Konnie – parte undicesima

Copertina di un Paese rinasce

Su Caffè Letterario è stata pubblicata l’undicesima parte del racconto Konnie. La potete leggere anche qui.

Buona lettura

21 agosto 2144

Le cime rosate dei monti circostanti danno il buongiorno ai ragazzi, che dopo una rapida colazione fredda riprendono il cammino. Però prima provano a contattare la Città del Sole. Sono tre giorni che non la sentono. Nessuna risposta. «Forse siamo in un punto dove non si prendono le comunicazioni» afferma Matteo, riponendo l’apparato nello zaino senza spegnerlo. La batteria dovrebbe durare almeno sei mesi.

La strada è umida e sdrucciolevole. La ricopre un velo di ghiaccio.

«Siamo ancora in tempo per ritornare indietro prima che sia troppo tardi» suggerisce Matteo con tono neutro. Tuttavia lui vorrebbe portare a termine la spedizione ma vuole sentire il parere della compagna.

Alba si ferma. Lo guarda mettendosi con le spalle al sole. «Dici sul serio o stai scherzando?» Fatta una breve pausa riprende col tono deciso di chi non ha intenzione di gettare la spugna. «Ti capisco e capisco che siamo in ritardo. Le tue preoccupazione sono anche le mie. Ci aspettano giornate dure perché le strade sono tutt’altro che agevoli e il tempo non sarà nostro amico. Restando al calduccio nella nostra tana, non ci siamo resi conto che il mondo esterno è ben diverso dal nostro. I ritmi sonno veglia sono scanditi in altro modo. Piove, nevica e c’è il sole in maniera imprevedibile. La natura non è benevola. Tuttavia la nostra missione è quella di portare certezze se in futuro decidiamo di uscire da sotto e riappropriarci del mondo di sopra».

Matteo ascolta col sorriso sulle labbra il monologo di Alba che si è infervorata, agitando le mani. La voce è salita di due ottave ed è vagamente stridula. «Allora rimettiamoci in marcia!» Prende per mano la ragazza con Cucciolo che scodinzola felice.

Avanzano con lentezza per diversi motivi. La strada è in salita e incontrano ostacoli di varia natura. Inoltre ignorano quali pericoli si celino dietro ogni curva. Alcuni tornanti sono franati su quelli sottostanti e per avanzare si sono dovuti arrampicare su cumuli di rocce col timore di rovinare a valle.

Matteo vede Alba ansimare un po’ più del dovuto. Fatica a tenere un passo spedito. Si guarda intorno alla ricerca di un punto dove fermarsi per riposare e mangiare qualche barretta energetica.

Salgono in silenzio sempre attenti alla strada piena d’insidie. «Ecco!» Si affretta a dire indicando col braccio un anfratto nella roccia. «Possiamo fermarci lì. Quei nuvoloni neri non promettono nulla di buono».

Alba si ferma. Osserva il cielo perplessa. «Forse è meglio proseguire e raggiungere la sommità del passo. Lì dovremmo trovare un posto migliore per ripararci se per caso si scatenasse un temporale o una nevicata improvvisa».

«Ti vedo stanca» replica il ragazzo osservandola. I movimenti sono rallentati e le risposte meno incisive.

Alba sorride ma ha pronta la replica. «Mi vedi sbuffare ma sono ancora in grado di camminare. Se non ce la faccio più, ti chiedo di fermarci».

I due ragazzi riprendono con buona lena la marcia, anche se il fondo stradale è scivoloso per il sottile strato di neve ghiacciata. Non hanno l’attrezzatura idonea a camminare in montagna e quindi faticano più del dovuto. Pagano l’inesperienza di non conoscere la variabilità del tempo in montagna come hanno già provato da quando hanno lasciato la Città del Sole. Lì c’è sempre il sole e il tempo è costante al bello ma fuori non è così. La temperatura può scendere di molti gradi nell’arco di breve tempo. Il sole può comparire o sparire in maniera improvvisa. Per i due ragazzi tutto questo rappresenta una novità.

I nuvoloni si allontanano veloci lasciando il cielo pulito. L’altezza del passo, il camminare spediti ha messo loro il fiatone e, respirando con affanno, raggiungono la sommità.

Lo spettacolo è desolante: non è restato quasi nulla in piedi. Ci sono solo rovine e ruderi con la natura che si è riappropriata del terreno, cancellando ogni traccia umana. I raggi del sole morente illuminano quel senso di abbandono che i resti delle antiche costruzioni trasmettono ai due ragazzi. Devono decidere se fermarsi oppure proseguire verso il fondovalle. Come stanno sperimentando da quando hanno lasciato la Città del Sole, la situazione meteorologica sta virando al brutto. Il cielo si va coprendo di nuvole nere, cariche di pioggia. Il vento comincia a rinforzarsi soffiando con forza. La temperatura scende in picchiata.

La stanchezza del camminare a piedi a cui non si sono ancora abituati e il timore di un peggioramento del tempo li fa optare per la soluzione più ovvia. Scelgono di riposarsi per riprendere il cammino la mattina seguente. Trovare un posto riparato è un problema. Il sole e il gelo hanno spaccato tutte le opere umane. Dopo aver girato tra i vari ruderi si sistemano tra le rovine di un hotel di cui è rimasto ben poco. Un muro rimasto in piedi quasi per miracolo offre un valido riparo dal vento.

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Konnie parte ottava

Su Caffè Letterario è stata pubblicata la nuova puntata di Konnie, che potete leggere anche qui.

17 agosto 2144

Si sono sistemati in una piazzola più a valle accanto a un rudere ricoperto di muschio ed edera. Accendono un piccolo fuoco con i legnetti raccolti intorno per scaldarsi e mangiare qualcosa di caldo. Si è alzato un vento freddo e il cielo si è coperto. Cucciolo si sistema tra loro.

L’alba non è rosata ma grigia e umida. Una fastidiosa pioggia li sveglia. Un pessimo buon giorno. Piegata la tenda gocciolante si mettono in cammino per raggiungere il fondo valle seguendo la vecchia strada costruita per la Città del Sole.

Un ostacolo si para dinnanzi a loro: un torrente incassato tra le due alte sponde. «È il Cordevole» spiega Alba dopo aver consultato la carta. Il vecchio ponte che lo scavalca non sembra molto sicuro. Provare a guadarlo è ancor più rischioso. Gocciolanti per la pioggia che sta infittendo restano in silenzio mentre Cucciolo si scrolla per liberare il pelo dall’acqua.

«Cosa facciamo?» Il tono di Alba è tutt’altro che rassicurante. «Rinunciamo?»

«No!» replica secco Matteo che sta valutando di rischiare il passaggio sul ponte che presenta vistose crepe sia sul manto stradale sia sulla fiancata. Questa appare sgretolata in più punti mettendo a nudo l’armatura corrosa dalla ruggine.

«Sistemiamoci al riparo di quell’abetaia. Facciamo una sosta e mangiamo qualcosa» propone Matteo, riflettendo sul da farsi.

Fissati i teli della tenda tra due alberi, si mettono al riparo per rifocillarsi. Accendere un fuoco è proibitivo, quindi si accontentano di mangiare pane e formaggio. Cucciolo trema per il freddo e la pioggia che ha infradiciato il suo pelo. Ai ragazzi va meglio perché la tuta protettiva li tiene all’asciutto.

Il tuono brontola e un violento scroscio si abbatte su di loro. Il torrente fa sentire la sua voce cupa e minacciosa. Un ruggito feroce.

«Ci conviene trovarci un’altra sistemazione meno pericolosa, se si scatenano i fulmini» suggerisce Alba con voce preoccupata, mentre osserva la radura che si sta ricoprendo con le nuvole basse. «Mi pare di scorgere un rudere alla nostra sinistra. Non è molto ma possiamo sistemarci là».

Matteo annuisce e raccolte le loro cose e liberato il telo si avvia verso quelle pietre che un tempo era un’abitazione o un riparo per custodire delle attrezzature. Cucciolo soffia e abbaia deciso verso un cumulo, finché non si calma. “Deve aver scorto o avvertito un rischio per noi, liberando l’area” pensa il ragazzo, accarezzandogli la testa.

«Non capisco perché Cucciolo si sia innervosito» chiede Alba con tono interrogativo.

«Noi non vediamo o sentiamo i pericoli ma lui sì e quindi ha fatto sgomberare il posto da intrusi sgraditi».

Matteo raccoglie un grosso ramo caduto da un abete e con quello batte le pietre a terra e quel poco che è rimasto in piedi per avere la certezza che non ci siano altre insidie. Inoltre controlla che le due pareti rimaste siano sufficientemente statiche e non crollino sotto l’effetto del vento.

Sistema la tenda addossata ai muri che la proteggono su due lati. Steso sotto un telo per proteggersi dall’umidità del terreno, Matteo va alla ricerca di rami e piccoli legnetti per improvvisare un fuoco. Sa che sarà difficile accenderlo e tenerlo acceso ma sono in quota e la temperatura scende di parecchio. Con le pietre meno umide prepara un focolare approssimativo proteggendolo dalla pioggia.

Non è molto ma almeno possono mangiare qualcosa di caldo e creare un po’ di tepore che asciugherà i loro zaini e il pelo di Cucciolo.

Il picchiettare della pioggia ora leggero, ora violento è una specie di litania musicale per le loro orecchie. Hanno visto qualche video ma è la prima volta che ne prendono coscienza. Un’esperienza nuova che si aggiunge alla scoperta del sorgere e del tramontare del sole e a tante altre sperimentate durante l’uscita nel mondo esterno.

«Torniamo indietro?» Alba ha dismesso il sorriso e i lineamenti del suo viso sono tesi. Osserva con apprensione la violenza della pioggia che sembra travolgere la loro tenda.

«No. Non dobbiamo lasciarci prendere dal panico». Matteo nota che rivoli di acqua mista a fango scendono dall’abetaia e lambiscono il loro rifugio improvvisato. “Devo deviare questo flusso. Come?” Ci sono altre pietre di discrete dimensioni rotolate più a valle. “Se le sistemo sul quel lato impedisco al fango di penetrare nella tenda”. Sotto gli occhi curiosi di Alba comincia il lavoro. Quando ha finito, è un solido argine alla pioggia e alla fanghiglia.

Il rumoroso picchiettare della pioggia e la stanchezza compiono il prodigio di farli addormentare subito.

Cucciolo dorme come i gatti con un occhio chiuso e l’altro aperto.

le altre puntate le trovate qui

parte una, parte due, parte tre parte quattro parte cinque parte sei parte sette

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Konnie – parte quarta

Mondi paralleli

Su Caffè Letterario è stata appena pubblicata la quarta parte del racconto Konnie, che potete leggere anche qui

Sono passati altri dieci anni e Konnie ha tutti i capelli bianchi. La voce si è arrochita anche se si sforza di parlare e registrarsi per riascoltare le sue parole. È l’unico modo per ascoltare una voce umana anche se è la sua.

Tiene un diario dove appunta gli avvenimenti e i suoi pensieri. Gli serve per non impazzire per la solitudine e lasciare un segno tangibile della sua presenza. «Non so se vedrò un altro essere umano prima di morire» borbotta con gli occhi acquosi, mentre chiude la pagina. «Questa segregazione sta diventando insopportabile. Però non posso uscire se non voglio morire».

Konnie osserva sconsolato il diario. Le pagine bianche rimaste sono poche. Non osa contarle per non deprimersi ancora di più. L’inchiostro è terminato da tempo o si è seccato. Le matite sono agli sgoccioli e le usa con parsimonia. Tra poco anche questo diversivo che gli tiene impegnata la mente non sarà più usufruibile. «Non oso pensare quando non potrò più tenere il resoconto delle mie giornate». Anche nella giornata odierna i valori della radioattività sono rimasti alti. Decrescono con molta lentezza. Troppo secondo lui ma non dipende dalla sua volontà.Va nella dispensa a controllare le scorte del cibo. Deve tenersi impegnato in attività che gli facciano dimenticare il suo stato di recluso forzato. «Non ho capito perché i miei genitori hanno pensato a tutto fuorché a protezioni per poter uscire in sicurezza». In realtà ricorda vagamente qualcosa che il padre gli ha spiegato quando era ancora un bambino. Gli ha parlato di una stanza di decontaminazione non prevista nella costruzione del bunker. L’ha cercata su un vecchio Treccani del 2020 ma non ha capito molto. “L’operazione, il processo di decontaminare; l’essere decontaminato: stazione di d., locale o edificio in cui si effettua la decontaminazione di oggetti o di persone. Nella tecnica nucleare, fattore di d ., il rapporto tra le percentuali iniziale e finale di una sostanza radioattiva…”. In un altro dizionario rimasto senza copertina legge. “Riduzione o eliminazione, da una miscela di sostanze radioattive, dei componenti che maggiormente contribuiscono alla sua radioattività: decontaminazione nucleare | estens., eliminazione di sostanze radioattive o inquinanti da materiali, locali, oggetti o persone contaminati.”.

Konnie è conscio delle sue lacune linguistiche e tecniche. Quello che conosce gli è stato insegnato prima da Kurt e poi da Marie. Poi video e letture hanno completato la sua preparazione ma sono rimasti molti buchi che non è riuscito a colmare. I video sono per lo più film o descrizioni di viaggi. Quelli tecnici sono pochi e scarsamente utili. Trattano di macchinari o elettrodomestici che sono fuori uso da molti anni perché mancano i pezzi di ricambio. I numerosi libri sono romanzi, racconti di vario genere a parte un paio di dizionari. Ci sono diversi smartphone e tablet e un paio di pc spenti, morti perché senza una connessione internet sono muti. Li usa solo per fare dei podcast per ascoltare la propria voce e sentire quella dei genitori. «Devo fare economia nel mangiare. Le scorte si stanno riducendo in modo preoccupante» borbotta con tono sconsolato dopo la ricognizione nella dispensa. Kurt aveva accumulato scorte per resistere ottanta o novant’anni ma la nascita di Konnie aveva scombussolato i piani. Secondo lui era un lasso di tempo ragionevole, perché la loro vita si sarebbe estinta prima come in effetti è avvenuta. Però Konnie deve fare economie anche se è rimasto da solo. «Non voglio morire d’inedia» afferma con tono deciso chiudendo la porta della dispensa. Controlla l’orologio atomico che per fortuna continua a segnare l’orario. Konnie ride e scuote la testa. «Ignoro se l’ora sia esatta!» Però per le lancette sono le sedici. È l’unico di tipo analogico, mentre i restanti sono digitali. Si avvia verso la palestra per l’ora di esercizio fisico. Si deve mantenere in buona forma se vuole vivere a lungo. Indossa una maglietta di cotone ormai sbiadita e un po’ lisa per i numerosi lavaggi. Calza delle scarpette che un tempo sono state di suo padre e infila dei calzoncini che un tempo erano neri.

Si chiede se per caso dovesse morire all’interno del bunker cosa succederebbe. «Credo nulla. Sarà difficile che qualcuno possa ritrovare il mio cadavere. Diventerò polvere e basta». Questo pensiero gli suscita un sorriso storto pieno di amarezza.

La palestra è ben attrezzata. In un angolo si può esercitare coi pesi e bilancieri. Nella zona centrale ci sono un tapis roulant e due cyclette. Un tatami verde lo utilizza per gli esercizi a corpo libero. Funi e una squadra svedese completano l’attrezzatura. Però Konnie non li ha mai usati perché teme di cadere e per lui sarebbe un guaio grosso. Fa qualche esercizio coi pesi di malavoglia. Si sente depresso. Sono quarant’anni che è da solo. Gli viene la voglia di farla finita. Depone i pesi nella rastrelliera e sorride storto. «Prima di morire vorrei osservare il mondo esterno».

[continua]

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Konnie – terza parte

Su Caffè letterario è stato pubblicato la terza parte di Konnie. La potete leggere anche qui.

Alba e Matteo sono gli unici che hanno scelto di uscire di nuovo dalla Città del Sole. Col consenso di tutti decidono di fare un’escursione per esplorare un’area più vasta rispetto a quella visitata circa un mese prima. Durerà almeno tre o quattro settimane con l’obiettivo di arrivare a Bozen. Secondo la vecchia cartografia dovrebbe distare qualche centinaia di chilometri ma dall’esperienza della precedente uscita non c’è da fidarsi. Strade inghiottite dalla natura, che si è presa la rivincita sugli umani, oppure franate a valle per l’erosione delle acque dei torrenti potrebbero rendere difficile raggiungere la meta.

Le altre coppie che avevano esplorato alcune aree adiacenti all’ingresso della Città del Sole hanno deciso di non ripetere l’esperienza senza fornire spiegazioni. «Forse si sono spaventati nel osservare un mondo esterno così ostile e pericoloso» ridacchia Matteo mentre prepara con Alba la nuova sortita senza trascurare nessun dettaglio.

Loro hanno il piglio e la curiosità degli esploratori che vogliono conoscere di persona quella realtà che hanno solo intravvisto tramite vecchi video, fotografie ingiallite oppure hanno letto su vetusti libri. Il tutto però è datato cent’anni prima.

Fanno tesoro della precedente esperienza e preparano in maniera meticolosa la spedizione. Ricordano il dolore che hanno provato i loro occhi, quando la luce naturale più intensa di quella artificiale, a cui erano abituati, li ha colpiti. Questi hanno iniziato a lacrimare, perché avevano la sensazione che fosse entrata della polvere sotto le palpebre. Stavano quasi per rinunciare, quando Alba aveva scoperto casualmente che schermandosi con delle foglie piuttosto ampie sopportavano meglio la luce solare. Così hanno pregato Arturo, un vero mago con le mani e con la testa, di preparare un casco modificato, dove premendo un tasto fosse possibile schermare la parte trasparente. Hanno scoperto pure che il loro viso dapprima è diventato rosso per poi virare allo scuro. Al loro rientro gli abitanti della Città del Sole osservando i loro visi scuriti avevano tratto la conclusione che avessero contratto una malattia pericolosa per tutta la comunità. Sono rimasti in quarantena per una settimana prima di convincerli che è stato l’effetto della luce solare.

Durante l’uscita hanno perso il senso del tempo come era programmato nella Città del Sole. Qui non ci sono albe o tramonti ma si passa dal buio alla luce senza passaggi intermedi. La giornata è divisa in due spezzoni fissi e immutabili. La luce dura sedici ore, il buio otto. Le ore dell’oscurità sono dedicate al riposo, le altre alle attività lavorative o ricreative. I loro ritmi circadiani si sono adeguati da sempre a questo alternarsi del giorno e della notte. Durante l’escursione hanno compreso che non era vero. Luce e buio si alternano in modo irregolare. Tutto questo ha sconvolto il loro orologio biologico mettendoli in crisi. Matteo ricordava con vaghezza che spostandosi sulla terra si subiva un fenomeno chiamato jet lag. Al loro rientro tutto si è sistemato nel giro di pochi giorni. Però adesso erano preoccupati perché l’uscita durava due o tre volte la precedente. Tuttavia sanno come combattere quella sensazione di stanchezza e sonnolenza che li ha colpiti. Si sono preparati nei giorni precedenti con un ciclo di veglia-sonno paragonabile a quello esterno.

Una delle esperienze peggiori è stato trascorrere la notte senza riparo, perché non sempre è stato possibile trovare rifugio in anfratti naturali. Arturo seguendo i loro suggerimenti aveva ricavato da teli impermeabili una mini tenda. Nella precedente escursione hanno incontrato più volte degli animali sconosciuti che sono fuggiti vedendoli. «Non sempre sarà così» ha affermato Alba rimasta impressionata da questi incontri. Hanno scelto di portarsi appresso un coltellaccio in un fodero di cuoio. Non manca il mini contatore geiger per misurare l’intensità della radioattività.

Caricati sulle spalle di Matteo due zaini colmi di vettovaglie, appende alla cintura il fodero col coltellaccio. Alba in uno zaino più leggero mette la tenda, ricambi di indumenti, due tablet, un altro mini geiger, una ricetrasmittente e una webcam per la registrazione del viaggio.

Studiando la cartina hanno deciso di raggiungere Bozen attraverso la val di Fassa e il Karersee. A Matteo e Alba sembra più corta e praticabile della val Gardena. L’escursione precedente ha dato un responso positivo per entrambi. La condizione fisica è eccellente e la gamba pure. Quindi possono affrontare un percorso più lungo senza temere la stanchezza. I primi due giorni resteranno nei dintorni della Città del Sole per abituare il loro orologio biologico ai nuovi ritmi veglia-sonno, a verificare che le attrezzature funzionino, a orientarsi nel mondo esterno.

[continua]

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Konnie – seconda parte

Su Caffè letterario potete leggere la seconda parte di Konnie.

21 luglio 2114 ore 8

immagine dal web

Konnie si avvia a passo lento con un moto di rabbia verso la postazione accanto alla porta d’acciaio che lo separa dal mondo esterno. Apre lo sportello inox con un colpo secco dell’indice destro. Una minuscola tastiera scivola silenziosa fuori e uno schermo al plasma si illumina. Tocca il tasto in alto a sinistra, ESC. Fa una smorfia di disappunto corrugando la fronte. Il contatore geiger posto all’esterno della struttura manda il suo responso. “4,5 Sievert” compare sul display. Le labbra si muovono nervose per far uscire un’imprecazione: «Merda!»

Gli verrebbe voglia di sferrare un pugno sullo schermo ma si limita a chiudere la tastiera con un colpo secco della mano sinistra.

Ripercorre il breve corridoio nudo che lo porta nella stanza centrale arredata con un tavolo di legno scolorito dal tempo e quattro sedie di acciaio una volta lucide cromate. Il neon sul soffitto sfrigola esausto. «Devo sostituirlo» impreca con tono stizzito, andando verso la cucina.

La sua vita da cinquant’anni è monotona. Alle otto sveglia e colazione. Mezz’ora di esercizi nella palestra di fianco alla sua stanza da letto. Poi una doccia idromassaggio per rilassare i muscoli. A metà mattina, da quando sua madre Marie è morta, si deve occupare del pranzo e della cena. La sua salma è da trent’anni nella cella freezer insieme a suo padre Kurt, deceduto dieci anni prima di sua moglie. È rimasto solo da quando ha vent’anni e vive da recluso nel bunker antiatomico sotto la villa di famiglia all’imbocco di Sarntal alla periferia di Bozen. Come gli ha spiegato sua madre, finché il contatore geiger non scende sotto due Sievert, uscire dal bunker vuol dire morte quasi certa nel giro di poche ore.

Konnie è nato sottoterra cinquant’anni prima. Era il 21 luglio 2064. La sua nascita è stata casuale, perché Marie pensava di essere entrata in menopausa precoce a quarantacinque anni. Invece era incinta. Lui non ha mai visto il sole o la luna con un’osservazione diretta ma solo attraverso i filmati di TouberMeg, che conosce a memoria. Per lui l’alternanza del giorno con la notte è un fenomeno ignoto, come l’alba o il tramonto. Non ha mai visto la villa dei genitori e non sa se sia ancora in piedi oppure crollata. La telecamera esterna ha smesso di funzionare da oltre vent’anni. L’unico contatto col mondo di fuori è il contatore geiger che consulta tutti i giorni.

Correva l’anno 2024 e soffiavano venti di guerra, quando Marko, il padre di Kurt, decise di costruire un bunker atomico sotto la villa e attrezzarla per resistere almeno ottant’anni. Kurt all’epoca era un ragazzino. Aveva solo quindici anni. C’erano due accessi: uno all’esterno qualora la costruzione sotto cui era posto fosse collassata e l’altro all’interno della villa attraverso una scala a chiocciola. Kurt e Marie si sono sposati nella cappella di famiglia all’interno del parco che circondava la casa nel 2039. Marko non ha avuto la possibilità di sfruttare il suo bunker perché un paio d’anni dopo la costruzione è deceduto in seguito a una breve malattia. Nel marzo del 2044 la situazione è precipitata in maniera irreversibile. Solo chi è stato previdente si è salvato. I pochi bunker pubblici sono collassati subito. Il disastro ha preteso il suo tributo di morti. I genitori di Konnie si sono rintanati nel loro privato e hanno iniziato la vita da reclusi. Tutto questo Konnie l’ha ascoltato innumerevoli volte dalla voce di Kurt prima e Marie dopo. Lo conosce a memoria.

Apre un registro appeso in cucina e segna il valore letto della radioattività esterna. È un valore eccessivo per tentare una sortita all’esterno. Scuote i riccioli biondi striati di bianco deluso, mentre ripone nello scaffale il registro. «Potrò un giorno uscire all’aria aperta prima che la morte mi colga qui?» Borbotta sedendosi sulla sedia. È sfiduciato. I genitori sono deceduti relativamente giovani. Avevano poco più di sessant’anni.

Si guarda intorno. Lo spazio nel bunker non manca. Oltre alla cucina, la sua camera, la palestra e il bagno ci sono altre tre stanze. La stanza matrimoniale molto più ampia della sua, il deposito dei cibi e la cella freezer dove in un angolo riposano i suoi genitori. Oltre a queste c’è un’area di servizi da cui dipende la sua vita. Il generatore di corrente, che assicura l’elettricità a tutto il bunker, è un mini reattore atomico. Suo padre gli ha assicurato che fornirà energia per almeno trecento anni. Il suo unico cruccio sono le scorte di cibo che dovrebbero esaurirsi all’incirca nel 2124. Con qualche economia potrebbero durare per una dozzina di anni o forse più ma poi dovrebbe uscire all’aria aperta se non è morto prima.

Konnie si annoia e la solitudine gli pesa. I libri, i filmati, i contenuti televisivi li conosce a memoria avendoli visti oppure letti innumerevoli volte. Gli manca il contatto umano con altre persone. I suoi genitori sono scomparsi troppo presto.

Parla da solo per non impazzire e per ascoltare una voce umana. Cammina, fa piegamenti. Si ferma davanti a uno specchio. «Chissà se gli altri uomini mi assomigliano!» Esclama con tono asciutto, socchiudendo gli occhi, mentre si avvia verso la palestra. Fare esercizio fisico gli serve per mantenere tonico il corpo.

Un’altra giornata da recluso è iniziata.

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Vacanza al cavaliere di San Giorgio

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«Accidenti a quella luce improvvisa». Il risveglio di Marta è quasi violento. Si guarda intorno smarrita. La luce è sparita ma il rumore no. Sente un fischio e un cigolio. Spalanca gli occhi da miope nella speranza di capire da dove vengono. Nuova luce, nuovo cigolio. Eppure, si dice, gli scuri li ho chiusi prima di andare a letto. Almeno questo che crede. Nuova sensazione di buio, nuovo rumore sordo.

Si muove o meglio tenta di muoversi ma qualcosa sembra impedirlo. Il braccio e la gamba sinistra non riescono a fare dei movimenti. Si gira sul fianco sinistro e con la destra cerca di liberare l’altra mano.

Nuovo lampo di luce, nuovo rumore cigolante.

Sì, deve essere quello scuro poco stabile sul vecchio cardine a produrre quel frastuono metallico. Forse il vento l’ha afferrato con forza e l’ha spinto in fuori. Però adesso deve liberare la sinistra, perché a parte i lampi di luce non vede nulla che sia distante oltre un palmo di mano.

Marta deve districarsi dal groviglio del lenzuolo che la blocca.

Nuovo lampo e nuovo accecamento. Impreca perché sta perdendo tempo.

«Dove sono?» Pian piano tornano i ricordi. Una stanza spoglia. La porta finestra priva di tende. Un lavandino scrostato, un letto matrimoniale semisfondato, un comodino traballante.

«Mattino? O è ancora notte?»

Adesso è libera di muoversi.

Marta annaspa e cerca a tentoni gli occhiali sul comodino. «Spero di non farli cadere! Sarebbe una tragedia!»

Lo scuro geme ma non si muove più frenetico.

Si mette ritta appoggiandosi alla testiera fredda. Inforca gli occhiali. Adesso riesce a distinguere i contorni degli oggetti.

Dalla fessura degli scuri prende forma nel cielo nero un vago cerchio giallastro o forse bianco sporco. È sfumato. A malapena si riconoscono i contorni neri delle piante sullo sfondo.

«Dove sono?»

Frammenti di ricordi sbiaditi si affacciano nella testa, esattamente come i lampi di luce. Adesso ci sono, un istante dopo spariscono.

Poi come un puzzle i vari pezzi si incastrano uno con l’altro a formare il mosaico dell’immagine.

È la prima notte che dorme sola, non è mai successo negli ultimi ventiquattro anni. Con Mauro hanno deciso che non si sarebbero mai separati di notte dopo la nascita del loro unico figlio. Non gli era stato concesso di assistere al parto. «Ci sono delle complicazioni. Lei deve rimanere fuori» gli hanno detto infermiera e ostetrica con tono sgarbato. Però non si è dato per vinto e ha litigato con loro perché ha insistito per vederla. Solo la mattina seguente ha potuto entrare nella cameretta e sincerarsi che tutto fosse a posto. Ha firmato tutte le carte per portarla a casa con Tommaso subito per non lasciarla un’altra notte in ospedale.

A Marta scivola una lacrima sulla guancia al quel ricordo. Hanno giurato non avrebbero mai trascorso una notte separati. Per ventiquattro anni il giuramento è stato rispettato.

Si alza, si avvicina al vetro, si scosta i capelli dalla fronte, come se tra un attimo arrivasse Mauro alle sue spalle. Le avrebbe tolto gli occhiali coprendole gli occhi col palmo delle sue grosse mani. «Chi è?» Uno stupido gioco infantile che le piaceva. Si divincola ma la tiene stretta finché le sue labbra incontrano il suo mento. È ruvido perché non ha avuto il tempo radersi. Una sensazione che genera in lei il desiderio di abbracciarlo, di stringersi forte e sentire il suo corpo sul suo.

«È Tristano che cerca la sua Isotta, è Lancillotto che cerca la sua Ginevra o è Mauro che trova la sua Marta?». Un gioco erotico ingenuo quanto prevedibile…

Marta accende la luce, riempe la valigia. Non vuole rimanere un minuto in più nella stanza. Poi si blocca. «Devo aspettare che apra la reception, verificare se ci sono voli in giornata e chiamare un taxi per farmi portare all’aeroporto. Che idea stupida è stata venirci da sola al Cavaliere di San Giorgio!» Non è stata una sua idea ma del figlio e dei genitori. Doveva dimenticare la disgrazia del giorno prima. È stato un fulmine a ciel sereno, perché ha colto tutti di sorpresa.

Le lacrime scendono copiose inumidendo la camicia.

Il cielo cambia colorazione: al nero si sostituisce

il rosa del sole che sta nascendo. È l’alba di un nuovo giorno.

Marta stringe i pugni e strizza gli occhi per non vedere lo spettacolo del nuovo giorno.

Riapre la valigia e rimette a posto i vestiti.

«Farò questa vacanza fuori stagione».

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Il mistero del giardino di rose

Su Caffè Letterario è stato pubblicato un nuovo post.

Lo potete leggere anche qui.

Rosewood è una ridente cittadina immersa nella verde pianura di Woodland. Questa si estende a ovest degli Spulucchi, che si vedono in lontananza. Case basse in legno circondate da giardini curati e recintati da siepi di photinia.

«Come stanno le sue rose, LeBron?» chiede Emilia, la giovane maestra, al signor Green, con le braccia appoggiate sul cancelletto di legno.

L’uomo, che ha il volto asciugato dal sole, si gira verso miss Taylor e sorride mostrando i denti ingialliti dal fumo della pipa.

Un refolo di vento scompiglia i riccioli biondi di Emilia e una ciocca gli copre un occhio, che con un soffio della bocca storta cerca di allontanare.

«Ancora un mese poi sarà una fioritura straordinaria» replica con voce soddisfatta LeBron.

Emilia agita la mano in segno di saluto e riprende a camminare verso la scuola dove i suoi ragazzi la stanno aspettando in aula.

Il vento soffia tra le foglie delle rose di Green, portando con sé un sospiro malinconico. Sembra un gemito di dolore che nessuno percepisce.

La Syracuse St. è una via che conduce fuori Rosewood verso la campagna. Non c’è quasi mai traffico perché poche persone la percorrono per uscire. Preferiscono la strada principale, Sunset BLVD., che taglia in due la cittadina. Al numero 15 di Syracuse St. c’è il cottage di LeBron Green e il rigoglioso giardino di rose. È un autentico paradiso curato con maniacale attenzione dal proprietario. LeBron è un ometto calvo tendente alla pinguedine, alto poco più di un metro e sessanta. Vive da solo dopo la morte della moglie Helen e la fuga in città della figlia Andrea.

È un mezzogiorno tranquillo come altri, quando Emilia di ritorno dalla Principal School passa dinnanzi al numero 15. Emilia è una giovane insegnante della Elementary School privata Regiswood. Bionda riccioluta, alta e slanciata. Ha praticato il basket con discreto successo nella Princess University di Woodland. Di origini per parte materna di Roma ama il giardinaggio e si ferma sempre dal signor Green per ammirare i suoi splendidi roseti.

Però quel giorno non è come quelli precedenti. LeBron giace riverso tra Double deligth e Moonstone in un lago di sangue.

«Oh, mio Dio!» esclama Emilia mettendo la mano davanti alla bocca. «LeBron è stato ucciso!»

Afferrato dalla borsa a tracolla il telefono compone il 911.

Si gira verso il cottage di Green e resta a bocca aperta. Al suo posto c’è un immenso prato verde.

Lancia un urlo e si mette ritta nel letto.

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Nuova pubblicazione su Caffè Letterario

La bambina senza nome

Su Caffè Letterario ho pubblicato un nuovo post.

Lo potete leggere anche qui. E’ un capitolo di un vecchio romanzo scritto oltre dieci anni fa, che sto revisionando.

Buona lettura

Laura si accovacciò stringendo le gambe con le braccia e appoggiando il mento sulle ginocchia.

Chiuse gli occhi come per raccogliersi a pregare. In realtà pensò ai suoi genitori e cosa erano per lei.

Lei li amava e sua madre e suo padre la ricambiavano a modo loro. Se fosse amore, non l’aveva capito.

Augusto, il padre, era un uomo poderoso, alto e massiccio. Era un chirurgo di fama che soddisfaceva i capricci estetici delle donne facoltose. Tra convegni e vita in clinica non si vedeva quasi mai a casa. Quando c’era, Laura ricordava che era trattata come una ragazzina. Da certi dettagli sospettava che il padre avesse un’amante o forse anche qualcuna di più. Da dove arrivasse questa sensazione, lo ignorava ma erano gli atteggiamenti della madre, che rimproverava al marito le sue assenze fantasiose. Da lui Laura aveva preso la statura e i lineamenti del viso.

Sua madre si chiamava Marina, una bella donna dai capelli rossi e il viso lentigginoso. Era cresciuta nel collegio delle Orsoline che avevano lasciato il segno nella sua personalità. Niente sesso prima del matrimonio e molto poco anche dopo. Laura si chiese se questo fosse il motivo per cui suo padre la tradiva, come supponeva. Chiesa e signore di carità erano il massimo delle sue aspirazioni. La televisione era opera del diavolo, come affermava sempre sia con lei sia con le amiche bigotte. «Si vedono solo donne scollacciate e si ascoltano parolacce. Una vera perdizione per i giovani». Al massimo di ritorno dalla messa domenicale e dal rito della comunione si sintonizzava su “A sua immagine” a prendere la benedizione papale da Piazza San Pietro. Quindi in casa di certi argomenti non si poteva parlare. Rivelare cosa era successo tra lei e Roberto sarebbe stata una tragedia e sarebbe scoppiato il finimondo. “Per fortuna sono riuscita a tenerlo nascosto”.

Laura fino a diciotto anni non poteva muovere un passo se non era seguita dalla madre. Era stata fatta un’eccezione quando Laura aveva sedici anni. Era stato suggerito per irrobustire quel corpo gracile di svolgere un’attività sportiva. Marina si era opposta perché avrebbe preso autobus, tram e metropolitana senza il suo occhio vigile. Però quello che la preoccupava di più era la promiscuità che avrebbe dovuto frequentare. «Di sicuro perderà l’innocenza dei suoi anni» aveva sentenziato Marina rabbuiata in viso. «Finirà nel gorgo dei peccati all’inferno!» Augusto da bravo medico aveva dato il via libera superando le obiezioni della moglie. Così Laura aveva potuto andare in palestra, in piscina e al campo di atletica senza il fiato sul collo della madre.

«Con la maggiore età e la frequenza all’Università ho goduto di una relativa libertà. Però se loro erano in viaggio, i sermoni di mia madre erano terribili. Guai a chiamare un ragazzo in casa od organizzare festicciole. Non fare questo. Non fare quest’altro». Lei aveva annuito sempre.

«Sì, mamma. Uscirò solo per andare a lezione e poi sempre chiusa nella mia stanza». Sorrise al pensiero di tutte le volte che aveva trasgredito queste regole con Marco.

Un paio d’anni dopo l’inizio della loro relazione volle presentarlo ai genitori. «A mio padre è piaciuto subito per lo splendido fisico e i modi educati. A mia madre…». Aprì gli occhi e scoppiò in una fragorosa risata. Ricordava come l’aveva trattato quella volta. Un malfattore che le rubava la sua bambina. «E non ha mai cambiato idea. Anzi, quando ha saputo che non era più il mio ragazzo, ha commentato compiaciuta che quel mascalzone non ci fosse più a insidiare la mia innocenza».

Al pensiero di Marco due lacrime rigarono le guance di Laura.

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La fiamma – parte prima

da pexels-pixabay

La notte lo avvolgeva dentro il suo manto scuro e impenetrabile, costringendolo a camminare a carponi tastando il terreno con le mani per capire dove stava andando. Ignorava se la direzione era quella giusta ma non aveva alternative. Doveva muoversi, non poteva restare fermo. Intorno a lui c’erano pericoli che avvertiva come fitte nella testa.

Nella mano stringeva una pietra appuntita che gli dava relativa tranquillità ma sapeva che erano solo illusioni, un mero simbolo di speranza. L’aveva già usata per difendersi da un coyote che gli contendeva la preda appena uccisa. Non era servita a molto, perché aveva dovuto cederla all’altro, al predatore.

Secondo lui aveva una seconda e più importante proprietà: quella di generare il fuoco. Aveva visto molte lune prima, che un uomo del suo clan aveva usato una pietra dai colori strani emettere scintille come opera di magia. Poi si era sprigionata una fiammata rossa che aveva spaventato i presenti. Gli altri uomini si erano allontanati di un passo ma donne e bambini si erano stretti intorno a lui. Per questo prodigio era stato acclamato capo del clan e aveva intorno a sé donne e bambini che ubbidivano ai suoi ordini. Lui non poteva accettare la sua superiorità, perché lo giudicava vanitoso e senza capacità di guida. Così era partito alla ricerca del simbolo del fuoco. Aveva vagato per giorni nella valle, aveva scalato pendii impervi ma della pietra del fuoco nessuna traccia. Deluso aveva rinunciato alla ricerca e deciso di ritornare nel suo clan e accettare la guida dell’altro. Inciampò in una pietra e rovinò nella polvere. Avvertì nel costato un oggetto pungente che segnò la sua pelle dura come il cuoio. Alcune stille di sangue bagnarono il terreno. Si mise seduto e osservò alla luce del sole morente quello che gli aveva procurato dolore. Era una pietra aguzza dal colore strano. Verde con venature biancastre. Non ne aveva mai visto una simile. Con la mano tolse la polvere e acquistò lucentezza. Mandava bagliori a seconda di come la teneva in mano. Forse era la pietra che aveva cercato per giorni senza successo. Provò a sfregarla su un pezzetto di legno e produsse alcuni puntini luminosi che si spensero subito. Sobbalzò, lasciandola cadere. Riprovò e di nuovo quella magia si riprodusse. Quella scheggia di legno era diventata nera dove aveva sfregata la pietra. Intorno ce ne erano delle altre di forma diversa ma del medesimo colore. Incrociò le gambe sotto di sé e cominciò a lavorarla per renderla più aguzza. Osservò soddisfatto cosa era riuscito a ottenere ma il sole era basso sull’orizzonte. Doveva muoversi perché rimanendo fermo sarebbe stata facile preda degli animali che cacciavano di notte. Si alzò e si incamminò per tornare dal suo clan, tenendo stretto nella mano sinistra il suo trofeo.

[continua]

Pubblicato anche su Caffè Letterario.

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La bambina senza nome – parte undicesima

Su Caffè Letterario è stata da poco pubblicata la nuova puntata de La bambina senza nome, che ripropongo anche qui.

Sulla porta era comparsa una fanciulla, anzi una giovane donna, con serici capelli neri che si adagiavano morbidi sulle spalle. Incorniciavano l’ovale del viso leggermente abbronzato dove spiccavano due enormi occhi gialli. Alta slanciata indossava una camicetta di lino bianca che lasciava intravvedere il reggiseno dello stesso colore. Un paio di jeans azzurro sbiadito le fasciava il bacino e le gambe. Ai piedi portava delle ballerine nere. Anche senza l’aiuto dei tacchi la sua statura era ragguardevole quanto quella di Beatrix che da dietro la spingeva a entrare.

«E lei chi è?» Chiese quasi urlando Samuele a quella vista. «E che ci fai, Beatrix, alle sue spalle?»

Anche Otello e Ciccaja borbottarono qualcosa a quella apparizione. Niente di intellegibile ma solo stupore e apprensione. «Ma la cinna dov’è?» Bofonchiò con la voce ansiosa Otello. Non era lo stupore dell’apparizione della giovane ma l’affanno per la sorte della bambina quasi fosse la sua nipotina prediletta.

Lorenzo seduto sullo sgabello col braccio appoggiato al bancone a sorreggere la testa dapprima sgranò gli occhi per la sorpresa ma poi scoppiò a ridere. “Era arrivata bambina ma adesso è diventata una donna fatale”. Era sempre più convinto che non potesse stare per la notte nelle sue stanze. “Troppo rischioso”. Doveva sperare che Sam avesse una camera del bed and breakfast libera. Se così non fosse doveva parcheggiarla presso un’altra struttura dei dintorni. “Un passo alla volta” rifletté, mentre osservava Esme e ascoltava i commenti. “Domani deciderò se portarla a Bologna con me oppure caricarla su un treno per allontanarla”.

Esme rimase immobile accanto al bancone, mentre Beatrix con lo sguardo furioso si piazzò dinnanzi a Lorenzo. «Ho reso i tuoi acquisti ma è rimasto un bel buco da chiudere dalla Giannina. E la prossima volta…». Fece una pausa per prendere fiato prima di proseguire. «La prossima volta, ammesso che ci sia, la gestisci tu questo tipino».

Si girò per andarsene, quando Lorenzo le afferrò un braccio per bloccarla. «Cosa è successo dalla Giannina?»

Beatrix spalancò i suoi occhi che erano già grandi di natura. Sembravano due lampioni incandescenti. «Prima ho dovuta trascinarla come un sacco di patate. Poi ha fatto mille storie con Angela. Non voleva farsi toccare, non voleva togliersi i vestiti per provare quelli nuovi. Ha tentato di morderle una mano e per poco non ci è riuscita. In bocca non ha denti ma una tagliola per lupi. Gliela avrebbe mozzata se non avessi bloccato la sua testa. Ho sudato talmente che dovrò portare in lavanderia tutto quello che indosso. Mutande comprese!»

Detto questo urlando, Beatrix lasciò sgomenti Samuele e i due avventori perché cosi infuriata non l’avevano mai vista o sentita. «È demoniaca la tua Esme. È una diavolessa. E prima la porti via da qui, meglio è!» Si divincolò dalla presa di Lorenzo e ad ampie falcate sparì dietro la porta.

Samuele era impietrito col respiro affannoso. «Questa è Esme?» chiese volgendosi verso l’amico.

«Sì» annuì mortificato. Da quando l’aveva raccolta alla Fonte Vecchia, erano stati solo guai. Adesso doveva trovare una giustificazione per questa trasformazione del tutto inspiegabile, salvo ammettere che fosse una creatura del diavolo come cominciava a supporre. I dubbi prendevano la forma di certezze.

«E questa quando è arrivata? Non l’ho mai vista? La bambina dove l’hai nascosta?»

Lorenzo cercava le parole giuste per far capire che bambina e giovane erano la stessa persona, quando intervenne Otello.

«La piccietta dov’è?» Il tono era quello di chi ha perso di vista la nipotina che gli era stata affidata. Mieloso e tremulo.

Lorenzo si raddrizzò e guardò dritto negli occhi smarriti di Samuele. Sapeva che nessuno gli avrebbe creduto e la spiegazione poteva alzare un polverone di domande.

«Sam, dimmi prima se hai una stanza libera. Te la pago doppia ma dimmi di sì. Ti prego» Il tono era accorato come se la risposta avesse il potere di vita e di morte su di lui. «Poi ti spiego tutto. Ma prima rispondimi».

Lorenzo era quasi certo che tutte le stanze fossero libere. C’era sempre il tutto esaurito in luglio e agosto per la vicinanza del Corno alle Scale. Settembre e ottobre erano mesi di riposo.

«Sì. Sono libere. Puoi scegliere quella che voi per lei. Ma…».

Lorenzo con la mano fece il gesto di tacere. Si schiarì la voce. «Sam è meglio sistemarsi attorno a questo tavolo con tre calici e la bottiglia buona di vino rosso».

Presa per un braccio Esme la fece sedere accanto a lui tra loro due.

Nella sala si udiva solo il respirare delle cinque persone.

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