginestra fiorita. Osservò con occhio sognante lo spettacolo offerto dalla giornata che stava virando verso la sera. Davanti a lui si ergeva un vecchio casale consunto dal tempo, abbarbicato al termine di una ripida salita. Era circondato da cespugli di ginestra e lavanda con un maestoso noce che ombreggiava la facciata. Di lato un fico dava sollievo a un tratto di prato.

Simona prese per mano Luca e gli fece strada, annunciando l’arrivo di un nuovo ospite.

«Maria» disse forte, affacciandosi alla porta su cui stava scritto ‘PRIVATO’. «Hai una stanza per…» e si interruppe perché non sapeva come si chiamava l’uomo che era con lei. Nella concitazione del momento non glielo aveva chiesto e adesso era impacciata con le guance rosse.

«Luca. Luca D’Astolfi» le suggerì senza imbarazzo ridacchiando per la strana situazione che si era creata.

Una donna, avanti negli anni e un po’ sfiorita dal tempo, uscì dalla porta, abbracciando la ragazza. «Certamente. Una stanza libera c’è sempre per le persone che Simona accompagna. Per loro c’è sempre posto».

Rivolgendosi a Luca, chiese: «Partite domani?»

«Non so» rispose Luca, perché l’istinto non gli aveva suggerito nulla. «Potrei anche fermarmi qualche giorno».

La donna sorrise, mentre cominciava a registrare i suoi dati anagrafici.

La stanza era luminosa e guardava verso il mare, che in lontananza cominciava a tingersi di rosso. Arredata con semplicità con un piccolo bagno ricavato in un angolo, era calda e accogliente. A Luca apparve in linea con la padrona di casa. Osservò stupito quella minuscola ragazza che con tanta incoscienza e fiducia si era incaricata di accompagnarlo senza sapere nulla di lui, nemmeno il nome.

Era venuto il tempo di accendere il telefono per far sentire la sua voce a Ersilia, che lo rimproverò aspramente per il lungo silenzio.

«Dove sei?» gli chiese addolcendo il tono della voce.

«Sono a…». Tacque perché non lo sapeva proprio. Si era dimenticato di chiederlo a Simona, perché la parte sognante lo aveva riportato indietro negli anni. La mente sghignazzò, perché la fantasia batteva in ritirata. “E smettetela voi due” li rimproverò Luca. “Sapete solo beccarvi senza darmi un aiuto”.

L’istinto gli suggerì la risposta. «La vista è meravigliosa ma il nome non lo ricordo» ammise imbarazzato Luca. Si aspettò l’ennesima strigliata di capo dalla moglie, che stranamente arrivò.

Parlarono a lungo, come se quella separazione avesse sciolto loro la lingua. Erano anni che vivevano di monosillabi e frasi smozzicate dettate più dalla rabbia che dalla voglia di comunicare. Sentivano il bisogno di trasmettere le emozioni che salivano dal cuore, come se fossero tornati ai primi tempi del loro amore.

«Ci sentiamo domani, Ersilia» concluse rilassato e felice Luca. «e sono pentito di non averti trascinata con me».

«Fai il bravo» replicò lei con la voce incrinata dalla malinconia.

Spento il telefono, Luca ragionò sul come organizzare la serata. “Andrò a braccio come il solito” fece, mentre toglieva dalla valigia un paio di pantaloni chiari e una maglietta fucsia, che dispose sul letto, e dei mocassini leggeri. Sentì la necessità di lavarsi. Sotto il getto di una doccia tiepida strofinò con vigore il corpo per togliere ogni residuo di stanchezza e di caldo, mentre canticchiava un vecchio motivetto ‘All fruit’. Forse lo storpiava nel suo inglese maccheronico ma nessuno prestava attenzione alla sua voce stonata.

Sorrise L’istinto l’aveva guidato con giudizio ancora una volta. Però doveva concentrarsi su quello che gli aveva detto Simona prima di sparire. «Se rifai la strada che abbiamo percorso per arrivare qui» gli aveva spiegato, «ti ritrovi in paese. Stasera grande festa per il patrono con i fuochi d’artificio».

Sospirò, mentre un vago senso di incertezza affiorò nella mente, sospinto dalla parte razionale. “Magari fosse così semplice rintracciare la via” pensò, mentre la fantasia gli suggeriva di fare come era abituato. Lasciarsi guidare dal suo istinto.

“Hai ragione si disse e nel vago chiarore della giornata morente, quando tutti i gatti sono grigi e bigi, si incamminò verso il paese alla ricerca di Simona, il suo angelo custode.

parte quinta parte settima

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Una vita – parte quinta

Luca si fermò un istante nell’osservare quello che accadeva intorno a lui, mentre bevve un sorso di vino bianco ormai riscaldato dall’aria rovente.

Lo schiamazzo dei bambini rompeva il silenzio infuocato del pomeriggio. Ripensò alla mattina, quando aveva annunciato a Ersilia la sua intenzione di intraprendere un viaggio. Il viso colmo di stupore e rabbia insieme a una velata minaccia. Luca scosse la testa. “Dovevo farlo” si disse, abbandonandosi sullo schienale della sedia. “Era una vita che desideravo farlo”. Era un modo per sfuggire alla noia della giornata e per stare insieme ai suoi ricordi.

Ersilia qualche mese dopo quell’incontro, nel quale lui era rimasto senza voce e senza pensieri, sparì con gli esami di maturità. Era un mese di luglio ugualmente caldo come quello che di questi giorni. Il sole arroventava l’aria e nelle aule si boccheggiava per l’afa. Il sudore incollava alla pelle ogni cosa. Luca era ancora lontano da quel traguardo.

Lui aveva percepito di essere entrato in una spirale che lo avrebbe trascinato verso un abisso senza speranze. Aveva sprecato l’unica cartuccia per colpire Ersilia, la donna dei suoi sogni, che era scappata a gambe levate. “Di chi era la colpa?” si chiese, mentre si dissetava con l’acqua. “Devo incolpare la mia dabbenaggine e la mia timidezza”.

Vide la ragazza e le fece un cenno. «Un caffè corretto con la grappa» ordinò alzando la voce, prima di ritornare a quei lontani giorni di luglio.

Luca aveva finito l’anno scolastico con una materia da portare a settembre. “Allora esistevano gli esami di riparazione” mormorò in silenzio, sorridendo come un ebete. “Ora li chiamano recupero debiti formativi. Bah! Cosa cambia?” Scosse la testa, perché mutava il nome ma la sostanza era la stessa. Quella materia insufficiente era stato un tassello del disgraziato innamoramento verso Ersilia, che era sparita, senza che lui avesse la speranza di riacciuffarla in extremis. Agli occhi di Luca lei era una donna matura che avrebbe affrontato l’università, mentre lui era un ragazzetto immaturo e incostante, che avrebbe continuato il percorso scolastico al liceo. Due percorsi e due mondi distinti erano sotto gli occhi grigio-verde di Luca, che non aveva capito la sua infatuazione per una ragazza più vecchia di lui, più alta, più, più … più in tutto.

Adesso comprese che quell’incidente scolastico, del tutto fortuito, era stato un segno del destino. Senza di esso non sarebbe mai cresciuto. Sarebbe rimasto l’eterno bambinone sognante e sognatore. Questo albergava comodo e soddisfatto dentro di lui. “Come avrei potuto cogliere la mela matura, che qualche anno più tardi sarebbe stata appesa al mio albero, pronta per cadere ai miei piedi?” rifletté, massaggiandosi il mento.

Mentre continuava a rinvangare i suoi ricordi, era arrivato il caffè, senza che Luca vi avesse prestato attenzione, nonostante la mente si fosse sbracciata per farglielo notare. Il tavolo era ingombro di cibo e bevande. C’era un mezzo panino ormai sfatto, un liquido biondo nel calice, la bottiglietta dell’acqua appena sorseggiata e la tazzina del caffè fredda.

La ragazza girava inquieta tra i tavoli vuoti, sbirciando Luca. La incuriosiva quell’uomo calvo e dal fisico appesantito da qualche chilo di troppo. Però lei tra qualche minuto terminava il suo turno e doveva incassare il conto prima di andarsene. Non osava avvicinarsi, perché lo vedeva assorto nei pensieri incurante dell’afa asfissiante e dei rumori che lentamente animavano la strada. Era indecisa, perché le sembrava di rubargli il tempo alle meditazioni. Il servizio ai tavoli non le era mai piaciuto. “Oggi ancora di più” pensò incerta tra chiedere il pagamento e osservarlo in silenzio.

La parte razionale richiamò l’attenzione di Luca. “Mi sono perso nei meandri della mente” si disse indispettito per quell’intrusione non gradita. “E per di più non so dove sono”.

La ragazza si avvicinò rinfrancata, Le sembrò il momento giusto per farsi pagare il conto.

«Sono tredici euro e quaranta centesimi, signore» disse con tono dolce e un bel sorriso, mentre posava sul tavolo lo scontrino fiscale. Aggiunse arrossendo. «Tra qualche minuto è finito il mio turno e dovrei incassare il conto. Spero di non avere rotto l’incantesimo dei suoi pensieri».

Luca le sorrise. Quel viso gli era piaciuto, appena l’aveva intravvisto.

«Certo» fece Luca, prendendo dal porta monete una banconota da venti euro. «Non mi sono accorto di essere rimasto così a lungo qui».

Mise sul tavolo i venti euro.

«Tra un attimo le porto il resto, signore» rispose la ragazza, voltandosi verso la cassa.

«Aspetti» disse Luca, trattenendola per un gomito, mentre accennava a tenere il resto come mancia. «Mi può dire sono finito?»

«A pochi chilometri d qui c’è il mare» rispose la ragazza, facendo lampeggiare di orgoglio i suoi grandi occhi verdi. «Ma adesso si trova sulle colline tra Appennino e mare Adriatico. Un posto meraviglioso».

Luca la osservò con lo sguardo incantato.

«Come si chiama?» le chiese, osservando quegli occhi verdi da gatta. Si sorprese di tanto ardimento e ripensò che avrebbe dovuto averne altrettanto quella volta con Ersilia. Invece era rimasto muto come un pesce.

Luca si aspettava una risposta stizzita ma, quando udì «Simona», sobbalzò sulla sedia perché si era rotto il silenzio dentro di lui.

«Pensa di fermarsi in paese, stasera?» gli chiese Simona curiosa di conoscere questo sconosciuto che le sembrava che vivesse in un mondo incantato.

«Non so» fece Luca, mettendo a tacere la parte razionale che era insorta alla sua espressione dubitativa. «Non ho deciso». Però la mente non rimase in silenzio. “Siete un bugiardo! Non è vero che non lo sai” strepitò inviperita. “Taci!” le impose Luca.

«C’è festa stasera per il santo Patrono» insistette Simona, che lo incalzò per convincerlo a rimanere. «Fuochi d’artificio a mezzanotte e tante bancarelle nel sagrato della chiesa».

Luca sorrise. Aveva deciso d’istinto. Si sarebbe fermato per osservare la festa, perché erano suoni familiari, quando a maggio si festeggiava nella sua città. Il sorriso sparì in fretta, perché non avrebbe saputo dove fermarsi per la notte.

«Ma c’è un albergo in paese?» chiese Luca con lo sguardo spento, perché forse non c’era nulla.

«Le posso indicare un bed and breakfast appena fuori dal paese» continuò Simona sorridente. «Se aspetta qualche minuto, la posso accompagnare io». E sparì alla sua vista.

Luca incerto era preso tra due fuochi. La mente, che gli ordinava di riprendere il viaggio verso l’ignoto, e la fantasia, che lo incitava a raccogliere quell’invito insperato. “Non te ne pentirai” gli suggerì la parte sognatrice, per convincerlo a restare.

Le due parti erano intente a litigare, quando Simona comparve dinnanzi in jeans e camicetta pronta a condurlo in posto sconosciuto.

«Andiamo» disse Luca d’istinto, avviandosi verso la macchina, mentre lei lo seguiva spensierata, incurante dello sguardo del gestore del bar.

parte quarta parte sesta

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Una vita – parte quarta

tratto da wikipedia
tratto da wikipedia

Luca aveva sei anni. Vedeva la corte irregolare, sommersa da assi e legname, recuperato dalle vecchie case, bombardate dalla guerra. C’erano due pezzi di marmo tondeggianti un a volta bianchi, adesso inscuriti dal tempo e dalla polvere. Forse facevano parte di vecchie colonne, che non sapeva dove fossero collocate.

“Erano la parte superiore o inferiore?” si interrogò senza troppa fretta, né curiosità, perché erano il mondo dei giochi assieme a due sedili di marmo rosato butterati dal tempo.

Salire, scendere, saltare era il mondo della fantasia di bambino, che immaginava quali avventure dovesse affrontare. Un lampo. Un urlo di dolore era uscito dalla bocca, mentre la gamba sanguinava come una fontana. La corsa disperata al pronto soccorso, i pianti e le paure erano immagini vive e reali, che scorrevano sullo schermo in tre dimensioni della mente.

La mente razionale se ne stava in un cantuccio ben nascosto ma pronto a uscire allo scoperto infingardo e falso, quando la fantasia avrebbe finito la pellicola.

Il filmato era irregolare, a strappi quasi singhiozzante, perché era consunto e annerito dal tempo.

Luca stava su un lettino del Pronto Soccorso, molto diverso da quelli attuali. Vetrinette con dentro i medicinali, un lavandino di ferro smaltato bianco con qualche traccia di ruggine su una parete, un medico con un camice non immacolato che osservava la sua ferita. Luca guardava fuori dalla finestra un giardino ricco di magnolie imponenti dalle foglie verdi lucide, mentre piangeva in silenzio. La ferita era infetta, perché nella fretta della medicazione avevano lasciato dentro una garza. L’uomo scuoteva la testa e diceva «Speriamo».

Quali pensieri potevano essere frullati nella testa di Luca bambino? Adesso non lo sapeva, né lo ricordava ma quale importanza poteva avere. Mentre ripensava a quegli anni lontani, era sicuro che il terrore di perdere la gamba era stato immenso, sovrastato solo dall’incoscienza di avere sei anni.

Avrebbe rivisto quelle magnolie altre volte, mentre lentamente la ferita diventava una lucida cicatrice ben evidente nel ginocchio, che ancora adesso era in bella mostra.

I fotogrammi scorrevano veloci davanti agli occhi, mentre Luca bambino scendeva in strada dalla finestra della camera da letto o scivolava incosciente sul corrimano delle scale. Era un discolo irrequieto sempre pronto ad arrampicarsi ovunque pensando a Tarzan e trascinava con se Gloria, che lo ammirava con due occhi dolci e immensi.

Sorrise a quei lontani ricordi. “Forse sono cambiato?” si chiese, tenendo in mano il calice di vino. Scosse la testa, perché era conscio che era stato sempre fuori dal coro, perché stonava e rovinava l’armonia delle voci. “D’altra parte non sono tagliato per la musica” si concesse, sorseggiando il vino fresco.

Era solo nel dehor immerso nel caldo asfissiante di luglio e aspettò qualche attimo prima di mangiare un boccone del panino che aspettava nel piatto.

Si chiese perché si era immerso nel flusso dei ricordi, che gorgogliavano sicuri nella mente, mentre la razionalità timidamente si affacciava fuori dal luogo segreto nel quale si era rintanato.

“Vergogna!” gli gridò la fantasia stizzita per la codardia dell’altra parte.

“Avete finito di litigare?” li riprese Luca irritato del continuo battibeccare delle due personalità che albergavano dentro di lui. “Voglio ricordare e basta”.

La pellicola si era spezzata e doveva riattaccarla, se voleva proseguire a vedere il prosieguo del film della sua vita. Non era facile ma testardamente ci provava.

Il suo occhio stanco per il viaggio, mentre il sudore scivolava tra le ciglia, vide in lontananza dei bambini che disegnavano qualcosa sul marciapiede infuocato prima di iniziare un gioco chiassoso e allegro.

“Un gioco di strada di certo” fece Luca affascinato da quel vociare infantile tra note acute e timidi sussurri. “Ma dove sono, se i bambini usano la fantasia per giocare?” Si guardò in giro alla ricerca della ragazza che lo aveva servito ma era sparita.

Non vide nessuno e così, come per magia, si sentì trasportare nella corte senza erba con un sicomoro frondoso e qualche aiuola maltenuta addossata ai muri. Era il suo regno da maggio a ottobre con i giochi aiutati dalla fantasia, annaffiati da secchi d’acqua gelida, che dalle finestre venivano gettati con abbondanza per raffreddare la turbolenta gioiosità dei ragazzini.

Poi si concentrò su quel gioco tanto affascinate quanto inadeguato per le dimensioni della corte.

“Come si chiamava?” chiese aiuto alla fantasia, perché la mente si era nuovamente nascosto.

“Ah! Bac e Pandon!” replicò lei con immediatezza.

Era un gioco ricavato da un elemento povero: un vecchio manico di scopa, messo in un angolo in attesa di finire nella caldaia in minuscoli pezzi. Il pandon era una piccola scheggia di legno appuntita da entrambi i lati, che doveva essere colpita dal bac, il manico tagliato. La scheggia si alzava roteando prima di essere colpita al volo e mandata lontana. Vinceva chi riusciva a mandarla il più distante possibile. L’abilità consisteva nel prendere il pandon. quando roteava veloce in modo imprevedibile. “Mica era semplice” pensò Luca, appoggiando le spalle allo schienale della sedia. “Riflessi e colpo d’occhio erano necessari, perché il pandon doveva essere colpito nel punto centrale per farlo volare lontano. Altrimenti cadeva miseramente ai tuoi piedi”. Però, c’era sempre un però nel gioco, perché se finiva su un vetro erano dolori.

Luca sorrideva beato e felice ma era tempo di tornare a Ersilia.

parte terza parte quinta

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Una vita – parte terza

Dentro di lui avvertì un conflitto. La parte razionale rimproverava a quella sognatrice di essere disattenta. “Se non ci fossi io a fare da sentinella” disse con tono saccente la mente, “avremmo passato un bel guaio”, La fantasia sbuffò, alzando le spalle. “È meglio sognare che stare sempre a spaccare il capello in quattro” fece l’area fantasiosa con aria sognante. “Smettetela di litigare!” le rimproverò Luca. “Mi state distraendo”.

La via era ingombra di persone e detriti, come una discarica. Si era fermato appena in tempo per non finire nel caos.

Luca osservò distratto quel disastro. Lui continuò a ripercorrere quei cinquanta anni all’indietro, fino a quando aveva conosciuto Ersilia. Però avvertiva una strana sensazione. Si sentiva riarso dentro, perché la fiumara della memoria era un letto essiccato dal sole di agosto cosparso di sassi levigati dal tempo. I ricordi era svaniti.

Luca continuava a guardare davanti a lui ma non fissava nulla. Lo sguardo era perso nel vuoto. La mente girava a vuoto. Dei rumori fastidiosi lo distolsero. Si riscosse dall’apatia momentanea. Dei clacson suonavano impazienti ma Luca non aveva voglia di muoversi o meglio pensava di indugiare ancora un po’. Tuttavia non poteva restare lì a contemplare qualcosa che tutto sommato non gli interessava. Si avviò con lentezza, quasi esasperante, mentre un vigile nervoso gli faceva segno di andare più svelto, agitando la mano destra con frenesia.

Di colpo avvertì una grande stanchezza. Avrebbe voluto fermarsi ma non c’era nemmeno uno spiazzo degno di questo nome. Avanzò per quella strada a passo d’uomo, mentre mandava a quel paese gli automobilisti impazienti che continuavano a strombazzare dietro di lui. Scorse in lontananza una minuscola piazzola, che poteva accoglierlo.

Trovò un riparo sotto i platani che ombreggiavano la strada, mentre si domandò cosa stava facendo in quel posto sconosciuto. Si ricordò che era partito alla mattina verso una destinazione ignota, seguendo il proprio istinto. Adesso era in un luogo, lontano da un centro abitato, col sole di mezzogiorno alto nel cielo. Quindi aveva raggiunto l’obiettivo. Rimaneva un senso di insoddisfazione di fondo.

“Non ha importanza, dove siamo” ribatté Luca all’irrequieta razionalità della mente, che premeva per chiedere, per sapere, per decidere. “Perché dovrei prendere una decisione? Si vive al momento. Carpe diem. Direbbero i romani”.

Adesso il lungo stradone diritto era vuoto. Riavviò il motore e con circospezione si rimise sulla carreggiata.

“Cosa devo decidere?” ripeté stanco e annoiato, mentre tentava con la fantasia di insinuarsi nella terra arida alla ricerca del suo fiume di memorie scomparso.

Guardò l’ora e ammise che era venuto il momento di fare una sosta, di vedere qualche faccia non più di sfuggita ma fissa e parlante. Proseguì finché non incontrò un paese di cui all’ingresso non si curò di leggerne il nome. “Ha qualche importanza sapere se siamo arrivati a…?” disse Luca per placare la mente, che invece avrebbe voluto conoscere il nome della località.

Proseguì tranquillo, mentre una strada alberata lo accolse. Non c’era anima viva in giro alla quale domandare qualche informazione.

“Perché dovrei farlo?” si chiese con un sorriso stanco. “Un posto per fermarmi lo troverò di certo a meno che non sia un paese fantasma”.

Sapeva che non era così. Troppe case per essere disabitato. Procedette seguendo un misterioso impulso. Qualcosa gli diceva che avrebbe trovato un bar, una trattoria, una qualsiasi cosa dove poter prendere qualcosa. Il suo istinto ebbe successo. All’ombra dei tigli c’era un dehor, che sembrava ammiccare con l’occhio destro ‘Fermati. Qui si sta bene e al fresco’. Luca vide poco più avanti un parcheggio a pettine sotto gli alberi, del tutto deserto. Si fermò e scese dall’auto. Si stiracchiò per dare elasticità ai muscoli rattrappiti per il lungo viaggio.

Si soffermò un attimo per capire dove fosse finito, seguendo l’estro del momento. “Ma ha importanza sapere dove sono?” disse la fantasia, che si crogiolava nello sbizzarrirsi in sogni e fantasticherie sul misterioso luogo.

“Ma certo” rimbeccò acida la parte razionale di Luca, perché tutto sembrava congiurare per nascondere il nome del paese.

Non c’erano persone, né cartelli, né indicazioni alcuna, la toponomastica della strada era parzialmente coperta dal glicine fiorito che si inerpicava sinuoso e intrigante sull’angolo. “C…. Ma…..i” era il poco che si leggeva.

Subito l’immaginazione cominciò a lavorare sulle lettere celate. “Caro Maestro” si lasciò andare. “Ma no. C’è una i sul finale”. Lei avvertì un senso di impotenza perché non riusciva a comporre il nome.

“Ma non immaginare quello che non sai!” fece la mente, che ridacchiava sulla frustrazione della fantasia.

“Avete finito di beccarvi?” disse Luca, mentre si accomodava nel dehor, aspettando l’arrivo di un cameriere che tardava ad arrivare. “Ora si mangia e poche chiacchiere”.

Messi a tacere quei due impiastri, pronti solo a distrarlo, il suo pensiero tornò a quei giorni di beata incoscienza che era stata la sua adolescenza. Ersilia era stato il primo e grande amore, diventato alcuni anni più tardi realtà. Però prima di lei c’era stata Gloria, una ragazzina magra come uno stecchino. Era stata la compagna di giochi e di avventure, inseparabile fino a quando a tredici anni non aveva cambiato casa. I primi baci furtivi, le prime carezze audaci erano state strappati nella buia penombra dello stretto corridoio che dal cavedio interno portava nella corte esterna. Nessun ‘ti amo’ era stato mai sussurrato ma dove c’era l’uno, stava anche l’altra.

I ricordi erano confusi, offuscati da una coltre di polvere, che rendevano opachi i contorni. Eppure erano lì, pronti a balzare fuori, senza che Luca riuscisse a vederli, a rinfrescare la memoria. Stavano in un limbo di indeterminatezza, di non vuoto, di non pieno senza tempo e senza spazio. Provò a concentrarsi ma erano ricacciati indietro da qualcosa più forte della sua volontà.

«Signore! Signore!» sentì una voce gentile fuori campo. «Desidera ordinare qualcosa?»

Luca strizzò gli occhi per mettere a fuoco l’immagine di una ragazza giovane coi capelli raccolti sulla testa. Era lì da tempo. Qualcuno lo chiamava ma lui era volato altrove, indietro nel tempo. La cameriera stava di fronte a lui con un viso pulito, dove stavano incastrati due grandi occhi verdi.

“Solo io riesco a far squillare il campanello d’allarme” diceva beffarda e velenosa la mente alla componente estrosa di Luca.

La fantasia non poté ribattere, perché Luca li mise a tacere. Adesso doveva ascoltare la voce della cameriera.

«Un panino al prosciutto crudo, una bottiglietta d’acqua naturale fresca e un calice di vino bianco» ordinò alla ragazza dopo avere ascoltato la lunga litania del mangiare disponibile.

L’osservò che ancheggiante tornava al riparo del bancone. Notò i capelli di un bel colore ramato naturale. Prima non se ne era accorto. Quella vista avevano avuto il potere di ripescare dalla sua memoria quei lontani ricordi. Eppure non la associava a nessun volto femminile che aveva conosciuto nel passato. Era un’anonima figura dalla corporatura minuscola e dall’età non ben definita tra i venti e trenta anni.

Adesso gli episodi del passato tornavano gorgoglianti alla luce del sole, riemergendo dall’oblio nel quale erano confinati.

“Hai visto menagramo” disse la fantasia alla mente. “I ricordi ci sono e sono limpidi”.

Stavano lì, sul tavolo. Era sufficiente chiudere gli occhi per osservare lo scorrere della pellicola in bianco e nero di molti anni prima.

parte seconda parte quarta

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Una vita – parte seconda

Luca spense il telefono, perché non voleva essere disturbato. “Chi mi chiamerà?” si domandò, mentre prestava attenzione al traffico nervoso che scorreva attorno a lui. A parte Ersilia, che di certo non aveva nessuna intenzione di ascoltare durante il viaggio, non c’erano altre voci da incrociare via etere. Quindi era meglio che tacesse.

Girò a destra, poi a sinistra, infilando una via che non conosceva. Non lesse i cartelli che indicavano la direzione. Una strada di cui ne ignorava l’esistenza. Aveva deciso, in un momento di lucida follia, che avrebbe inseguito quello che per quaranta anni non aveva fatto: seguire l’istinto, dimenticando chi era.

Luca avvertiva dentro di sé malinconia. Ne ignorava il motivo, perché in realtà doveva essere felice. Doppiamente felice. Era in pensione e stava affrontando un viaggio che aveva sempre sognato. Sapeva di essere un introverso che la mascherava, mostrando un lato della sua personalità che non gli apparteneva. Tutti lo credevano estroverso, perché parlava in continuazione di ogni argomento, anche talvolta a sproposito. Si inseriva, non gradito, in qualsiasi conversazione, dispensando suggerimenti e consigli gratuiti. Era un esperto di ogni cosa ma i colleghi e gli amici lo ignoravano, lasciandolo parlare a ruota libera. Qualcuno avrebbe potuto affermare che aveva una personalità bipolare, ammesso che si potesse definire così il suo carattere, scisso in maniera dicotomica in due parti. Quella da mostrare al mondo e quella che cullava durante i sogni notturni.

Luca amava la seconda, quella vera, quella che gli dava tutte le soddisfazioni, che la prima gli negava. Durante il sonno immaginava di inseguire la Gloria. Se qualcuno avesse sentito quel nome, avrebbe pensato a quella dolce ragazza che aveva condiviso giochi e avventure da bambino. No, sarebbe stato fuori strada. Era la prima pagina della rivista letteraria ‘Il sabato’, dove gli autori famosi venivano intervistati. Si domandò dubbioso, se sarebbe riuscito rispondere alle domande, perché un conto era sognare, ben diverso parlare su qualcosa che non conosceva.

“Ma quali domande mi avrebbero rivolto?” continuò a interrogarsi. In sessantasei anni non ho scritto un rigo di nulla”. Luca sognava a occhi aperti che avrebbe vinto il premio Pulizter o il Nobel per la letteratura con un romanzo, grosso come una torta nuziale a sette piani, dal titolo indefinito e dalla trama inconsistente.

Era un autentico sogno il suo, nel senso che sarebbe stato irrealizzabile. Sorrise compiaciuto. “Mi dovrei mettere a piangere?” pensò, mentre a uno svincolo si immise un una nuova via ignota. Seguiva il filo dei suoi pensieri, senza sapere verso quale destinazione stava andando.

“Non ha importanza” diceva tutte le mattine a quella parte di Luca, che, svegliatasi con quella esterna fasulla, si abbandonava alla malinconia del nuovo giorno. Però era bello lasciarsi cullare nel sonno da quelle visioni piene di luccicanti mondi da prime pagine patinate, anziché stare accanto alla grigia Ersilia, che ronfava pesante vicino a lui.

Era affezionato alla moglie, che lo sopportava da molti anni.

Mentre guidava guardingo, attento a non infilare un senso vietato e alle trappole del traffico, ripensò con malinconia quanti anni erano passati da quando l’aveva conosciuta.

“Sono passati troppi anni” disse alla sua controfigura, seduta sul posto del passeggero, mentre la musica dei Rolling Stones invadeva il suo spazio mentale, entrando in contesa con la concentrazione.

Era stato un giovane di belle speranze, neppure troppo bello, un po’ grassoccio e imbranato quel tanto che bastava per sembrare a volte un tontolone. Lei era una bella ragazza dai capelli biondo stoppia e gli occhi nocciola. Lo superava in altezza di poco, dalle lunghe gambe, dritte come un fuso, e con un fisico longilineo, che la faceva apparire come se fosse molto più alta del reale. Aveva un paio d’anni più di Luca.

Mentre armeggiava impaziente con l’autoradio alla ricerca di qualcosa di piacevole da ascoltare, si domandò, perché tornava sempre a quel punto di cinquanta anni prima, quando ne aveva solo sedici.

La parte falsa di Luca fingeva di non saperlo, perché era talmente abituata a simulare, che il vero gli pareva falso.

“Come puoi non conoscere i motivi?” gli rinfacciava il suo lato sognatore, che con malinconia inumidiva l’occhio al semplice ricordo di quegli anni dorati.

Luca era in terza liceo con viso butterato da una fastidiosa acne e gironzolava speranzoso nei paraggi della V A, la classe dove Ersilia imponeva la sua bellezza. Ci voleva poco, visto che le altre ragazze erano tanto scorfani quanto secchioni da fare invidia a Pico della Mirandola. Insomma erano tanto brave quanto inversamente apparivano graziose. “Beh!, dei mostri inguardabili proprio no” rise Luca ripensandoci. “Di certo non facevano concorrenza a Miss Italia. Magre, ossute, con seno inesistente, qualche brufolo mal coperto dalla cipria erano il campionario migliore del loro aspetto”. Dunque Ersilia era la Nefertiti della classe, che attirava i compagni come un fiore, preso d’assalto da api e farfalle.

Luca non aveva speranze di essere notato perché, quando lei gli rivolgeva la parola, lui diventava rosso come un gambero e si impappinava come un principiante. Tutti i discorsi che aveva preparato con cura, qualora l’agognata preda si fosse degnata di un uno sguardo o di una parola, finivano in monosillabi incomprensibili e balbettanti, mentre la testa si svuotava d’incanto come un cestello saccheggiato dall’orso Yoghi.

Rimaneva lì impallato a bocca semi socchiusa con l’occhio spento e perso nel vuoto, finché Ersilia ridendo non si allontanava sotto braccio a quell’antipatico di Roberto. Allora si ridestava come la bella addormentata nel bosco mentre i pensieri, che erano fuggiti o si erano nascosti tra le pieghe della mente, ritornavano allegri e beffardi a popolare la sua testa. Era un copione quotidiano, al quale non riusciva a trovare un rimedio.

Quello che più lo feriva erano i commenti dei compagni. Riferivano che quel tontolone di Luca aveva fatto girare la testa alla maliarda, così era chiamata la bella Ersilia, ma che quell’imbranato restava muto come un pesce o farfugliasse parole senza senso.

I sensi suonarono un campanello per avvertirlo che c’era un pericolo imminente a cui prestare attenzione.

Il fiume dei ricordi si essiccò o meglio sparì tra le rocce carsiche della memoria in attesa di ricomparire spumeggiante e limpido dopo il percorso sotterraneo, quando tutto era tornato in sicurezza.

parte prima parte terza

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Una vita – parte prima

Si chiamava Luca D’Astolfi, ma era conosciuto da tutti come Ninì al Ros. Non c’era speranza di chiedergli il motivo, perché era ignoto pure a lui. I capelli, prima di perderli, non erano diventati grigi ma erano di un colore prossimo al nero. Non schiarivano nemmeno col sole. Quindi il sopranome non dipendeva da questo.

Forse le tendenze politiche? No, nessuna illusione che virassero a sinistra. Lui si era sempre professato come apolitico. Quando andava a votare, se ne aveva voglia, metteva la crocetta su quei partitini curiosi e impossibili da essere seri. Gli sembravano patetici e meritevoli della sua compassione. Nomi improbabili con simboli curiosi. Così, quando era dentro quegli squallidi gabbiotti di legno, che stavano su per miracolo, con la tenda dal colore indefinito, passava in rassegna la scheda elettorale. Era alla ricerca del simbolo più insolito e improbabile da votare. “Che gusto c’è dare il voto alla Democrazia Cristiana o al Partito Comunista” si diceva col sorriso sornione. “Tanto loro del mio voto se ne fregano e non sposta gli equilibri”. Sembrava il buon samaritano che correva in aiuto di quei minuscoli partitini che alla fine ottenevano qualche migliaia di preferenze. Ovvero lo zero virgola zero e qualche centesimo.

Ricordava con una punta di malinconia che nel 1968, una delle prime volte che andava a votare, aveva contrassegnato con una bella ed evidente X il partito “PAPI”. Cosa significasse quell’acronimo non lo sapeva nemmeno lui. Immaginò che volesse dire ‘Partito Anti Partito Italiano’, Non indagò mai a fondo. Tanto non gliene fregava nulla. Il suo dovere di elettore l’aveva fatto.

«Eh! Sì. Quelli erano dei bei tempi» diceva al bar della piazza vicino a casa tra i sorrisi ironici degli amici e conoscenti.

Quando nei giorni successivi alle elezioni non andava a vedere i risultati ma scorreva le liste dei candidati. Era un dettaglio che lo incuriosiva parecchio. Scorrendo le preferenze, leggeva accanto al nome dei più sfigati, di solito quelli che stazionavano sul fondo della lista, un bel zero ovvero nessuno si era degnato di segnarlo sulla scheda elettorale. Si era sempre domandato. “Se mi candido, almeno metto il mio nome, perché sarebbe vergognoso che accanto a Luca D’Astolfi compaia un bel zero. Poi bastonerei mia moglie, i miei figli, gli amici più fidati se non facessero altrettanto”. Eppure questa vergogna era sotto gli occhi di tutti e lui non riusciva a comprenderla.

Dopo avervi tediato con queste parole, accantoniamo il problema sopranome, che rappresentava enigma anche per Luca, perché c’era poco capire. Da quando aveva la memoria, all’incirca sei o sette anni, si era sempre sentito chiamare così in casa e fuori e lui rispondeva a tono.

Aveva sessantasei anni quando andò in pensione dopo una vita di lavoro dentro e fuori da quel capannone sulla via del mare. La moglie, Ersilia, ma che razza di nome le avevano appiccato si domandava spesso, era in ansia al pensiero di trovarselo tra i piedi tutto il giorno. La figlia, Ofelia, in questo caso l’errore era stato suo, perché aveva litigato per il nome con Ersilia. Per dispetto l’aveva chiamata come la tragica protagonista di Amleto, era già oltre i trentacinque anni con zero matrimoni o convivenze alle spalle. “Un vero record” diceva spesso a Ersilia, che alzava le spalle. Secondo lui era irrecuperabile. Eppure era una donna piacente ma pure pedante. “Che fosse lì il segreto dei suoi insuccessi?” si chiedeva Luca, mentre al mattino sorbiva il caffè. Il figlio, Mario, finalmente un nome serio, se ne era andato da diversi anni per la sua strada. Faceva la vita da single incallito nonostante la corte assidua di una fanciulla, della quale Luca non ricordava né nome né viso. Però non gliene importava nulla, se il bambinone non voleva crescere in coppia. Erano affari suoi, perché lui l’errore l’aveva già commesso e non ci pensava minimamente di correggerlo.

Due giorni dopo avere raggiunto l’agognato traguardo decise che era venuto il momento di fare un bel viaggetto tutto solo. E lo comunicò a Ersilia.

«Parto per il mondo» le disse durante la colazione. «Mi vedrai al ritorno».

La moglie lo guardò stralunata e di sbieco, pronta a squartarlo vivo, se avesse osato mettere in piedi quel subdolo piano.

«Ho capito bene?» rimbeccò acida la donna.

«Vado a preparare la borsa con le mie cose» rispose soave e serafico Luca, per nulla intimorito dall’atteggiamento bellicoso, pronto alla rissa della moglie, e sparì nella camera da letto.

Così disse e così fece.

Luca D’Astolfi era un piccoletto, con la tendenza alla pinguedine, stempiato, forse più corretto calvo, ed eccitato per aver raggiunto la pensione. Guardava dall’alto del suo metro e sessanta gli altri per i quali il miraggio di goderla era una sorta di fata Morgana. Portava sul naso un paio di occhiali dalla montatura chiara, benché lui sostenesse che ci vedesse benissimo anche senza. In realtà faceva fatica a distinguere un tre dall’otto.

Luca prese la vecchia Fiat e si fermò al primo distributore che incontrò. Esattamente dove voleva andare era un mistero pure per lui. Dunque sceso dall’auto, intavolò infervorato con il gestore una lunga discussione su viaggi, lavoro e pensioni da fame. Non mancò di disquisire su donne, politica e calcio. Il classico argomentare da Bar Sport.

Il benzinaio, un uomo alto, ossuto, peloso e sporco di grasso, lo ascoltò infastidito, perché non gli andava di parlare di politica, di donne con uno sconosciuto. Mentre riempiva con la verde il serbatoio della Fiat Punto, anzianotta e scrostata, pensò che i clienti volevano parlare solo di donne, di politica e di calcio e non stavano mai zitti. Il flusso delle parole lo investiva come raffiche di libeccio.

«Sono 45€» disse a Luca, sperando che la mitragliatrice, che l’uomo aveva in bocca, cessasse di sparare parole per l’esaurimento delle cartucce.

Lui imperterrito continuò a parlare di Ibra e Ronaldo. E non solo. Di veline e donne, uscite alla ribalta del gossip nei giorni precedenti, di elezioni e governo. Mostrava una sicurezza, come se fosse un esperto in materia, senza prestare orecchio alle richieste dell’uomo in tuta giallo sporco. Non aveva ancora compreso che era in pensione da due giorni. Il benzinaio si comportava come gli ex colleghi di lavoro, che non lo ascoltavano.

Adesso il gestore era contrariato, perché quell’uomo parlava di argomenti che non lo interessavano e inoltre stava facendo crescere la coda dei clienti in attesa.

«Mi dia 45€. E sposti la macchina. C’è coda dietro di lei» disse irritato con un mozzicone di sigaretta spento tra le labbra, senza prestare attenzione al fiume di parole, che sgorgava senza posa dalla bocca di Luca.

A quella richiesta brusca la fonte cessò di colpo di zampillare, come se si fosse inaridita per un qualche accidente di imprevisto. Pagò in silenzio e se ne andò offeso.

Il viaggio non era iniziato sotto i migliori auspici.

parte seconda

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Racconto da B+55. Una sfida

Gianni ha proposto una sfida scrivere un racconto che contenga la lettera B pù di 55 volte. Poiché mi solleticano eccomi col mio raccontino. Non si vince nulla ma provarci mi piace

Foto personale
Foto personale

Una battaglia. Sì, proprio una balorda guerra era quella che aveva opposto Bernardo a Beatrice. Non era chiaro il motivo del litigio dei due amanti. Tutto era iniziato nel bosco nel bel mezzo di una passeggiata, che fino a quel momento era trascorsa lietamente, tenendosi per mano.
«Sei un babbeo» aveva bofonchiato Beatrice, all’improvviso.
«E tu sei un allocco» disse Bernardo, scuotendo il capo. Si pentì quasi subito di avere aperto la bocca. Lui non aveva voglia di litigare con le parole, perché sarebbe finita in baruffa. Era il filo conduttore della loro relazione. Lo sapeva e non riusciva a frenare la lingua.
«Allocco dici a tua madre!» reagì Beatrice aggressiva.
Bernardo batté un piede per terra. Si fermò e frenò la frecciata tranciante che aveva pronto sulle labbra. Lui le scoccò una sguardo torvo e riprese a camminare, come se non avesse sentito la frase.
Beatrice gettò sul sentiero il bastone che teneva in mano con un gesto teatrale. Bollò il compagno come uno, che non meritava la sua attenzione. Le bruciava quella parola “allocco”, dimenticando che lei aveva innescato il litigio, dandogli del “babbeo”. Rimase ferma sul posto, in mezzo al sentiero.
“Sarebbe da beoti litigare per una parola fuori luogo” borbottò Bernardo infastidito. Non ricordava perché gli aveva dato del babbeo. “Non mi fa né caldo, né freddo quel suo biascicare parole in libertà”. Era deciso a non dare seguito al litigio.
Beatrice era basita, perché lui, invece di fermarsi e confrontarsi con lei, aveva scelto di camminare, piantandola in mezzo al sentiero.
«Bernardo!» urlò lei, facendo volare via un paio di uccelli.
Lui si girò di malavoglia. “C’era bisogno di urlare così?” si chiese, mentre pensava alle baggianate che doveva sorbirsi quasi tutti i santi giorni per giustificare le sue intemperanze. Fu investito da una babele di parole senza un filo logico. Pareva un uragano tropicale o forse il crepitare di una mitragliatrice.
«Smettila di fare del baccano inutile!» fece, tentando di moderare il tono. Lo sguardo non prometteva nulla di buono.
Lei spalancò gli occhi. «Baccano?» rispose coi pugni piantati sui fianchi. «Sei un vecchio bacucco! Un baciapile, capace solo di baciare delle zucche bacate!»
Bernardo perse il lume della ragione e la scosse con violenza. «E tu chi credi di essere?» le urlò nelle orecchie. «Una bisbetica irrancidita!»
Detto questo riprese il sentiero. Dentro di lui bolliva l’ira. “Questa è la sua ultima piazzata!” mormorò fra sé. “Ha chiuso con me!”
Lei lo guardò impietrita allontanarsi. Corse a perdifiato fino a raggiungerlo.
«Pace?» e lo baciò sulla bocca.

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Un’emozione indelebile: la prima guida

tratta dal web - Conceptcarz.com
tratta dal web – Conceptcarz.com

Avevo quasi diciotto anni quando ho imparato a guidare l’auto con tutta l’incoscienza di quell’età.

Erano i primi anni sessanta; le vacanze estive iniziavano all’incirca a metà giugno per terminare a ottobre, quasi quattro mesi senza fare niente. Era un tempo infinito tra calura e noia. Così molti noi si erano trovati un’occupazione estiva che da un lato riempiva una parte del tempo, dall’altro permetteva di mettere in tasca qualche liretta, che non faceva mai male.

Anch’io non ero sfuggito alla regola. Mentre alcuni andavano in campagna a raccogliere la frutta e altri lavoravano nello zuccherificio della zona, io andavo a lavorare nel distributore di benzina di zio Lino. In realtà non si chiamava così. Però per me era sempre stato lo zio Lino, anche se scoprì qualche anno più tardi che il suo vero nome era un altro: Olindo.

Dalle mie parti è sempre esistita una curiosa usanza, che consisteva nel dichiarare all’ufficiale dell’anagrafe un nome, del quale appena il padre era uscito se ne perdevano le tracce. I nomi non erano i soliti, ai quali siamo abituati, come Paolo, Mario, Anna, e così via. Ma reminiscenze scolastiche come Penelope, Laerte o per i melomani Aida, Radames oppure quelli pseudo esotici Widmer, Wilmer. Però avveniva anche un’altra curiosità, che era meno spiegabile del caso precedente. Il nome anagrafico era tradizionale ma era sostituito da un altro. Per cui un Paolo diventava Vittorio senza nessuna spiegazione logica. Nessuna intenzione di produrre la lista delle varianti ma una semplice casistica, perché la fantasia non aveva limite.

Come d’incanto dunque i neonati assumevano sembianze umane, come se al momento della nascita non lo fossero. Da quel attimo topico dell’uscita dall’ufficio anagrafe credevano di chiamarsi coi nomi standard, come tutti i comuni mortali. Poi scoprivano al momento del matrimonio che il loro vero nome era di tutt’altro genere. Un alzata di spalle accompagnava la scoperta, che ignoravano fino al momento del trapasso. Ma questo oramai non aveva più alcuna importanza, a parte il necrologio. Ferrari Radames detto “Gino”. Quindi anche lo zio Lino non era sfuggito a questa consuetudine. Per me è rimasto sempre lo zio Lino.

Visto che siamo in argomento accenno a un’altra curiosa abitudine: quella degli Scutmâj ovvero di identificare una persona con un sopranome, il più delle volte curioso e inspiegabile. Diciamo che erano i nickname ante litteram. Anche in questo caso il vero nome, di norma tradizionale e banale, si perdeva nella notte dei tempi per riaffiorare come d’incanto sull’annuncio funebre affisso all’angolo della strada.

Ma torniamo a quella lontana estate. Il distributore dello zio Lino era situato in una posizione altamente strategica. Di autostrade non se ne parlava e tutti percorrevano le statali che collegavano le varie città. Dunque da quel punto passava tutto il traffico dei turisti tedeschi, austriaci, olandesi che dal Brennero e dal Tarvisio raggiungevano i luoghi di villeggiatura lungo l’Adriatico. In luglio e agosto il lavoro non mancava, anzi spesso c’era un ingorgo pauroso.

Naturalmente mi facevo bello col mio tedesco scolastico, distante anni luce da quello parlato realmente, mentre loro rispondevano in un italiano degno di Sturmtruppen del mitico Bonvi. Sembrava di assistere alle comiche di Ridolini. Però in compenso sganciavano sempre la mancia dopo ogni rifornimento con mia grande soddisfazione per questo guadagno extra.

Il distributore aveva un enorme piazzale sempre ingombro di auto e camion. C’era anche un punto per il lavaggio delle autovetture. Un uomo mingherlino e minuto, che ho conosciuto come “Pipi”, era l’addetto a lavare le macchine. Il suo vero nome non l’ho mai saputo, perché l’ho sempre sentito chiamare così.

Poco distante stava una baracca di legno verde, dove vendevano gelati Alemagna, granite colorate e angurie, di modeste dimensioni, rotonde, che adesso sono state sostituite da quelle oblunghe enormi senza sapore. C’era sempre la coda a comprare qualcosa. Le granite erano preparate all’istante macinando pezzi di ghiaccio staccati da enormi stecche che un camioncino portava due o tre volte al giorno. Poi venivano colorate con gli sciroppi Toschi alla menta, al lampone o al limone. Io preferivo quella alla menta, che trovavo dissetante.

Pipi era un lavoratore infaticabile, perché a volte sembrava un automa. Prendeva la macchina da lavare tra quelle parcheggiate sotto il sole implacabile di luglio, la metteva sull’elevatore all’interno del modulo in muratura, la lavava, la riportava nel punto dove io e l’altro ragazzo provvedevamo ad asciugarla, non prima di una sgommata e relativa brusca frenata per asciugare i tamburi dei freni. E questo decine di volte al giorno con regolarità da cronometro svizzero,

Un giorno mancavano poche settimane ai diciott’anni mi disse: “Metti questa al posto di quella che prendo” e mi allungò le chiavi. Io lo guardai sgomento, mentre le chiavi sembravano di fuoco sulla mano e la testa cominciava a ribollire come un pentolone sulla fiamma per l’agitazione di fare quei cinque metri che dividevano i due posti. Sono stati i cinque metri più lunghi della mia vita, perché sembravano cinquemila chilometri. Avviato l’auto, a balzelloni, come se stesse facendo la danza del ventre, parcheggiai la cinquecento rossa nel posto designato. Avevo fatto un’autentica doccia di sudore, tanto ero bagnato per il terrore di sfasciare qualcosa. Dopo tre o quattro tentativi con relativo spegnimento del motore, riuscì a compiere le successive operazioni senza intoppi, mentre la macchina docile come un agnellino percorreva quei pochi metri prima di essere parcheggiata.

Il passo successivo fu quello di portare fuori dal lavaggio l’auto per portarla nel buco lasciato libero da quella prelevata da Pipi: un’operazione svolta con precisione e sicurezza. Le vampate di calore per l’agitazione stavano diventando un pallido ricordo.

Infine il ciclo completo: prelevavo l’auto da lavare, la mettevo sull’elevatore, avendo cura di centrare con precisione i bracci retrattili, la riportavo fuori ad asciugare.

A parte le prime volte che sentivo il cuore battere come la grancassa della marcia di Radetzky, poi percepivo un senso di appagamento, di essere leggero come una piuma, di non provare emozione alcuna.

Pipi possedeva una vecchia Topolino, che adesso farebbe la gioia di molti collezionisti, sempre perfetta e oliata. Mi consentiva, nei rari momenti di relax, di fare qualche giretto nel piazzale sempre guardato a vista per non combinare guai.

Un giorno disse: “Vieni con me. Andiamo al deposito a prendere delle lattine di olio”. E mi mise in mano le chiavi della Topolino, mentre si sedeva lato passeggero. Lo guardai storto e preoccupato, perché un conto era girare in un piazzale fra macchine ferme a bassa velocità ma fare una decina di chilometri in mezzo al traffico cittadino era ben altro affare. Inoltre non avevo un benché minimo straccio di documento che mi autorizzasse a circolare su strade pubbliche.

Nonostante le mie rimostranze fu irremovibile e molto incosciente, perché non aveva la minima idea di come avessi potuto reagire di fronte a una situazione di pericolo oppure intricata.

La Topolino aveva una particolarità, come molte delle auto della sua epoca. Per cambiare marcia serviva la famosa “doppietta” ovvero un leggero tocco dell’acceleratore per consentire agli ingranaggi di sincronizzarsi senza udire quel terribile rumore di ferraglia detta in gergo “grattata”. Eseguita senza l’assillo del traffico mi riusciva abbastanza bene in virtù di una certa sensibilità uditiva e tempismo coordinato, frizione – cambio. Però adesso ero ansioso e nervoso con la testa in fiamme, un senso di angoscia che mi premeva sul petto per la paura che un vigile mi fermasse per un controllo, mettendomi in galera.

Percorsi poche centinaia di metri, tutte le ansie e le paure erano svanite, dissolte come la neve al sole, mentre con somma incoscienza andavo verso un punto critico che non avevo preso in considerazione. C’era da passare un sottopasso, dove al termine della risalita era posto un semaforo, che creava code infinite. Se avevi fortuna, trovavi il via libera senza fermarti, ma poiché la sfiga ci vedeva benissimo, apparve un bel rosso fuoco con l’auto a metà salita. Panico, nervosismo, angoscia erano le prime avvisaglie che penetravano nella mia testa, perché sapevo che col verde sarebbe stata la catastrofe.

Lo guardai con aria interrogativa, mentre lui disse serafico: “Tacco e punta. E tutto andrà bene”.

Tacco e punta?” replicai con la bocca secca e arida come il deserto del Sahara.

Si” proseguì tranquillo e sereno “Tieni pigiata la frizione con la marcia innestata, metti la punta del piede destro sul freno e il tacco sull’acceleratore. Quando viene il verde lasci la frizione dolcemente e accelera col tacco, prima di togliere la punta dal freno”.

Detto così sembrava tutto facile, ma per me, in preda al panico e con le mani strette al volante, era come scalare l’Everest. Naturalmente fu un flop colossale, perché riuscì a spegnere anche il motore con il concerto di clacson dietro di me che non finiva più. A balzelloni e a strattoni dopo due verdi persi per colpa mia riuscì a superare l’ardua salita, accompagnato da insulti e maledizioni di decine di automobilisti inviperiti.

Arrivati a destinazione, senza altri inconvenienti, mi sembrava di essere uscito dalla doccia senza asciugarmi, tanto ero sudato per l’agitazione. Avevo la testa svuotata da ogni pensiero, che si erano nascosti subdolamente in qualche angolo remoto, e la pressione arteriosa a livelli pericolosi. Poi queste sensazioni svanirono per incanto, perché la soddisfazione intima di avere guidato senza provocare danni, salvo le maledizioni di qualcuno, e per giunta in maniera impeccabile era veramente enorme.

Il viaggio di ritorno filò tutto liscio, perché il terribile sottopasso, affrontato in senso inverso, era totalmente innocuo per l’assenza di un odioso semaforo nella rampa di risalita.

Per quell’anno non ci furono altri esperimenti di guida senza rete, né a rischio di infarti, a parte i soliti giretti nel piazzale. Coi soldi guadagnati sotto il sole cocente a riempire di super tanti serbatoi o asciugare faticosamente delle auto lavate mi ero pagato l’autoscuola e le relative lezioni di guida. Ovviamente le guide erano più rilassanti, con l’appendice di un documento rosa che mi abilitava a condurre un’auto.

L’idea di guidare significava molto per me, perché ero convinto che avere la padronanza di un’auto mi aiutasse a crescere e maturare psicologicamente e una maggiore consapevolezza dell’importanza della propria vita. Non potevo permettermela, perché costava troppo, ma per la guida dovevo ringraziare Pipi, che consciamente o incoscientemente mi aveva consentito di memorizzare movimenti e di valutare spazi e tempi nel condurre una macchina.

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