Daniele – parte 1

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foto personale

Il trillo del telefono lo fece sobbalzare e lo riportò alla realtà che aveva senso di esistere solo perché tempestata di ricordi. Guardò istintivamente la vecchia patacca, ereditata da Gaetano, amico fraterno del padre. Le cinque e dieci. “Chi poteva essere a quell’ora?” pensò, accendendo la luce. “Solo qualche scocciatore che ha sbagliato numero”.

«Pronto?» soffiò nella cornetta del telefono fisso, vecchio retaggio di molti anni prima.

Nessuna risposta. Pareva muto. Eppure avvertiva che dall’altra parte c’era qualcuno. Un leggero soffio, come un ansimare represso arrivava al suo orecchio.

«Pronto?» ripeté Daniele, che stava perdendo le staffe. «Chi è? Chi sei?»

Se era qualcuno che si divertiva a svegliare il suo prossimo per gioco, cascava male. Pensò Daniele. Un pensiero bizzarro questo, perché non aveva nessuna idea per la testa al riguardo. Dunque stava per riporre la cornetta sul suo supporto, quando udì una voce femminile. Non era la solita ragazzina arrapata, che molestava gli amici di papà. Il tono era da persona adulta.

«Ciao Dani» sussurrò impacciata. «Non dormivi, vero?»

Scaricò la tensione con una risata. “Alle cinque del mattino che fa un cristiano normale?” pensò Daniele, sistemandosi meglio il cuscino dietro la schiena. “Dorme di certo. A meno che…”. Scosse la testa. Non era il suo caso. Non lo era da diverso tempo. Meglio non ricordare quando, pensò contrito.

Riconobbe immediatamente la voce roca e morbida di Natalia. Natalia o meglio Natalina. Natalia o meglio sua sorella, Natalina. Due ragazze che si facevano fatica a distinguere al telefono. Però era certo, questa volta. Nessun dubbio.

«Ciao Natalina!» disse sbadigliando rumorosamente per far capire che era in braccio a Morfeo prima della sua telefonata poco opportuna. «No? Non dormivo, secondo te? Qui sono le cinque e dieci del mattino».

Udì una leggera risata, come se fosse stata soffocata con la mano. Di Natalina l’infastidiva questo humour macabro, fatto di domande cretine. Ricordò una volta che aveva fatto un capitombolo da Guinness sul ghiaccio. E lei tutta calma gli chiese “Sei caduto?” L’avrebbe strozzata, se non avesse usato quel tono vagamente ingenuo e spontaneo, che le era proverbiale.

Natalina l’ultima volta che l’aveva sentita era a New York. “Se fosse ancora lì” pensò, sistemandosi più comodo nel letto. “Sarebbe sera da lei. Ma sono passati tre mesi. Quindi chissà da dove telefona”.

«Sì. Lo so» precisò Natalina. «Sono in Italia…».

Bella scoperta!” si disse innervosito Daniele. “Dove pensa che io sia?”

«Certo che lo so. Sei in Italia» precisò Daniele, interrompendola.

«Sono a Malpensa» proseguì Natalina, ignorando il suo sarcasmo. «Sono appena atterrata da New York. Tra tre ore arrivo a Fiumicino. Mi vieni a prendermi? O devo prendere un taxi?»

Daniele rimase senza voce. Attonito e basito. “Ma che domanda mi fa?” borbottò sconcertato. “Da quando in qua, mi devo scomodare per lei?”

Non l’aveva mai fatto e non aveva intenzione di cominciare proprio stamattina. Questo fu il suo primo pensiero, che represse senza indugio. Però erano passati mesi, forse un anno abbondante dall’ultima volta che l’aveva vista. “Posso lasciarla in balia di quei buzzurri alle otto del mattino?” si disse, preparandosi mentalmente alla levataccia.

Dunque Natalina è in Italia” rifletté con un bel sorriso. “Natalina a Roma!” Senza preavviso. L’aveva contattata un paio di giorni prima senza risultati. Il telefono squillava a vuoto, prima di attaccare la solita litania della segreteria, che nessuno ascolta.

L’ultima volta che l’aveva sentita era appena sbarcata nella grande mela, a New York, alla caccia di finanziatori. Gli era sembrata felice, tranquilla, totalmente presa dall’ultimo progetto della scuola itinerante per i ninhos de rua dell’assurda Bahia. Un’utopia costosa affrontata col sano entusiasmo degli incoscienti.

«Devo trovare un milione di dollari» gli aveva confidato.

«Pfiu!» aveva esclamato Daniele. «E come pensi di trovare quella montagna di denaro?»

Natalina era rimasta per qualche secondo in silenzio prima di rispondere. «Non lo so» aveva ammesso candidamente. «Ma li devo trovare entro trenta giorni».

Adesso era Daniele basito. Aveva provato in tutte le maniere a farla recedere da quel progetto impossibile. Creare una struttura per accogliere i ninhos de rua di Bahia, farli studiare, trasformarli un uomini e donne autosufficienti. La classica mission impossibile, un’utopia, che superava i limiti dell’assurdo. Servivano fondi, sponsor e personale. Però non c’era stato nulla da fare. Un anno prima era partita per il Brasile piena di entusiasmo e con tanti sogni nel cassetto. Si erano sentiti regolarmente fino a tre mesi prima. Poi era calato il silenzio. Non sapeva se la sua raccolta fondi fosse andata a buon fine, se era tornata a Bahia oppure era rimasta a New York. Nessuno sapeva nulla, nemmeno sua sorella Natalia.

E adesso era in Italia e fra tre ore a Roma. Pronta per essere abbracciata.

«Come sei qui?» fece Daniele sorpreso dalla telefonata. «Che ci fai qui?»

Silenzio. Solo un sibilo di un respiro affannato.

«Natali’?» domandò Daniele allarmato. «Sei sola? Non tenermi sulle spine».

«Dani» fece Natalina, interrompendosi subito.

«Dimmi, Natali’» disse paziente Daniele.

Nuovi rumori di fondo, come se stesse camminando con un altoparlante che gracchiava qualcosa.

Daniele trattenne il respiro. Natalina gli avrebbe provocato di certo un infarto per il suo modo di parlare a strappi, senza mai concludere il discorso.

«Hai sentito Sara?» riprese quella voce affannata. «Hai parlato con Sara?»

Daniele rimase in silenzio. “Certo che ho parlato con Sara” pensò. “Altra domanda idiota”. Si morsicò un labbro, facendo uscire una stilla di sangue.

«Dani, hai parlato con Sara?» ripeté Natalina la domanda.

«Sì, ieri sera» rispose laconico Daniele. “Ma che te ne importa di Sara? Non l’hai mai potuta sopportare” si disse, storcendo il naso.

Quello che gli aveva detto Sara gli bruciava ancora. Non poteva dimenticare quella voce rissosa e alterata, che lo aveva accusato di non pensare a lei.

Si erano conosciuti sui banchi del liceo. Avevano fatto coppia fissa fino alla maturità. Poi Sara era partita per Venezia. Voleva fare l’architetto. Daniele era rimasto a Roma a laurearsi ingegnere. Due percorsi distinti con esiti diversi. Lui brillante laureato, lei fuoricorso con pochi esami alle spalle. Lui l’aveva aspettata per qualche anno ma alla fine aveva capito che tutto era finito. Lei aveva girato per l’Europa come una hippy senza pensare a Daniele.

Natalia era l’amica del cuore di Sara. Natalina era sua sorella, di sette anni più piccola di lei. Daniele aveva visto in lei il ruolo di sorella minore, sempre appiccicata a loro. Fin da piccola. Sembrava essere la loro coscienza. Dove c’era Natalia e Sara, c’era anche lei. Daniele aveva vista Natalina come una bimbetta buona e ubbidiente con le trecce e il vestitino sempre in ordine. Poi crescendo una ragazzina diligente e attenta. Un’adolescente senza grilli per la testa, senza bravate.

Le loro strade si erano divise. Lui all’università, lei ai primi anni del liceo. Natalia dapprima aveva seguito Sara a Venezia ma presto era ritornata a Roma. La lontananza di Natalia aveva allontanato Natalina. Qualche volta si incrociavano ma niente era come prima.

Natalina era cresciuta. Era diventata un bella ragazza dai capelli castano chiari. Era fisicamente distinta dalla sorella ma dalla voce straordinariamente uguale. Natalia aveva forme robuste, che erano esplose nel periodo veneziano. Natalina aveva conservato forme minute e snelle.

Un giorno di sei anni prima il destino mise Daniele e Natalina sulla stessa strada. Lui era in segreteria per ritirare diploma di Laurea e l’abilitazione alla libera professione. Lei si iscriveva a lettere. Ripresero a frequentarsi, a uscire insieme. Per lui era una sorella ma lei lo vedeva come un amante, che si negava.

Natalina confermò quello che era sempre stata. Un’universitaria impeccabile, brillante e straordinaria. Chiuso il ciclo della laurea quinquennale, Natalina in una sera di ottobre aveva dato appuntamento a Daniele in pizzeria. Lui pensava per festeggiare il diploma di laurea in lingue straniere. Con sua grande sorpresa gli annunciò che aveva un biglietto per il Sud America e che sarebbe partita dopo due giorni.

«Io, qui, non so cosa fare» disse Natalina, guardando con i suoi occhi blu un Daniele tramortito dalla notizia. «Vado in Sud America. Faccio un viaggio, che ha una data d’inizio ma non di fine. Voglio esplorare questo terzo mondo di cui tanto si parla. Forse lì saprò che fare!»

Al suo arrivo in Brasile Natalina gli aveva comunicato del suo progetto sui ninhos de rua. Un qualcosa di grandioso se fosse andato a buon fine ma anche pericoloso per la sua vita. Laggiù le violenze, specialmente sulle donne, erano all’ordine del giorno. A nulla valsero le sue reiterate richieste di tornare in Italia.

Qualche mese prima della partenza di Natalina, Sara ricomparve nella sua vita. Era una Sara diversa da quella che ricordava dodici anni prima. Più dura, meno incline al lato romantico della coppia. Gelosa e irascibile. Aveva provato più volte di interrompere il legame tra Daniele e Natalina. Tra le due donne si era consolidata quella sorda e muta antipatia, che aveva radici lontane. Sara vedeva in Natalina la potenziale nemica, che sarebbe stata in grado di strapparle Daniele. Poi Natalina era partita e distava un giorno di viaggio da loro. Un tragitto aereo lunghissimo e faticoso. Tuttavia l’astio era rimasto immutato. Anzi si era consolidato in odio.

Ieri sera Sara era piombata nella sua casa come un tornado. Aveva accusato Daniele di tradirla.

«Mi disprezzi» aveva urlato paonazza in volto. «Non mi ami».

Lui era rimasto allibito da tanta furia. Per lui Sara era solo un’amica in questo momento. “No di certo” aveva ragionato, tentando di calmarla, “non la considero la mia compagna”. Il filo che li aveva uniti si era spezzato dodici anni prima, quando lei era partita per Venezia. Un legame che non poteva essere riannodato come se tutti quegli anni di silenzio non fossero mai esistiti.

Prima di congedarsi Sara aveva rivelato il vero motivo di quella rumorosa irruzione.

«Hai sentito di Natalia?» aveva esploso Sara, mentre infilava la giacca per uscire.

Daniele aveva aperto la bocca ma l’aveva richiusa subito. Non sapeva nulla di Natalia, che erano settimane che non la sentiva. “Che cazzo ha combinato questa volta?” si era chiesto. “L’ultima volta era entrata in coma etilico. Ora cosa?”

«No» aveva risposto secco Daniele. «Sono settimane che non la sento».

Sara lo guardò di sbieco, lanciandogli occhiate torve.

«Sei un bugiardo!» gli aveva mollato in faccio l’insulto. «Certo che lo sai!»

Daniele aveva scosso le spalle. Sapeva che era fatica inutile contraddirla. Avrebbe potuto dire di tutto. Compreso che Natalia era diventata il nuovo presidente della Repubblica. Lui non sarebbe stato capace di scalfire le sue idee. Non aveva la minima idea di cosa avesse combinato Natalia, né era curioso di saperlo.

Rimase muto, mentre Sara continuava a tempestarlo di insulti. Oramai viaggiavano su mondi separati. Adesso era Natalina che riesumava la questione.

«Di cosa avrebbe dovuto parlare Sara?» domandò cauto Daniele. Avvertiva un senso di disagio e temeva di essere coinvolto in complicazioni gratuite e pericolose.

«Daniele, sono tornata per questo» disse Natalina, che aveva il fiato roco per la veloce camminata.

«Questo cosa?» rimbeccò Daniele sempre più stranito. Tutti parlano per indovinelli cifrati e lui deve trovare la chiave di cifratura.

-FINE PRIMA PARTE-

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Romano – una vita – parte seconda

tramonto - foto personale
tramonto – foto personale

La prima parte la trovate qui.

Un rumore nella notte interruppe il suo flashback. La magia di quel giorno era svanita. Si guardò intorno alla ricerca della fonte senza trovarlo. Provò a ricalarsi nei ricordi.

Romano ebbe un gesto di stizza ma non c’era nulla da fare se non riprendere la lettura della lettera.

Gli occhi si posarono su un verbo. Un moto di rabbia lo colse, leggendo quel ‘odiarla’ inserito accanto a sua figlia. “Sì, Cristina è mia figlia” disse Romano irritato per il comportamento assurdo di Flora, riprendendo in mano il foglio.

Niente. Non c’erano alternative. Dovevo abbandonarla. Scelsi l’orfanotrofio delle stelline, in via dei mille. Discreto e riservato. Gestito da personale laico. Firmai tutti i documenti perché potesse essere adottata in fretta. Avevo tempo fino al ventunesimo compleanno per conoscere la sua destinazione. Poi sarebbe calato il silenzio. Tutto quello che la legava a me sarebbe stato cancellato per sempre. Il destino mi ha punito. Un male maligno mi sta portando rapidamente alla tomba. Ho ancora poche settimane di lucidità o forse anche meno poi…

Si chiama Cristina ed è nata il giorno di Natale. Se vuoi conoscerla, devi recarti presso quella struttura, che ignoro se esista ancora, entro il ventiquattro dicembre prossimo. Dovrei allungarti una chiave ma l’ho smarrita.

Addio

Flora

30 novembre.

Romano gettò la lettera sulla scrivania con rabbia. Senza quella chiave non avrebbe concluso nulla, ammesso che esistesse ancora quel orfanotrofio. Sembrava volesse prendersi gioco di lui. Una volta di più Flora lo voleva punire.

Punire di cosa?” urlò in silenzio la sua disperazione. “Perché l’ho amata?”

Quel dubbio scavava nella sua mente come un tarlo. Non era per nulla convinto della sincerità della lettera. Dopo vent’anni riemergeva attraverso un messaggero anonimo, parlando di una figlia finita in adozione come se fosse un oggetto da mandare in discarica. “È davvero morta?” si domandò. Appoggiando il mento sul palmo aperto. “Perché mi vuole torturare ancora?”

La sua razionalità lavorava a pieno regime. Faceva mente locale se esistessero ancora strutture di quel genere, tanto care agli scrittori dell’ottocento. Ricordava la famosa ‘ruota degli esposti’ ma da tempo era stata chiusa. Di certo negli anni settanta non operava. “Il brefotrofio?” pensò. “Uhm! Forse no”. Qualcosa non lo convinceva. Sembrava uno scherzo di cattivo gusto.

Accese il PC. Doveva controllare se quella struttura esisteva. Aveva molti dubbi. Fece qualche conto. Erano gli anni delle rivolte studentesche, delle occupazioni e forse qualche residuo di orfanotrofio era sopravvissuto. “Ma ne siamo sicuri?” pensò, grattandosi la guancia. La barba che stava spuntando ispida gli dava noia, prurito.

Si riscosse. Non poteva perdere tempo. Mancavano due settimane al day after e poi avrebbe ignorato il viso di sua figlia, cosa stava facendo. Non avrebbe potuto trasmetterle nulla che potesse ricordarle chi era.

Avviò il motore di ricerca. Pareva sparita. C’era solo un riferimento a Milano, il famoso orfanotrofio delle Stelline, in corso Magenta, che adesso era diventato un centro congressi. A Roma ne aveva pescati due. “Ma sono per caso gli eredi di quello di vent’anni fa, dove è finita Cristina?” si domandò, grattandosi la guancia ruvida per la peluria che stava crescendo. Si annotò gli indirizzi. Domani ci sarebbe andato di persona. Però il tarlo era ‘senza chiave, mi diranno qualcosa?’.

Aveva trovato un edificio, alla Bufalotta, ora in sfacelo, che fino al 1973 era un orfanotrofio femminile. “La lettera parla di Stelline, non di Bufalotta” si disse, scorrendo l’elenco fornito dal motore di ricerca. Quello, che cercava, doveva essere una struttura che accoglieva i neonati, visto che Cristina aveva poche settimane, forse mesi di vita. Qualcosa non tornava nella lettera. Un’indicazione palesemente sbagliata. Informazioni nebulose o quanto mai incerte. L’assenza di un qualsiasi strumento per accedere alle notizie riservate su sua figlia. Scosse la testa.

Se per caso Flora mi ha raccontato un’altra bufala?” rifletté Romano, appoggiandosi allo schienale della poltrona. “Ne sarebbe capace. Però non la capisco. Non comprendo il senso di questa lettera. Una sottile perfidia nei miei confronti. E quel misterioso messaggero chi è? Che rapporti ha con Flora?”

Rise isterico a questo pensiero. Non erano domande banali. Dentro era racchiusa tutta la sua ansia. Vivaldi era terminato da un pezzo ma non aveva nessuna voglia di inserire un nuovo CD.

A quell’epoca Flora abitava in un monolocale nella zona degli antiquari. Piccolo ma caldo. Era sera, quando lo raggiunsero. Fecero all’amore con passione tutta la notte. Romano la lasciò al mattino con la promessa di sentirsi in giornata. Iniziò così la loro storia. Era lui che andava da lei e mai il viceversa.

«Qui sono a casa mia» fece Flora un giorno per ricusare le insistenze di Romano.

«Ma la mia è anche casa tua» specificò Romano.

«No. Casa tua è tua» precisò Flora con puntiglio. «Casa mia è mia».

Lui rinunciò a controbattere. Lei era un tipetto tosto ma riservato. Non aveva mai detto di quale località fosse originaria. Solo il cognome che non diceva nulla. Gli aveva confidato che il suo sogno era diventare una brava interprete o una traduttrice.

«Mi piace girare il mondo» gli aveva confidato Flora, mentre era accoccolata su di lui dopo una maratona amorosa.

«Dove?» le aveva domandato.

«Il mondo» rise Flora con quella risata allegra, mostrando una fossetta nella guancia destra.

Per un anno andò tutto bene. Lei studiava con profitto. Lui teneva un corso nella facoltà di matematica. Poi qualcosa si incrinò. “Cosa?” si domandò Romano, preso nel vortice dei ricordi. “Una sera mi disse che non mi voleva a a casa sua. Così senza spiegazioni. Pensai che avesse trovato un altro più giovane di me”.

Romano scosse la testa, ricordando quella volta. Non era da lui fare scenate di gelosia. Quindi non replicò. Per una settimana non si fece vedere, né sentire. Sembrava volatilizzata. L’andò a cercare in facoltà ma nessuno era in grado di dirgli dove fosse finita. Continuò le ricerche senza arrivare al nulla. Le compagne di corso alzavano le spalle e ridacchiavano dietro, quando se ne andava. Decise di dimenticarla ma inutilmente. Era sempre presente davanti agli occhi.

Passò l’estate e arrivò l’inverno. Romano aveva cominciato a non pensare più a lei. Era assorbito dalle lezioni all’università, dagli esami. Insomma Di lei solo un bel ricordo.

Era il 20 dicembre e il giorno dopo sarebbero iniziate le vacanze di Natale. Era fermo alla buvette dell’università, quando incrociò un collega, che conosceva di vista.

«Ciao, Romano» lo apostrofò Alberto. «Hai sentito?»

«Cosa?» fece Romano, guardandolo negli occhi.

Alberto sorrise, appoggiando la tazzina del caffè sul bancone.

«Ieri è successo un casino» proseguì, prendendo una sigaretta dalla tasca. «Una ragazza del secondo anno di slavistica per poco non partoriva in aula»,

Romano sbiancò. Per una curiosa associazione di idee pensò a Flora e alla sua sparizione misteriosa.

«Ma no!» esclamò poco convinto Romano. «Ci credo che sia scoppiato un casino. Ma come è finita?»

«È arrivato il 118 per portarla in ospedale» concluse Alberto, salutandolo per uscire a fumarsi la sigaretta.

Romano intrecciò le mani dietro la nuca. Ricordò bene quei giorni. Fece il giro di tutti gli ospedali, finché non scovò Flora al Bambin Gesù. Il resto lo sapeva. Guardò l’ora erano quasi le sette.

«Papi, papi» lo riscosse una vocina. «Ero preoccupata perché parlavi nel sonno. Flora, Cristina. Chi sono?»

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Romano – una vita – parte prima

un calendario dell'avvento artigianale - foto personale
un calendario dell’avvento artigianale – foto personale

Romano andò a letto.

Mezz’ora dopo era ancora lì, a occhi aperti… no, non aperti, di più… sbarrati!

E come avrebbe potuto dormire, o anche soltanto assopirsi? Come avrebbe potuto rallentare il battito del suo cuore? In che modo avrebbe potuto cercare di placare il tremito che sentiva nelle vene, nelle arterie, il furore contro il destino che si era accanito in quella maniera incomprensibile verso il sangue del suo sangue?

Perché era Cristina! Finalmente Flora se l’era fatta uscire di bocca la verità, dopo quella bugia detta nella nursery in ospedale! Ma quella bugia… perché? Perché? Perché? La domanda continuava a ballonzolare nella sua testa.

Romano diede un’occhiata alla sveglia: segnava zero e ventiquattro. Si alzò dal letto. Inutile stare lì, meglio alzarsi, tanto non sarebbe riuscito a dormire. Se ne rendeva conto perfettamente.

Infilò una maglietta sopra gli slip che portava normalmente a letto. Estate e inverno dormiva solo con i boxer. Un abitudine contratta da quando aveva sei anni. Nemmeno Flora era riuscito a convincerlo a mettere il pigiama.

Faceva freddo. Il riscaldamento era spento. Non pensò di riattivarlo. Prese la felpa e i pantaloni della tuta dalla sedia per indossarli. Nei piedi nulla. Quelli erano abituati a stare senza nulla. “Ho i piedi sempre caldi” si disse, mentre finiva di vestirsi.

In cucina ignorò la caffettiera da tre, già pronta sul fornello per la mattina. Romano prese dal pensile quella da sei, che teneva per quando aveva ospiti. Sapeva che sarebbe stata una notte lunga. Molto lunga. Dopo averla preparata, la mise sul fuoco. Nell’attesa che l’aroma del caffè inondasse le sue narici andò in mansarda per accendere lo stereo.

Doveva stemperare l’inquietudine che aveva in corpo. Nell’alloggiamento accanto all’apparecchio passò in rassegna la sua collezione di CD di musica classica. Con un dito scorreva i dorsi con i nomi dei musicisti, ne estraeva uno per leggere cosa conteneva per poi riporlo nella stessa posizione. Era meticoloso e pignolo. Bach, Beethoven, Händel, Haydn, Mozart, Schubert, Schumann, Vivaldi. Tutti ordinati in ordine alfabetico per facilitare le ricerche.

Cercava un CD che avrebbe potuto aiutarlo a concentrarsi sui dilemmi che lo stavano attanagliando. Scosse la testa, mentre sentiva borbottare la moka. Doveva andare a spegnere il gas, prima di creare casini e rovinare caffè e Bialetti. Cosa ascoltare ci avrebbe pensato dopo esserselo versato. Scelta una tazza grande, di quelle da tè, la riempì fino all’orlo, zuccherandola pochissimo. Tornò in mansarda per sedersi davanti alla scrivania. L’impianto stereo era alle sue spalle. Sorseggiò il caffè. Era troppo caldo. Continuò la scansione dei titoli. “Schubert?” si disse, aggrottando la fronte. “No. Qualcosa di più morbido. Händel?” Pensò il concerto grosso. Quello londinese con strumenti originale. Un musicista straordinario per Romano, che adorava la musica barocca. “Ma forse non è adatto al momento” pensò, riponendo la custodia nello spazio rimasto vuoto. Passò oltre, fermandosi su Vivaldi. “Concerti per violino? O le quattro stagioni con molti stromenti?” Diede un’altra sorsata dalla tazza, prima di scegliere tra le due custodie.

Decise per un qualcosa di pacato, di tranquillo, qualcosa che avrebbe potuto calmare la sua agitazione, la sua frenesia. “’Le humane passioni’ vanno bene. Proprio quello che sto passando ora” fece sorseggiando il caffè che era intiepidito. “Sono cinque concerti per violino. Il solista è Giuliano Carmignola. Un eccellente violinista”. Inserì il cd nel cassettino e premette il tasto PLAY. Dale prime note del violino si acquietarono un poco i nervi.

Si accoccolò sulla sua amata poltrona, senza accendere il computer.

Finì di bere il caffè. Cominciò a ragionare da persona razionale come si considerava. Prese un blocco di carta riciclata per appuntare qualche nota. Cominciò a scrivere.

Uno: Cristina è davvero mia figlia. Due: Flora, dopo vent’anni che non ci vedevamo, ha mandato qualcuno con l’incarico di comunicarmi la sua morte e consegnarmi una lettera. Tre: l’ha fatto per necessità, quindi non mi devo fare pippe mentali sui motivi del suo silenzio e comportamento. Quattro: la lettera dice una cosa che mi ha lasciato di sasso. Cristina è stata abbandonata in orfanotrofio. Tra quindici giorni scade il termine per poterla riconoscere. Cinque: la vorrei riabbracciare, anche se so che è stata adottata da quando aveva sei mesi. Sei: ce la farò?

Il violino continuava in sottofondo a diffondere le note di Vivaldi. Romano non l’ascoltava ma gli serviva per raccogliere le idee.

Rilesse il blocco e la lettera. Questa conteneva una verità lapalissiana. In realtà non sapeva ancora nulla, cosa avrebbe dovuto oppure potuto fare. Flora nella sua disperazione prima di morire non era stata affatto chiara, se la situazione era davvero senza speranza oppure no.

Intanto il tema del CD era rimasto tranquillo, pacato, rilassante, quasi coinvolgente. Si fermò un attimo ad ascoltare prima di riprendere le riflessioni.

Rilesse la lettera e gli venne un moto di rabbia. Nemmeno in punto di morte aveva avuto un ripensamento verso di lui.

Quando leggerai questa lettera, io non ci sarò più. Sarò sepolta in un cimitero di campagna, che non ti rivelo. Chi ti porterà notizia e lettera, ha fatto voto di silenzio e so che lo manterrà

Quando ti ho lasciato, ero incinta ma questo lo sai anche tu. In ospedale ho negato che Cristina fosse nostra figlia e ti ho allontanato da me. Non intendevo rivederti mai più. Ho sofferto troppo la tua vicinanza. Ti odiavo perché mi avevi messo incinta.

All’inizio volevo tenere Cristina ma poi… Era troppo te. Quando si attaccava al seno mi sembrava di vedere la tua bocca che mi succhiava i capezzoli. Era troppo uguale. Stessi capelli castano chiari. Stesso taglio degli occhi obliqui, Stessa forma della bocca con labbra sottili e appena accennate. Ma quelle due fossette mi ricordavano te. Avrei finita per odiarla.

Romano fece un sorriso amaro. Adesso i capelli erano bianchi. Il corpo di cinquantacinquenne era appesantito da un pizzico di pancetta. Gli occhi e le fossette, no quelli erano rimasti uguali.

Non capiva quell’odio, quel rancore. Eppure le aveva chiesto di sposarla.

«No!» gli aveva urlato in faccia con rabbia. «Niente nozze riparatrici. Dovevi pensarci prima».

Romano fu travolto dai ricordi. Accantonò la lettura.

Il giorno dopo il suo primo incontro con Flora pareva tutto ritornato alla normalità. Gli scontri tra gli studenti e la polizia si era conclusi con una grande retata. Erano rimaste solo le tracce del selciato parzialmente divelto e le carcasse di auto bruciate. Per il resto c’erano più poliziotti che studenti, che frettolosi entravano nella facoltà di Matematica. Romano entrò in Istituto e si avviò direttamente verso il suo studio per prendere alcuni testi per la prossima lezione. Aveva però l’impressione che sarebbe stata rinviata a data da destinarsi.

«Ciao Romano!» echeggiò nel corridoio dietro di lui una voce, che conosceva bene.

Si voltò e vide Giuseppe, un suo collega e carissimo amico.

«Oh, Giuse’, come va, che fai?» rispose Romano, dandogli una pacca sulla spalla.

«Niente oggi» rispose Giuseppe, prendendolo sotto braccio. «Lezioni sospese fino a nuovo ordine. Siamo in vacanza forzata!»

Romano fece una faccia strana come di sorpresa. In effetti lo immaginava. Troppa tensione per riprendere la normale attività didattica.

«Vado di fretta, Giuse’» disse Romano, sottraendosi alla stretta dell’amico.

«Vabbe’ Romano, se vedemo dopo da Toio?» strinse l’occhio Giuseppe.

«Sì, po’ esse… anzi no» fece Romano, pensando a Flora. «Devo vede’ se riesco a trova’ ‘na ragazza, una de’ lettere».

«Una?» lo rimproverò Giuseppe, stringendo gli occhi e aggrottando la fronte. «A Roma’, ecché fai… abbandoni l’amichi? Non presenti le nuove amiche?»

«Nooo» esclamò facendo un viso contrito. «L’ho conosciuta ieri… nun zò… boh… me piace… ma io je piacerò? Vabbe’, po’ esse che vengo co’ lei… Ciao Giuse’!»

Romano si sfilò dall’amico per chiudersi nel suo ufficio, per non dare troppe spiegazioni. Si diede del somaro per essersi lasciato sfuggire quella frase.

Rimase una buona mezz’ora, fingendo di cercare i due libri, che sapeva perfettamente dove erano nel caso che quel impiccione del suo amico avesse messo dentro la testa.

Uscì dall’istituto e si avviò verso la facoltà di lettere.

“Dunque… letteratura slava, aveva detto…” ricapitolò le informazioni. “Sì, sì, russo, polacco, ceco… cazzo ma ‘ndo trovo ‘sta slavistica?”

Fatto quattro gradini si trovò in atrio deserto.

«Scusi, il dipartimento di slavistica dov’è?» fece Romano, avvicinandosi a una bidella, che stava pulendo il pavimento.

«Al primo piano, le scale di là» indicò a sinistra la bidella col braccio teso.

Romano salì i gradini e la vide di spalle in fondo al corridoio.

«Flora!» gridò da venti metri di distanza.

Lei si voltò col suo splendido sorriso che le illuminò il volto.

«Romano!» disse, avviandosi di corsa a piccoli passi verso di lui.

Si abbracciarono, mentre lui cercò le sue labbra.

Lei non si ritrasse.

A Romano sembrò che in quel momento l’intero universo si fosse fermato, meno il suo cuore, che batteva a trecento al minuto. Sperò che il bacio non finisse mai ma dovette riprendere fiato.

«Flora!» disse, guardandola negli occhi.

«Romano!» fece lei con una sguardo che parlava più di mille parole. Luccicava per la felicità.

«Andiamo!» la esortò, trascinandola per un braccio.

«Sì, aspetta… un attimo!» oppose resistenza la ragazza. «Ciao Chiara, Vado. Poi ti chiamo»

Flora fece un cenno di saluto all’amica, che la guardò con gli occhi basiti. Si chiese chi era quell’uomo di certo più vecchio di loro. Aveva l’aria di uno che ci sapeva fare con le donne. Loro giocavano a esserlo con i loro vent’anni.

«Dai Romano. Andiamo!» disse Flora, facendosi abbracciare da lui.

Romano pensò che di certo avrebbe evitato Toio, dove avrebbe trovato Giuseppe. L’altro locale era Marco. Anche qui c’era il rischio di incrociare qualche rompiscatole.

«Andiamo, dove siamo stati ieri?» domandò Flora, che ricordava quel locale nella zona universitaria, dove Romano le aveva accompagnate.

«Ok. Va bene!» concordò Romano, fingendo di essere contento.

Dopo dieci minuti erano nel locale di Marco, il quale, appena li vide entrare, apostrofò Romano.

«Oh, Roma’, ciao! Me presenti ‘sta bella signorina, eh?, visto che ieri sete scappati manco foste evasi da Rebbibbia?»

«Uh, Marcoli’, me dispiace, manco t’ho pagato» borbottò Romano col viso contrito. «Flora, Marco».

«Piacere!» fece allegra la ragazza, allungando la mano.

«Er piacere è mio, Signori’» e le strinse con calore la mano.

«Embe’?» disse, volgendosi verso Romano. «Ieri nun hai pagato? Che c’è probblema? Tanto c’ho so’… si nun è oggi, sarà domani, Roma’, de te me fido. Che volete oggi?»

«Come ieri, Marcoli’, come ieri» rispose Romano e, visto che era libero lo stesso tavolo del giorno prima, si accomodarono lì.

«Questo sarà il nostro tavolo!» fece Flora, sedendosi.

«Ah, perché, hai intenzione di venire sempre qui?» la guardò sorpreso Romano.

«Beh, se va a te» sorrise, prendendogli la mano.

«A me? Con te verrei dappertutto!» esclamò Romano con gli occhi che brillavano per la felicità. Non avrebbe mai immaginato di averla conquistata in solo due incontri.

«Non correre, Romano» fece Flora, ammiccando. «Vola basso. Ci conosciamo da poco».

«Dici?» disse Romano, mostrando le sue fossette. «A me sembra di conoscerti da una vita, Flora. Me lo fai un altro sorriso? Quelli dei tuoi».

«Che ha di speciale?» domandò Flora con lo sguardo stupito.

«Mi piaci quando sorridi» fece Romano. «Mi sembra di annegarvi dentro».

Flora sorrise con un leggero rossore sulle guance. Era la prima volta che un uomo le chiedeva di sorridere. Ripensò ai coetanei solo pronti a sbavare, toccare, senza mai un complimento gentile.

Arrivò Marco, con i soliti stuzzichini, le patatine, naturalmente, e le birre.

Iniziarono a parlare fitto, quasi sottovoce, raccontandosi le loro vite, i progetti per il futuro ma Romano più che ascoltare Flora, continuava a guardarla, beandosi dei suoi sorrisi.

Finito di mangiare e bere, si alzarono.

«Marcoli’, grazie de tutto, me fai er conto?» disse Romano, alla cassa. «Oh, pure quello de ieri, eh?»

«No, quello de ieri considera che sia omaggio. Te l’ho offerto io» rispose Marco, battendo lo scontrino. «Oggi so’ cinquemila, Roma’».

«No, Marco, no» fece Romano, scuotendo la testa.

«Di’, voj litiga’?» disse Marco quasi offeso. «Ieri ho offerto io».

«Vabbe’, vabbe» concluse Romano, pagando la sola consumazione odierna. «Basta che nun t’encazzi!»

«Ebbravo, o vedi che quanno voj sai puro esse intelligente?» salutò Marco, incassando il biglietto da cinquemila lire. «Va’, va’, annatevene regazzi’, che c’ho da fa’»

Romano e Flora, appena usciti dalla porta del locale, non resistettero. Si abbracciarono stretti, mentre lei cercò le sue labbra.

Fu un limone coi fiocchi. Lingue che si cercavano, saliva che si mescolava. Era quello bello. Quello de core, de panza, de tutto. Quello che aveva gli ingredienti giusti al posto giusto, esattamente dove devono essere. Quello che si faceva in due e ci si trovava in due. Le labbra, le lingue, le salive e i corpi diventarono un unicum di curiosità e desiderio, di grazia e sostanza, di poesia e carne ma lasciava presagire orizzonti di piacere a breve termine. E fece venire voglia di continuare.

Sembrò durare un’eternità.

«Flora».

«Romano?».

Un scambio di sguardi mise fine a quel botta e risposta.

«Andiamo?» disse Flora, prendendolo per mano con il suo sorriso che toglieva il fiato. «Vieni da me?»

«Sì» rispose Romano, mentre si incamminarono.

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Davide – una vita

Ragazza - disegno di Veronica
Ragazza – disegno di Veronica

Nostra figlia…” udì in lontananza Davide dietro la porta.

Assurdamente l’eccitazione di vedersela lì davanti viaggiava in parallelo con un dolore cupo che si andava allargando dal petto fino alla gola, che pareva stretta in una morsa.

La aprì e si trovò di fronte Sandra, scarmigliata e col viso rigato di lacrime. Le sensazioni di prima si stavano tramutando in fastidio. ‘Che autorizzazioni ha per comparirmi davanti come un doloroso ricordo del passato?’ si domandò Davide con sguardo accigliato. Si girò di scatto, dandole le spalle.

La porta era aperta, mentre Sandra stava sulla soglia. Lei era lì. Doveva esserci un senso in quella presenza. Davide non lo sapeva ma doveva scoprirlo in fretta. Era un fantasma che si materializzava all’improvviso. Non poteva lasciare dubbi dentro di sé.

Il rumore della porta, che si chiudeva, lo fece sobbalzare. Sandra l’aveva accostata con delicatezza e vi si era appoggiata con la grazia e l’abbandono di un bambino sul punto di assopirsi.

“Tua figlia se ne è andata” aggiunse con un filo di voce.

Troppi concetti per una frase sola, e così breve per giunta, fu il pensiero di Davide.

Come se ne è andata?” domandò, continuando a voltarle le spalle.

Avvertì solo un respiro rauco, interrotto dai singhiozzi. Si voltò per fissare in viso Sandra, che aveva il volto rigato dalle lacrime. Davide avrebbe voluto scuoterla, farsi spiegare quell’affermazione ma non riuscì a dire nient’altro. Si limitò a osservarla.

Lui in piedi impietrito da sensazioni dolorose. Lei accasciata per terra con le spalle appoggiate alla porta.

Davide percepì sul palmo la sensazione di lanugine calda della testolina della sua bambina, quando la portarono su dal nido dopo la nascita. Era grande e teneva su la testa, già curiosa e avida di vedere e sapere. Sandra non sapeva che fosse lì. Non glielo avrebbe permesso. Non poteva non vedere sua figlia, che da poche ore era venuta al mondo.

Era l’unico flash che aveva di lei. Poi un buio che dura da vent’anni. Adesso Sandra si presentava alla sua porta a invocare il suo aiuto. ‘Per cosa?’ si chiese Davide, socchiudendo gli occhi. ‘Se ne è andata, perché è morta oppure per qualche motivo ha lasciato la casa di Sandra?’ Era questo il suo dubbio che Sandra non aveva voluto chiarire. Si girò per osservarla.

Sandra era ancora una bella donna. Aveva cinquant’anni portati con dignità e decoro. Adesso era una pantera grigia, capace di essere una cacciatrice pericolosa. Lui aveva perso qualche capello, mostrando una incipiente calvizia. Quelli che restavano erano bianchi candidi. ‘Ma cosa ha fatto in tutti questi anni?’ sospirò Davide, tornando al quesito irrisolto, mentre corrugava la fronte. ‘Ma ora perché è qui?’

Ritornò indietro negli anni, quando lui e Sandra vivevano insieme. La bella favola era durata poco, schiantata contro un muro, composto da una miriade di incomprensioni, recriminazioni e sospetti. Lui sapeva di non avere nulla di cui vergognarsi, nulla di importante. ‘Ma cosa è rilevante e cosa non lo è in un rapporto a due?’ si era chiesto allora, quando Sandra se ne andò. Era la medesima domanda che stava per rivolgere a se stesso, vedendola con lo sguardo spento di una persona sconfitta.

L’unica certezza era che un giorno Sandra portò via il suo pancione e il suo odore, lasciando i suoi yogurt nel frigo. Da quel momento sparì. Solo casualmente seppe che era nata Sofia, perché un amico medico, che lavorava in ginecologia, lo avvertì del parto di Sandra. Era giusto che lo sapesse.

La corsa in ospedale fu diversa da come l’aveva immaginata. Da solo, col cuore in gola. La sensazione calda di quella testa di bimba, tutta nel suo palmo.

“Mettila giù” disse Sandra con lo sguardo gelido e vigile. “Subito”.

Lei non ebbe bisogno di gesti o di alzare il tono. Era già fin troppo imperiosa così, nonostante avesse partorito da poche ore. D’istinto Davide la strinse al petto.

È anche mia” disse Davide, guardandola di sbieco. “Non puoi dirmi questo”.

“No, non lo è!” fece Sandra, chiudendo gli occhi.

Sofia la vide quel giorno e poi mai più.

Come un dèja vu Davide percepì l’angoscia di quel giorno, il mesto ritorno a casa, il pianto di rabbia e di impotenza. Fu determinato nella voglia di ricostruirsi una vita ma era anche sgomento, perché avvertiva la sensazione di non riuscirci.

Si riscosse. Tornò a guardare quella donna accasciata per terra. Chiedeva un aiuto, ignorandone i motivi. Non aveva spiegato nulla. Solamente che Sofia era andata. ‘Certo non l’ha detto’ fece Davide, avvicinandosi per alzarla da terra, ‘Ma è di sicuro sparita nel nulla come lei da questa casa’.

Formalmente erano ancora marito e moglie. Nessuno dei due aveva chiesto né la separazione, né il divorzio. Strana sensazione provò Davide. ‘È come se fosse rientrata dopo avere fatto la spesa sotto casa’. Scosse il capo, perché alla fine non era cambiata per nulla in questi anni. Era rimasta come la ricordava. Sandra doveva spiegare troppe cose. Dai motivi, per i quali se ne era andata, a cosa aveva fatto in questi vent’anni e per finire perché chiedeva il suo aiuto.

Vieni” le disse Davide, sollevandola per un braccio.

Si sedettero accanto sul divano. Sandra si guardò intorno alla ricerca di ricordi familiari del passato. Ripassò lo sguardo due volte su oggetti e mobilio, senza cogliere nulla di familiare.

È cambiato tutto” sussurrò Davide, che aveva intuito cosa cercasse con gli occhi.

Sandra annuì col capo. Davide aveva cancellato dalla loro casa ogni segno che potesse ricondurla alla loro unione. Lei chiuse gli occhi, perché non voleva umiliare il suo orgoglio con delle lacrime riparatrici.

Davide la sfiorò con lo sguardo, cercando le parole, oltre che ai pensieri, per lenire il suo stato d’animo.

“Racconta” le disse secco. Doveva sapere e finora era rimasto all’oscuro su tutto.

Al resto avrebbero pensato dopo. Agli anni persi, agli abbracci mancati, alla solitudine di uomo single. Per questi ci sarebbe stato tempo alla fine del racconto, adesso c’era altro. Più importante. I motivi per i quali Sofia se ne era andata.

Abbiamo fatto tre giorni fa una litigata feroce” iniziò Sandra con un filo di voce. “Ha sbattuto la porta. Se ne è andata via con la macchina, facendo urlare le gomme”.

Davide sorrise. ‘Come potrebbe Sofia essere diversa dalla madre’ sogghignò divertito. ‘Il DNA non mente’. Ricordava bene le liti furibonde tra loro, che per poco non terminavano con l’arrivo dei carabinieri. Le porte sbattute con violenza. Le sgommate dell’auto. Un copione visto molte volte nei due anni da marito e moglie. Adesso Sofia lo ripeteva con sua madre con le medesime modalità.

E poi?” suggerì Davide per stimolarla a parlare per comprendere i motivi del litigio e del perché Sandra era vicino a lui.

Poi?” disse Sandra, alzando lo sguardo su di lui. “Niente”.

Per lei sembrava sufficiente quello che aveva detto. Era inutile sprecare parole.

Come niente?” fece Davide, spalancando gli occhi per la sorpresa.

Un litigo finito nel nulla. Davide scosse la testa. Sandra non era cambiata. Era sempre la stessa. Quando ritornava, una volta sbollita l’ira, non c’era mai staro niente. Tutto era normale. Semplici incomprensioni sulle quali non c’era nulla da discutere.

Per questo fai una tragedia?” domandò Davide sempre più basito dal comportamento di Sandra. “Se non c’è nulla ma un semplice litigio, perché sei qui vicino a me dopo vent’anni di silenzio?”

Sa tre giorni ignoro dove sia” spiegò Sandra, che si stava ricomponendo e riprendendo il suo aplomb.

Hai provato a cercarla?” chiese Davide, alzando il tono della sua voce. Scosse la testa. ‘Sempre così. Non è cambiata’ pensò, osservandola.

Perché credi che sia qui?” fece Sandra, agitando le mani. “Qui a umiliarmi davanti a te?”

Lui la guardò di sbieco. Si era presentata chiedendo il suo aiuto e adesso affermava di essersi umiliata. Il conto non gli tornava. Non era l’assenza di tre giorni a preoccuparla ma qualcosa che non voleva rivelare. ‘Perché?’ si chiese con lo sguardo accigliato.

Ma il motivo del litigio si conosce?” disse Davide leggermente alterato. “Oppure anche quello è niente?”

Sandra aprì la bocca e poi la richiuse, stringendo le labbra. Davide dava segni di impazienza. Si alzò e camminò nervosamente per la stanza. ‘Che vuole questa donna da me?’ pensò scuro in volto, mentre stava decidendo se metterla alla porta. La sua presenza gli aveva già rovinato la giornata e forse anche i prossimi mesi. Vedendola, l’amore assopito dentro di lui stava rialzando la testa in modo pericoloso. Ci aveva messo del tempo per scacciare la sua immagine dagli occhi ma era stato sufficiente vederla, perché tornasse di prepotenza a galla. Doveva agire prima che fosse troppo tardi.

Stava per afferrare Sandra e scuoterla con vigore, quando il campanello squillò. Si fermò di botto. Guardò in direzione della porta.

Quale altro intruso si permette di rompere?” sbottò irosamente, andando ad aprirla.

C’erano due persone, che si tenevano per mano. Un uomo non più giovane e una ragazza di circa vent’anni, che varcarono la soglia senza curarsi di Davide. Lui rimase impietrito dalla sorpresa e per la rabbia di un’intrusione non gradita senza chiedere il permesso di entrare.

Cosa fai qui?” apostrofò Sandra la ragazza, guardandola.

Come sapevi che ero qui?” ribatté Sandra, che imporporò il viso per la collera.

Davide chiuse la porta e si domandò chi fossero questi due. ‘Perché diventa rossa?’ pensò. Non capiva nulla e sperò che ci fossero delle spiegazioni.

È stata Bea a darmi questo indirizzo” replicò acida la ragazza, che teneva per mano un uomo ben più vecchio di lei. “Quando ho esauriti tutti quelli che conoscevo”.

Solita impicciona, Bea” commentò Sandra, che faticava a controllarsi.

La ragazza finalmente si degnò di osservare Davide, come se fosse lui l’intruso in quella casa. Lo sguardo era fiero e le labbra fremevano per il nervosismo.

E quello chi è?” domandò a Sandra la ragazza, indicandolo col viso.

È tuo padre” disse ridendo.

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Bertrando – Una vita

foto personale
foto personale

Quella voce…

Bertrando si irrigidì, non capiva. Non era possibile, a furia di pensarci, di immaginare, di sognare, di desiderare, ecco, certo, iniziava ad avere le allucinazioni, a sentire le voci. Si appoggiò allo schienale, scacciò con la mano dal viso qualcosa che solo lui poteva vedere, infastidito, quasi fosse sufficiente quel gesto per allontanare i pensieri, i desideri persi in un passato lontano. Ma poi la sentì nuovamente. “Sì, era lei” si disse Bertrando con lo sguardo che spaziava per la stanza, come se cercasse qualcosa che non vedeva. Un appiglio per non sprofondare nell’angoscia. “Oramai ne sono certo. Non posso sbagliare”. Si avvicinò alla porta esitante. Aveva paura di chi stava dietro.

Sconvolto non connetteva bene i pensieri. Gli pareva di avere preso una sbronza. Sì, una ciucca di quelle che ti mettono ko per due giorni, lasciandoti come biglietto da visita un’emicrania feroce. Stralunato, ubriaco da ciò che sentiva salirgli dallo stomaco tornò a sedersi sulla poltrona.

Si prese il viso tra le mani. Chiuse gli occhi, come se fosse sufficiente a non udire. “Non è possibile” sospirò Bertrando, stringendo le labbra. “Una voce dal passato si sta insinuando nella mia testa”. Eppure ricordava con nitidezza che l’aveva chiusa fuori. L’aveva scacciata dai suoi pensieri. Era stato troppo male tanti anni prima. “Cosa vuole?” si domandò incerto se tornare vicino alla porta o ignorarla. “Perché ritorna? Perché mi vuole fare ancora del male?”

Era stata una storia di grandi passioni ma anche di furibonde liti. Erano stati anni che non poteva cancellare. Però quello che gli aveva fatto male. Troppo. A Bertrando si inumidì l’occhio a quel ricordo. “Quello che mi ha fatto male” proseguì nel suo pensiero, “è stata quell’accusa”.

Un vulnus mai sanato. Anni trascorsi a nascondersi, inseguito dai media. Gli amici, se così si potevano chiamare, che gli avevano voltato le spalle come se non l’avessero mai conosciuto. Alla fine l’accusa era caduta ma nessuno se ne accorse. Nessuno gli chiese scusa. Nemmeno lei, accecata dalla sua vendetta.

Quale vendetta?” si chiese, mentre le mani passavano nervose nei radi capelli, che era incanutiti. “Quale sgarbo le ho fatto per accusarmi di quella infamia?”

Era difficile per lui dimenticare. Era impossibile cancellare quei sei mesi rinchiuso in una cella con altri quattro detenuti. Dei tagliagola, dai quali si era dovuto difendere. Era invecchiato di vent’anni, quando finalmente l’avvocato lo fece uscire. Tuttavia la sua vita era rimasta sconvolta. Solo, senza uno straccio di lavoro. Senza una casa, perché la loro era rimasta a lei. Come un barbone andava a dormire nel dormitorio pubblico e scroccava un pasto caldo alla mensa della Caritas. Poi decise che doveva andarsene ma non poteva fino al processo. La giustizia lo voleva giustiziare a fuoco lento. Rosolarlo come un tenero maialino. Un supplizio quotidiano. Un fantasma per tutti, fuorché per la giustizia. Non poteva avvicinarsi a lei, perché avrebbe rischiato di finire nuovamente dietro le sbarre. Non poteva vedere sua figlia, Dalila, perché…

Perché?” si domandò restando bloccato sulla poltrona, mentre quella voce lo torturava. ‘Apri. So che ci sei’.

Non poteva aprire. Doveva ripercorrere il suo calvario. Era riuscito tramite il suo avvocato ad avere un posto come guardiano notturno in una fabbrichetta.

Giorno dopo giorno come una formichina aveva messo da parte qualcosa, che gli avrebbe permesso di ricompensare Arturo, il suo unico amico, il suo avvocato, che aveva capito la sua sincerità. Il resto serviva per il bilocale dove abitava adesso, mentre continuava a frequentare quella mensa di diseredati per risparmiare.

Questo gli aveva permesso di ricostruire la sua identità e avere fiducia in se stesso. C’era ancora il vuoto intorno a lui ma di questo non gliene importava nulla. Poi finalmente arrivò il giorno della resurrezione.

Il signor Benforte è assolto per non avere commesso il fatto”.

Però nessuno lo seppe. Lei non si fece vedere quel giorno, conscia della bugia detta e incapace di osservare il crollo di quel castello di infamie che aveva costruito con pazienza. Arturo gli aveva suggerito di procedere contro di lei per calunnia e diffamazione ma Bertrando era troppo stanco per lottare ancora nelle aule di tribunale. Lasciò perdere. Quel modesto lavoro era sufficiente per sentirsi vivo.

Adesso lei era lì, dietro una porta chiusa. “Cosa vuole ancora da me?” si disse con l’angoscia che montava impetuosa nella sua mente. L’unico modo era aprirle per sentire cosa gli doveva dire. Si alzò, mentre quella voce aveva un filo di implorazione, un qualcosa di anomalo. Non era la solita voce di Nicole, altera e dispotica. Sembrava implorare qualcosa. “Ma cosa?” si domandò, sapendo che la risposta era farla entrare.

Esitò davanti alla porta chiusa. Avvertiva che quella presenza lo avrebbe destabilizzato. Percepiva che non avrebbe portato nulla di buono. Questa sensazione negativa la sentiva nonostante il portoncino fosse chiuso e lui al riparo dietro di esso.

Emanava una forza esiziale verso di lui. La personalità di Nicole lo aveva tormentato nel passato, gli aveva rubato i sogni. Però non era riuscito a cancellare le sensazione che le aveva dato nei cinque anni burrascosi trascorsi con lei.

Tolse la catenella. Sentì il respiro affannoso di Nicole. La mente voleva obbligare la mano a non aprire ma il cuore spingeva nella direzione opposta. Girò il chiavistello, che produsse un frastuono incredibile. “Solo io sento questo rumore?” si chiese ansando per l’emozione. Apri piano. Una piccola fessura.

Nicole era lì, immobile, che sbirciava con i suoi occhi nocciola il viso di Bertrando.

Ti sei deciso ad aprirmi?” fece con un ghigno, storcendo al bocca.

Bertrando scostò il battente quel tanto per vedere il suo viso. Era sempre intatto. Affilato come una lama di coltello. Una piccola fossetta sul mento. I capelli biondi come l’oro vecchio. Un tuffo al cuore. Un ritorno a dieci anni prima, l’ultima volta che l’aveva vista. Era dinnanzi a lui, aspettando che aprisse completamente la porta. Sapeva che lo avrebbe fatto.

Non mi fai entrare?” sussurrò Nicole, come faceva un tempo. “Devo parlarti. Non mi va che tutti sentano le nostre parole”.

Bertrando spalancò l’uscio mettendosi di lato per farla entrare. Poi chiuse con dolcezza la porta.

Si guardarono in silenzio. lui era rigido, ghiacciato. Il suo cuore si era quasi fermato, perché l’emozione gli aveva chiuso la gola. Avrebbe voluto dirle qualcosa, qualunque cosa ma nessuna gli uscì dalle labbra. Non riusciva a staccare gli occhi dal suo viso. Quel viso, quello sguardo, quella pelle, quelle labbra che aveva imparato a memoria. Erano come le poesie che bastava un abbrivio per ricordare ogni parola e inflessione della voce, mentre le declamava con sicurezza.

Sapeva che poi sarebbe stato male ma volle imprimersi tutto nella mente. Per altri giorni, per nuovi ricordi, per notti insonni.

Era bella, magrissima per nulla sfiorita dal tempo. Sembrava che si fosse scordato di lei, che l’avesse solo sfiorata, accarezzata piano, lieve, temendo di sciuparla. Gli occhi erano cambiati, diversi. Più tristi e profondi. Vi si leggeva un dolore radicato in profondità, impossibile da alleviare. Occhi asciutti, senza più lacrime.

“Nicole” mormorò Bertrando.

La lingua sembrava arrotolata, impedendo alle parole di uscire. Avvertiva nel petto un macigno che lo schiacciava, lo opprimeva. Si odiò. Avrebbe voluto prenderla tra le braccia, stringerla, accarezzarla, cullarla, lavare tutto quel dolore che sentiva emanare dalla sua persona. Invece non riuscì a dar voce ai pensieri, rimanendo muto.

“Non mi fai accomodare?” fece Nicole, muovendo per la prima volta gli occhi con filo di curiosità. Girò lo sguardo su quella stanza che fungeva da sala e cucina. Spoglia ma ordinata. “Non è cambiato” si disse Nicole con un sorriso che mostrò le fossette sulle guance. Però immediatamente ridivenne spento, senza luce.

A lui parve che la voce fosse stanca, rassegnata, priva di calore. Intuì che gli doveva annunciare qualcosa, come se stesse compiendo un servizio, qualcosa che non voleva ma che doveva fare.

Bertrando si scostò e la fece accomodare sulla poltrona. Nicole si fermò accanto al tavolo senza sedersi. Diede una nuova occhiata circolare, senza soffermarsi su nulla, indifferente.

Si girò verso quell’uomo, che aveva amato e poi odiato con tutte le sue forze. Le costava fatica e dolore essere al suo cospetto. Fissò il suo viso. Uno sguardo che ricordava Nicole di quell’epoca lontana, quando vivevano insieme. Mandò bagliori, che parevano sfidarlo prima di spegnersi di nuovo.

“Bertrando… tua figlia… nostra figlia… Dalila sta morendo!”

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La Bestia, il Principe Azzurro e il Principe – Le fiabe mai raccontate

foto di Veronica
foto di Veronica

La locanda “Alla Strega Violina” stava nel centro del paese. Era l’unico posto dove gli uomini di Pizzi si trovavano per giocare a carte, a bere vino e vedere la televisione satellitare. Era un edificio quadrato con la base in muratura e il resto in legno in mezzo a una corte dove il fico faceva buona guardia con la sua maestosa chioma. Lo chiamavano ‘rubacuori’, perché nessuno resisteva a staccare dai rami un fico. Nero, piccolo e dolcissimo.

L’oste era un tale Franceschiello, un compare che aveva imparato l’arte onorata dal brigante Sparasassi. Furbo e accorto aveva fregato un po’ tutti nella regione di Fiabilanda, facendo i soldi a spese dei gonzi, che si ritenevano più scaltri di lui. Con questi denari si era comprato un bel pezzo di terreno, dove al centro aveva costruito la locanda.

Al piano terra stavano due grandi sale più i servizi. Al primo piano le camere per gli ospiti di passaggio per Pizzi, diretti al Castello della Fantasia, un posto fantastico, dove si era ammessi solo se l’immaginazione superava la realtà. In tanti ci provavano, in pochi ce la facevano. Tuttavia il flusso dei viandanti era cospicuo, facendo le fortune di Franceschiello, che ancora una volta aveva dimostrato di avere buon fiuto per gli affari. Insomma aveva sempre tutte le camere affittate. Chi non trovava posto si adattava a dormire per terra nella rimessa degli Ippogrifi per quattro soldi di cacio. Insomma faceva soldi che accumulava nell’unica banca di Fiabilanda, la ‘Banca di Pollicino’, che chiamavano familiarmente ‘Polli’, come quelli da spennare.

Nella prima sala al pianoterra c’erano i tavoli dove a mezzogiorno e alle venti si mangiava, mentre nel restante tempo servivano per fare oziare gli uomini di Pizzi. Nella seconda sala, aperta dalle venti fino alla mattina, c’era il grande schermo in 16k UHD, dove si vedeva la televisione di stato, GF TV, l’unica che trasmetteva nella regione in regime di monopolio. Altre possibilità non ce ne erano. O così o pomì. La programmazione? Rigorosamente film e programmi sereni, che finivano come nelle fiabe della migliore tradizione. ‘E tutti vissero felici e contenti’. Solo alla domenica c’era un diversivo. Si poteva osservare Valentino Rossi e Lewis Hamilton che correvano a trecento chilometri all’ora come pazzi spericolati, tra capitomboli impressionanti e sportellate da capogiro. Nessun altro sport era permesso. In particolare era bandito il calcio, perché creava tumulti e litigi. E poi gli ultras invece di amarsi se le suonavano di santa ragione. Dunque abolito per legge e punito. Chi osava infrangere il divieto era costretto per punizione a vedersi per dodici mesi senza interruzione di sorta Pollyanna oppure Love Story a scelta. Tutti i giorni per dodici ore filate. Chi era stato colto a barare, dopo l’espiazione della pena, era talmente rintronato che baciava persino le chiappe del primo ministro Medici, notoriamente sporche. Insomma un lavaggio del cervello dagli effetti irreversibili. Lupo Ezechiele fu il primo a essere colto in flagranza di reato. Adesso serviva messa e accompagnava Cappuccetto Rosso dalla nonna nel bosco. Dopo i primi sprovveduti, gli altri hanno preso a rigare dritti.

Era la sera di San Martino, l’undici novembre di un anno che non finiva mai. Nella sala dei tavolini in un angolo stavano la Bestia, il Principe Azzurro e il Principe, quello senza attributi o colori variopinti, il consorte della Sirenetta. C’erano solo loro, gli altri erano nella sala della TV a guardare il solito programma scemo di Scotti Unavolta, che col suo faccione bonario presentava ‘Caduti in piedi’. Un programma talmente mieloso, che la Principessa sul pisello cadeva addormentata sulla sedia. Il suo respiro ronfante era la sinfonia di sottofondo al programma. Gli altri? Si sentivano solo le grasse risate dei pizzini. Non sono quella della mafia ma così si chiamano gli abitanti di Pizzi.

Dunque il trio era nel tavolino d’angolo a giocare coi dadi. La Bestia, sfortunato in amore, si rifaceva a spese dei due principi, che invece erano fortunati con le donne. Tutte le femmine dai dieci anni in sù li sognavano e sbavavano al pensiero che arrivassero con la cabrio decapottabile rigorosamente bianca e prenderle e portarle nel loro castello. La Bestia invece no. Nessuna lo voleva per le mani. Solo la Bella resisteva alla sua presenza.

Ma non indugiamo su questi dettagli marginali, che annoiano e appesantiscono la narrazione.

La Besta beveva il solito immarcescibile succo di Bruttezza, un liquido giallognolo, colore del piscio, e tirava i dadi.

“Dodici” annunciò la Bestia con voce afona e lo sguardo vuoto.

Sul tavolo due bei sei erano le facce visibili dei dadi.

“Hai un culo della malore!” sbottò il Principe Azzurro, gettando le sue fiche verso al Bestia. Aveva la faccia schifata. ‘Mai vista una fortuna così’ pensò, osservando il vuoto delle fiche. Doveva pensare a come giustificare a Prezzemolina che aveva perso l’intero stipendio della novena.

“Sarai cornuto stasera!” rincarò la dose il Principe, quello semplice. Notando che davanti a lui c’erano due fiche. Immaginava cosa avrebbe detto stasera la Sirenetta.

La Bestia rise, raccogliendo le fiche, che i due perdenti gli avevano lanciato. Aveva una montagna di fiche, che impilò per colore e dimensioni. ‘Posso regalare alla Bella due vestiti nuovi, un monile di giada antico’ si disse, ridendo sotto i baffi. ‘Poi ne avanza per andare a trovare nel bosco la figlia del Sultano’. Si deve sapere che lei doveva sbarcare il lunario dopo che era stata cacciata di casa col marito dallo suocero.

“Ci ha provato una volta col principe dell’oriente” ridacchiò la Bestia, mostrando le otturazioni scadenti dei suoi denti. “Ma ha preso un fracasso di legnate!”

“Solito maschilista” rimbeccò il Principe Azzurro, mentre agitava i dadi nel bussolotto di pelle umana.

“Ah! Ah!” rise a bocca larga la Bestia. “Prezzemolina ha un palco in testa che fa invidia al Cervo Maestoso del bosco di Fiabilanda”.

Il Principe Azzurro smise di agitare il bussolotto e guardò di sbieco la Bestia. Guai a toccargli la sua Prezzemolina. “Beh!” pensò il Principe Azzurro, che inghiottì la saliva, facendo ballonzolare il pomo di Adamo. “Biancaneve è stato un bel bocconcino. A letto è stata super. Altroché quell’insipida della Prez, che ogni sera ha una scusa buona per mettersi a dormire. Il mio omonimo, il marito di Bianca, è una frana a letto, secondo lei. Ma vale a capire queste donne”.

“Cosa vorresti insinuare?” affermò con forza il Principe Azzurro.

“Nulla, nulla” si affrettò a dire la Bestia, conosceva quanto fosse irritabile il Principe Azzurro. “Pollicino va a raccontare in giro che ha visto la cabrio decappottabile bianca parcheggiata davanti alla casa dei sette nani”.

Il Principe, quello semplice, impalmato con la Sirenetta, scoppiò in una lunga risata. “Touchè!” fece lui, volgendosi verso il principe Azzurro visibilmente contrariato per queste chiacchiere, tipiche di Alfonso Signorotti.

“Dai! Muovi le mani e tira i dadi” disse la Bestia, che tracannava un boccale di birra rossa, sporcando con la schiuma la barba ormai bianca.

Il Principe Azzurro sentì alle sue spalle un fracasso indiavolato di tavoli e sedie sbattute a terra. Si girò, bianco cadaverico in viso. ‘Se fosse Prez…’ pensò, mosse gli occhi lentamente verso quel rumore. ‘Starei fresco. Una bastonata non me la scanso di certo’

Vide arrivare come una Furia la Bella, che prese la Bestia per un orecchio, tirandolo su di forza dalla sedia.

“A casa, sfaticato!” berciò nervosa e irata la Bella. “Devi lucidare i pavimenti, lavare i vetri e fare il bucato! E te ne stai con questi altri due fannulloni a giocarti i soldi del mutuo del palazzo!”

La Bestia fece una smorfia di dolore. La tirata di orecchie era troppo violenta. Cercò di arraffare le fiche dal tavolo, che caddero rumorosamente a terra.

“Lasciale lì!” gli intimò la Bella, trascinandolo per la sala.

Il Principe Azzurro rise, mentre il colorito del viso tornava normale. Stava per chinarsi a raccogliere le fiche cadute, quando si ritrovò a bocconi sul pavimento. Un dolore atroce lo colse sulla schiena. Udì una voce familaire.

“Che razza di principe sei!” ringhiò Prezzemolina con in mano il manico della scopa. “Dovevi andare al mercato a comprare la cena. E dove ti trovo? Con altri due smidollati e buona a nulla! Ha perdere tutti i tuoi soldi”.

Lo afferrò per la giubba, rimettendolo in piedi. “E poi a casa facciamo i conti” latrò Prezzemolina. “Mi devi delle spiegazioni sulla visita ai sette nani in loro assenza”.

IL Principe, quello semplice e senza attributi, ghignava a più non posso. Osservò il mucchio di fiche tra il tavolo e il pavimento. Aprì il tascapane per metterle dentro, quando fu investito da un’odna marina, che lo bagnò da capo ai piedi. ‘È arrivata anche lei’ mormorò rassegnato alla bastonata, che non arrivò.

“Finisci di raccogliere le fiche” disse gentile la Sirenetta con un largo sorriso stampato sulle labbra colorate di un bel rosso acceso. “Però il tascapane lo dai a me. Ti va di lusso, stasera. I pavimenti del castello ti aspettano”.

E tutti vissero infelici e scontenti.

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Un compleanno un contest … un premio

Il blog Webnauta – navigatore in un oceano di parole di Barbara Businaro – per il  primo compleanno del suo blog ha indetto un contest, poche regole chiare, un tempo massimo in cui inviare il materiale, tre giudici incorruttibili ed un ghiotto premio su cui buttarsi:

una capiente borsa in tela piena traboccante di libri cartacei.

Si tratta di creare un elaborato (racconto, poesia) di max 8000 caratteri con all’interno quattro parole chiave: nel seguente ordine  NAVIGATORE – CHEESECAKE – MANOSCRITTO – FRESIA; entro le ore 24 dell’8 dicembre 2016. Come? Linkare il sito e menzionare il tag #webnauta. Mandare una mail a Barbara Businaro – webnautasmtp@gmail.com con il link del post.

Siccome partecipare è uno stimolo a scrivere qualcosa, eccomi pronto alla disfida. Vincere o non vincere non fa differenza. l’importante è partecipare. Il testo che segue rispetta i criteri stabilita dal regolamento. Le quattro parole chiavi e il rispetto degli 8000 caratteri – il testo ha 7844 caratteri.
Monica era seduta sul divano a leggere un libro. La giornata era stata stressante. Tanti piccoli intoppi e molti problemi. Pose il romanzo ‘Un paese rinasce’ sul tavolo e sospirò, pensando a tutto quello che le era capitato poco prima.
Mentre voleva mettere il vinile di Witney Houston sul piatto, le era caduto per terra, scheggiandosi. Ci teneva molto. Era il ricordo di una giornata particolare.
Porca paletta!” aveva esclamato Monica. In realtà l’espressione era più colorita nella sua mente ma aveva ripiegato su questa più neutra. “Ma adesso che dico a Riccardo?”
Ricordava bene quel giorno di novembre. Era San Martino. Doveva raggiungerlo a Lizzi, dove si teneva un’importante esposizione di floricoltura. Riccardo era lì già dal giorno precedente.
Ti devo spiegare la strada?” si era offerto Riccardo al telefono prima della partenza. “Non è complicata ma ci si può perdere. Specialmente se cala la nebbia. E qui ha fissa dimora!”
Monica rise, mettendo in mostra due simpatiche fossette sulle guance.
Ma no!” fece divertita. “Non mi perdo mai! E poi ho il navigatore in macchina”.
Monica sentì un brontolio dall’altra parte e rise ancora più forte.
Non ti fidi, Rick?” disse Monica, mentre prendeva le chiavi della Golf nuova di zecca.
No!” si espresse Riccardo con un tono di rassegnata e malcelata paura. “L’ultima volta siamo finiti in discarica”.
Monica rise mentre lanciava uno smack di saluto.
Dopo aver preso la macchina dal box, si mise in cammino per Lizzi. Impostò il navigatore, che le rispose pronto “Svolta a sinistra”.
Cominciamo bene” si disse Monica, zittendolo.
Lizzi era a circa centoventi chilometri da Mughi. Monica calcolò che in due ore sarebbe arrivata.
Sono le dieci” pensò, sbirciando l’orologio della macchina. “Alle dodici sono a Lizzi. Giusto in tempo per un lauto pranzo. Rick mi ha detto che nell’unica locanda del paese servono un cheesecake, che fa resuscitare i morti!”
Fischiettando il motivetto di ‘Grande, grande’, procedeva prudente lungo la strada provinciale SP29. Era San Martino ma di sole manco l’immagine. Cielo grigio e nebbiolina ai margini della strada. La campagna era in chiaroscuro nonostante fosse mattina.
Lo schermo si illuminava per segnalare la strada da seguire, mostrando i segmenti da percorrere. Si inerpicò con dolcezza sui primi contrafforti che portavano a Lizzi. Il paese si trovava a circa 500m di altezza, sopra una dolce collina che pareva un panettone basso.
Monica era tranquilla. “Questa volta non mi sbaglierò” pensò, mentre imboccava un viottolo in mezzo al bosco. Non ebbe il minimo sospetto che qualcosa aveva alterato il percorso segnalato.
Proseguì per diversi minuti mentre la nebbia diventava più fitta. Rallentò per non correre rischi. Osservò lo schermò del computer di bordo. Segnalava le dodici e trenta. “Cavoli!” imprecò sottovoce. “Avrei dovuto essere già a Lizzi da mezz’ora”.
Toccò lo schermo per chiamare Riccardo ma pareva che non ci fosse campo. Aggrottò le sopracciglia, mentre rallentava ancora di più. In pratica a piedi sarebbe andata più forte. Fatta l’ennesima curva, sbucò fuori dal bosco e dovette chiudere per un attimo gli occhi. C’era un sole accecante. Quando li riaprì vide un cancello aperto, dove campeggiava un cartello ‘BENVENUTA’.
Monica strabuzzò gli occhi. “Un cartello di benvenuta?” rifletté, mentre imboccava il vialetto di ingresso. “Forse mi aspettano?”
A destra e a sinistra una distesa di fiori colorati. Un’ampia gamma di colori: dal bianco al giallo, dal rosa al blu, dal rosso all’arancione. Si fermò a guardare ammirata. Per lei erano fiori sconosciuti. “Una fioritura tardiva?” si interrogò, notando che da un piccolo ciuffo di foglie nastriformi, erette, abbastanza rigide e carnose, di colore verde chiaro si sviluppava un sottile fusto eretto, scarsamente ramificato. Su questo stelo c’erano numerosi piccoli fiori a trombetta, riuniti in pannocchie arcuate. Aprì il finestrino per osservare meglio e un effluvio di profumo inondò le sue narici.
Riavviò la Golf per raggiungere la corte che stava tra il giardino e la casa. Sembrava che la stessero aspettando. Fermato il motore, scese per raggiungere l’ingresso che era aperto.
C’è nessuno?” disse forte, mettendo la testa nell’androne illuminato dal sole, che entrava di sbieco. “Rick? Non fare il tuo solito! Lo sai che non sopporto i tuoi scherzi, facendomi morire di paura!
Nessuna risposta. Solo l’eco della sua voce che si perdeva tra corridoi e stanze. Proseguì cauta, attenta a vedere chi abitava quel palazzo che pareva disabitato.
Si addentrò, seguendo un corridoio illuminato da candelabri accesi. Una porta era aperta e dava su una stanza grande con le pareti ricoperte di libri. Nel camino ardeva un bel ciocco scoppiettante e di lato c’era una poltrona di raso rosso con un mobile curioso davanti. Era alto come una figura umana con un piano inclinato, sul quale stava un manoscritto, apparentemente molto vecchio.
Monica si avvicinò curiosa. Era scritto a mano. Cominciò a leggere.
Nonostante la fresia sia un fiore molto conosciuto fin dall’antichità, non esistono documentazioni sulla sua origine. Per questo motivo nel linguaggio dei fiori e delle piante è considerata nell’Europa meridionale il simbolo del mistero. Nel nord Europa, invece, per via del suo profumo è il simbolo della nostalgia e dei ricordi. Essendo il fiore che più di ogni altro rappresenta il fascino per l’ignoto è quello adatto da esser regalato in caso di un appuntamento al buio.
Fiorisce dalla metà della primavera alla fine dell’estate (a seconda del clima) ed è celebre per la sua semplice bellezza. Però è noto per l’ inebriante profumo. Fa parte della famiglia delle Iridaceae, e ha origine nell’Africa del Sud, soprattutto nella zona del Capo di Buona Speranza.
Il nome le fu assegnato dal farmacista e botanico Ecklon nel 1800 per onorare Freese, un suo amico medico.
Monica continuò a sfogliare quel curioso libro dove c’era disegnati fiori e piante. Disegni, e non fotografie, dai colori appena impalliditi dal tempo.
Si chiese dove era capitata. Le sembrava un posto magico. Una distesa di libri ben curati e senza un filo di polvere erano allineati nelle scaffalature in noce scuro. Si intravvedevano dai vetri che chiudevano gli scaffali.
Monica si aggirò per la stanza, prima di uscire, inseguendo una melodia che conosceva bene. Era il suono del suo telefono. L’aveva lasciato sul portaoggetti centrale della sua Golf. Uscì nella corte per raggiungere la sua auto.
Aprì la portiera e si sedette al posto di guida. Il suono era cessato. Controllò il display per vedere chi la chiamava. Non riusciva a leggere il numero o il nome, perché gli occhi si chiudevano per la sonno.
Sentì picchiettare sul vetro. Si riscosse come se avesse dormito. Si guardò intorno con l’occhio smarrito. Giardino e palazzo erano spariti. Il bosco pure. Era ferma ai margini di una strada che non ricordava di avere percorsa. Si interrogò se fosse sttao un bel sogno tutto quello che aveva visto e notato.
Il particolare più inquietante adesso era quel picchiare deciso sul vetro. “Chi è?” si domandò con gli occhi colmi di ansia. “Rick!”
Aprì la portiera e lo abbracciò con calore.
Cosa facevi qui addormentata?” le domandò il suo ragazzo.
Monica aprì la bocca per dire qualcosa ma la richiuse per la sorpresa.
Addormentata?” fece Monica, quando riacquistò l’uso della parola. “Ma ero in un giardino pieno di fiori colorati e profumatissimi. Poi c’era un meraviglioso palazzo pieno di libri antichi”.
Riccardo sorrise e scosse la testa. “Non cambia mai! Sempre con la testa fra le nuvole a fantasticare” pensò, mentre le porgeva un pacchetto tutto infiocchettato con sopra quel fiore profumato che aveva visto nel giardino incantato.
Dai. Metti in moto e seguimi” fece Riccardo, scuotendo il capo, e si avviò verso la vecchia Alfa, posteggiata poco più avanti. “Alla locanda ci aspettano per il pranzo”.

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Angelo – Storie di vita

tratto da Wikipedia
tratto da Wikipedia

“…Perché Angelo? Perché non lo fai? Lasciami andare! Fammi volare! Fammi vivere! Ora ho deciso, ti lascio ai tuoi ricordi, continua pure a nutrirtene, fantastica, vivi del passato”.

Queste frasi ronzavano nella mente di Angelo, accompagnate dal sottofondo prodotto dallo strofinio del piede sulla stoffa della poltrona. Un tic nervoso che lo pervadeva, quando non era in grado di gestire la situazione. E questa era proprio una di quelle.

L’amore di quella donna dichiarato così all’improvviso senza alcun preavviso, senza che lui se ne fosse accorto, lo sgomentava. Irruento, spavaldo, quasi rancoroso, come se lui fosse causa del turbamento di Zoe. Tutto questo lo aveva destabilizzato e terribilmente scosso. Non poteva crederci. Tutto gli appariva irreale.

Lo sguardo perso nel vuoto, la testa vuota dai pensieri, mentre con la mano destra sorreggeva il mento. La testa sembrava pesare più di un ‘Mille e una notte’ in versione integrale e copertina di cuoio rosso. Poi a dondolare il capo e a fissare lo schermo, che stava diventando buio. Fissava il monitor con le palpebre spalancate, come se ne avesse orrore. Eppure non doveva essere così. Tutt’altro.

Guarda avanti, Angelo” tentò di dirsi ma l’unico pensiero era rivolto al passato. Verso lei. Di nuovo Zoe.

Se guardava indietro, vedeva solo una donna con cui aveva litigato ferocemente. “È vero. È la madre di nostra figlia, ma…”. Angelo scosse il capo. “È stato vero amore oppure solo un disgraziato incontro che ha generato Beatrice?”

Quella donna, cosa rappresentava per lui: la sua condanna o la sua gioia?

Però era rimasto stupito da quelle parole, tanto belle quanto feroci. Non era la prima volta che una donna pronunciava frasi simili. Di sicuro non era la prima e non sarebbe stata l’ultima. Gli aveva rinfacciato di guardare al passato senza una prospettiva futura. “Ma come posso fare a non pensare a quel fugace incontro” sospirò Angelo, cambiando posizione. Adesso era la mano sinistra sotto il mento. “Come posso ignorare che è nata Beatrice?”

Angelo tolse il piede sinistro da sotto le chiappe, poggiandolo a terra. Ricordava come Zoe gli avesse rinfacciato di essere incinta ma era stata irremovibile. Niente nozze riparatrici, niente convivenza forzata. Niente di niente. Neppure il riconoscimento della figlia. Questo sarebbe rimasto un segreto tra loro.

“Ma che ne sanno gli altri di cosa provano due persone” si era detto Angelo. Forse per rincuorarsi o crearsi un alibi. “Eppure un buon motivo c’è per pensare a lei. Beatrice” ripeteva ogni volta che il suo pensiero andava a Zoe.

Quello che bruciava in lui era stato il suo abbandono, il suo negarsi con ostinazione. Ricordava Angelo quel giorno. Zoe gelidamente gli aveva detto “Me ne vado per la mia strada. Non cercarmi. Non farti vedere mai più”.

Perché?” aveva implorato Angelo, mentre lei senza rispondere gli aveva voltato le spalle.

Quel momento gli era rimasto impresso e a ogni istante aveva rivisto quella scena. Un supplizio, una sofferenza che lo accompagnava nel sonno. e lo riabbracciava nel tepore del risveglio.

Come posso non ricordare?” sospirò rumorosamente Angelo. “Perché ti sei fatta viva dopo anni di ostinato silenzio? Perché mi hai negato di vedere nostra figlia? Sì, sarà stato un incidente sfortunato, come hai sostenuto. Ma quell’unico amplesso era stato pieno di passione”.

Si alzò dalla poltrona. Aveva bisogno urgente di caffeina in dose industriale. Doveva tornare rapidamente in sé per difendersi da quel ricordo.

In cucina mise sul fuoco la caffettiera, riflettendo su quel messaggio. Qualcosa non tornava. Una dichiarazione d’amore, una stilettata feroce di odio, una richiesta di essere lasciata libera.

Che senso ha tutto questo?” rifletté Angelo, sorseggiando il caffè nero e amaro nell’unica tazza grande che possedeva. “Ho rispettato il suo volere, anche se mi costava fatica e dolore. Non ti ho cercata, né ho cercato di sbirciare di nascosto che volto avesse nostra figlia. Eppure tu mi scrivi ‘Perché Angelo? Perché non lo fai? Lasciami andare! Fammi volare! Fammi vivere!’”.

Angelo osservò fuori dalla finestra della cucina. Una brezza leggera e tenue sospingeva le foglie degli alberi cadute in terra. “Siamo in autunno e le piante mostrano la nuova livrea. Colori sgargianti, come se fossero usciti dal pennello pazzo di Van Gogh”. Era il pensiero di Angelo, che continuava a bere il suo caffè.

Se Zoe non era mai stata cancellata dalla sua mente, adesso diventava un chiodo fisso. Doveva capire per agire. “Cosa ha voluto trasmettermi?” si domandava dondolandosi sulle gambe. “Chiede aiuto? Vuole ricominciare una storia che non è mai partita?”

Angelo tornò nello studio, posizionandosi ancora sulla poltrona. Però era inquieto. Quel messaggio continuava a ronzargli nelle tempie.

Rispondo?” fece Angelo, socchiudendo gli occhi.

Li riaprì di colpo con lo sguardo fisso. Le labbra serrate, la mente chiusa a qualsiasi pensiero. Si alzò di scatto dalla poltrona e tornò in cucina. Aprì il pensile e prese un piatto. Lo guardò con lo sguardo smarrito, mentre la mascella faceva digrignare i denti. Era l’unico ricordo di quella sera, che aveva conservato. L’istinto gli suggeriva di scagliarlo lontano, fuori dalla finestra ma lo ripose con cura dove era stato in tutti questi anni. Rappresentava l’unico legame con Zoe e Beatrice. “Ma sarà davvero nata Beatrice?” si domandò con l’occhio perso nell’osservare le foglie che cadevano. Scosse la testa. Non poteva dubitare. Uscì dalla cucina, mentre si aggrovigliava i capelli sale e pepe.

Tornò davanti alla postazione del computer e mise la mani dietro la nuca. Poi le incrociò davanti alla bocca. Lo schermo era buio ma sapeva bene cosa stava sotto. Quel messaggio che l’aveva inquietato.

Quel mercoledì sera Angelo continuava a riflettere. Colto da un guizzo di vivacità, tirò giù le gambe dal bracciolo della poltrona. Aveva proprio bisogno di una bevuta e una fumata. Forse gli avrebbe schiarito la mente o solamente sedato i suoi dubbi. Attraversò la stanza e si avvicinò alla piccola libreria affianco alla porta. Era una libreria di tipo svedese, quelli in voga negli anni sessanta. Non ricordava il tempo che la puliva. Due dita di polvere erano depositate su libri e oggetti. Rovistò in quel ammasso di materiali di variabile natura che stavano sugli scaffali, addossato alla parete. Non sapeva dove cercare ma cosa, quello sì.

Estrasse una vecchia scatola di latta rettangolare. Non era voluminosa, perché poteva stare sul palmo di una mano. Sul coperchio c’era stampata una yankee vestita in bianco, che teneva un ombrellino da sole aperto sulla testa, e sopra di esso una scritta sbiadita e quasi illeggibile. Lasciava intuire essere stata un tempo la pubblicità di un prodotto di grande diffusione dell’epoca.

Con fatica aprì il coperchio e vide con delusione che il tabacco biondo era diventato polvere. La gettò sul tavolo innervosito.

Il messaggio di Zoe tornò netto nella sua testa e con esso tutti i dubbi che aveva cercato di cancellare.

Allora si mosse verso il mobile bar, un pezzo non meno vecchio della libreria e ugualmente impolverato. Conteneva dozzine di bottiglie, piccole, grandi, quadrate, rettangolari, cilindriche, a collo largo oppure stretto, con qualche chicca da esposizione. Nessuna era stata acquistata in modo regolare. Tutte arraffate con arte a Murano, durante un convegno del partito sullo sviluppo della piccola e media impresa e sull’artigianato in via d’estinzione. Si trovava in uno degli alberghi più esclusivi della zona. Così per gioco oppure per voglia di trasgredire le aveva prese. “Esproprio proletario!” aveva affermato Angelo, quando le aveva riposte nel mobile bar.

Scelse una vecchia bottiglia di vodka ma non ebbe il coraggio di aprirla per una semplice bevuta per schiarirsi le idee. Era una bottiglia molto rara. Giudicava che per Zoe era troppo. Quindi optò per un Havana Club del 1950, che faceva capolino dalla terza fila. Presa la bottiglia e il bicchiere tornò verso la scrivania. Posò tutto quanto sulla tavola accanto alla scatola di latta. Prima doveva farsi una doccia bollente. L’acqua scrosciava sulla sua testa mentre lui, immobile sotto la cipolla, continuava a pensare a quel messaggio tanto enigmatico quanto confuso. Uscito dal box, con l’accappatoio ancora addosso, tornò davanti al computer. Mise un vinile di Pat Metheny ormai consumato sulla piastra. Riempì il bicchiere col rum. La bottiglia la posò di fianco al PC per non dover alzarsi, quando il bicchiere fosse stata vuoto. Osservò la scatolina con la donna in bianco con nostalgia. Gli ricordava quando studente di lettere stava sui gradini della facoltà a prepararsi uno spinello.

Andò in camera per mettersi qualcosa di comodo e pulito in dosso, prima di tornare alla postazione del computer. Scosse la testa per scacciare quei lontani ricordi e si sistemò davanti allo schermo decisamente buio.

Attese le prime note dal giradischi per far partire il movimento della gamba. Il ritmo, che produceva la fusione tra le chitarre e il piede che mangiava la stoffa, favoriva la concentrazione necessaria a preparare la risposta oppure a decidere di non fare nulla. Sorseggiò il rum, tenendolo per qualche attimo nella bocca. Lo gustava con calma. Aveva un sapore forte e dolce nello stesso tempo. L’annata era favolosa. Toccò la tastiera per far comparire la schermata di blocco. Aveva deciso. Avrebbe risposto. Tutto era diventato chiaro nella sua testa.

Alzò le mani per colpire la tastiera con decisione. Non riuscì a completare la manovra perché il campanello squillò a lungo come se fosse arrabbiato per il lungo silenzio.

Angelo si alzò furioso per vedere chi fosse l’intruso. Lo schermo del videocitofono a colori mostrò un’immagine che lo lasciò di stucco. Era a bocca aperta a inghiottire dell’aria, quando sentì una voce da ragazzina.

Mi apri, papà?” e dopo una breve pausa “Sono Beatrice”.

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La Bella, la Sirenetta e Prezzemolina – Le fiabe mai raccontate

il mio frutteto - Foto personale
il mio frutteto – Foto personale

Una sera di fine ottobre si ritrovarono sul social Fiabe&co2.0 La Bella, la Sirenetta e Prezzemolina.

Era il social emergente, che aveva schiantato e spazzato via la concorrenza. Twitter era fallito un anno prima. Un crack così non l’aveva mai visto nessuno. Milioni di azionisti avevano minacciato di picchiare a sangue Dorsey, il CEO, perché era riuscito ad azzerare tutti i loro soldi.

Tumbir navigava a vista tra le acque infide di scogli sommersi. Di certo non sarebbe arrivato a fine anno.

Istangram aveva chiuso due anni prima. Di questo si erano persi i ricordi. Nessuno lo rimpiangeva.

WordPress vivacchiava tra i sussulti di Lady Nadia e gli anatemi di Lady Alessandra. Però era gratis e qualche fan incallito, come Newwhitebear, lo frequentava ancora. Li chiamavano i ‘nostalgici’.

Facebook aveva conservato qualche milione di iscritti. Gli irriducibili, come si definivano loro ma Zuckenberg pensava di chiudere bottega. Pieno di grana poteva permettersi di vivere di rendita, facendo il finto filantropo.

Insomma una disfatta su tutta la linea.

Un giorno di qualche anno fa i fratelli Grimm con la collaborazione di Andersen, Perrault e Afanasjev decisero che era tempo di cambiamenti. “Basta la foresta pietrificata dei social spammatori!” argomentarono, dondosi da fare nel creare da nulla la loro creatura. Nacque Fiabe&co2.0. Fu un successone. Tutti in fila per iscriversi. A darsi di gomito per affermare ‘io mi sono iscritto ancor prima che emettesse un vagito”.

Ma adesso torniamo alle nostre amiche che videochattano, videoparlano, videoano solo. Insomma fanno quello che meglio riesce a loro.

La Bella non ricordava il proprio nome, anzi era l’unico che conoscesse. Da quando era in fasce la chiamavano così. E quello era rimasto appiccicato come un nastro adesivo. Lei era La Bella e basta. Non che le dispiacesse sentirsi chiamare così. Tutt’altro! Sapeva di essere il meglio del reame ma fingeva umiltà, mentre dentro di sé gongolava per la soddisfazione, pensando come erano scorfano le sorelle. Ma l’aspetto peggiore era come erano finite. La maggiore aveva sposato una persona, che passava il suo tempo a specchiarsi. Non faceva altra attività che quella. La sorella maggiore, se voleva un po’ di sesso, doveva arrangiarsi come poteva. Il marito era fisso davanti allo specchio. “Manco fosse Narciso” pensò La Bella, sghignazzando. La seconda aveva incrociato uno bello spirito. Tanto bello, quanto vanesio. “Beh!” si diceva sempre, “almeno ho sposato la Bestia. Bruttina ma tanto di buon cuore. E poi mi lascia campo libero. Faccio quello che voglio” e giù una sghignazzata da far spavento anche alla Bestia.

La Sirenetta stava sul proprio scoglio a Copenhagen, sempre indaffarata mandare via gli scocciatori, che pretendevano di prendersi un pezzo della sua coda. Aveva faticato un sacco a recuperarla. Mica adesso poteva regalarla impunemente ai turisti armati di forbici e macchine fotografiche. I più terribili erano i giapponesi. Sembravano cavallette. Un sospiro le sfuggì dalla bocca. Il principe consorte se ne stava sempre dentro il suo palazzo di rilucente pietra gialla. La Sirenetta non era convinta che fosse vera pietra ma mattoni auriferi. Rilucevano troppo. E quando non era dentro, stava sul terrazzo a rimirare il chiaro di luna. “Uffa, che barba” si disse la Sirenetta, vagamente annoiata. “Se non fossi su questo scoglio a prendere sole e difendermi dagli scocciatori. Sai che noia, sai che barba!” La Sirenetta segnava al sorgere del sole un’asta, che barrava al tramonto. Teneva il conto di quanti giorni le rimanessero da vivere, prima di diventare spuma nell’acqua. “E va bene che campo trecento anni. E di giorni ne mancono ancora un bel po’” rifletté, mentre si metteva in posa davanti alla webcam. “Però prima di diventare spuma, mi voglio godere la vita”.

Prezzemolina, con le stimate del prezzemolo come marchio di fabbrica sul palmo della mano sinistra, curava le sue preziose trecce lunghe venti braccia. “Uffa” si disse un giorno. “Questi capelli saranno la mi rovina”. Perdeva delle ore a lisciarli, spazzolarli e intrecciarli. Poi quando aveva finito ricominciava a scioglierli, lisciarli, spazzolarli e intrecciarli. Insomma un ciclo perpetuo a movimento continuo. Il solito principe, che aveva sfidato l’orchessa per impalmarla, soffiava come un mantice in azione dal fabbro ferraio “Da quando è scesa dalla torre” pensò arrabbiato, “non fa altro che quello. Giorno e notte. Se mi avvicino per fare all’amore, mi risponde ‘Aspetto, quando ho finito’”

Dunque le tre amiche, che si erano incontrate per la prima volta su Fiabe&co2,0, tutte le sere alle venti avevano l’appuntamento. Cascasse il mondo, tremasse la terra, avessero un febbrone da cavallo, si trovavano sempre davanti al monitor. Cuffie nelle orecchie, webcam attiva, microfono aperto e pronte a digitare sulla tastiera.

“Che stai facendo, Sirenetta?” le chiese La Bella, che non capiva i movimenti dell’amica.

La Bella udì un forte brontolio simile al mare in burrasca. “E va bene che suo padre è il dio del mare. Ma ricordarlo sempre è troppo” si disse, storcendo il naso.

“Lasciami perdere” borbottò la Sirenetta, mentre teneva stretto lo smartphone tra orecchio e spalla. Quello era sempre attivo. La chiamavano la telefonista seriale. Sempre con lei, ovunque fosse. Anche in bagno.

“Ma dimmi cosa è successo?” si inserì Prezzemolina, che aveva appena finito di raccogliere la treccia ma si apprestava a scioglierla.

“Amiche care” sbuffò la Sirenetta. “Qualche coglione di writer si è divertito a scrivere sul mio scoglio preferito”.

La Bella sorrise. Prezzemolina aggrottò la fronte.

“Ma cosa ha scritto?” chiese curiosa Prezzemolina, mentre era alle prese con la sua treccia.

“Ha scritto che i danesi non vogliono migranti provenienti dal mare” esclamò con il viso rosso per la rabbia la Sirenetta. “’Torna da dove sei venuta. I danesi non ti vogliono sui loro scogli’ Ma vi sembra il modo di ringraziare chi attira milioni di visitatori l’anno?”

La Bella si allontanò un attimo fuori dalla visuale della webcam, chiudendo il microfono. Non riusciva a trattenere una risata fragorosa. Poi ricomposta si mise di nuovo in postazione.

“Ma non hai la pelle scura, Sirenetta!” chiosò La Bella con lo sguardo serio, mentre rideva di lei.

La Sirenetta arrossì un pochino, prima di rispondere.

“Beh! In realtà” sospirò rumorosamente la Sirenetta. “Un pochino lo sono. Sai a forza di stare sullo scoglio al sole, mi sono dorata. È bella ma pare l’abbronzatura del muratore”.

Una breve risata uscì dalla bocca della Sirenetta, che continuava a dare olio di gomito per togliere le scritte dallo scoglio.

Prezzemolina, rimasta in silenzio fino a quel momento, decise di intervenire.

“Sono dei razzisti, quei danesi!” fece alzando la voce. “Dovrebbero essere più riconoscenti, quegli zoticoni!”

La Bella di rincalzo. “Non ti meritano, Sirenetta. Posso darti ospitalità nel pazzo della Bestia. È tanto vasto che a volte mi perdo. Per fortuna il lupo, che si è pappato l’orchessa mi ritrova e mi riporta nelle mie stanze”.

La Sirenetta strabuzzò gli occhi. “E come ci arrivo?” disse, interrompendo per un attimo di strofinare lo scoglio.

Prezzemolina sospirò, pensando che sarebbe bello trovarsi tutte e tre sotto lo stesso tetto. “Sai quante chiacchiere?”

Prezzemolina stava per dire qualcosa, quando udì una possente voce.

“Bella, che fai? Ho fame!”

“Uffa” disse La Bella, corrugando la fronte. “Ma lo sai che sto parlando con le amiche. Ancora un attimino”.

Poi volgendo lo sguardo alla webcam, aggiunse. “Lui pensa solo a mangiare. È grasso come un porcello all’ingrasso. Ci sentiamo domani alla stessa ora”.

“Ciao” rispose la Sirenetta. “A domani”. E spense la webcam.

“A domani” disse Prezzemolina, che stava rifacendo la treccia.

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Una vita – parte dodicesima

Foto personale
Foto personale

Il sole era alto e scottava, quando Luca scese nell’atrio del casale, dove trovò Maria appisolata su una vecchia poltrona di vimini.

La osservò in silenzio, ascoltò il rapido sibilo del naso e il rauco gridare della bocca semi aperta e decise che non era il caso di svegliarla.

Si guardò intorno, diede una rapida sbirciata al giardino sperando di incrociare il viso di Simona ma tutto sembrava calmo e tranquillo come una delle tante giornate di luglio.

Trasse un profondo respiro, si girò per ritornare nella camera e si avviò lentamente verso le scale, quando un gemito potente richiamò la sua attenzione.

“Signor Luca!” udì una voce impastata da sonno e stanchezza che sembrava provenire dal mondo degli inferi.

“Signor Luca!” ripeté la voce. “Simona è andata al mare. La troverà al bagno Garden”.

“Grazie” rispose l’uomo voltandosi lentamente come se avesse il timore di svegliare completamente quella voce, mentre vedeva il viso di Maria contratto in una smorfia di stizza e di fastidio.

Non era sua intenzione di andare al mare ma doveva fingere di essere contento, come gli imponeva la parte razionale, perché così doveva apparire agli occhi della gente. La fantasia insorse, affermando che doveva dirlo apertamente che non ci sarebbe andato. Il nuovo bisticcio confuse le idee di Luca che stava incerto se dire a Maria, che sarebbe andato altrove. Risalì in camera come per istinto senza un preciso motivo.

Di lì a qualche minuto ridiscese le scale e chiese come avrebbe fatto a raggiungere il famoso bagno Giardino.

Maria provò a spiegargli che il bagno si chiamava Garden e non Giardino, che non sarebbe stato difficile raggiungerlo e che li avrebbe aspettati per cena.

Luca annuì uscendo, ma intuiva che non sarebbe stata una passeggiata. Il caldo mozzava il respiro e ronzava pericolosamente nella testa.

Girò a lungo per il paese cercando con affanno la strada del mare senza riuscire a trovarla, distratto dal pensiero di Ersilia.

Dopo la fugace avventura con la francesina dal sorriso dolce era ritornato in città in attesa di cominciare la sognata università, che avrebbe cambiato tutte le sue abitudini scandite dagli orari del liceo.

Una sera, mentre sedeva solitario nei giardini pubblici, incrociò lo sguardo di Ersilia e subito divenne audace.

“Ciao!” le disse andandole incontro mentre la testa entrava in tumulto come al solito.

Ersilia allargò le braccia e lo strinse con vigore a sé, mentre lui la baciava sulle labbra senza timori e senza arrossire. Questa volta il colpo secco, che aveva dato ai suoi pensieri, non l’avevano mandato in tilt e la partita poteva continuare.

L’abbraccio gli sembrò lunghissimo con le bocche che continuavano a restare unite. Si guardarono e scoppiarono a ridere, forse pensando all’ultimo incontro che era stato un fallimento.

Luca cominciò a parlare in maniera sciolta e senza timore, le prese la mano e camminarono a lungo nel buio rotto dalle lampade pubbliche. Lei sembrava felice di ritrovare quel ragazzo impacciato e timido dopo diverse storie una più fallimentare dell’altra. Quell’incontro casuale le aveva aperto gli occhi. Luca era imbranato ma sincero nelle sue manifestazioni d’affetto.

“Ci vediamo domani alle undici in piazza” le disse senza nemmeno porsi il problema se lei era disponibile o desiderava rivederlo.

“Alle undici” rispose Ersilia, mentre un nuovo focoso bacio suggellava quel fortuito incontro.

Giorno dopo giorno la loro storia si cementava nelle aspettative e nelle convinzioni fino a diventare solida come il granito. Gli anni dell’università volarono come coriandoli al vento perché volevano convalidare il loro amore con il matrimonio.

Le immagini scorrevano veloci dinnanzi agli occhi senza posa e senza interruzioni, quando all’improvviso tutto diventò buio e i ricordi sparirono.

Luca aprì gli occhi, ma vide solo buio.

Sentiva freddo senza percepire da dove venisse. Eppure doveva essere estate ma non ricordava quando.

Si mosse, ma si sentiva impacciato, legato come se fosse costretto in qualcosa d’angusto. Non capiva il motivo di queste sensazioni sgradevoli.

Provò a parlare ma non udiva il suono della sua voce. Solo un sibilo, che attribuì ai suoi polmoni.

Richiuse gli occhi per verificare che non fosse un sogno. Percepiva che era una realtà diversa che non riusciva a focalizzare. Provò a concentrarsi su un pensiero, su Ersilia ma mille altri immagini si affollavano caotiche nella mente.

“Quale è stata l’ultima sensazione?” si chiese incerto senza trovare una risposta degna di questo nome.

“Dove sono?” provò a chiedersi inutilmente.

E chiuse gli occhi per calmare il peso che aveva dentro.

E fu per sempre.

FINE

parte undecima

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