Sette sei quattro

“Devi trovare l’equilibrio tra i doveri e la tua libertà. Devi dedicare un po’ del tuo tempo a quello che ti appaga, che e solo tu. Devi staccare la spina per un po’ … Sempre sotto tensione ti mette a rischio di un corto circuito. Finirai bruciata come si legge sui giornali”.
Camminavo a testa bassa, gli occhi fissi a terra, solo qualche sguardo buttato in avanti e subito ritratto, mentre ascoltavo queste parole. Rimasi in silenzio senza rispondere. Sapevo che aveva ragione
“Non puoi continuare a vivere la tua vita in funzione degli altri! Vuoi deciderti una buona volta a mettere in primo piano la tua persona. Per una volta assegnati il ruolo principale di questa commedia che chiamiamo vita. Guarda mi verrebbe proprio coglia di dire ‘unico protagonista’ e gli altri … ‘tutti affanculo‘”.
Ascoltavo Anna, senza interromperla, a tratti sorridevo, perfino, dentro di me. Diceva parole sante ma non facevano parte dei miei pensieri.
“Sei strano, sai, Andrea. Sei proprio un tipo singolare. Severo ed egoista con te stesso, disponibile e sempre possibilista con gli altri. Sei quasi maniacale e ossessivo in quanto a rispetto verso gli altri, nel significato più ampio che può essere attribuito al termine. Sei riflessivo ma anche istintivo, con impennate di imprevedibilità fuori dal comune.”
Eravamo quasi arrivati alla fine del viale alberato, a una decina di passi da un incrocio, dove, girando a sinistra dopo poche centinaia di metri, saremmo giunti in piazza Saturno, la piccola tonda, come la chiamo. E’ un cerchio perfetto, delimitato da colorate facciate di palazzi con balconi e finestre che sputano fiori, una serie di negozietti, perlopiù di artigiani, un paio di gallerie d’arte e un bar.
“Io sono preoccupata per te Andrea. Vorrei, per una volta, che tu mi garantissi che penserai seriamente al tuo stato fisico, alla tua ‘salute di vita’, perché…”
Presi la mano di Anna e la interruppi. Dovevo mettere fine a quella paternale.
“Vieni, vieni … ti faccio assaggiare una delizia, per la quale le tue papille gustative mi eleggeranno a loro guida spirituale, poi… vorrei farti vedere un quadro”.

Rise e scosse il capo. Aveva compreso tutto.

“Sei un eterno Peter Pan!” aggiunse, dandogli un buffetto sulla guancia.
“Perché?” le risposi sorridendo senza lasciarle la mano.
Anna cercò invano di divincolarsi dalla stretta di Andrea.
“Mi fai male” disse con tono piagnucoloso, senza che in effetti lo volesse fare.
“Ma no! Tu mi vuoi scappare!”
“Magari! Ti conosco da una vita e, anche volendo, non potrei! Ma dimmi cosa vuoi farmi gustare e vedere?” domandò curiosa. Sapeva che ero imprevedibilmente originale in certe occasione e questa sera lo ero.
“Vieni con me e potrai giudicare”.
Anna conosceva Andrea da quando i ricordi erano diventati nitidi. Avevano percorso insieme tutte le tappe scolastiche dall’asilo nido al Liceo. Sempre insieme come fratello e sorella. La ragazza ricordava come all’asilo lui la difendeva dalle prepotenze degli altri bambini, perché piangeva sempre e voleva la mamma. Avevano stretto un sodalizio fatto di complicità senza parole. Era sufficiente uno sguardo per stabilire il contatto, trasmettersi il messaggio o di aiuto o di approvazione. La madre di Anna non aveva visto di buon occhio l’amicizia di questo bambino più robusto rispetto i coetanei, un po’ manesco e pronto alla baruffa. Poi vedendolo come coccolava la figlia e con quanta delicatezza la trattava, cambiò idea anche se le rimaneva qualche dubbio sul fatto che i due bambini vivessero in simbiosi. Con gli anni si rassegnò vedendo che era una vera amicizia.
“Dove mi stai portando?” gli chiese la ragazza un po’ spazientita dalle arie di cospiratore di Andrea.
“Ancora qualche passo e poi tutto sarà chiaro” risposi sicuro.

Eravamo usciti dalla piazza tonda, infilando un vicolo stretto e perennemente in penombra, anche quando il sole era alto a mezzogiorno. Lo chiamavano via ma per noi era il Vicoletto. Il vero nome lo ignoravamo come tanti altri della nostra piccola città. Ogni via, ogni angolo aveva il proprio nick. Così come c’era la piazza tonda, esistevano il vicoletto, l’angolo dei quattro gatti, la via degli spiriti, il viale del tramonto e il vicolo degli innamorati. Li avevamo battezzati così, quando ancora bambini giravamo curiosi per la città e non ci importava conoscere i loro veri nomi.

“Dove stiamo andando” gli chiese curiosa e stanca di questa misteriosa destinazione.

Si fermò decisa a non muoversi dal Vicoletto, finché non avesse rivelato l’obiettivo di quella camminata. Andrea strattonò invano la sua mano ma resistette anche se aveva provato un dolore lancinante al polso. Lo avevo compreso dalla smorfia dolorosa del suo viso. Mi ero spaventato, perché non era da me essere violento, soprattutto con lei.

“Anna, non fare la bambina” l’ammonì bonario. “Fidati e seguimi. Vedrai la sorpresa”.

“Lo sai, Andrea che le sorprese non mi piacciono molto” rispose piccata.

“Sei unica e per questo mi affascini!” replicai divertito, mentre tentai di farla spostare da dove si era fermata.

“Non riesci a commuovermi”.

“C’è solo una donna al mondo che non ama le sorprese” dissi col tono più serio che serbavo per le occasioni speciali.

Una breve risata interruppe quel divertente dialogo.

“E va bene, ti seguo” concluse scuotendo la chioma riccioluta.

“Dobbiamo arrivare alla piazza quadra. Contenta ora?” le risposi.

Anna gli scoccò un bacio di ringraziamento. Riprese a camminare al mio fianco. Non dovevo più trascinarla con la forza.

“Perché cosa c’è di interessante nella piazza quadra?” domandò Anna.

“C’è il sette”.

“Il sette? Ma lì c’è il nulla. Nemmeno un albero. Solo asfalto” replicò dubbiosa.

“Fidati. C’è il sette!”

La ragazza scosse la testa, mentre giravano per via del ragno.

“Ma non è la direzione giusta” protestò energicamente, fermandosi nuovamente.

“Dobbiamo vedere il sette!” risposi infastidito.

“Ma lo hai detto tu. Nella piazza quadra non c’è” disse, riprendendo il cammino.

“Abbi fede. Lo vedrai il sette”.

Arrivati nella piazzetta dei pantaloni, le mostrai uno strano oggetto che assomigliava vagamente a un sette rovesciato.

“Ecco!” le dissi.

“Mi prendi per il culo?” replicò, guardandomi fisso negli occhi.

“No. Non me lo permetterei mai” risposi con calma, ridendo perché aveva compreso che non era il sette che cercavamo.

Le presi la mano e cominciai a correre. Avevo poco tempo. Appena due ore.

“Perché corriamo come due ragazzini?” mi domandò con fiato grosso.

“Risparmia le parole. Ti spiegherò tutto, quando siamo arrivati”.

sette chieseSbucati finalmente in piazza quadra, stanchi, accaldati e sudati per la folle corsa, la condussi al civico 6. Una bella targa in ottone ‘Osteria delle sette chiese‘.

“Vedi ancora il sette. E’ un numero magico come le pleiadi e tanto altro” le dissi soddisfatto.

“Tutto qui?” replicò delusa.

“No. Ora diamo la caccia al sei”.

“Ma è qui, davanti a noi” rispose basita.

“No. Quello è un semplice numero”.

La ragazza non mi capiva.

«Cosa stiamo cercando?» mi domandò, mentre rifiatava.

Infilato il vicolo delle miserie, sbucarono nuovamente nella piazza tonda.

“Ma siamo al punto partenza!” esclamò sorpresa.

“Abbiamo in pugno il sei!” replicai.

“Non sono scema!” replicò infastidita.

“Nessuno lo può affermare. Anzi hai un’intelligenza superiore alla media” aggiunsi, baciandola.

“Lasciami, traditore!”

“E no! Non ti baratterei nemmeno per il sei!”

“E perché?” mi domandò con gli occhi che brillavano.

“Per la smorfia il sei è l’organo genitale femminile …”.

“Sei uno screanzato!” mi disse interrompendomi.

“Non ci credi? Consulta la Smorfia e vedrai”.

“E va bene ma mi hai detto che non mi baratteresti col sei …”

“Appunto. Ti ritengo superiore” ribattei sorridente. “Per la cabala, per un gioco di numeri, bereshit corrisponde alla parola Dio. E’ una specie di scioglilingua che ti risparmio”.

Anna mi guardava come se fossi improvvisamente impazzito. Prima una corsa perdifiato, poi questa affermazione su una parola misteriosa aveva avuto il potere di destabilizzarla.

bereshitSi sedettero su una panchina sotto un olmo secolare.

“Per la numerologia il sei è il cammino della vita”.

“Interessante è tutto questo. Ma continuo a rimanere ottusa” disse con un sorriso poco convinto..

“Il tuo nome è palindromo …”.

“Calma, calma. Cosa significa questo?” chiese curiosa e interessata.

“Può essere letto in entrambi i sensi” risposi con un bel sorriso, mentre le tenevo la mano con delicatezza.

“Non ci avevo mai fatto caso” replicò mortificata. “Ma non ci arrivo lo stesso”.

“Usando l’alfabeto numerico Anna corrisponde a 1+5=6 due volte”.

“Ma quante cose sai” mi disse ammirata.

“Però. Ora viene il difficile” affermai con una punta di apprensione.

“Perché?” mi domandò.

“Dobbiamo andare in cerca del quattro”.

“Non ho capito questa ricerca, che mi sta facendo girare in tondo come questa piazza” replicò indispettita.

“L’osteria delle sette chiese ti hanno permesso di gustare qualcosa fuori del comune. La piazza tonda ci ha fatto stare bene, in pace con noi stessi. Ma è il quadro, il famoso quattro che manca all’appello” aggiunsi con tono mortificato.

“Quale quadro?”

“Quello che ti ho promesso all’inizio di questa avventura sconclusionata. Non ricordi?”

“Ma sì, che me l’hai detto ma sono passate quattro ore da quando giriamo in tondo per le vie e le piazze di questa città”.

“Quattro ore?” le chiese recuperando la speranza di concludere il tour.

“Non vedi cosa segna l’orologio tondo? Sono le 18 e siamo partiti alle 14. Quindi quattro ore tonde tonde”.

“Sei un tesoro, Anna” le disse stampandole un bacio sulle labbra.

“Però non mi sposi, Andrea”.

“Che importa! Ci vogliamo bene come fratello e sorella”.

“Beh! Io preferirei che fosse di altro tipo … L’incesto non mi va” concluse amaramente.

Piazza quadra“Ci sono!” gridai alzandomi. “Torniamo alla piazza quadra. 4 lati uguali”.

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Phantom, il pesciolino rosso

tratto dal web
tratto dal web

Mi chiamo Phantom e sono un pesciolino rosso. Direte ‘non mi sembra una notizia originale. I pesciolini rossi si vincono al Luna Park e stanno buoni buoni in una boccia sulla mensola del salotto‘.
In effetti avete ragione ma i pesciolini rossi stanno anche nelle vasche del parco pubblico e si nutrono di larve di zanzare. Di solito l’acqua non è mai troppo pulita e noi scoloriamo in fretta. Qualche bambino ci getta pallottoline di pane che cerchiamo di mangiare. Però non è il caso mio. Sono stato vinto al Luna Park da un signore uomo che per sbaglio ha centrato il mio vasetto con una pallina colorata e così sono finito qua, in questa palla di vetro. Già stavo stretto in quella del baraccone, qui non va meglio.
Perché? Direte ancora voi. Uffa come siete saccenti. Odio stare rinchiuso in una bolla piena d’acqua. Sono un pesciolino che gli piace nuotare libero e spensierato nel mare con i suoi simili. Non mi pare di chiedere la luna. I pesci stanno a mollo nel mare e non dentro vasi panciuti e trasparenti. Capito? Chiuso lo sfogo, proseguiamo nel racconto.
I miei padroni non mi sono molto simpatici. Assomigliano perlopiù a degli ippopotami pelosi e obesi. L’unica cosa positiva è il cibo, perché me ne danno sempre più del dovuto.
Mi annoio a girare sempre in tondo e vedere il mondo deformato ma … ecco vi racconto cosa è successo un giorno di primavera dell’anno scorso, mentre i raggi del sole filtravano nell’acqua. Non saprei da dove cominciare, perché è una cosa singolare da narrare.
Il mio padrone uomo è arrivato con una donna che non avevo mai visto. Appariva molto strana ai miei occhi: lunghi capelli biondi tutti riccioluti e due protuberanze che erano molto più grandi dell’ampolla in cui sto dentro. Almeno questa era l’impressione che ne ho ricevuto. Indossava una gonna rossa molto piccola, diciamo uno straccetto che non copriva nulla, e calzava degli stivali con tacchi sottili come spilli, alti più di una spanna. Mi pare di udire una voce che commenta in negativo questa descrizione. Che provi lui a venire dentro a questa boccia e poi vedrà come il mondo è diverso da quello fuori. Chiudiamo questa parentesi e proseguiamo.
Non sapevo chi fosse e neanche che lavoro facesse ma mi è venuto qualche sospetto. Il mio padrone e la tizia si sono messi sul divano e hanno iniziato a fare manovre che all’inizio non sono riuscito a comprendere. Lui stava sopra e lei sotto. Lo straccetto in pratica non esisteva più. Sentendo i gridolini di lei e gli sbuffi di lui, ho capito tutto: stavano facendo sesso senza pudore dinnanzi ai miei occhi. Mi sono fermato e non ho più girato in tondo. Sono restato in apnea per due minuti buoni, prima di salire in alto a prendere fiato. Stavo scoppiando e un secondo in più mi avrebbe portato sul fondo senza vita. Ero sbalordito.
Non riuscivo proprio a crederci, il mio padrone stava tradendo la padrona! Avrei voluto telefonarle ma non esistono telefoni per pesci. Quindi ho scartato l’idea. Mi stavo arrovellando il cervello sul come avvertirla, quando il padrone e la tizia dopo aver massacrato il divano, se ne sono andati tutti soddisfatti. Mi sembra, ma non ci giurerei, di avere visto uno scambio furtivo di banconote. Ero agitato come se fossi stato morso dalla tarantola ed ero arrabbiatissimo.
Quello che non sapevo, era che la parte più divertente doveva ancora arrivare. Ero già arrivato al centesimo giro della boccia. Il solito spocchioso riderà perché crede che i pesci non sappiano contare. Invece io sono un pesciolino rosso istruito. Ho letto Lolita insieme al mio padrone e ho imparato a contare fino a cento e distinguere le banconote da cinquanta da quelle di dieci dalla mia padrona. Lei si mette sempre sul divano e, umettandosi le dita, conta ad alta voce, sfogliando dei mazzetti colorati. Chiaro? Ma proseguiamo, perché le sorprese quel giorno non sono finite.
Sul più bello la porta di casa si è aperta di nuovo. Ho aguzzato la vista e ops! Cosa vedo? La padrona era entrata con un tizio che non avevo mai visto. Si sono spogliati in fretta e sono rimasti nudi, prima di gettarsi sul divano, ancora caldo da prima. Non potevo credere ai miei occhi: facevano lo stesso lavoro della donna e del mio padrone. Si stavano tradendo a vicenda! E io che avrei voluto chiamarla, informarla! Che anima ingenua ho!
Ero tutto intento a riflettere su quanto era accaduto e ascoltavo la padrona urlare, non ho capito se per la gioia o per il dolore, quando la porta si è riaperta. Sono rimasto strabiliato: il mio padrone era accompagnato da una tizia vistosa dai capelli rossi, diversa da quella precedente. I miei padroni si sono guardati in modo strano. Poi si sono messi a ridire e tutti e quattro sono finiti sul divano. Facevano un orgia!
Non ci potevo crederci. Senza nessun pudore facevano sesso a quattro!
Ero ancora incredulo a quella visione, quando ho visto tremare tutto quanto. Mi sono domandato se fosse colpa di quei quattro scalmanati sul divano, che avevano provocato un piccolo terremoto. Mi sono sbagliato. Era Mustafà, il pesce palla che mi scuoteva con violenza.
Mi sono svegliato e mi sono reso conto che è stato solo un sogno. Non ho mai vissuto con padroni strani, non ho mai visto un tradimento in contemporanea e vivo felice in un luogo bellissimo, chiamato mare.
L’unico posto dove sono nato e cresciuto e dove nuoto libero. Vi state domandando se anche i pesciolini rossi sognano. Senza dubbio! Solo che i bipedi umani lo ignorano. Sono veramente buffi quando nuotano accanto a me: goffi, impacciati, sempre pronti a emettere bollicine e poi portano strani oggetti e non hanno pinne né squame. Dunque dico che anche noi sogniamo ma più che un sogno è stato un incubo. Quattro bipedi ansanti e rantolanti, che si avvinghiavano tra loro, stavano uno sopra l’altro come una massa informe. Uno spettacolo poco edificante.
Mi sono sempre chiesto se vivere in una bolla sia terribile come mi è apparso nel sogno. Credo proprio di sì! Non mi piacerebbe provare l’emozione.
Uffa! Ancora un bipede che si aggira nei dintorni. Salem, un pesce pappagallo, mi ha detto di aver passato uno spavento non da poco quando aveva visto un bipede armato di un arnese trasparente e con dei buchi, dove per poco non ci finiva dentro. Un colpo di coda ed era sgusciato via, nascondendosi dentro un anemone rosa. Però una volta ho visto un bipede armato con uno strano strumento che sparava saette d’argento. Ha beccato Zalim, una vecchia cernia grossa dieci volte me e forse anche di più. Si era dibattuta inutilmente e poi era sparita, trascinata via dal bipede.
Questi umani sono veramente infidi e sporcaccioni. Dovrò fare attenzione. Adesso vado a fare una riverenza a Madame Noir, la bella seppiolina.
“Ellò, Madame. Come va?” le chiedo.
“Non le dico come! Oggi non è giornata” risponde con uno sbuffo di nero.
“Mi racconti tutto. Ho qualche minuto per ascoltarla”.
“Sono io che sono di corsa! Mi aspetta Lord Goffy. Non posso fare tardi. Sai mi corteggia da tempo” dice muovendosi sinuosa. “E’ così affascinante con quella protuberanza sottile sul naso”.
Dovete sapere che il titolato è uno splendido pesce spada ed è ambito da tutte le pescioline del nostro universo.
“La lascio andare dal suo bello” replico con tono dimesso.
Questa notizia mi ha turbato. La vedo andare via, mentre una lacrima si confonde con le gocce del mare.

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Lo ore 21

“Ti consegno questa busta con dentro una lettera, non aprirla ora o tra un po’, fallo il giorno della data e dell’ora precisa, che ho scritto sul retro. Due giorni possono sembrare lunghi , un’eternità per la curiosità, che ne scaturisce, ma ti assicuro che passeranno in fretta. Non te ne accorgerai nemmeno. Il tempo vola e non rallenta mai. Un’unica raccomandazione: segui alla lettera le mie indicazioni, perché questo lasso di tempo mi serve per portare a termine un paio di cose, che ho in mente”.
Era un sabato quel giorno, quando gli ho detto queste parole. L’ho guardato con decisione negli occhi prima di salutarlo. Alex mi ha guardato sorpreso e avrebbe voluto pormi delle domande ma non gliene ho lasciato la possibilità.
Molte volte ci avevo pensato ma poi mi è mancato il coraggio. Adesso ero risoluta, ero sicura di riuscire nel mio intento e ne ero più convinta che mai. Non volevo più aspettare e rimandare a un’altra occasione quello che avevo in mente. Così gli ho dato un piccolo bacio sulla bocca e me ne sono andata, sculettando. Era talmente basito che non ha avuto nemmeno la forza di fermarmi.
Perché una lettera? Abbiate pazienza e seguitemi nel corso degli eventi. La risposta arriverà alla fine.
Il giorno dopo, domenica, in casa non è rimasto nulla. Mi sono girata intorno e ho guardato tutto con attenzione: avevo tolto e svuotato ogni cosa. Niente era restato: solo muri bianchi e spogli pronti per accogliere il vuoto che ci sarebbe stato da lì in avanti nel tempo.
Non sento più emozioni di nessun tipo, le lacrime le ho consumate tutte, il desiderio è ormai estinto. Sono inespressiva, insensibile, consumata e rassegnata. Sono un’ameba.
Adesso sono le otto e trenta del lunedì sera. Tra mezzora leggerà la mia lettera. E’ chiaro quel che ho scritto. Non ne ho il minimo dubbio. Lui sa che non conoscerò mai il suo commento, né risponderò alle sue domande, che di sicuro vorrà pormi. Senza giri di parole e in maniera esplicita ho avanzato la richiesta, che non sarà necessario che io sia a conoscenza di quello che pensa.
Io attendo solo le ore 21.
«Cosa c’è scritto nella lettera che dovrei aprire lunedì alle 21? Ho letto nei suoi occhi il contenuto. Conosco perfettamente ogni parola. Linda è un libro aperto per me. A volte non la comprendo ma a modo mio l’amo e la rispetto, ma lei?” rifletto mentre mi avvio con lentezza verso casa.
Scuoto la testa, respiro a fondo, ricaccio nell’anima quello che provo per lei. Chiudo alle spalle l’uscio e mi siedo sul divano. Cosa aspetto? Non lo so nemmeno io. Sto qui in silenzio, mentre fuori cala rapidamente la sera e la stanza rimane al buio. Non ho fame, né sete, né sonno. Rimango immobile, avvolto nei miei pensieri. “Perché?” mi chiedo ancora una volta.
La notte scorre lenta, mentre io con gli occhi aperti nell’oscurità notturna cerco di vedere quello non c’è. L’alba del sabato mi coglie ancora sul divano. Non mi sono mosso mai da lì. Il chiarore è grigio e indica che il cielo è coperto di nuvole, esattamente come la mia mente è oscurata da mille pensieri.
Esco di casa. Cammino spedito nel pomeriggio di sabato, che si preannuncia carico di pioggia. Cumulonembi neri corrono veloci nel cielo. Li osservo. Sembra il temporale che lei mi ha predetto per lunedì alle 21. Ancora non ci credo ma dentro di me lo so da tempo che ha deciso e non tornerà indietro. Una folata di vento muove i miei capelli che ricadano sul viso. Li allontano con una mano come se fosse un invisibile pettine. Ormai mancano solo due giorni. Potrebbero sembrare due anni ma so che non è così. Passeranno in un baleno come mi ha detto.
Le prime gocce di pioggia mi bagnano il viso. Sono uscito senza un ombrello consapevole che tra non molto avrebbe piovuto. Ritorno sui miei passi, mentre la pioggia aumenta di intensità. Mi rifugio tra le mura amiche, mentre gli occhi si inumidiscono per il pianto.
Mi siedo sulla poltrona accanto al divano che tante volte ci ha accolto. Mi rifaccio la domanda ‘Perché?‘ e ancora una volta rispondo ‘Non lo so‘. Eppure agli occhi della gente eravamo belli.
“Cosa vuol dire essere belli?” mi domando.
Rifletto un momento prima di rispondermi.
“Francamente non l’ho mai capito ma lo dicono”.
Mi alzo e vado nell’ingresso a specchiarmi.
“Ormai sono vecchio. Qualche filo grigio affiora qua e là tra il castano dei capelli. La fronte è segnata da linee profonde che incidono la pelle. Le rughe ci sono e il sorriso è stanco”.
Mi allontano dallo specchio che mette a nudo tutti i miei difetti. Torno a sedermi e penso.
“Mancano pochi minuti alle 21. Mi alzo. Raccolgo le mie ultime cose senza guardarmi intorno. Non vorrei avere un ripensamento. Voglio essere ferma nelle mie decisioni. Lo so che lui con le mani tremanti starà aprendo la lettera. Adesso sta cominciando a leggerla”.
Linda si alza per avviarsi lentamente verso un punto lontano. Tra un minuto scoccheranno le 21 e Alex saprà.
“Non ne sono certa ma lui di sicuro ha capito tutto” si dice la ragazza, mentre affretta il passo. “Dove vado?”
Una domanda pleonastica. Lei conosce la destinazione e si perde nel buio della sera.
Caro Alex, così comincia la lettera.
Lei lo sa, perché l’ha scritta di suo pugno.
Ride, pensando a lui con le mani nei capelli. Apre la porta, quando ode uno squillo.
“Non posso rispondere. E’ sicuramente lui. Lo immagino. Lascio questa casa vuota come il mio cuore e scendo per la strada anonima e sicura. Cammino con il borsone a tracolla e il telefono spento. Non voglio parlare con nessuno”.
Chiude il portone dell’edificio alle sue spalle, liquidando un passato che non vuole ricordare. Muove i primi passi nella pubblica via.
“Mi scusi” si sente dire da una voce femminile. “Mi perdoni l’ardire ma lei non è Elisabetta Canalis?”.
Si ferma e si gira. C’è una donna di basso livello e di modesta estrazione che la osserva. La guarda come si potrebbe scrutare una persona fastidiosa.
“No, si sbaglia” risponde seccata. «Per chi mi ha preso?» riflette mentre si gira sui tacchi.
“Eppure …” insiste noiosa. “Eppure mi sembra lei. Sa quella soubrettina che ha flirtato con George … Come si chiama? Mi aiuti”.
“George Clooney” le suggerisce acida, mentre mi viene appresso.
“Sì, proprio lui!” esclama portandosi al suo fianco. “E’ un uomo affascinante, vero?”
La guarda come per incenerirla. Se lo potessi, lo farebbe. Non risponde. Riprende a camminare. E’ visibilmente infastidita. Tutta la decisione che aveva nel corpo sta scemando velocemente. Pensa che non ci voleva questa donna petulante.
“Mi dica. E’ un amatore come dicono?” continua come se non ascoltasse le sue parole.
“No!” le urla in faccia. “Non riesce a scopare per nulla!”
“Che peccato! Eppure sembra uno …” e finalmente la lascia delusa.
Sono le ore 21 e con le mani tremanti prendo la busta. Non oso aprirla. Sono incerto se farlo.
“Perché lo dovrei aprire? Ne conosco il contenuto e Linda starà andando incontro al suo destino”.
Mi faccio schifo. Non sono riuscito a trattenerla, né a convincerla. L’ho persa e per sempre. Dovrei fare quello che qualunque uomo dovrebbe fare. Correre da lei e chiederle perdono. Ma sono un pavido e non oso guardare in faccia alla realtà.
Sono le 21 e 5 minuti.
Lascio cadere la busta per terra, chiusa e bagnata.

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Dal diario di uno scrittore

Mercoledì 28 febbraio 1973

Mi diede la mano dandomi una pacca sulla spalla.

“Hello, Mr. Longo!” e cominciò a parlare velocemente in inglese.

Lo guardai sbigottito. Non riuscivo a tenergli dietro tra lo slang americano e la velocità con la quale sparava frasi a raffica. La mia scarsa tenuta linguistica mi aveva mandato in tilt. «Game over» diceva la mia mente in overdose anglofona.

“Can you speak slow? I don’t understand that you say” dissi nel mio inglese elementare e scolastico, che faceva uno strano effetto anche a me stesso.

“Of course!” rispose ridendo.

«Ridi, Ridi! Ma non ci capisco un acca!» riflettei, mentre passavamo sotto gli occhi inorriditi del maître, che storceva il naso vedendo i nostri abbigliamenti.

Io ero vestito come un montanaro con pantaloni di fustagno marrone, delle orribili pedule ai piedi e un montgomery verde pisello ma lui non era meno eccentrico.

A ripensarci bene adesso mi viene da ridere e da inorridire allo stesso tempo, pensando cosa indossavo per entrare in un tempio dell’eleganza e dei buongustai. Però ero da scusare, perché, quando ricevetti il telegramma dal mio agente letterario, mi trovavo in uno sperduto paesino del Vorarlberg austriaco tra il Bodensee e Bolgenach per una full immersion della lingua tedesca con altre dieci persone. A dire il vero eravamo in uno sperduto casolare sulle rive del lago artificiale, immerso nella foresta con cumuli di neve alti fino alla finestra del primo piano.

«Milano 20 febbraio 1973 – Presentati martedì 27 alle ore 12 a Vienna in Kärntner Straße 51 – Gerstner Beletage im Palais Todesco. Ho fissato un incontro con Robert Altman per discutere della sceneggiatura del tuo manoscritto Non passava giorno. Roberto» era il testo del telegramma che aveva rischiato di giungere in ritardo.

Il romanzo non era ancora uscito, ricordo bene, ma il mio agente lo aveva piazzato a Hollywood. Mi sono sempre domandato come fosse riuscito nell’impresa di passarlo sottobanco a Robert Altman, al quale era piaciuto e ne aveva acquistato i diritti cinematografici. In effetti era un quesito del tutto inutile, perché nessuno era in grado di darmi una risposta convincente.

L’aspetto buffo era che il dattiloscritto era in italiano, quando lo affidai al mio agente ma quel diavolo di Roberto l’aveva fatto tradurre a mia insaputa e l’aveva trasmesso in America. Un giorno mi dovrà spiegare quale artificio ha usato per farlo leggere a questo famoso regista e produttore.

Da una corrispondenza con Anna, la sua segretaria, sembra che l’assistente del regista, dalla quale passavano tutti i testi per eventuali film, fosse una vecchia fiamma giovanile dell’agente. Sarà vero, mi sono chiesto più volte. Mi dissero che era un’italiana trapiantata in America da molti anni, che lo lesse nella versione originale. Sembrerebbe che lei avesse insistito moltissimo per la sua traduzione. Ma tutto questo restava avvolto nel mistero a parte il fatto concreto che effettivamente era finito tra le mani di Altman.

Come i reali avvenimenti si fossero svolti e quando fosse avvenuto il passaggio del plico cartaceo, non lo seppi mai con precisione, perché nessuno ebbe la bontà di dirmelo. Ricordo solo che firmai un contratto, scritto fitto fitto in inglese, nelle crocette che lui aveva segnato, prima di partire per il Vorarlberg senza pormi troppe domande al riguardo. In realtà non ne avevo di tempo, perché dopo due ore avevo il treno per Innsbruck e questo non avrebbe aspettato che io gli chiedessi cosa stavo firmando.

Altman si vantò quel giorno a Vienna di avere acquistato i diritti per una manciata di lenticchie secche. E tuttora gli credo visto che non ho visto un centesimo di dollaro di royalties. Solo il mio nome, piccolo piccolo, nei titoli di coda alla voce screenplay sotto quello in grande di Robert Altman.

Mi sono sempre domandato perché si fosse scomodato facendo un lungo viaggio da Los Angeles per incontrarmi. Ma forse voleva vedermi di persona o chissà per qualche altro misterioso motivo. Comunque lo vidi e gli parlai per un’intera giornata.

Il telegramma non arrivò il 20 o il 21 come capita di norma nel mondo civilizzato ma solamente lunedì 26, perché le strade erano impraticabili per la neve. Finii nel panico. Dovevo organizzare un viaggio che sapeva dell’avventuroso visto che l’area era sepolta sotto una coltre nevosa, caduta incessantemente da diversi giorni. In questa zona austriaca o non nevicava per niente oppure ne veniva troppa. In quel anno si verificò proprio la seconda sfortunata evenienza. In qualche modo dovevo raggiungere Innsbruck e da lì arrivare fino a Vienna, se volevo incontrare il famoso regista.

L’aspetto più indisponente della questione fu che non avevo un abbigliamento adatto al ristorante più in e vecchio di Vienna, come scoprì a posteriori. Quando partì prima di Natale per questa località sperduta tra i monti e i boschi del lembo più occidentale dell’Austria, mi avevano consigliato di portare solo abbigliamento adatto a un montanaro, perché il mondo civilizzato non distava molto in termini chilometrici ma era lontanissimo come realtà. Era un posto isolato, immerso nel bosco, perché nessuno delle dieci persone potesse usare la lingua italiana. Contatti zero col mondo, a parte il telefono quando funzionava. La posta arrivava se le strade lo consentivano. I giornali solo alla domenica sempre che le condizioni climatiche lo permettessero. Una vita da reclusi, sopratutto nel periodo invernale. E noi eravamo lì proprio in inverno.

Se non nevicava, la casa era a una mezz’ora di strada in macchina o un paio d’ore a piedi dal paese più vicino. Ma se la neve fioccava, serviva una slitta trainata dai cavalli, se questa non era troppo alta, e qualche ora di viaggio al caldo di una comoda coperta di lana grezza. Una slitta a motore era un lusso ed ecologicamente inquinante.

Dunque avevo meno di ventiquattro ore per arrivare a Vienna in orario per l’incontro. Con cuore in gola riuscì nell’impresa e mi presentai vestito in quel modo all’appuntamento. Neppure Altman indossava qualcosa all’altezza del ristorante. Un capello bianco a larga tesa, un paio di pantaloni senza piega dal colore indefinito, un giubbotto di antilope chiaro e una camicia verde sbottonata. Era accompagnato dall’assistente Susie, un’italo-americana, che traduceva a mio uso e consumo in uno strano e buffo italiano annacquato da termini americani quello che Altman diceva. Era quella che secondo informazioni di seconda mano ricevute aveva letto per prima il mio romanzo e aveva caldeggiato la sua traduzione. Avrà avuto circa dieci anni più di me e non era certamente il tipo di donna dei miei sogni.

Il regista aveva quasi cinquant’anni ma li portava bene. Alto, brizzolato con una barbetta alla Buffalo Bill ingrigita. Senza gli occhiali l’avrei scambiato per il mitico Kit Carson, il pard dell’altrettanto famoso Tex Willer.

Aveva vent’anni più di me e francamente non sapevo nemmeno che esistesse, salvo un recondito ricordo di un film che aveva sbancato Cannes qualche anno prima. Si chiamava M*A*S*H, ma frequentavo poco le sale cinematografiche e quindi era solo un vaghissimo cenno sperso tra altri cumuli di informazioni. Non avevo avuto tempo di documentarmi su di lui, perché allora non esisteva Google e nemmeno il personal computer ma solo quegli enormi scatoloni immersi nel gelo che venivamo chiamati calcolatori del tutto inadatti per estrarre delle notizie. In realtà al termine di quei sei mesi da recluso avrei raggiunto Monaco di Baviera per programmare quegli enormi armadi pieni di schede e luci. Ma non è di questo che vorrei parlarvi ma di quel pranzo memorabile.

Dunque entrammo noi tre che assomigliavamo più a spaventapasseri che eleganti ospiti del ristorante. Ci avevano riservato un tavolo d’angolo da dove si poteva dominare l’imponente sala coi soffitti decorati a stucchi, il lampadario di Murano al centro del secondo salone e le imponenti finestre arabescate da candide tende. Consegnato il montgomery all’inserviente rimasi con un maglione grigio e rosso da dove spuntava un’orribile camicia di flanella pesante a quadri rossi e blu.

Mi guardai intorno e mi vergognai come un ladro, colto con le mani nel sacco. Signore eleganti con abiti firmati accompagnati da uomini in giacca e cravatta dal taglio sartoriale. Avrei voluto sotterrarmi ma non potevo.

Nel salone si udiva un sommesso brusio, solo noi tenevamo il tono della voce alto, tanto che qualcuno cominciò a guardarci male. Il pranzo cominciò con qualche prelibatezza e un calice di vino bianco, mentre i camerieri impeccabili nelle loro divise bianche si muovevano con discrezione e in silenzio.

Mangiammo e chiacchierammo a lungo con Susie che faceva da interprete tra noi. Dopo qualche approccio maldestro col mio inglese piuttosto rudimentale riposi le velleità linguistiche e ripiegai sulla donna.

Discutemmo a lungo su alcune parti del romanzo che io avrei voluto includere ma che lui fu categorico nell’escluderle. Avevamo punti di vista differenti ma era il normale gioco delle parti. Io, come autore, cercavo di spiegare il mio punto di vista espresso con le parole della protagonista, Laura, ma lui mi disse che quella parte sarebbe stata solo un preambolo fugace. Era più interessato alla storia di Marco con Agnese, che presentava aspetti più interessanti. Ero disarmato. Il sceneggiatore era lui, io solo l’umile autore.

Ci lasciammo con una vigorosa stretta di mano, dicendomi che questo incontro era stato proficui per le idee che erano sorte e i chiarimenti ricevuti.

“Goodbye, Mr. Longo”.

Non lo sentì più, forse si era pentito dell’acquisto dei diritti. Solo qualche anno dopo scoprì che il film era stato prodotto ma era stato un flop annunciato. Stravolto l’impianto del romanzo, ambientato in una cittadina del Midwest americano con personaggi del tutto dissimili da quelli che avevo ideato, non era decollato.

A dire il vero nemmeno il romanzo che rimase nel mio cassetto non pubblicato ebbe una gran vita. Roberto venne a batter cassa qualche mese dopo ma risposi picche. Lui aveva pescato un po’ di denaro nella vendita dei diritti, mentre io non avevo visto nulla.

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Annie Valentine Cook – sono nata il giorno di san Valentino – terza parte

Si guardarono in silenzio incapaci di parlare. Poi Annie Valentine si alzò dall’amaca e gli prese la mano.
Vieni”. E lo trascinò verso la veranda.
L’uomo si lasciò condurre docilmente verso il patio laterale della casa, come se fosse guidato da un’entità superiore. Si sistemarono su due poltrone di vimini sempre muti e senza parole.
Ti aspettavo” disse la donna, tenendogli sempre stretta la mano tra le sue. “Sapevo che saresti arrivato. Oggi è un bel giorno”.
Jack la guardò incredulo, perché non era vero che sarebbe capitato volutamente da lei. Era giunto per caso su quella spiaggia poco frequentata e leggermente nascosta ed era rimasto incerto se fermarsi a salutarla oppure no. Non aveva mai saputo dove abitava dopo essersene andato cinque anni prima in una notte stellata di agosto e lo ignorava tuttora, finché non si era imbattuto nel cottage durante la passeggiata solitaria.
Era stata l’ennesima serata burrascosa tra accuse e pianti, tra difese timide e sguardi infuocati. Così aveva deciso di troncare ogni rapporto con quella donna affascinante ma decisamente insopportabile. La loro relazione durava da tempo, anche se non ricordava lo spazio temporale preciso. Rifletté «Un anno? Oppure due?» e si chiese se avesse importanza richiamare alla memoria la durata esatta. Concluse che erano solo i ricordi gli aspetti primari da rammentare, il resto erano dettagli insignificanti. Il flusso della memoria prese a fluire come un tranquillo corso d’acqua che placido scende verso il mare.
Era iniziata sotto i migliori auspici, pareva un rapporto solido basato su un feeling preciso: amore e sesso, equamente suddivisi. Lei era passionale e donava tutta se stessa senza calcoli o fini nascosti. Lui aveva colto quella passione ricambiandola con uguale fervore. L’amore era sbocciato come una rosa in maggio: da prima timido e acerbo come un bocciolo, poi in tutto il suo fulgore durante la fioritura ma alla fine era sfiorito, appassendo con la perdita dei petali che malinconicamente cadono a terra fino a rimanere nulla.
Una coppia perfetta che agli occhi degli osservatori esterni pareva perfetta. Lui alto, abbronzato coi capelli biondi, lei esile come un giunco nonostante i suoi trentacinque anni, dalla pelle ambrata come il miele scuro delle api di montagna.
Però dopo poco iniziarono i contrasti, le incomprensioni, le rotture improvvise e le riconciliazioni inaspettate in un caleidoscopio di gesti e di parole. Jack mal sopportava il fare civettuolo di Annie Valentine, sempre pronta a raccogliere i sorrisi e gli ammiccamenti dei corteggiatori. Per lei non c’era nulla di male perché era un gioco a nascondino innocente e casto. Per lui era come se gli lanciasse una sfida che doveva raccogliere per allontanare quei calabroni insistenti. In questa alternanza di chiaro e di scuro, di esserci o nascondersi esternava di essere gelosa, perché lo voleva tutto per sé egoisticamente. Non sopportava che lui osservasse le altre donne, doveva essere sufficiente tutto quello che gli donava.
Non dici nulla. Hai forse perso la parola?” gli chiese con tono dolce.
Stavo meditando che la vita è strana e il fato ci conduce la dove meno ce lo aspettiamo” disse osservandola fissa negli occhi.
Perché?”
Oggi non dovevo fare questa passeggiata. Avevo un impegno importante, un incontro di lavoro ma all’ultimo istante è saltato tutto. Mi sono ritrovato libero e senza una meta precisa dove andare. Così ho cominciato a camminare per Main Street e soprappensiero mi sono trovato su questa spiaggia solitaria e nascosta. Sono stato incerto se proseguire oppure ritornare verso le vie centrali popolate di persone chiassose e colorate ..”. Fece una pausa per riordinare le idee.
Continua” lo sollecitò. “Continua il racconto, ti ascolto. La tua voce è musica per le mie orecchie”.
Percepivo la necessità di riflettere in silenzio su di me e sulla mia vita passata, presente e futura. Quindi ho deciso di proseguire la camminata. Il sole al tramonto, il mare infuocato dai raggi solari che si immergevano nelle acque dell’oceano hanno fatto il resto”.
Jack osservava quel viso che non pareva invecchiare ma rimanere sempre uguale a se stesso: giovanile e senza rughe come se il tempo si fosse fermato cinque anni prima. La fissò prima di porre quell’interrogativo che lo stava tormentando fin da quando era capitato lì. Una domanda stimolata dalla curiosità di conoscerne la risposta.
Perché sapevi che sarei venuto?” le chiese senza abbassare lo sguardo.
Il cuore” rispose Annie Valentine. “Il cuore” ripeté con calore.
L’uomo scosse il capo. Non era la risposta giusta. Il cuore può pensarlo ma il destino decide senza tenerne conto. «No. Il cuore comanda la mente ma non il destino» rifletté nell’ascoltare quella parola.
Come facevi a essere così sicura che sarei arrivato?” le ripose la domanda, perché fosse ben certo che l’avesse compresa.
Sono qui da giorni, da mesi, da anni in attesa del tuo arrivo senza perdere la speranza di rivedere il tuo viso, di riascoltare la tua voce, di toccare le tue mani. Come puoi osservare la pazienza è stata premiata” replicò pacata.
Trasse un profondo respiro prima di riprendere il discorso interrotto.
Da quando mi hai lasciato senza concedermi nemmeno il saluto conclusivo dopo l’ultima notte di passione, ho venduto la vecchia casa e mi sono trasferita qui in attesa del tuo ritorno. Sono stati anni bui e silenziosi senza una luce che li rischiarasse. Ho avuto pazienza senza mai perdere la fiducia in me stessa e la speranza che un giorno saresti passato di qui”. Tacque fissandolo senza incertezze negli occhi.
Jack non comprendeva il senso di quelle parole. Si erano lasciati burrascosamente circa cinque anni prima senza mai incrociarsi neppure casualmente. Per lui quel capitolo era chiuso per sempre e aveva cancellato dalla sua mente quel viso morbido e vellutato, quegli occhi luminosi e quello splendido corpo. «Mai e poi mai avrei ricominciato. Ho sofferto troppo per riprendere quel rapporto eccitante e stimolante ma altrettanto snervante e ricco di imprevisti» rifletteva nell’ascoltarla con attenzione. «Ma oggi sono qui e la magia dell’esserci ha preso il sopravvento sulla razionalità del ignorare».
Annie Valentine allora viveva in bella casa di legno sulla Main Street circondata da un giardino ben curato. Adesso era in cottage al limite della battigia, isolato e lontano dal caos chiassoso e dai rumori della città. «Come potevo immaginare di trovarla qui?» si pose nuovamente la domanda che lo stava assillando come un mantra indiano. Scosse il capo perché non poteva crederci che l’avrebbe rivista. Avrebbe giurato che sarebbe uscita dalla sua vita per sempre e non sarebbe mai più rientrata. «Per sempre? Che vacua parola è questa, priva di significato perché per sempre è solo un effimero spazio temporale che dura meno della nostra vita». Invece si ritrovava sulla veranda di un cottage, seduto a osservare quegli occhi, che l’avevano stregato tanti anni prima, con lei che le teneva la mano.
Percepì che il vecchio fuoco non era morto ma covava silenzioso sotto uno spesso strato di ceneri. Era stata sufficiente una piccola scintilla per riattizzarlo, mentre adesso prendeva vigore. Si domandò se era saggio riallacciare i fili del passato, che erano pieni di nodi che non potevano essere sciolti. «Non è pericoloso credere che cinque anni siano passati invano, che ieri è oggi e che oggi sia domani?”. Scosse il capo, perché una forza irrazionale lo stava prendendo per mano per condurlo verso un domani del quale non conosceva i contorni. Non si riconosceva in quest’uomo tanto diverso da quello pragmatico e freddo che era conosciuto da tutti.
Anche Annie Valentine avvertiva l’urgenza di trattenerlo. Era stato l’unico uomo della sua vita al quale aveva donato e dal quale aveva ricevuto qualcosa in cambio, anche se come tutti gli altri l’aveva lasciata. «Poco» si disse «ma sufficiente a scaldare il cuore. Jack non crede che il cuore abbia avuto una grossa parte nel suo arrivo qui. Il cuore comanda anche il destino che si piega ai suoi desideri».
Percepiva che era giunto il momento di piantare le radici, di costruire un futuro non più incerto e nebbioso ma chiaro e limpido. Era forte stavolta la sua volontà di costruire un percorso comune abbandonando i vecchi sentieri fino a quel momento battuti senza apprezzabili risultati. Dovevano tracciarne uno totalmente nuovo ma insieme e con la forza di un sentimento che non era mai morto.
Questa volta non avrebbe offerto il suo corpo per trattenerlo ma sarebbe stato lui a decidere se per il sì o per il no.
Non temeva una risposta negativa. L’avrebbe accettata come aveva accolto tutto quello che la sua vita le aveva offerto fino a quel istante. Nondimeno aveva una certezza perché il cuore non l’aveva mai ingannata come facevano gli altri sensi. Erano mesi che preparava la tavola per due ed erano mesi che la sparecchiava come se fossero in due a cenare.
Fermati qui con me stasera” gli chiese con un tono dolce e vellutato. “La tavola è pronta. Le candele basta accenderle”.
E cosa serve per una cena serale al lume di candela?” le domandò ironicamente.
Solo amicizia ..” e fece una pausa prima di riprendere il discorso. “Se però è amore, ti ritrovi qui a colazione”.
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Una sera a teatro – parte 2 di 2

Iréne si sedette immobile sulla sedia, mentre in lontananza udiva quel suono melodioso che accompagnava i suoi pensieri. Quei lontani giorni adesso sembravano vicini come se fosse ieri. Quel ragazzo gentile, più vecchio di lei di qualche anno, era diventato un uomo, affascinante e gentile. «Se mi vedessero tutte quelle odiose filistee, pronte solo a pettegolare, e quello sciocco di mio marito, smorto come un cencio slavato, capirebbero quanto ero felice a Parigi in quella casa sempre allegra e piena di gente sincera e rumorosa». Era venuto finalmente il tempo di parlare a cuore aperto con qualcuno che stimava e amava. Voleva sentire la sua opinione, cosa avrebbe potuto dirle sulla sua condizione. La musica, che debolmente arrivava alle sue orecchie, accompagnava in sottofondo i suoi pensieri mentre rigida sedeva in quella stanzetta scarsamente illuminata e disadorna.
Avvertì l’aprirsi della porta e lo vide entrare pallido e sudato, ancora fremente per l’impegno nel suonare il fortepiano.
“Jacques” disse accogliendolo. Ma lui la scostò con gentilezza. “Lasciami asciugare il sudore e poi sono da te”.
Dopo qualche attimo le prese le mani e gliele baciò. “Quanti anni sono passati dall’ultima volta che ti ho vista?” le chiese fissandola negli occhi.
“Troppi” fu la sola risposta che seppe dare.
“Sei veramente una donna adorabile e meravigliosa. Ma raccontami di te” le chiese tenendole sempre la mani con forza.
“Oh, no. Ci vorrebbe troppo tempo e non ne abbiamo a sufficienza” rispose dispiaciuta.
“Allora mi racconterai mentre di accompagno a casa oppure c’è qualcuno che ti aspetta?”
“No, sono sola. Parleremo di noi durante il tragitto” disse.
“Bene. Il tempo di raccogliere le mie cose, salutare qualcuno e poi sono pronto” disse mentre metteva in una borsa qualche oggetto, appoggiato su un tavolino d’angolo.
Uscirono e le disse di attenderlo un attimo. Sparì inghiottito da una porta che nella semioscurità del corridoio si materializzò per dissolversi di nuovo.
Iréne rimase nell’ombra, osservando gli ultimi spettatori che rumorosamente si avviavano verso il portone di uscita. Aveva le guance che avvampavano di calore e per la grande agitazione interiore, mentre la testa le girava per la forte emozione della vista di Jacques.
“Eccomi” disse ricomparendo vicino a lei. “Possiamo andare”.
La prese sotto il braccio mentre scendevano lo scalone appena illuminato da poche lampade, mentre le ombre dei quadri continuavano a scrutarli, disapprovandola..
“Devo chiamare un taxi?” le chiese premuroso, stringendola con calore.
“No. Possiamo fare quattro passi a piedi. La mia casa non dista molto da qui. E poi avrei l’auto poco distante parcheggiata in quella grande piazza laggiù” e indicò col capo un lontano chiarore sullo sfondo di una via diritta innanzi a loro.
L’uomo gettò uno sguardo distratto verso quel punto che non gli diceva nulla e riprese a parlare.
“Dunque raccontami tutto. Come stai? Cosa fai?”.
“Oh, Jacques! Non sai quanto ho sofferto. Mi hanno torturata, imponendomi il loro stile di vita. Non potevo sfuggire alla loro persecuzione. Non potevo scappare, perché ero senza un soldo, nemmeno per affrancare una lettera e chiedere aiuto. Mi hanno costretta a riprendere gli studi, a prendere lezioni di bon ton, a stare in società. Un mondo frivolo e senz’anima, pronto solo a bruciare sul rogo della vanità chi osava starsene ai margini o chi era dissenziente. Avrei voluto fuggire .. Ma dove?”
Iréne fece una pausa per consentire all’uomo di dire qualcosa.
“E’ terribile quello che mi dici. Una condizione orribile”. Tacque per invogliarla a proseguire.
“Ero senza amici, senza nessun col quale confidarmi. Mi sentivo sola. Avrei voluto morire. Bon Dieu, tu poi non immagini cosa dicevano di Alberto, che era il diavolo, anzi il capo di tutti i diavoli dell’universo. Non potevo difendere mio padre, perché secondo loro ero stata la vittima sacrificale di un uomo senza testa e senza ritegno. Riesci a concepire mio padre come se fosse un arcidiavolo? Tu l’hai conosciuto ..”.
“Sì, lo ricordo bene. Un gran uomo pieno di amore disinteressato verso gli altri” e fece un sorriso, mentre la stringeva con maggior vigore.
Erano ancora sotto i portici del Collegio, quando le pose una domanda.
“Ci fermiamo da qualche parte, così possiamo continuare la nostra chiacchierata al caldo?”
“No. Se non hai fretta possiamo fermarci nella dependance della mia villa. E’ l’unica cosa che possiedo. E’ tutta mia e là mi rifugio per ritrovare me stessa”.
Camminarono spediti lungo il viale, mentre lei le raccontava altri particolari della sua vita.
“Dopo qualche anno al termine degli studi il conte Cittadini chiese la mano a mio zio Matteo, che fu ben felice di rispondere sì. Così finii sposa di quest’uomo grigio e monotono. Ero diventata la sua prigioniera senza possibilità di fuga. Sono sposata da cinque anni ma mi sembrano cinque secoli”.
“Mon Dieu!” esclamò Jacques. “Hai avuto un’esistenza travagliata, a quanto pare”.
“Sì” rispose scostandosi da lui. “Siamo arrivati” e prese una chiave per aprire il cancello.
Si avviarono per un viottolo oscuro verso una costruzione bassa e buia, contornata da piante e cespugli che apparivano come neri custodi della costruzione.
Sentiva scorrere il sangue nelle vene come mai gli era capitato negli ultimi anni dopo tanto grigiore della vita matrimoniale. Era felice e spaventata allo stesso istante. Era rapita dall’uomo che stava al suo fianco ma ne percepiva anche la pericolosità. «Cosa ci vado a fare nella dependance?» si chiedeva tra trepidazione e ansia. Eppure era un ritorno al passato, a quel passato che non aveva mai smesso di sognare neanche quando faceva all’amore con Antonio, suo marito. Le serviva per sopportare quell’atto che compiva senza amore e senza stimolo solo per adempiere a un dovere, perché così le avevano insegnato.
«Ma è veramente un dovere oppure una costrizione?» rifletteva mentre in silenzio si avvicinava alla porta d’ingresso. Sapeva che stava varcando le colonne di Ercole e avventurarsi in un mare ignoto come gli antichi navigatori. Però avvertiva la necessità di condividere con qualcuno che aveva amato il contenuto di quello che stava dentro. Fremeva sia per l’impazienza di passare quell’uscio sia per il terrore di quello che sarebbe successo.
«Sei ancora in tempo, Iréne. Puoi fermarti lì e ringraziarlo per la compagnia. Ma lo vuoi proprio mandare via?” e si coricò per prendere la chiave dalla fioriera accanto alla porta.
Entrarono e accese le luci, che illuminò una camera nemmeno troppo grande.
“Ecco questo è il mio regno che nessuno prima di te ha mai violato” disse mostrando con un ampio gesto della mano la stanza dinnanzi a loro. “Ecco qui i miei tesori, i miei ricordi”.
Le pareti erano ricoperte coi quadri del padre, su un mobile basso campeggiava una sanguigna dove era ritratto Jacques al piano. Ovunque c’erano ricordi di Parigi, del padre, degli amici del padre e i suoi personali.
“Ti piace” chiese trepidante, perché sentiva pulsare dentro di sé l’emozione e la gioia dell’amore, come una quindicenne in preda a una crisi ormonale.
Lui si guardò in giro, poi osservò la donna. Si tolse il cappotto e la sciarpa che gettò in un angolo, mentre lei tremava per un amore selvaggio come se fosse il primo della sua vita. Percepiva che doveva donarsi, che la doveva possedere ma non osava fare il primo passo. Rimase ferma e muta in mezzo alla stanza con il mantello ancora in dosso.
“Vieni” le disse avvicinandosi. “Ti aiuto a togliere ..”.
“No!” gridò in un sussulto di vergogna ma non si mosse e lo lasciò fare.
“No! Non toccarmi! Non toccarmi!” ripeté più di una volta ma senza opporre resistenza si abbandonò voluttuosa fra le sue braccia.
Era quasi mezzanotte quando rossa in viso, accaldata e coi vestiti in disordine fece l’ingresso nella villa.
Si avviò verso la scala per raggiungere la sua stanza.
“Sei tornata?” chiese Antonio, uscendo dal salotto del pianoterra. La scrutò, la guardò con attenzione e tenendo un libro in mano le domandò della serata.
“Com’è andata?”
“Ottima musica” rispose preparandosi a salire per sfuggire all’occhio del marito.
“Sei spettinata” incalzò seguendola.
“C’era vento mentre rincasavo”.
“Ma la macchina ..”.
“L’ho lasciata al parcheggio. Desideravo fare due passi. La serata è fredda ma il cielo è limpido. Buona notte, caro” aggiunse, mentre con passo deciso salì i gradini che portavano alla zona notte.
Arrivata nella sua stanza si tolse i vestiti con calma, annusandoli per sentire ancora l’odore di Jacques.
“Ti ho ritrovato, Jacques! Non mi sfuggirai di nuovo! Domani ti rivedrò e fuggirò con te!” disse mentre si spazzolava i capelli prima di coricarsi.
Jacques ritornò all’hotel dove alloggiava, ritirandosi nella sua stanza.
Prima di coricarsi, annotò sul diario, come sua abitudine per leggerlo poi insieme a Yvette.
«Cara Yvette, non immaginerai mai chi ho incontrato al concerto? Iréne. Sì, proprio lei! Ti ricordi? La figlia di Albert. E’ diventata una donna affascinante, moglie di un rispettabile cittadino dell’alta borghesia e per di più un nobile. Dicono che sia molto ricco il marito. Ormai non è più una di noi con suo modo di fare civettuolo e aristocratico. Non la riconosceresti più, tanto è cambiata nel modo di porgersi. Pensa che crede di riaccendere quei fuochi ormai spenti da tempo con la credenza tutta femminile di farlo ricordando il passato. Ce qui est passé est bien passé. Che noia! Non riuscirebbe a eccitare più nessuno di noi. E’ veramente banale e deprimente. Spero che non capiti pure a te una così totale metamorfosi. Sarebbe deludente. Ha parlato male del marito dicendo che è tedioso. Sì, proprio così. Noioso e monotono, tanto che ho pensato al quel modo di dire che usiamo noi. “E’ talmente grigio che non lo sopporterebbe nemmeno la sua ombra”. Domani mattina dovrò evitarla mentre faccio l’ultima passeggiata per la piazza principale e poi volo da te tra le tue braccia, mon Chérie. Non vedo il momento di stringerti a me.
Adieu, à demain!
Bisou, mon Chérie»
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Una sera a teatro -parte 1 di 2

Iréne, avvolta nella cappa bordata di pelliccia, saliva lentamente lo scalone di ardesia del Collegio San Carlo nella zona centrale della città. Alzò la vista verso i quadri disposti lungo le pareti, che arcigni parevano seguirla con gli occhi. Si strinse ancor di più nel mantello come per proteggersi da un nemico invisibile. Continuò a salire cercando di distogliere lo sguardo e non pensare a loro.
Aveva deciso di partecipare a questa serata di musica classica per un motivo molto particolare ma l’aveva relegato in fondo all’anima per non pensarci troppo. Non era sua abitudine a partecipare a questi eventi, ma stasera faceva un’eccezione.
Con un sottile senso di inquietudine percorse il corridoio silenzioso che portava nel vestibolo del piccolo teatro collocato all’interno di questo Collegio secolare. Si udivano solo il ticchettio dei suoi tacchi e nulla più. Avvertiva un senso di pace passare tra questi muri che avevano visto numerose generazioni di studenti impegnati ad apprendere il sapere ma nel contempo percepiva che aveva sbagliato a venire. Erano sensazioni contrastanti che non riusciva a conciliare ma le provocavano un senso di angoscia ed euforia allo stesso tempo.
Si avvicinò al tavolo per pagare il biglietto d’ingresso e prendere il programma della serata, che scorse velocemente senza molto interesse. Non amava molto la musica classica in particolare quella strumentale ma aveva deciso di ascoltare questo concerto particolare.
Si guardò intorno alla ricerca di visi amici ma erano tutte facce sconosciute. Comprese di essere nel posto sbagliato: lei vestita in maniera ricercata, loro in jeans e maglione senza nemmeno abbinare troppo i colori. Li udiva parlare ad alta voce come se profanassero il luogo, che invitava al raccoglimento e al silenzio. Stava già meditando di andarsene, quando vide l’amica, la signora Massone, che più che amica era una conoscente un po’ pettegola e invadente. Nonostante questi pensieri tirò un sospiro di sollievo per non sentirsi sola.
Le due donne si mossero all’unisono una verso l’altra per salutarsi.
“Buona sera, contessa Cittadini” disse allegra porgendole la mano.
“Buona sera, signora Massone. Anche lei qui ad ascoltare questa serata di buona musica?”
“Sì. Ma la vedo sola. Il signor conte non è venuto? Non apprezza i virtuosi del pianoforte?” domandò un po’ maligna la donna.
Iréne stette in silenzio per qualche attimo per soppesare le parole della risposta.
“Sì. Mio marito ha preferito rimanersene al calduccio accanto al camino, piuttosto che affrontare il freddo della sera”.
Un lieve sorriso increspò il viso della signora Massone. “Saggia decisione. E’ più prudente di noi donne, che abbiamo privilegiato la voglia di evasione al caldo della casa”.
“Ops ..” aggiunse voltandosi verso chi le stava alle spalle. “Che poco elegante sono stata con lei. Non le ho presentata la mia amica. La contessa Iréne Cittadini” e poi facendosi di lato continuò. “Questa è la mia carissima compagna di uscite serale. La signora Boschetti”.
Uno scambio incrociato di mani e un qualche borbottio che assomigliava a un «piacere» concluse le presentazioni, prima che calasse un silenzio imbarazzato.
“Se non vi dispiace prendo posto in sala” disse Iréne allontanandosi dalle due donne per sedersi nelle ultime file, vicino all’ingresso e porre fine all’imbarazzo di una conversazione mai sbocciata.
La signora Massone osservò l’amica che prendeva posto e, prendendo sotto braccio la signora Boschetti, la guidò verso le prime file.
“Vede” cominciò sottovoce. “La contessa ha una bella e interessante storia dietro di sé. Lei è la figlia di Alberto Pierotti, il fratello minore di Matteo Pierotti, quel ricco uomo d’affari, che sicuramente conosce”.
Un lieve cenno del capo avvalorò le ultime parole, mentre la donna riprese il racconto.
“Alberto era uno scapestrato. Amava girare tra le osterie a bere e ubriacarsi come tanti poveracci e appena poteva scappava a Bologna al Caffè San Pietro, dove si radunavano pittori e scrittori. Lui ambiva a diventare pittore e non ne voleva sapere di studi o mettere la testa a posto. Nel 1939 aveva solo vent’anni con la guerra imminente e dietro l’angolo, quando scappò a Parigi, nascondendosi tra i pittori della rive guache a Montparnasse. Lì scollinò la guerra e l’occupazione tedesca”.
“Ma non era imprudente starsene all’estero in un paese non proprio amico?” chiese la signora Boschetti.
“Ha ragione, Ivana. Ma al ragazzo mancava il senso pratico e la prudenza del fratello. Era un autentico buono a nulla, che amava vivere di espedienti piuttosto che fare una vita normale”.
Un sorriso comparve sui loro volti, che giudicavano questi atteggiamenti come disdicevoli. La signora Massone riprese la narrazione dopo una breve pausa.
“Poi negli anni tumultuosi del dopoguerra conobbe una donna senza censo e anonima, che sposò in gran segreto. La famiglia di origine non seppe nulla finché non nacque Iréne, la signora che le ho presentato stasera”.
Fece una piccola sosta nel parlare, osservando se la signora Boschetti la seguiva nei suoi discorsi.
“Prosegua, Paola. Non conoscevo questi dettagli sui signori Pierotti e sulla contessa”.
“Come le ho detto Alberto era uno scapestrato senza testa e senza talento. Viveva di espedienti e piccoli lavori, facendo debiti a profusione. Sembra che la madre di Iréne sia morta qualche mese dopo la nascita della ragazza. Ma qualcuno vocifera che sia fuggita con un uomo ricco e importante. Tralasciando questi miseri pettegolezzi, la ragazza fu cresciuta in qualche modo dal padre e dai suoi amici in un ambiente malsano e privo di scrupoli o moralità, finché a vent’anni anche Alberto morì lasciandola sola. Lo zio Matteo, di animo generoso, l’accolse nella sua villa, appena fuori la città, e le consentì di completare gli studi. Le diede un futuro meno ambiguo e grigio del padre trasformando una ragazza senza cultura ed educazione in una una splendida fanciulla ammirata da tutti. Dicono che abbia acquisito la bellezza dalla madre, che nessuno ha mai potuto ammirare”.
Fece una piccola pausa voltandosi leggermente verso le ultime file della sala per osservare Iréne, che compunta teneva in grembo la mantella.
“Lo è ancora adesso una stupenda donna nel fiore della maturità, a dire il vero. Ma andiamo avanti col racconto. Molti corteggiatori si fecero avanti ma alla fine la spuntò il conte Cittadini, che la sposò. Non hanno ancora figli ma pare che sia una coppia affiatata” concluse la signora Massone.
“Senza dubbio una storia interessante che non conoscevo, Paola. Ma ora ..” e non riuscì a concludere il pensiero perché il pianista aveva fatto il suo ingresso, accompagnato da un caloroso applauso del pubblico presente. L’artista fece un inchino verso di loro e in un italiano approssimativo si presentò.
Iréne lo vide e cercò di nascondersi, mentre occultava il nervosismo serrando le mani sulla mantella. Alle prime note dello strumento una forte ondata di emozioni l’assalì salendo verso il volto per poi scendere verso il basso. Osservò con attenzione Jacques Saint Just, i capelli ancora lucidi e scuri, la mani diafane e affusolate, che scivolavano leggere a sfiorare i tasti del fortepiano.
La musica settecentesca di Haydn e di Muzio Clementi riempì la sala che ascoltò in silenzio i virtuosismi del pianista fino all’intervallo. Un lungo ed entusiastico applauso accolse la fine della prima parte del programma.
Iréne si alzò e uscì prima che Jacques Saint Just salutasse il pubblico e si ritirasse nel camerino.
“Dov’è il camerino dell’artista” chiese la donna all’addetto del ingresso.
“Nel corridoio la seconda porta” rispose indicando con la mano il percorso. Si avviò con passo deciso verso il punto dove l’uscio si confondeva con la parete. Era in preda all’agitazione per l’emozione, che l’aveva turbata a quella visione, facendola piombare in anni lontani. Bussò con discrezione e attese che qualcuno si facesse vivo.
“Desidera?” chiese una donna facendo capolino dalla porta appena socchiusa.
“Devo vede Monsieur Saint Just” disse con un filo di voce.
“Non è possibile. Deve aspettare la fine del concerto” replicò accennando a richiuderla.
“Ho un appuntamento con lui” rispose in maniera convincente.
“Aspetti” e sparì.
Dopo qualche istante ricomparve e le fece cenno di seguirla.
La contessa sentiva crescere dentro di sé un mix esplosivo di gioia e angoscia che lottavano tra loro. La decisione di vedere il pianista era stata emotiva, irrazionale ma adesso pareva pentita della decisione. Non poteva più tornare indietro. Entrò in una stanzetta disadorna e lo vide.
“Jacques!” disse allargando le braccia per abbracciarlo.
“Iréne! Che bella sorpresa! Non sapevo che tu fossi qui”.
L’artista si alzò dalla sedia, stringendola forte a sé.
“Lasciati ammirare!” soggiunse, osservandola. “Sei ancor più bella di quella che ricordavo. Allora eravate una fanciulla acerba, ora siete una donna meravigliosa piena di charme e nel fiore della vita”.
Le labbra si unirono in un bacio caldo e passionale. Poi si staccarono per scrutarsi a vicenda. Erano visibilmente commossi per essersi ritrovati dopo tanti anni.
Le girò intorno, stentando di riconoscere quella fanciulla alla quale aveva insegnato i primi rudimenti di musica nella Parigi scapestrata e bohemien del dopoguerra. Lei lasciò cadere una lacrima, ricordando quegli anni felici trascorsi col padre e tutti quegli artisti che l’avevano allevata e coccolata come se fossero tanti padri e tante madri.
“Oh!” furono le sole parole che le uscirono. Avvertiva la necessità di ascoltare quella voce calda e di essere tenuta stretta da quelle mani affusolate da pianista. “Oh, Jacques!”
“Sst!” e le mise un dito sulla bocca. “Tenez” le disse allungandole una sedia. “Aspettami qui fino al termine del concerto. Nessuno verrà a disturbarti”. E uscì per riprendere a suonare.
Nel mentre la signora Massone la cercava con lo sguardo senza vederla.
“Iréne se ne è andata” confidò all’amica. “Evidentemente quel pianista francese non era di suoi gradimento”.
“Io l’ho trovato fantastico nel suonare quel antico pianoforte dal timbro forte e deciso” rispose aggrottandole sopracciglia. Non comprendeva le motivazioni per le quali era venuta, se poi non aveva apprezzato la musica.
“Rientriamo. Tra qualche istante il concerto riprende”.
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Andando in treno – parte 2

Rimasi scioccato e senza parole. Quell’uomo dai capelli bianchi e dal viso affilato come una lama mi guardò prima torvo poi addolcì l’espressione.

Ma lei dovrebbe avere almeno ottant’anni per essere Paolo Morieri” dissi riacquistando l’uso della parola.

Infatti” replicò visibilmente scocciato dalla mia incredulità e diffidenza. “Ho ottantatre anni. E poi confronti la fotografia che sta a pagina ..” e cominciò a sfogliare il libro, finché non trovò quello che cercava.

Guardi” e mi mise sotto il naso una fotografia di un ragazzo giovane dai capelli scuri e con un pizzetto alla Italo Balbo.

Convenni che il taglio degli occhi e la forma del naso sembravano le copie conformi di quelle che vedevo accanto a me.

Ora sono smagrito, coi capelli candidi e senza pizzetto ma sono io nel resto dei dettagli”.

Già” ammisi laconicamente ma ancora non potevo credergli che la persona accanto a me fosse il protagonista del romanzo che teneva in mano.

Mi dica” proseguii con tono dubbioso, “chi è per lei l’autore? Come ha potuto scrivere una simile storia?”

Un raro sorriso illuminò quel viso leggermente rugoso, mentre la ragazza della battaglia navale si era girata verso di noi ascoltando con attenzione la nostra conversazione.

Michi, vuoi la rivincita?” udì dalla voce del ragazzo che non si era accorto dell’interesse della compagna alle nostre parole.

Sss! Non disturbarmi” replicò con un sussurro appena accennato.

Chi è?” domandò ad alta voce, facendo girare quasi tutti i viaggiatori del vagone. “Chi è? Lo sapessi!” Urlò come un tuono in piena notte.

E secondo lei come ha potuto scrivere questo romanzo?” gli chiesi con un tono più moderato.

Lo sapessi!” ribadì questa volta meno irritato.

Non riuscivo a comprendere come Arduini, l’autore, fosse collegato con questa persona, che era molto più vecchia di lui e che difficilmente l’avrebbe conosciuto.

Dunque mentre stavamo conversando in maniera quasi sincopata, gli domandai di raccontarmi la sua storia.

Guardi” cominciò sospirando. “Guardi, la mia vita è come un reality” e cominciò con un racconto al limite dell’incredibile.

Mio padre era ricco, molto ricco. Possedeva una banca che portava il suo nome. Una banca piccola con un solo sportello e degli uffici discreti e ovattati ubicati nel centro di Milano. Da qui passava tutto il gotha dei gerarchi milanesi e tanti altri personaggi che amavano l’anonimato per trasferire le proprie ricchezze in Svizzera. Allora ero ancora all’università ma entrai lo stesso a lavorare presso mio padre. Specialmente ora che la guerra si avvicinava. Mio padre riuscì con abilità a convincere il federale di Milano, una persona influente, a certificare che la mia presenza in città era vitale, così che evitai l’arruolamento e quel tritacarne che era guerra”.

Prese un fazzoletto per asciugarsi le labbra prima di riprendere a parlare.

Era il dicembre del 1942. Il giorno non lo ricordo ma l’immagine è viva nella mia memoria. Dunque quel giorno un certo Michele Scialopoti, che conoscevo vagamente, venne da me per chiedermi un prestito di mille lire. Era una cifra enorme a quei tempi ma io disponevo di un conto personale a sei cifre, frutto delle donazioni di mio padre e mio nonno. Mi implorò a tal punto che cedetti il denaro in cambio di un pagherò che sarebbe scaduto un anno dopo. Nella notte tra il 7 e 8 agosto del 1943 Milano subì un furioso bombardamento. Io nella fuga durante la notte, al buio perché la città era oscurata, caddi e persi i sensi. Quando mi risvegliai, mi trovai in uno stanzone con decine di altre persone del tutto sconosciute. Non capivo nulla e nonostante i miei tentativi di mettermi in contatto con mio padre finì su un treno con altri deportati. Colto da febbre altissima durante il viaggio persi conoscenza e poi non ricordo più nulla”.

Era il racconto più fantastico che avessi mai ascoltato. Cercai di dissimulare la mia incredulità e gli posi altre domande, alle quale rispose in maniera ancora più incredibile.

Di solito i romanzi sono opere di fantasia e non riproducono la realtà. Oppure sono in difetto?” mi domandò a bruciapelo.

No” risposi. “Di norma gli editori li chiamano non-fiction, perché si collocano a metà strada tra la fantasia e la realtà. Però questo è stato catalogato come fiction, ovvero opera di pura fantasia ..”.

Paolo Morieri alle mie parole aprì il testo a caso e lanciò un urlo, udito distintamente da tutti i compagni di viaggio.

Vede” disse indicando una pagina. “Mi dice che oggi è «martedì», il martedì dell’aldilà, dove io annuso dei fiori. Non sente il profumo di lavanda?”

Mi avvicinai e provai ad annusare. Sentivo solo l’odore della stampa fresca e null’altro. Non dissi nulla. Non volevo innescare un altro contenzioso, anche se lui continuava a elencare fiori e odori, che non percepivo per nulla.

E qui” aggiunse indicando una fotografia. “Sono nudo che ballo con una fanciulla discinta! Ma io non so ballare e quella giovane donna non la conosco!”

Si calmi” gli dissi cercando di tranquillizzarlo.

Sarebbe tranquillo lei, se mio padre o qualche conoscente lo leggesse?”

Certamente” replicai poco convinto.

Io no! Ballare nudo con una donna che non si conosce non mi pare un modo educato di comparire in un libro ..”

Però quella pagina è davvero seducente..” provai a contraddirlo.

Sarà ma c’è da vergognarsi. Come potrò tornare in ufficio nella banca di mio padre senza essere oggetto del dileggio dei colleghi?”

Indubbiamente aveva ragione ma non potevo ammetterlo. Quindi preferì glissare sull’argomento.

Stavo per replicare, quando una voce femminile un po’ gracchiante uscì dagli altoparlanti del vagone.

«Milano. Stiamo entrando nella stazione Centrale di Milano. Trenitalia ringrazia i signori passeggeri. ..».

Mi distrassi un attimo.

Signor Morieri viene con me a Vigevano dall’autore del libro?” ma allibito non vidi nulla accanto a me. Solo il libro aperto sulla pagina con la sua fotografia.

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Annie Valentine Cook – sono nata il giorno di San Valentino (parte finale)

Era una splendida bambina coi capelli scuri e la carnagione leggermente ambrata come se si fosse dorata al sole. Quel colore metteva in risalto il viso delicato e due grandi occhi azzurri, alquanto singolari nel complesso di quella figura acerba. Quando il primo giorno della Primary School si presentò al cancello del college, la suora guardò male prima lei poi la madre e storse il naso.
Non si accettano bambine di colore. Avete sbagliato ingresso. Più avanti c’è la scuola pubblica” disse con tono acido sbarrando il passo.
Patricia la fulminò e senza aprire bocca avanzò trascinando Annie Valentine per guadagnare il grande portone.
Dove credete di andare?” proseguì aspra e dura.
Nel St. Therese’s College. Ora fattevi da parte, perché devo entrare” rispose fiammeggiante la donna. “Se non vi sbrigate, domani andrete a spazzare i corridoi”.
L’alterco, che stava radunando una piccola folla di curiosi, non sfuggì alle attenzioni di Madre Marie, la superiora, che accorse immediatamente.
Annie Valentine era frastornata, perché non comprendeva tutto quel trambusto. Avrebbe fatto volentieri a meno di andare a scuola ma la madre le aveva spiegato che era un posto dove avrebbe conosciuto altre bambine e imparato a leggere e a scrivere. Però il primo impatto non era quello che le avevano descritto i genitori. Suore altezzose, bambine che arricciavano il naso vedendola.
Che sta succedendo?” chiese Madre Marie, osservando prima la consorella poi la donna di colore.
Nulla” rispose calma Patricia. “Questa suora” e la indicò col capo “mi ha sbarrato l’accesso senza motivo, impedendomi di accompagnare Annie Valentine Cook, mia figlia, di entrare regolarmente a scuola, alla quale è iscritta”.
Il nome le suscitò un ricordo e un lampo nella mente. Era la figlia di un commodoro della Royal Navy, che a Plymouth era conosciuto e stimato, soprattutto adesso che infuriava la guerra e con l’Inghilterra sotto attacco, un personaggio importante da trattare con tutti i riguardi.
La prego di scusare sorella Agnes, che non l’ha riconosciuta. E’ un onore avere nel nostro college la figlia del commodoro Cook” disse mettendosi da parte e fulminando con un occhiataccia la suora guardiana, per nulla convinta del proprio errore.
Non fu l’unico episodio sgradevole che Annie Valentine conservava nella mente di quei lunghi sette anni trascorsi in questa scuola esclusiva e altezzosa tra angherie e piccoli soprusi che dovette subire da suore e campagne.
Con immenso sollievo salutò tutti nell’agosto del 1947 quando per l’ultima volta varcò quel cancello che le erano apparse come le sbarre di una prigione dorata. Adesso era una splendida ragazzina di tredici anni dal seno acerbo e dalle movenze feline e suscitava l’ammirazione dei coetanei e le invidie delle altre ragazze magre e dal viso deturpato dall’acne giovanile.
La rigida educazione religiosa del college lasciarono un’impronta indelebile nel suo carattere ingenuo e aperto. Mostrava una fiducia nel suo prossimo spontanea e sincera, senza ravvisare malizie o fraintendimenti. Questa semplicità nel carattere la rendeva vittima di sottili tranelli, nei quali cadeva quasi senza accorgersene.
Quando nel dicembre dello stesso anno salpò coi genitori per fare ritorno nell’isola di Antigua, la sua spensierata innocenza fu oggetto di molte attenzioni da parte di uomini che avrebbero desiderato possederla. Sembrava più matura della sua età, come se fosse una ragazza di qualche anno più vecchia. Sarebbe caduta nella rete di queste persone se i genitori non l’avessero tenuta continuamente sotto controllo.
A diciotto anni era diventata una splendida fanciulla corteggiata da moltissimi uomini. Era un fiore da cogliere ma non era ancora arrivato il momento di recidere il gambo. Lei era ancora indecisa a chi donarsi per prima, non vedeva inganni nelle loro attenzioni ma un sottile gioco di corteggiamento.
Le suore mi hanno insegnato di mantenermi pura fino al giorno del matrimonio” si diceva mentre sdraiata sulla sabbia bianca della spiaggia di Deep Bay si dorava al sole di giugno. “Mi domando per quale motivo dovrei conservarmi casta. Sento un forte richiamo verso gli uomini. Loro mi ronzano attorno fastidiosi come calabroni. Ma tutto questo mi eccita e mi stimola eroticamente”.
Era luglio 1955, quando seduta sul molo del porto di St. John’s vide sbarcare da una nave da crociera un ragazzone biondo, alto come una guglia della cattedrale. Rimase affascinata, lo seguì con lo sguardo finché non sparì tra la calca della folla. Stanca e annoiata riprese la strada di casa, mentre il sole picchiava duro. Non pensava più a quel ragazzo, quando all’improvviso lo incrociò su High St. Ebbe un tuffo al cuore, si fermò per osservarlo con cura mentre camminava spedito con una piccola valigia verde.
Dove sarà diretto?” si chiese, sperando che le chiedesse qualche informazione.
Come se un sottile filo avesse guidato i pensieri dell’uomo, lui si fermò alla ricerca di qualcuno. La vide ferma sul marciapiede e si avvicinò.
Mi scusi” cominciò posando la valigia per terra. “Saprebbe indicarmi dove si trova Green Bay Hotel? Mi hanno dato le indicazioni ma credo di essermi smarrito”.
Annie Valentine non rispose immediatamente come se fosse stata colpita da un’improvvisa afasia, poi si riscosse sfoderando un sorriso luminoso, mostrando una dentatura perfetta e candida.
Se vuole, l’accompagno. Le spiegazioni sarebbero complicate”.
Grazie volentieri” rispose, riprendendo la valigia in mano.
Così iniziò quell’avventura con John, un gallese galante ma rude e infingardo, che le fece conoscere i segreti del sesso. Annie Valentine si sentì attratta da lui a prima vista e perse ogni senso delle proporzioni. Non riuscì a distinguere le bugie, anche evidenti, che raccontava dalle verità che non volle mai accettare. Il loro rapporto fu tumultuoso nonostante l’opposizione netta di Patricia, che aveva intuito la vera natura del gallese.
Lascialo” le disse un giorno di settembre sua madre. “Ti sta nascondendo la verità su di lui e la sua famiglia. E’ un bugiardo nato. Ci evita come la peste, perché sa che smaschereremo le sue presunte verità in un batter d’occhio”.
Pat” disse la ragazza, che chiamava sempre sua madre col nick. “Lo amo e lui ama me. Mi ha chiesto di sposarlo. Se fosse per lui anche domani”.
Bene” rispose sorridente come se la gatta che era in lei avesse avvistato il topolino col quale giocare prima di ucciderlo. “Invitalo domani sera a pranzo. Io e tuo padre saremo lieti di accoglierlo come futuro genero”.
Annie Valentine riferì a John quello che aveva detto sua madre.
Alle otto di domani sera. Sarai puntuale?” gli domandò premurosa.
Puntualissimo. Sarà un vero piacere incontrare i tuoi genitori” replicò sorridente e gentile.
Il giorno dopo era sparito. Si era volatilizzato. Nessuno sapeva dov’era, nemmeno gli amici più fidati. Qualcuno affermò d’averlo visto sul traghetto notturno verso la Giamaica, altri imbarcarsi su una nave diretta verso il continente. John non si fece più vivo, lasciando Annie Valentine nel dolore più atroce con il cuore spezzato. Pianse per lunghi giorni, nonostante Patricia tentasse di consolarla e farle intuire che tutto sommato le era andata bene, perché quel gallese era un farabutto.
Lei era troppo sincera, troppo passionale per non cadere nei tranelli dei corteggiatori. A volte era persino ingenua nel non credere alle evidenze dei fatti.
Un giorno, aveva circa trent’anni, incontrò un uomo che definì «incredibilmente bello» e se ne innamorò perdutamente tanto che non si accorse nemmeno che era sposato con una donna gelosa e possessiva.
Stava salendo al primo piano per raggiungere il monolocale dove viveva da single, quando Susie, la moglie, l’affrontò decisamente.
Siete una puttana!” le urlò in faccia sulla prima rampa, afferrandola per i capelli. “Lasciate stare il mio Paul!”
E perché mai dovrei?” chiese ingenuamente Annie Valentine.
E’ mio marito ..”
Tuo marito? Forse avete sbagliato Paul.. Quello che frequento è libero come un uccello ..” affermò cercando di liberarsi dalla presa della donna, che la teneva inchiodata al corrimano.
Sì, come un uccello in gabbia. E la gabbia dorata sono io” replicò ironicamente.
Lasciatemi!” urlò avendo il viso contratto da smorfie di dolore.
Certo!” e la scaraventò giù dalle scale. “E questo è nulla se vi vedo ronzare ancora attorno a Paul”.
L’atterraggio non fu morbido ma nemmeno disastroso, perché era finita su rotoli di corda che le lasciarono solo dei lividi per qualche giorno.
L’uomo, conteso dall’amante e dalla moglie, le telefonò una settimana più tardi.
Mi spiace” cominciò senza troppi tentennamenti come se non dovesse confessare nulla. “Susie, l’avrai conosciuta, è troppo gelosa ed è capace di tagliarti la gola e di evirarmi, se ti frequento ancora”.
Così per l’ennesima volta fu lasciata.
Annie Valentine sull’amaca, mentre osservava nel crepuscolo della sera il mare appena increspato da spume bianche, si domandava perché arrivata a quarant’anni non era ancora riuscita a trovare un compagno stabile ma solo tanti effimeri fantasmi che comparivano e sparivano senza lasciare tracce.
Io dono tutta me stessa ma loro mi portano via ogni volta brandelli della mia anima senza chiedermi il permesso. Ormai ne è rimasta solo qualche piccola briciola. Non riesco nemmeno più a piangere, perché le ho esaurite tutte. Vorrei un uomo che mi rispettasse e donasse un pizzico d’amore sincero ma non lo trovo. L’unico era ..”.
Vide una figura che lentamente camminava sulla battigia, illuminata dal sole morente. Questa si fermò e facendosi schermo la mano, la osservava dalla spiaggia come se fosse incerto se proseguire nella camminata o dirigersi verso il cottage di Annie Valentine.
Lei smise di dondolarsi e aspettò ansiosa.
Prese una decisione e si avviò deciso.
Ciao, Annie” disse.
Ciao, Jack” rispose.
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Annie Valentine Cook – Sono nata il giorno di San Valentino

Mi chiamo Annie Valentine Cook e sono un bel mistero per me stessa. Non indovinerete mai perché il mio secondo nome è Valentine. Lo sapete già? E’ vero. Avete centrato il bersaglio. Sono nata il giorno di San Valentino. I miei genitori, un brillante ufficiale della Royal Navy e una ballerina di flamenco si sono sposati giovanissimi. Lui aveva ventidue anni, lei diciotto. Mia madre, Patricia, è originaria delle Indie Occidentali nella meravigliosa isola di Antigua. E’ bella, bellissima, una creola dalla pelle ambrata come il miele scuro delle montagne. Il giorno di San Valentino del 1933 lei ha visto un ufficiale della Royal Navy alto e impeccabile nella sua uniforma bianca scendere dall’incrociatore Queen Victory, attraccato nel porto di Sant John’s. «Quell’uomo sarà mio» disse convinta. Era John Mark, mio padre. E’ stato un colpo di fulmine e si sono sposati due giorni dopo, perché J.M., come lo chiamava Patricia, doveva ripartire con la sua nave da guerra. Tre mesi dopo è tornato a prenderla per portarla in Inghilterra, dove sono nata il 14 febbraio del 1934. Avevano previsto una vita sentimentale per la loro primogenita di tutto rispetto. Il mio visino a cuore, il mio secondo nome, Valentine, e la mia data di nascita non potevano che condurmi alla passione e all’amore, dovunque dirigessi i miei passi. Invece no, l’unico risultato tangibile è stato di essere mollata. Mollata al ristorante, mollata nella tromba delle scale, mollata al cimitero: che importa dove? Dovunque ho diretto i mie passi, qualcuno ha pensato bene di calpestarmi. Se Left1 fosse una località, il sindaco avrebbe già dovuto consegnarmi la chiave della città. E se Left fosse un reame ne sarei la regina”.
Annie Valentine Cook ormai era oltre la soglia dei quarantanni e non li dimostrava. Splendida pelle dorata in modo naturale, eredità della madre Patricia, e portamento austero, assunto dal padre John Mark, la rendevano gradevole agli occhi degli uomini, che si accalcavano attorno a lei come api in un campo di lavanda. Però analogamente al comportamento degli imenotteri dopo avere succhiato tutto quello che c’era da poppare se ne andavano senza alcun rimorso, svolazzanti in cerca di altro cibo. A differenza delle api operaie, tutte femmine, loro erano maschi solo desiderosi di impollinare Annie Valentine.
Così cominciavano le storie e così finivano in fretta le stesse. Lei era passionale e calda come la madre, ma a differenza della genitrice non riusciva a conquistare nessuno.
Patricia e John Mark si conobbero in un locale notturno delle Indie Occidentali, prima che la federazione di smembrasse negli anni seguenti in un nugolo di micro stati. Lei era originaria di Montego Bay, ma aveva vissuto dall’età di sei anni nella capitale di Antigua, Sant John’s, dove lavorava come danzatrice di flamenco al Kitty’s Hall. Lui era di stanza da un anno a Port Royal come ufficiale della Royal Navy nell’isola caraibica della Giamaica. Quella sera si recò con altri ufficiali da Kitty’s ad assistere allo spettacolo, dove la stella era Patricia. Quando lo vide entrare, decise di superarsi per attirare i sguardi di quell’ufficiale alto e imponente dai lineamenti regolari. A lei sembrava un dio della mitologia greca e avrebbe fatto carte false pur di conoscerlo.
Devo farlo mio adesso oppure mi sfuggirà per sempre” si disse mentre sensuale ballava sull’onda della musica.
Lui rimase folgorato da quel corpo flessuoso ed erotico che si muoveva con grazia al ritmo del flamenco. Non riusciva a staccarle gli occhi da dosso. Ne aveva sentito parlare dagli altri ufficiali che c’erano stati nelle serate precedenti. Rifletté che la realtà superava di gran lunga l’immaginazione.
«Ci devo parlare. Come? Non lo so ma ci devo riuscire prima di lasciare il locale» disse silenziosamente mentre l’osservava senza battere ciglio. Era alto, biondo con gli occhi blu porcellana, che avevano incantato più di una ragazza, ma lui cercava l’esotico, il particolare senza trovarlo almeno fino a quella serata. Credeva in una leggenda orientale, che aveva ascoltato tante volte durante i viaggi nell’estremo oriente nel mar della Cina. Parlava di un filo rosso invisibile che lega le vite di due persone. Non aveva importanza il sesso ma contava che queste due un giorno si sarebbero incontrate senza lasciarsi mai più. Non sapeva quando ma era certo che sarebbe accaduto. Così il fato o meglio Eros decise che Patricia e John Mark si incontrassero. Tutto capitò per caso o almeno così apparve in apparenza. Lui era seduto al tavolo con Paul, David e Eddie, quando lei passò nelle vicinanze volutamente per farsi notare e ammirare dall’uomo che aveva stabilito che sarebbe stato suo. Un bianco alticcio l’afferrò per un braccio per darle un bacio e stringerla a sé, ma lei non gradiva quelle attenzioni grossolane, mentre cercava di divincolarsi inutilmente. John Mark si alzò e dall’alto del suo metro e novanta scaraventò a terra il malcapitato ubriaco, liberandole il braccio. L’uomo cominciò a imprecare con mio padre e, prima di poter reagire, fu preso da due buttafuori e senza troppi complimenti messo alla porta.
Grazie” sussurrò Patricia, mentre lo guardava languida. “Siediti qui con noi” rispose l’ufficiale. “Non posso sedermi coi clienti del locale” disse, prima di aggiungere. “Però al termine dello spettacolo, sì”.
A che ora?” domandò senza scomporsi. “A mezzanotte”. “Bene. A quell’ora sarò qui in attesa”.
Patricia si allontanò sotto lo sguardo attento e interessato di John Mark.
Amici” disse. “Voi potete rientrare a bordo. Io resto a terra. Oggi è il mio giorno di permesso”.
Hai colpito e affondato quel naviglio leggero” replicò ironico Paul.
Un largo sorriso comparve sul volto dell’uomo. “Però avresti voluto tu affondare quella splendida giunca” rispose per nulla imbarazzato.
E chi avrebbe rifiutato un simile boccone” continuò David.
A mezzanotte in punto riapparve Patricia, ancora più luminosa negli abiti sgargianti delle isole caraibiche.
Dove?” le chiese, porgendole la mano. “A casa mia” gli rispose stringendola con sensuale movimento.
Nessuno dei due si era presentato, come se conoscessero i loro nomi da una vita. La notte fu splendida come il cielo stellato di quel 14 febbraio.
Fu un autentico colpo di fulmine e due giorni dopo erano sposi. John Mark doveva ripartire con l’incrociatore per le esercitazioni navali.
Patricia rimase a Sant John’s per tre mesi, poi mio padre, richiamato in patria, la portò con sé a Plymouth, un posto uggioso rispetto al clima di Antigua” ricordava la donna sospirando. “Il 14 Febbraio del 1934 nacqui io, Annie Valentine, la loro primogenita in quella città che era diventata la nostra residenza, anche quando John Mark rimaneva lontano per mesi”.
Annie crebbe e frequentò la Primary School presso le suore di Santa Teresa, che era una specie di collegio chic ed esclusivo di quella cittadina nel sud ovest dell’Inghilterra nella contea di Devon. Suo padre si congedò a trentacinque anni dalla Royal Navy e d’accordo con Patricia decise di tornare in Antigua, dove aveva intenzione di aprire un locale alla moda nella capitale dell’isola. E così fece, mentre sua madre l’avrebbe aiutato nella gestione, sfruttando la bellezza per nulla sfiorita nella grigia e nebbiosa Plymouth.
Annie crebbe, completò gli studi presso una scuola privata gestita da inglesi e diventò una splendida ragazza.
Adesso, ormai quarantenne, desiderava un uomo con cui avere un figlio e condividere gli anni a divenire, ma trovava solo persone desiderose di soli rapporti carnali e basta.
Si era lasciata sprecare troppo concedendosi per passione e amore mai corrisposti. Era un fiore da cogliere e non da impollinare, da succhiare e da abbandonare dopo essere stata sfruttata. Sapeva donare all’uomo del momento un’intensità di passione e un amore che non aveva paragoni, ma il suo modo di proporsi ingenuo e sincero invece di avvicinare gli uomini, li allontanava inesorabilmente.
Si sentiva sola nella grande casa prospiciente il mare, che intravedeva attraverso la grande vetrata del salone. Un mare blu trasparente appena increspato da onde basse invitava ad essere solcato dalla fantasia imbarcata su una minuscola nave a vela.
Vedeva i velieri corsari che si avvicinavano alla costa per rapire fanciulle per i loro piaceri e fare bottino di oro ed argenti, sentiva un brivido di piacere nella schiena il pensiero di essere ghermita, afferrata da uomini rudi e forti e trascinata sulla battigia prima di sparire nella stiva oscura e maleodorante. Però presto il pirata Barbanera l’avrebbe portata nella sua stanza per possederla nel grande letto posto a poppa.
La sua mente continuava a fantasticare questa avventura, che avrebbe gettato nel terrore più di una donna, un’avventura invece che invece lei pregustava nei minimi dettagli.
Sarebbe diventata la donna del pirata Barbanera, che avrebbe aspettato tremante di paura e piena di ansia ogni volta che lui avesse solcato il mare per le scorribande corsare.
Lei sarebbe corsa verso il suo uomo abbracciandolo e baciandolo, mentre lodava Dio che l’aveva preservato dalla morte.
Avrebbe ascoltato impaziente rannicchiata fra le braccia il racconto dell’ultima avventura, che narrava di morte e di orrori, di oro ed argenti, di vascelli spagnoli sventrati e bruciati.
Poi non sazia avrebbe chiesto di raccontare gli altri assalti, le battaglie con gli spagnoli, i saccheggi e le canzoni corsare.
Così tutta la notte prima di giacere con lui nel letto sottratto al Viceré delle Antille per godere della passione e dell’amore del pirata.
Il sole calava rosso ed infuocato sull’oceano, quando si svegliò dal sogno che l’aveva cullato fra le braccia, mentre si ritrovava sola sulla sedia di vimini.
E pianse la sua solitudine.

1Left è il participio passato di to leave ovvero lasciato, abbandonato. Piccolo gioco di parole.

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