Nel paese dei palloncini

 

I veri viaggiatori
partono per partire
e basta:
cuori lievi,
simili a palloncini
che solo il caso
muove
eternamente,
dicono:
“Andiamo”,
e non sanno
perché
i loro desideri
hanno le forme
delle nuvole

 Charles Baudelaire

Ogni bambino sogna di essere nel paese dei palloncini, che colorati e variegati vengono riempiti d’aria e vengono legati con un cordino bianco.
Simone è uno di questi a naso in su ad osservare quello che gli è sfuggito di mano e che vola libero e leggero verso il cielo azzurro.
Dal nonno aveva sentito parlare di un mitico paese dal nome strano, che ora non ricorda più, dove si fabbricano i palloncini colorati come quello che ora dondolante è lassù inafferrabile, mentre lui non osa chiedere a Miriam, la mamma, di comprarne un altro.
Il racconto si era snodato lieve mentre la sua curiosità gli faceva porre sempre nuove domande.
“Nonno,” diceva “dove si trova questo paese dei balocchi?”
“No, Simone” replicava paziente il nonno “non è il paese dei balocchi. Lì, li fabbricano, perché un giorno la mamma possa comprartene uno”.
E Simone a bocca aperta e gli occhi spalancati ascoltava il racconto.
“Il palloncino di gomma rossa a forma di papera, trasparente è gonfio di aria ed è leggero come una nuvola in cielo. La tua papera segue il vento con lentezza, muovendosi dondolante in qua e in là. Sembra assente, ma lo vedi lì sopra la tua testa. Si gonfia col fiato del nonno, ma non teme il vento. E’ il ventre di Eolo”.
Una breve pausa per prendere fiato e riprendeva. “Sai chi è Eolo?”
“Si,” rispose senza pensarci troppo, perché nella sua innocenza non poteva porsi troppe domande “è uno dei sette nani!”
“No, Simone. E’ un signore che sta ovunque dove soffia il vento”.
Simone aggrottò la fronte perché non capiva. Secondo lui era uno dei sette nani della fiaba Biancaneve.
Il nonno sorrideva anche se il nipote rimaneva perplesso.
“Dunque, nonno, dove si trova questo meraviglioso paese?” concluse Simone.
Lui si alzò dalla sedia ed armeggiò nel cassetto della sua scrivania.
Gli occhi del bambino seguivano incuriositi le mani del nonno, che depose sul tavolo qualcosa di giallo piegato e ripiegato più volte, un po’ sgualcito, un po’ consunto nelle pieghe.
“Simone” iniziò a dire il vecchio “questa è l’Italia”.
“L’Italia?” domandò stupito “Ma non è quella vecchietta che ci vende i lupini?”
“No, no!” disse ridendo il nonno “Questa carta ingiallita descrive il paese dove viviamo”.
“Ma non mi sembra che servano tutti questi fogli per mostrare F…. E’ tanto piccolo il nostro paese”.
Allora il nonno cercò di spiegargli che non era il piccolo paese in cui vivevano, ma la nazione di appartenenza. Però alla fine finse di accettare il punto di vista del piccolo, mentre cercava Casalvieri, il paese dei palloncini.
“Ecco, è qui, il paese che cerchiamo” indicando un minuscolo puntino tra pianura e montagna.
Simone rimase a bocca aperta per lo stupore che un puntino contenesse tutti i palloncini colorati del mondo.
Ora Simone ripensa allo strano racconto del nonno, ma non saprebbe dire se si trova a nord o a sud di F…., oppure a destra o a sinistra, perché lui non conosce ancora i quattro punti cardinali.
Ricorda però bene la filastrocca che il nonno aveva recitato
Dove andranno
a finire i palloncini
quando sfuggono
di mano
ai bambini,
dove andranno,
vanno a spasso
per l’azzurrità..
 
Renato Rascel

“Dove andrà” di domanda impacciato e confuso “il palloncino colorato che mi è sfuggito di mano? Andrà là dove diceva il nonno nella sua filastrocca?”
Simone è sempre a naso in su a seguire quel minuscolo puntino che si perde nell’azzurro del cielo.

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L'incontro

Era una calda serata di fine maggio quando Micaela scese a Padova dal locale delle 18 e 30 proveniente da Venezia. Era accaldata e sudata, mentre nelle narici conservava la sensazione di sporco e di sudore che l’aveva accompagnata per tutto il viaggio interminabile per le soste in ogni stazione. Quel treno era sempre affollato di lavoratori e studenti che tornavano a casa la sera ed era sempre più lercio ed in ritardo. Doveva smettere di prenderlo, perché un senso di vomito l’accompagnava anche dopo l’arrivo.
“Ancora pochi mesi e poi basta fare la pendolare” diceva tra sé mentre scendeva nel sottopasso per recuperare la bicicletta. Le mancavano pochi esami e poi la tesi liberatoria.
Micaela frequentava con ottime votazioni l’università; di Venezia per prendere la laurea in architettura.
Era sua intenzione dopo un tirocinio presso uno studio di architetti, già individuato, di mettersi in proprio, di essere indipendente nella creatività e nella professione. Sarebbe stata dura, ma gli stimoli non mancavano. La famiglia modesta e senza grandi risorse finanziarie l’aveva assecondata con grandi sacrifici. Di questo era ben conscia e non aspettava altro che smarcarsi economicamente da loro per ripagarli delle rinunce.
Spinse la bicicletta verso via Jacopo Avanzi per andare all’Alì Market dell’Arcella vicina al Santuario di Sant’Antonio, non nella Basilica del Santo più nota e famosa, ma il convento dove il Santo era vissuto ed era morto durante il trasporto da Camposanpiero. Questo complesso imponente e vario era quasi sconosciuto ai turisti, che frequentavano solo la grande Basilica vicino a Prato della Valle.
Aveva fretta perché era ormai era orario di chiusura e doveva assolutamente comprare la crema per il viso, che le sarebbe servita la mattina dopo.
Si aggirava inquieta ed agitata tra gli scaffali alla ricerca di quello che le serviva, quando si scontrò con un giovane che teneva un cestello pieno di merce. Un attimo e il contenuto rotolò per terra col botto di un pinot grigio, che bagnò la corsia.
“Porca miseria!” esclamò il giovane con voce rabbiosa “Guarda dove metti i piedi! Non sei sola qua dentro per correre come una pazza!” Lo scoppio d’ira e il viso contratto da una smorfia di rabbia fecero girare gli astanti, mentre udivano la voce alzarsi di tono.
Micaela restò impietrita senza proferire una parola, tanto che avrebbe potuto dire a sua discolpa se non qualche scusa.
Era rossa in viso, mentre la testa si riempiva di mille pensieri che stentavano a prendere forma. Lo sguardo era fisso sul giovane, che dopo lo scoppio d’ira si stava ricomponendo, mentre raccoglieva da terra quello che non era andato rotto o rovinato.
“Scusa le parole irose proferite” disse con tono conciliante mentre l’ira andava sbollendo, “Non volevo offenderti. Mi chiamo Matteo” e tese la mano verso Micaela.
“Sono io a dovermi scusare per la goffagine nel cercare la crema” replicò accettando quel gesto di conciliazione “Micaela”.
Lei si chinò per aiutare l’uomo a raccogliere e riporre nel cestino le ultime cose, mentre lo osservò con attenzione.
Non era molto alto, ma il corpo era muscoloso senza eccessi. I capelli erano scuri dal taglio moderno né lunghi né corti. Sul viso regolare spiccavano due occhi color nocciola e una corta barba ben curata.
“E’; un bel ragazzo” pensò mentre gli sfiorava una mano percependo un brivido nel corpo.
Anche Matteo osservava con cura Micaela, della quale notò i capelli rosso ramato e gli occhi verdi da gatta. Era alta nella norma anche se la corporatura minuta la faceva sembrare più longilinea di quello che era in realtà. Non era appariscente con quel seno piccolo da adolescente nascosto dalla camicetta. I capelli, rossi, erano belli e mossi quel tanto da conferire al viso chiaro e leggermente lentigginoso una grande luminosità.
Non riusciva a staccare lo sguardo da lei pentendosi di essere stato sgarbato ed iroso.
Si aiutarono a vicenda per completare gli acquisti prima di avviarsi alle casse.
Lo screzio di pochi minuti fa era ormai relegato tra i ricordi remoti mentre chiacchieravano con calma di loro e delle loro attività attuali.
Usciti dal supermercato restarono ancora a parlare, perché tra loro stava nascendo una reciproca simpatia.
Micaela era alla ricerca di un uomo che la trattasse da pari a pari, per quello che faceva e desiderava ottenere dalla vita, quindi percepiva che Matteo poteva essere una possibile persona.
Prima di salutarsi, lei senza sollecitazioni disse sorridente e maliziosa: “Scambiamoci i numeri di telefono, così possiamo incontrarci una seconda volta”.
Matteo rimasto sorpreso piacevolmente replicò con immediatezza: “Perché; solo una seconda volta?”
Anche lui era single e alla ricerca di una ragazza dal carattere dolce e romantico, perché mal sopportava le donne aggressive ed autoritarie. Aveva sempre avuto difficoltà di approccio con le ragazze, perché era introverso e un po’ timido, a volte rinunciatario, sempre pronto a chiudersi a riccio su se stesso.
Dopo essersi salutati lui l’osservò, mentre Micaela si allontanava in bicicletta. Si chiese se quella poteva essere la donna che cercava e non aveva trovato finora.
Scosse la testa e si infilò nella macchina per raggiungere Rubano, dove abitava.

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Titolo da definire- frammento #3

“Silvia, “ cominciò la madre tra titubanze e tentennamenti “capisco che ormai sei una donna ed io non sono stata in questi anni quello che si dice una madre priva di pecche. Però non posso fare a meno di disapprovare il rapporto che hai con l’insegnante di recitazione, quella regista ormai matura con cui ti vedi e ti senti”.
Si fermò osservando attentamente la figlia in piedi dinnanzi a lei senza distogliere lo sguardo.
Silvia diventò rossa per l’ira che stava montando dentro di lei e aprì la bocca per urlarle in faccia tutto il malumore che aveva covato in questi anni, ma non uscì alcun suono.
Sembrava incapace di parlare, di connettere i molti pensieri che frullavano liberi nella mente, ma un’improvvisa afasia le impediva di pronunciare qualsiasi lettera.
“Siediti e calmati” proseguì la madre, mentre le faceva posto sul divano.
Elisa parlò con pacatezza e a tono basso mentre Silvia calmava a poco a poco il tumulto interno che le aveva impedito di proferire parola.
Discussero a lungo del rapporto con Laura, degli errori che Elisa aveva commesso con le figlie, dei rapporti tesi con Riccardo con un confronto serrato ed aspro allo stesso tempo.
Silvia difese con ostinazione la scelta di evitare gli uomini che identificava tutti col padre, un traditore. Continuava a non interpretare perché la madre non voleva accettare la sua opinione di escludere gli uomini dai suoi pensieri.
Lei era confusa nell’esposizione e nei pensieri che nascevano all’interno, non riusciva a svolgere logicamente le idee, che si ammassavano caoticamente come uno stormo di uccelli impauriti dagli spari dei cacciatori.
Elisa senza fretta e con pacatezza smontava tutte le teorie, le argomentazioni, i pensieri, perché le affermazioni era prive di solidità, sconnesse e piene di luoghi comuni.
Avrebbe avuto vita facile a convincerla nel lungo termine, se Silvia avesse proseguito sul cammino intrapreso, ed aspettava sorniona.
Non aveva fatto i conti con la tenacia e l’ostinazione della figlia, che riusciva a rendere razionali i propri pensieri tramite le risposte di Elisa, come quei software che affinano i propri modelli attraverso le tecniche di intelligenza artificiale.
Silvia si sentiva rinfrancata e sempre più lucida nei pensieri, mentre riannodava i fili della mente.
“Mamma, “ disse ergendosi davanti a lei “siamo qui da diverso tempo e nessuna dellle due è riuscita a convincere l’altra. Non capisco perché dopo anni di silenzio e di disinteresse ora vuoi convincermi che il mio rapporto con Laura è sbagliato. Inoltre hai coinvolto anche Riccardo, che non vedo e non sento da oltre quattro anni. Ormai sono una donna e la mia sessualità la decido io”.
Poi si allontanò senza salutare per rinchiudersi nella sua stanza. Per sbollire l’ira della lunga discussione mise le cuffiette dell’IPOD per ascoltare i Coldplay. Mentre la musica invadeva col suono martellante la sua mente, lei si sentiva come un uccello prigioniero che poteva osservare solo quella vista offerta dalla gabbia.
Elisa rimase per un po’ seduta percependo che era fallita prima come moglie poi come madre. Il suo rapportarsi con le altre persone era quello di porsi al centro dell’attenzione mentre faceva affidamento su un potere che forse era solo nella sua immaginazione.
Pensava di diventare archeologa e girare il mondo, ma era diventata schedatrice di ruderi, reperti fatiscenti e qualche crosta sfuggita alle ruberie. Un momento di scorramento l’assalì, mentre stava pagando il prezzo della tensione accumulata in tutti questi anni. Era svuotata di tutto dai pensieri alle forze, mentre pensava al ruolo a cui era stata condannata senza che lei potesse opporsi.
Si alzò lentamente con gli occhi pieni di tristezza per andare, ma non lo sapeva nemmeno lei.

Aprì la porta e sparì.

Silvia che si aspettava che la madre la raggiungesse nella sua stanza per dire qualcosa udì la porta chiudersi e poi il silenzio che calava nella casa.
Tolse le cuffiette e andò nella sala, dove trovò appoggiato sul divano il telefono di Elisa che pulsava per una chiamata in arrivo e un paio di SMS in attesa di essere letti. Corse alla dependance nella speranza vana di trovarla immersa nei suoi pensieri, ma anche lì regnava buio e silenzio.
Si accasciò disperata mentre le lacrime bagnavano il suo viso. Ora sapeva che non l’avrebbe più rivista.
(tratto da “Titolo da definire – racconto a due mani” – cap. 18)

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Il Romanzo ricomincia

Lui con fare misterioso si mise alla scrivania, ignorando quello che appariva e scompariva dall’oblò della nave. Non voleva essere distratto da sirene e onde spumeggianti, aveva necessità di stare concentrato, perché Calliope, Καλλιόπη "colei che ha bella voce", era molto esigente nei confronti dei poeti e non amava che la poesia epica fosse disturbata da altri pensieri.
Calliope stava corrucciata seduta sull’angolo destro della scrivania sorreggendo con la sinistra la tavoletta su cui scriveva l’epica e con la destra il libro che Lui stava scrivendo.
Erato ed Euterpe stavano in disparte, pronte ad intervenire quando il Poeta si avventurava tra amori, sentimenti ed emozioni.
Lui era conscio di essere un osservato speciale, perché percepiva l’anelito leggero come un soffio di Lei, che lieve si aggirava tra le stanze.
Il Poeta tornò indietro nel tempo tra ricordi sbiaditi e corrosi per gli anni trascorsi, ma sentiva che l’ispirazione era lì latente e pronta ad uscire dalla mente.
Aprì il quaderno rosso dai fogli mobili ingialliti dal tempo e cominciò a leggere tra le righe.
La scrittura rotonda col nero di china spiccava netta sulle linee azzurrine.
 
Hai gli occhi azzurri
di un azzurro meraviglioso
che invitano a ricordare.
Quanti ricordi si destano in me,
ricordi che mai potrò dimenticare,
perché mi consentono di vivere felice ora.
Il ricordo è un sogno
e come tale voglio viverlo!
Vorrei vivere per ricordare
tutti quei ricordi belli
e vorrei scacciare
tutti quei ricordi amari.
Ah! Se potessi.

(tratta da Poesie di Marzo – Marcolongo)

Era una calda giornata di giugno quando Lui, il Poeta, vide per la prima volta Lei. Subito ci fu una scintilla, che nessuno dei due percepì in quel momento, ma che accese il fuoco dentro di loro.
Si erano conosciuti per interposta persona, che affidò il messaggio al telefono, perché loro erano incerti e dubbiosi.
Cominciarono a parlare dapprima sommessamente, poi sempre più fitto ad alta voce fino a diventare un suono squillante.
Cosa si dicevano mentre sotto il sole del pomeriggio inoltrato andavano per strade deserte, incuranti del caldo e della luce accecante?
Il Poeta cercava di rammentare inutilmente quel primo dialogo fatto di frasi incerte e esitanti, che si scambiarono allora. Però ricordava gli occhi luccicanti che lo osservavano e lo scrutavano per carpirne i sentimenti.
Ancora telefonate, allora era un epoca antica senza SMS e mail, arrivarono nei giorni successivi per lunghe chiacchierate a capire se era possibile avviare un discorso serio.
Poi Lui decise: “Si, va bene. E’ quella che fa per me” e l’aspettò alle 17 e 30 fuori dal portone dove Lei lavorava. Era sorpresa, ma non troppo, così dava da intendere, quando lo vide lì con i pantaloni bianchi e la maglietta carota intenso.
Lei era vestita leggera con un abitino azzurro a fiori bianchi e disse: “Ciao” mettendosi al fianco del Poeta.
Sull’angolo della strada una venditrice di lupini offrì loro due imbuti di carta gialla con dentro lupini bagnati e salati, che piluccarono tra una chiacchera e l’altra. Passò il tempo fino al momento del distacco, che preannunciava un arrivederci a domani non detto ma trasmesso in silenzio. Ecco la forza del pensiero e della voglia di rivedersi.

Il Poeta si rilassò sulla sedia osservando l’oblò, dal quale scorse i delfini che saltando sulle onde dei ricordi accompagnavano allegri la nave della memoria.
Calliope, severa ed accigliata, era moderatamente soddisfatta del comportamento di Lui e lo lasciò distrarre prima di richiamarlo ai suoi doveri.

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Il poeta e il clandestino

“Il clandestino che hai a bordo e segue ogni tuo viaggio, che non vedi, ma avverti, sottocoperta, si aggira come una spia per la nave, sale e scende dai boccaporti, fruga in cambusa, s’intrufola in tutte le cabine, lascia impronte ovunque. Viaggiate insieme, per mari scarlatti, per isole verdi.
Mi sono abituata alla tua occulta presenza. Narratore o poeta. Non posso fare nulla. Tu guidi la nave dove vuoi. Ma chi è la Lei?”

Così la Musa parlava a Lui, che teneva uno spazio tutto suo nel web.
Lui non capiva come fanno tutti i poeti che per finzione poetica liberano le onde della fantasia sulla carta, come la risacca si infrange sulla spiaggia deserta.
“Perché la Musa mi chiede chi è la Lei?” rimbalzava la domanda nella mente di Lui “Ma non v’è dubbio, né incertezza: è la Musa ispiratrice, Colei che da una vita mi accompagna nella buona e nella cattiva sorte”.
E Lui si alzò dalla sedia, abbandonò il Pc al suo destino, che sarebbe diventato uno screensaver colorato da immagini di Van Gogh, mentre dalla finestra osservava il mondo.
Il cielo era imbronciato di nuvole scure, che di lì a poco avrebbero riversato sulla terra il loro carico di acqua. I campi di erba medica erano di un bel verde smeraldo luccicante di umidità, pronti a fiorire di un azzurro lilla e a profumare l’aria con la fraganza di un morbido profumo. L’albicocco sfiorito mostrava le sue foglie tenere e sensuali agli sguardi del merlo, che con occhio attento cercava qualcosa da ingolare.
La gazza nella sua livrea blu serica e bianca volava tra i giardini in fiore e i tetti umidi di pioggia.
Lui, che ora metteva il berretto da poeta, ora quello di narratore di storie impossibili, sentì l’ispirazione sgorgare netta e limpida dalla visione di tanta pace.

 
E’ tornato il sereno.
E’ tornato dopo la pioggia,
che ha smesso.
E tutti ne provano gioia.
E’ tornato il sereno.
E’ tornata un tenue felicità,
velata dalle gocce di pioggia,
che battevano sulla strada assonnata.
E’ tornato il serena.
E’ tornata la calma
nel mio cuore spaurito
per l’improvvisa oscurità che s’era fatta.
 
Così scriveva nella mente, Lui, parole intinte di inchiostro simpatico che presto sarebbe sparito.
Però Lui sapeva che Lei non era una clandestina, ma una dolce realtà che si aggirava silenziosa e discreta nella sua vita.
Si, ecco ora sapeva cosa doveva fare: scrivere il romanzo che si era interrotto, riannodare i fili dei ricordi, volare con la fantasia verso lidi lontani.

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Claire e il Big One

Erano le nove di mattino del 15 settembre 2037, quando Claire seduta sulla sedia a dondolo del nonno faceva colazione sotto il pergolato prospiciente l’ingresso.
Il cielo era di un blu intenso, come spesso capitava in questo periodo, senza una nuvola, mentre l’aria era pulita e trasparente senza un filo di umidità, frizzante e tiepida.
Claire udiva l’incessante martellare del picchio acorn, che splendido con la sua uniforme nel folto del querceto lavorava il tronco col becco. Non lo vedeva, nascosto com’era dall’imponente chioma della quercia, ma lo sentiva picchiettare con regolarità il tronco.
Nella radura di fronte a lei due scoiattoli rossi si affannavano a raccogliere le ghiande cadute dai rami per trasportarle nella loro tana nascosta ed impenetrabile ai suoi occhi. Era la quercia dove molti anni prima suo padre aveva sepolto il nonno, che assisteva sereno alla raccolta delle ghiande.
Erano passati trent’anni da quando Claire aveva ereditato i venticinquemila acri di territorio intorno e la fattoria, che ora la ospitava. Aveva ricevuto molte offerte per vendere tutto e sarebbe diventata ricca, molto ricca, ma aveva sempre rifiutato, perché diceva che il danaro non fanno la felicità e li poteva assaporare la felicità.
Si era sposata dopo pochi mesi con John, da cui aveva avuto Andrea, una donna ora, non bellissima, ma dal carattere forte come il suo e quello del nonno, che non aveva mai conosciuto. Claire scelse quel nome in omaggio al nonno Andy, anche se John non era d’accordo, come poi capitava spesso su tanti altri argomenti. Il matrimonio andò a strappi per un paio d’anni, poi lei divorziò, perché mal sopportava quel marito ipocrita e senza afflato. Si risposò altre due volte, poi verso la soglia dei cinquanta decise che era meglio restare sola che circondarsi di uomini che miravano solo ai suoi danari ed a quella enorme estensione che valeva una fortuna.
Portò fin da piccola Andrea nella fattoria del nonno, insegnandole l’amore verso la natura e il rispetto dell’ambiente. La bambina crebbe con la visione di quel territorio selvaggio e libero negli occhi, giurando che come la madre l’avrebbe conservato così come lo vedeva ora.
Claire si rifugiava lì da sola, quando Andrea era dal padre, oppure con la figlia, finché non diventò adulta. Poi decise di trasferirsi definitivamente nella fattoria, quando cessò di lavorare, apportando alcune modifiche alla casa. Fece costruire un ricovero per i cavalli con annesso il piccolo corral, dove sostavano uno stallone bianco, due giumente pezzate e un paio di puledri, ed un piccolo forno a legna, che utilizzava per cuocere il pane, i dolci e le focacce dolci.
Claire amava gli animali ed in particolare i cavalli, che lasciava liberi di correre nei suoi possedimenti. Il genitore dello stallone bianco, che fiero dominava il branco, era stato comprato ad un’asta militare sottraendolo a diventare carne per hamburger. Era un magnifico esemplare pezzato bianco e rosso dal garrese alto e slanciato, che portò subito alla fattoria lasciandolo libero di andare dove voleva. Però lui tutte le sere ritornava nel recinto sempre aperto, dove trascorreva la notte. Acquistò poi un paio di giumente per tenergli compagnia e nacque dopo un anno lo stallone bianco. Era il suo cavallo, che accorreva ogni volta che Claire lo richiamava, lasciandosi cavalcare solo da lei. Andrea invece cavalcava la giumenta dal mantello baio, che una volta era stata una campionessa di trotto. Allo stato brado c’erano i numerosi figli dello stallone roano e delle prime giumente, a cui si aggiungevano quelli che stavano nel corral.
Quella mattina di settembre si era alzata presto a preparare una focaccina con l’uva del vigneto posto alle spalle della fattoria. Erano già maturati i grappoli dorati per il gran caldo e la lunga estate siccitosa ed erano il cibo preferito dei numerosi uccelli che popolavano i boschi intorno alla casa. Faticava a salvare qualche chicco, ma lei era felice nel vedere il gran movimento che facevano nel vigneto.
Dunque la sera prima era riuscita a staccare un bel grappolo dorato e dolcissimo, che aveva impiegato nel preparare la focaccia e poi aveva messo a cuocere nel forno, facendo molta attenzione che non cadesse qualche brace nell’erba secca. Aveva sempre il terrore che il prato prendesse fuoco e con esso anche la fattoria.
Mentre l’impasto si cuoceva e si dorava nel forno, Claire preparò la solita cuccuma di caffè nero e denso, che versò nella tazza. Non amava bere il caffè freddo, ma lo desiderava bollente e scottante da sorseggiare con calma.
Era lì sulla sedia a dondolo del nonno, che ormai era un pezzo di antiquariato come il mobilio povero e spartano che adornava la casa, e osservava il movimento degli scoiattoli, ascoltava il martellare del picchio, intento a costruirsi un nuovo nido, mentre lo stallone bianco restava tranquillo nel recinto, lanciando alcuni nitriti di richiamo per i fratelli che stavano liberi nelle radure più basse.
Claire aveva letto che i sismologhi dell’università di San Francisco prevedevano che il Big One si sarebbe svegliato in questi anni e si era ripromessa che, se doveva morire per mano della terra che tremante avrebbe aperto le sue fauci, il momento sarebbe arrivato lì tra quelle mura e in questo posto, che amava più della sua vita.
Era lì dondolante con la sinistra che stringeva quel che rimaneva della focaccia e nella destra la tazza con un leggero strato di caffè, quando percepì che di lì a poco sarebbe avvenuto l’irreparabile.
L’aria si era fermata, immota e silenziosa, il picchio aveva smesso di lavorare, gli scoiattoli si erano rintanati nel folto del bosco, mentre lo stallone bianco lanciò un lungo nitrito e guardò Claire, implorandola di salire in groppa. Poi lanciato l’ultimo sguardo si avviò seguito dalle giumente e dai puledri verso l’erba alta, sparendo ben presto dalla vista.
Lei rimase lì ad aspettare la visita del Big One, che prepotente saliva dalle viscere profonde della faglia di Sant’Andrea. Tutto cominciò a ruotare, a sussultare, a muoversi sempre più freneticamente.
Poi scese il silenzio, mentre Claire si addormentava per sempre cullata dal dondolo del nonno.

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Andare a vivere in un romanzo inedito

Andare a vivere in un romanzo inedito aveva i suoi vantaggi. Tutte le noiose banalità quotidiane che sbrighiamo nella vita reale intralciano lo scorrere della narrazione e quindi sono in genere evitate. L’automobile non aveva bisogno di fare il pieno, al telefono non si sbagliava mai numero, c’era sempre acqua calda a sufficienza e c’erano solo due tipi di aspirapolvere quello verticale e quello che ci si trascina dietro. C’erano altre differenze più sottili. Per esempio, non ti dovevano mai ripetere una frase perché non l’avevi capita bene, non c’erano due persone con lo stesso nome, non si parlava mai contemporaneamente né si aveva il fastidio di avere una parola sulla punta della lingua. Soprattutto, sapevi sempre chi era il cattivo. Ma c’erano anche alcuni svantaggi. Una carenza di colazioni…”

Paolo stava leggendo queste poche frasi dal libro “Il pozzo delle trame perdute” di Jasper Fforde, è ricordò gli appunti, scritti alcuni prima quando aveva grandi velleità di scrittore. Però evidentemente l’ispirazione era mancata, poiché il racconto finiva con dei puntini di sospensione oppure era troppo scarso per aspirare a diventare come Calvino e la sua trilogia “I nostri antenati”.
“In effetti non era molto” disse ridendo mentre riponeva in una cartellina rossa quel pezzo di carta. In effetti assomigliava più ad un incipit che l’inizio di un racconto, ma in un qualche modo quelle poche righe scritte tanti anni fa e del tutto simili a quelle lette lo affascinavano.
“Mi piacerebbe vivere in un romanzo inedito, ” concluse soddisfatto “perché diventerei famoso. Tutti mi saluterebbero scappellandosi davanti a me”.
Chiuse gli occhi, mentre la fantasia lo prese con delicatezza per porlo in un romanzo inedito “Non passava giorno” di Marcolongo, talmente inedito che non aveva trovato neppure uno straccio di editore disponibile a pubblicarlo.
Il primo dubbio che gli venne in mente era del tipo “Ma i personaggi mi accetteranno o mi cacciano fuori a pedate?”, poi si domandò se la trama gli sarebbe piaciuta e via altri mille dubbi.
Forse sarebbe stato meglio ritornare nel mondo dei reali e studiare meglio la partenza per il mondo del romanzo inedito.
Così Paolo dolcemente atterrò nuovamente nella sua stanza, incerto se sentirsi felice del rientro o amareggiato per la mancata esperienza.
Mentre era alla ricerca del manoscritto in cui voleva andare a vivere, s’imbattè in un libro fresco di stampa “Vento Rosso” di Argenio.
“E se io andassi a vivere lì?” si domandò trepidante e smanioso di vivere questa nuova avventura.
Cominciò a leggerlo con avidità, dimenticando il progetto iniziale che lo voleva in altro romanzo, che però aveva il difetto di non averlo sfogliato.
Pensava che in poche ore sarebbe arrivato alla fine, ma si accorse che lo divorava molto più lentamente di quanto aveva pensato.
Era bello ed avvincente, ma richiedeva molta concentrazione per non perdere dialoghi e sensazioni, per comprendere la psicologia dei personaggi, per assaporare i passaggi e le emozioni.
Era un po’ stanco ed affamato, ma ora doveva concentrarsi su questo romanzo e la sua trama, perché doveva valutare la possibilità di andare a vivere lì.
Provò a pensare come avrebbe potuto soggiornare in quel contesto e sentì un lungo brivido lungo la schiena. Qualcosa gli sussurrava che forse non si sarebbe trovato bene tra fughe, vivere precario e stress da ansia, poche presenze femminili incerte.
“Si, il romanzo è bello, pieno di sentimenti ed emozioni, ma è troppo serio per me” rifletteva deponendo il libro sulla scrivania “e forse mi conviene ripiegare su qualcosa di meno drammatico. Andiamo alla ricerca del manoscritto ‘Non passava giorno’ e cominciamo a leggerlo”.
D’altra parte Vento Rosso non era più inedito e quindi non poteva soddisfare la condizione di un libro non ancora pubblicato.
Prima domanda che si pose era “dove poteva scovare un romanzo inedito, che non essendo pubblicato non si trovava in circolazione?”
“Bella stupidata ho fatto!” disse mentre rovistava su Internet con tutti i motori che conosceva alla ricerca di questo benedetto romanzo “Almeno avrei dovuto essere più cauto”.
Google alzò bandiera bianca dopo un paio di tentativi male assortiti, estraendo dal suo cilindro una caterva di Marcolongo, ma nessuno di costoro era quello buono o almeno a prima vista sembrava così.
Passò su Yahoo con risultati ancora più deludenti, perché sembrava la fotocopia conforme di Google. E così anche per gli altri motori di ricerca: tanti Marcolongo, ma nessuno era quello buono.
“Proviamo col titolo, tanto non credo che ce ne siano altri in circolazione” disse sosddisfatto mentre si apprestava al nuovo giro di ricerca.
E riprese ad esplorare il web, come un bravo investigatore. Mentre i motori ruggivano macinando le informazioni, Paolo si chiese dove aveva scoperto questo racconto tanto inedito quanto sconosciuto anche a Google, perché gli eravenuto il dubbio di avere preso una solenne cantonata.
Poi come per incanto sbucò fuori dalle pagine di Google che il racconto esisteva veramente e non era una finzione letteraria.
Si appoggiò allo schienale soddisfatto come un gatto che ha appena mangiato il classico topolino e pensò: “Bene, il racconto esiste ed è scaricabile da internet. Mi basta leggerlo e poi…” e la fantasia cominciò a volare lontano dentro il racconto inedito.
Aveva già dimenticato il proposito di leggerlo prima di andarci a vivere

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La famiglia Punto e Virgola

Punto e virgola

 
Qualcuno ha decretato la morte del punto e virgola, come con molta arguzia Stefano Bartezzaghi, un autentico mito della lingua italiana, ha scritto su Repubblica il 5 Aprile scorso.
Pietro Citati nell’edizione del 7 Aprile di Repubblica parla di assassinio del punto e virgola, perché, secondo lui, “una lingua deve la propria eleganza alla ricchezza dei suoi strumenti espressivi”.
Personalmente non ne ho fatto mai molto uso, ma ogni tanto il vezzo di mettere un punto e virgola in un periodo troppo lungo ce l’ho.
Però ricordo con molta nostalgia una poesia di Gianni Rodari, che leggevo tanti anni fa a mia figlia “La famiglia Punto e Virgola”.

C’era una volta un punto
e c’era anche una virgola:
erano tanti amici,
si sposarono e furono felici.
Di notte e di giorno
andavano intorno
sempre a braccetto.
“Che coppia modello –
la gente diceva –
che vera meraviglia
la famiglia Punto e Virgola”.
Al loro passaggio
in  segno di omaggio
persino le maiuscole
diventavano minuscole:
e se qualcuna, poi,
a chinarsi non è lesta
la matita del maestro
le taglia la testa.

(Da Filastrocche in cielo e in terra – Ed. Enaudi)

 
Veramente le leggevo tutte le poesie di Rodari, come facevo coi racconti tratti da “Novelle fatte a macchina” e “Tante storie da giocare”.
Oggi prendendo quei libri dalla biblioteca si nota come le pagine sono state consumate dallo sfogliare ripetuto. Però torniamo al nostro argomento.
Ha ragione Citati quando parla di assassinio, perché ridurre il punto e virgola a semplice emoticon che ammicca è un autentico delitto.

La crociata è partita dagli inglesi, che hanno trovato inutile conservare questa punteggiatura ormai introvabile negli scritti di tanti autori anglosassoni.

“The line” è nel Regno Unito sotto accusa ed oggetto di accesi dibattiti. The Guardian in occasione del tradizionale pesce d’Aprile ha riportato questa curiosa notizia (ovviamente falsa) “Il presidente francese Sarkozy ha ordinato per difendere l’uso del punto e virgola che deve essere usata almeno tre volte per pagina in tutti i documenti ufficiali”.

Perché il suo uso è oggetto di contraddittorio tra gli studiosi di lingua?
Leggiamo cosa dice l’Accademia della Crusca “Il punto e virgola segnala una pausa intermedia tra il punto e la virgola e il suo dipende spesso da una scelta stilistica personale. Si adopera soprattutto fra proposizioni coordinate complesse e fra enumerazioni complesse e serve ad indicare un’interruzione sul piano formale, ma non sui contenuti”.
Si deduce che il punto e virgola è un vezzo stilistico. Poiché i periodi complessi, le enumerazioni complesse sono ormai merce rara nei romanzi, il punto e virgola tende a sparire.
Tutti scrivono svelti, periodi nervosi, corti e concisi, come se costi fatica scrivere due pensieri in più.
Cosa facciamo del punto e virgola?
Lunga vita alla famiglia Punto e Virgola!

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La passione brucia la carne

“Kanntest jeder Zug in meinem Wesen,
  spaetest wie die reinste Nerve klingt,
  konntest
mich Einem Blicke lesen
  den so schwer ein sterblich Aug durchdringt.
  Tropftest Maessigung den heissen Blute,
  richtetest den wilden irren Lauf,
  und in deinen Engelsarmen ruhte
  die zerstoerte Brust sich wieder auf,
  hieltest zauberleicht ich angebunden
  und vergaukeltest ihm manchen Tag.”

Goethe declamava questi versi, mentre Angelica sistemava la propria persona prima di uscire dall’appartamento.
Lei rispose cantando con la sua bella voce forte, soave e molto sensuale un Lieder dolce, che parlava d’amore.
Il poeta la ascoltava in silenzio: “E’ veramente brava sia come pittrice, sia come cantante. Ha delle doti fuori del comune. Penso che trasformerò Ifigenia da opera di prosa in versi da potere essere rapresentata a teatro. Angelica potrebbe disegnare le scene. Sarebbe una bella idea”.
Il poeta osservava Angelica con gli occhi della passione mentre senza falsi pudori si rivestiva dopo il rapporto amoroso lungo ed inebriante.
“E’ bella e sa accendere il sacro fuoco della passione! E’ sensuale, misteriosa ed eccitante. Come ho potuto essere così cieco e sordo ai suoi richiami?”
Lei disse al termine del canto: “Wolfgang, questo Lieder l’ho cantato per te, per farti assaporare la soddisfazione che porto nel cuore. E’ stato tutto dolce ed inebriante dopo tanta astinenza! Vorrei che questi momenti rimanessero fermi per gustare con calma il calice dell’amore”.
Goethe si alzò e avvicinandosi la baciò con passione, mentre Angelica si abbandonava tra le braccia.
Con dolcezza la portò nuovamente sul letto perché sentiva ancora il desiderio di lei.
Angelica lasciò fare, perché non si sentiva ancora appagata, mentre pensava: “Il piacere è intenso, ma l’amore verso di te è sublime. Vorrei essere posseduta per godere le gioie dell’essere amata! Mi sento tua, ma il sacro fuoco dell’amore arde dentro di me! Mai prima d’ora ho provato sensazioni così intense. Mai prima d’ora ho desiderato un uomo!”
Era pomeriggio inoltrato quando i due amanti emersero dall’appartamento e si avviarono verso Trinità dei Monti, da dove potevano ammirare lo spettacolo di Roma illuminata dal caldo sole di Giugno.
Si sentivano felici come due ragazzini tanto era stato il loro appagamento.
Scesero la scalinata verso la sottostante piazza di Spagna tra i saluti dei passanti e dei conoscenti: Angelica era conosciuta da tutti per la sua fama e la sua bellezza.
Passeggiarono a lungo andando verso il Tevere e da lì a San Pietro, parlando fitto di poesia, di pittura e di musica.
La giornata volgeva al termine, mentre un bel tramonto incendiava la città. Non erano stanchi, né sentivano i morsi della fame, anche se non avevano mangiato nulla dalla mattina.
Stavano tornando indietro verso il Pincio, quando videro sotto un pergolato i tavoli pronti per la sera. Si sedettero e chiesero all’oste di servire loro qualcosa.
“Lo sappiamo che siamo molto in anticipo e voi non siete ancora pronti, ma ci va bene qualsiasi cosa abbiate pronta” disse Goethe alla moglie che con un grembiule bianco si era avvicinata per sentire cosa volevano quest’uomo e questa donna dall’aria distinta.
“Non c’è nulla sul fuoco” rispose la donna un po’ mortificata, “ma se avete pazienza possiamo prepararvi una cenetta a base di agnello ed erbette. Nel frattempo vi posso portare pecorino fresco, pane di giornata e un generoso vino rosso per ingannare l’attesa”.
“Va benissimo. Oltre al vino portateci anche una brocca di acqua fresca, perché abbiamo la gola secca per il caldo” rispose Goethe.
Angelica era radiosa e bella con i capelli scomposti per la lunga giornata trascorsa nell’appartamento, mentre guardava il poeta con intensità.
La donna rientrata in cucina parlò al marito, dicendo: “Quella signora, non ricodo dove l’ho vista. Il viso mi è noto, m non riesco mettere a fuoco chi è”.
“Non ti ricordi? E’ la famosa pittrice Angelica Kauffmann! Per noi è un onore averla al nostro tavolo! Dobbiamo preparare una cena coi fiocchi, perché chissà quando potremmo averla ancora qui!”
“Ora ricordo! Si, è proprio lei! E’ una donna bellissima ed affascinante! Però il suo accompagnatore è un bel giovane”, disse mentre preparava quanto richiesto.
I due amanti parlavano e ridevano, raccontandosi gli ultimi avvenimenti: ne avevano di eventi da descrivere.
Goethe ispirato dal luogo e da Angelica disse ad alta voce: “ Questi sono versi che scrivo in tuo onore”.

Du hast mich rein, und wenn ich’s besser wuesste
so gaeb ich’s Dir; ich tue was ich sage.
So schliesst sie
mich an ihre suessen Brueste
als ob ihr nur an meine Brustbe hange.
Und wie ich Mund und Aug und Stirne kuesste
so war ich doch in wunderbarer Lage:
denn der so hitzig sonst den Meister spielet
wiecht schuleraft zurueck und abgekuehlet.

“Mi lusingate, Wolfgang! Sono davvero belli e tutti per me!” rispose Angelica arrossendo leggeremente.
Era stata una giornata memorabile, da rimanere impressa nelle loro menti e così terminò.

(parte sedicesima)

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Simona – Bollicine04

Era 25 Settembre del 2004. Il gran giorno era arrivato. Vasco Rossi concludeva il suo tour per l’Italia a Catanzaro. Tutta la Calabria e la Sicilia era in fibrillazione per il suo arrivo.
Simona era trepidante per l’evento, come c’era una grande attesa tra gli amici e le amiche Rossella, Paula, Nino, Stefano e ancora altri tanto che l’elenco diventava lunghissimo.
Questo era il secondo mega concerto di Vasco che si accingeva ad ascoltare. Quattro anni prima appena ventenne fece una lunghissima fila per acquistare i biglietti, tanto che i ricordi affioravano netti: come aveva corso per essere tra i primi della fila, come aveva dovuto lottare per convincere i suoi genitori a lasciarla andare! Suo padre diceva che al concerto c’era solo una massa di drogati, ma lui non aveva voluto ascoltare la frase “Papà, tra i drogati c’ero anch’io!”.Voleva dire una cosa a chi le aveva fatto ascoltare Vasco per la prima volta, quando ancora quasi non sapeva dire il suo nome: " CIAO MA’! ".
Lei voleva riascoltare “VOGLIO UNA VITA…CHE NON E’ MAI TARDI! DI QUELLE CHE NON DORMI MAI!!!”.
A Simona come ritornavano i ricordi, come si ripresentava tutto quello che era, che aveva fatto, la verità su tutto e una versione di lei  che era quella reale, fuori degli schemi: sembrava che qualcosa la spingesse avanti, una voglia di ridere incredibile, una gran voglia di correre, come aveva corso otto anni fa per comprare i biglietti del primo concerto.
Non vedeva l’ora che il gran giorno venisse per poi ricominciare a far scorrere fiumi di parole sul suo diario, per poter vivere di rendita come l’altra volta per un concerto che avrebbe durato nella sua testa almeno per un anno!
L’aspettativa era grande, talmente grande che la sera prima Simona non riuscii a dormire. Alla mattina presto presero il treno per Catanzaro per giungere all’Area Verde ed essere là presto (l’ingresso era gratuito), per goderci gli ultimi istanti dei preparativi di Vasco e della sua Band e per prendere un buon posto d’ascolto. Era emozionata come la prima volta!
Il tour 2004 iniziato a Latina il 30 maggio terminava a Catanzaro il 25 Settembre e la scaletta comprendeva 29 canzoni tra cui “Bollicine, ma mancava “Vita spericolata”, che era la sua canzone simbolo, perché tutta la sua vita era stata vissuta sempre di corsa, per schizzare via a prendere i treni, che passavano una sola volta.
Simona e i suoi amici raggiunsero il posto e si sistemarono per bene nella attesa dell’inizio del concerto insieme a tanti altri giovani e meno giovani venuti ad ascoltare il mitico Vasco.
Vasco attaccò con “Cosa vuoi da me” seguito da “Fegato, fegato spapolato” scaldando la platea.
Mentre il concerto si snodava con un susseguirsi delle canzoni, il cielo diventava sempre più imbronciato e minacciava pioggia a catinelle. Sarei riuscita ad ascoltare “Bollicine” prima del diluvio universale per annegare tutti questi peccatori venuti ad ascoltare Vasco, personaggio scomodo e fuori degli schemi?
Simona continuava a guardare il cielo preoccupata, finché le note e le parole della canzone non riecheggiavano nella vasta area.

“….

  bevi la coca cola che ti fa bene

  bevi la coca cola che ti fa digerire

  con tutte quelle, tutte quelle bollicine …

Poi dal cielo cominciò a scendere la pioggia sempre più forte e Simona come aveva corso per non beccarsi tutta la pioggia insieme agli amici, esattamente nello stesso modo per prendere treni che sapeva che passavano una sola volta, sempre, comunque, pensando che la sua vita fosse davvero SPERICOLATA!
Bagnati, ma felici ripresero il treno per casa, Simona lo era in modo particolare, perché aveva potuto riascoltare dal vivo il suo idolo, il suo mito, perché aveva voglia di correre, di non fermarsi mai.
Quest’anno non si era fermata mai per davvero. Dapprima era arrivata la laurea in lingue straniere con il massimo dei voti, poi era riuscita a strappare ai suoi genitori il consenso per frequentare a Milano un master di Marketing e Comunicazione presso una prestigiosa Università e di conseguenza a traslocare e vivere lì per almeno un anno e infine il concerto di Vasco.
Si sentiva inquieta, perché si era persa fra tante parole, scritte e dette, sue e degli altri, diventando poi pensieri sempre più complessi e, alla fine, incubi.
Se, però, si guardava bene dentro di sé, quelle parole le hanno fatto bene solo per un pò, ma adesso era il momento di smettere, perché la incatenavano a quello che era stato, mentre doveva cominciare a pensare che anche oggi era già passato.

Era arrivata a queste conclusioni  riascoltando durante il viaggio di ritorno dal MP3 le canzoni dei Pink Floyd nell’album THE DIVISION BELL. Si rivedeva a diciassette anni, seduta davanti allo stereo, ascoltando queste canzoni, e pensando al suo futuro, visto che di passato ancora allora non poteva parlare. Erano passati sette anni, un pò di passato l’aveva, e proprio per quello “I knew the moment had arrived for killing the past and coming back to life”.
Così capiva che stava inseguendo non un sogno ma un’ossessione  che nel frattempo si era persa dietro i pensieri, che le avevano solo riempito la testa ( e il cellulare) di parole che nella vita reale non servivano.
Ancora “I feel persecuted and paralized” diceva fra se e sé Simona, mentre ripensava a lui, il sogno che inseguiva da tanto tempo, e pensava “Credo sia arrivato il momento di smettere di farmi condizionare dai discorsi di chi  in fondo di me non si preoccupa, TORNO SU ME STESSA! Quello che spero è di rimanere su questa posizione.”.
Si preoccupava un pò di quegli incubi, ma poteva chiamare il suo guardiano dei sogni, che ultimamente si era un pò distratto e disse mentalmente “Deve essere difficile lavorare con me, ma i suoi occhi scuri bastano per calmarmi. A volte sparisce, ma, almeno, non mi riempie la testa di  concetti stupidi.”.
Il giorno dopo si ritrovarono tutti da Billé a gustare gli ultimi gelati di una lunga stagione estiva e a parlare del concerto del giorno precedente, della fuga precipitosa sotto il diluvio universale, che puniva quel popolo di miscredenti, che idolatrava come un Dio il mitico Vasco. Era la giusta punizione verso tutti questi trasgressori, che della trasgrezione facevano uno stile di vita.
Poi la lunga passeggiata sul lungomare a parlare del futuro, di cosa ci riservava il domani, dei sogni e delle speranze, insomma di tutto quello che dei giovani parlano quando si frequentano.
I giorni successivi passarono veloci nella preparazione dell’imminente viaggio a Milano. Simona era impegnata nel trovare un posto dove alloggiare nei primi tempi in attesa di trovare poi una sistemazione meno provvisoria. Doveva comprare del vestiario adatto al clima rigido del Nord, perché lì a Messina non le servivano, insomma per prepararsi a quella lunga trasferta tanto sognata, ma anche tanto temuta.
“Riuscirò a resistere lontano da casa? La nostalgia mi assalirà? Come reagirò a svolgere tutti quei compiti, che ora minimante mi sfiorano?”, questi erano i suoi pensieri, i suoi dubbi, ma non li diceva apertamente, perché voleva dimostrarsi di essere in grado di superare qualsiasi avversità.
Così Simona passava le sue giornate, finché il gran giorno non arrivò. Salutò tutti gli amici, la mamma, che non era contenta di vedere partire la figlia per posti lontani, dopo aver visto allontanarsi il figlio per la carriera militare. Sentiva la casa vuota, svuotarsi di tutti gli affetti ed era triste.
Simona sapeva di dare un grosso dispiacere, ma la voglia di avviarsi per affrontare questa nuova avventura era talmente grande da superare anche l’affetto che provava per lei. Prese il treno e partii per il lungo viaggio attraverso l’Italia verso nuovi orizzonti.

 

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