Deborah rimase a bocca aperta per la sorpresa. Ricordava perfettamente sia la vecchia signora, che il contenuto del banco. Aveva toccato molti oggetti, osservandoli alla luce fioca di una lucerna a olio. Diversamente dagli altri, questo non era illuminato dalla luce elettrica. Era un dettaglio che non aveva notato prima ma adesso le sembrava singolare.
Alex vide l’espressione basita della ragazza e cominciò a cambiare opinione. “Forse mi sono fatto un’opinione frettolosa su di lei” rifletté, guardando lo spazio vuoto alle spalle di Deborah. Si domandò il perché lì ci fosse un buco non occupato da nessuno. Aveva assistito poco prima a un litigio violento per utilizzare una postazione più favorevole e quella lo era veramente.
Deborah si guardò intorno alla ricerca del tavolino della cartomante ma anche questo sembrava essersi volatilizzato. A questo punto avvertiva una gran confusione e un senso di smarrimento.
“Stavo girando tra le bancarelle, quando ho notato questo teschio. Sembrava che mi chiamasse. Poi un vecchio ubriacone ha voluto darmi a tutti i costi questo oggetto ai miei piedi, mentre una cartomante mi leggeva i tarocchi. Lo so, che ti sei fatto un’opinione non positiva di me ma questa è la verità”.
Alex le strinse le mani.
“Ti credo, ti credo” le disse, fissandola negli occhi. “In effetti è strano che questa postazione sia rimasta vuota. Però è ugualmente singolare che non l’abbia notato durante il mio giro. Ci sono passato due volte e non l’ho mai visto occupato da nessuno”.
Deborah controllò nel portafoglio e vide che mancavano proprio cinquanta euro.
“Dunque non ho solo pensato di aver pagato questa somma”.
Osservò nuovamente la borsa e rintracciò una ricevuta.
‘Ricevo per la vendita di un teschio di cristallo la somma di 50 euro. In fede’ e uno sgorbio come firma.
“Dunque non mi sono sognata!” esclamò, riacquistando la padronanza delle proprie azioni. Almeno questa era la prova che non aveva perso il senso della vita.
Alex stava per replicare, quando qualcuno reclamò la restituzione della sedia.
“Ecco. La può riprendere” disse in malo modo Deborah, alzandosi.
Il ragazzo si guardò intorno e scorse poco distante una panchina, che in quel momento era completamente libera.
“Ci mettiamo là. Possiamo chiacchierare senza essere disturbati, senza che qualcuno interrompa i nostri discorsi”.
Si sedettero ai margini della fiera di San Giovanni in una zona relativamente fuori dal flusso della folla. Una festa esoterica e pagana che coinvolgeva tutto il paese per diversi giorni. Un lampione semi coperto dalla folta vegetazione di un albero illuminava malamente il posto con una luce giallastra.
Alex le domandò se conosceva la storia della festa di San Giovanni.
“No” e scosse il capo per rafforzare la negazione.
“Devi sapere che in Romagna si racconta che esisteva un folletto, di nome Mazapègul. Non chiedermi cosa vuol dire. Ma aspetta la fine del racconto”.
Alex cominciò a raccontare come questo inafferrabile ometto, tutto rosso, facesse ogni sorta di scherzi alle ragazze, che li accettavano di buon grado oppure si ribellavano. “Quando non accettavano le attenzioni di Mazapègul, allora per loro cominciavano i guai” aggiunse ridendo. Poi narrò come si divertisse coi crini delle cavalle o bevesse il vino delle botti nelle cantine.
“Ma con la festa cosa centra?” domandò Deborah.
Alex si mise a ridire, quasi non si fermava, mentre la ragazza lo osservava indispettita.
“Hai finito?” gli chiese di malumore.
“Sì!”
“Perché la mia domanda ha suscitato tutta questa ilarità?”
“Non lo so ma forse pensando a quel che combina il Mazapègul alla belle ragazze, mi viene da ridire”.
“D’accordo. Sto Mezzapelato” cominciò Deborah, alterandosi nella voce.
“No. Si chiama Mezapègul. Ama le belle ragazze” cominciò Alex.
“E va bene! Quel coso con la berretta rossa” lo interruppe la ragazza.
“Nô sen qui dla bretta rossa” esclamò il ragazzo.
“Cosa?”
“Noi siamo quelli della berretta rossa! Questo era il nostro grido di guerra, quando eravamo bambini per imitare le gesta del nostro beniamino”.
“Possiamo tornare indietro e riprendere il discorso in modo serio?” domandò Deborah, fissandolo negli occhi.
“D’accordo. Parliamo del tuo teschio. Conosci la storia?” le chiese con fare serio.
“No” disse Deborah, scuotendo il capo.
“Veramente non ne hai mai sentito parlare?”
“No. Lo giuro. É la prima volta che ne vedo uno e mi ha attirato come una calamita”.
“Vedi, quando si parla di questi teschi, i misteri sembrano che nascano come funghi.” disse Alex con tono da cospiratore.
“Oh! mio dio, inizio a essere pentita di averlo acquistato. Quasi quasi sto pensando di disfarmene”.
“Ma no, che dici! Basta non farsi suggestionare troppo dai vari racconti. In fondo le storie sono molto intriganti”,
“Mah, forse hai ragione tu! Ormai che ci siamo, racconta” replicò Deborah, sistemandosi bene sulla panchina.
“Pare che il numero esatto di quelli ritrovati siano due o tre”.
“Come? Non c’è nemmeno la certezza di quanti ne esistono?” chiese la ragazza, stringendo al petto il teschio.
“No. Di sicuro ce ne sono due quello del British Museum e quello che custodisce Anna Mitchell-Hedges, la figlia di un esploratore inglese di inizio novecento”.
Sentendo quel nome, Deborah ebbe la percezione di avere già ascoltato quel nome, mentre la mente si spostò in un’altra dimensione.
La notte di San Giovanni – parte quarta
1 gennaio 1924. Era il giorno del suo diciassettesimo compleanno e la giovane Anna, figlia adottiva di Mitchell Hedges, aveva raggiunto il padre nella foresta pluviale del Belize qualche giorno prima di Natale. La madre non avrebbe voluto che si recasse là ma il padre fu irremovibile.
“Sarà un compleanno splendido e intrigante per Anna, che ricorderà per tutta la vita” le disse sicuro per convincerla.
Lei era al settimo cielo per la gioia e per lo spirito di avventura che aleggiava intorno alla spedizione iniziata sei mesi prima. Era un modo inconsueto per festeggiare l’anno nuovo e i suoi diciassette anni. Adorava quei genitori adottivi che l’avevano strappata al grigiore di un orfanotrofio. Però era il padre per il quale stravedeva e che avrebbe seguito anche all’inferno.
Si aggirò con lui tra le rovine della città perduta di Lubaantun, parola Maya che significa ‘città delle pietre cadute’. Tutto quello che vedeva per lei era una novità e non riusciva ad apprezzare il valore di quegli edifici. Osservò con gli occhi curiosi di una fanciulla, che stava sbocciando, quello che il padre le indicava e le spiegava.
Mike aveva scoperto tra le rovine di un edificio ridotto a un ammasso di pietre un teschio di cristallo. Lo nascose e non comunicò nulla agli altri componenti della spedizione. Voleva che fosse Anna a ritrovarlo il giorno del suo compleanno.
Così il primo giorno del nuovo anno Mike e sua figlia si sfilarono dall’accampamento, ancora in preda alla festa della notte appena passata, per andare da soli nella foresta.
Anna aveva una figura minuta dagli occhi mobili e vivaci. Amava l’avventura e non si spaventava facilmente. Quella mattina seguì il padre, anche se avrebbe voluto dormire ancora.
“Oggi è il tuo diciassettesimo compleanno e lo dobbiamo festeggiare nel migliore dei modi” le disse Mike, mentre sicuro si dirigeva verso un cumulo di rovine, che un tempo era stata una postazione sacra, dove si compivano riti anche cruenti. Gli indigeni, lontani discendenti dei Maya, gli avevano raccontato che sull’altare, che era sopravvissuto allo sfacelo, la notte del plenilunio veniva sacrificata una giovane donna ancora vergine.
Mentre si avvicinavano al posto, il padre le raccontava queste storie crudeli e sanguinarie, accendendo la curiosità della ragazza, per nulla impressionata da questi racconti.
“Guarda” le disse Mike, indicando un punto non troppo distante da loro. “Mi sembra di notare qualcosa che brilla”.
Anna osservò con attenzione nella direzione dell’indicazione. Era un altare maya. Una lastra ricoperta di muschio verde, sostenuta da quattro massi. La vegetazione la nascondeva agli occhi dei meno esperti ma Mike sapeva cogliere cosa si celasse sotto quel rigoglioso fogliame.
“Non vedo nulla che luccica” disse la ragazza, avvicinandosi.
“Osserva meglio” insistette il padre, scostando alcune foglie di felci.
“É vero! C’è qualcosa” esclamò inginocchiandosi. “Sembra… sembra un blocco di cristallo”. Allungò le mani verso l’oggetto che mandava bagliori.
“Fa attenzione! Potrebbe esserci un serpente o uno scorpione velenoso là sotto” l’ammonì Mike. “Usa il bastone per allontanare eventuali sorprese sgradite”.
Anna con cautela, muovendo il bastone, scoprì tra le rovine dell’altare un Teschio di cristallo.
“É magnifico!” Disse dopo averlo ripulito dalla terra e dal verde della vegetazione. “Ha anche una mandibola mobile!”
Notò che brillava in modo sinistro.
“Cosa ne facciamo?”
“Le regole della spedizione sono semplici. Tutto quello che viene ritrovata va documentato e consegnato a Lady Richardson-Brown, che è la finanziatrice. Ma vogliamo rispettarle oppure?”
“No. Questo teschio è troppo bello perché finisca come bottino nelle borse capienti di Milady”.
“Allora cosa facciamo?” gli domandò Anna.
Su questa domanda Deborah riprese i sensi. Si sentiva girare la testa e aveva il respiro affannato. La vista era ancora annebbiata. Percepiva delle mani sconosciute che le cingevano le spalle. Le immagini che fino a quel momento erano nitide nella sua mente, adesso sfumavano e diventavano indistinte fino a scomparire nel nulla. La testa pareva svuotata come le energie che la sostenevano.
“Venga, si sieda un momento” disse l’uomo con tono gentile e premuroso.
Si appoggiò a lui come se fosse un sostegno al quale doveva aggrapparsi. Non riusciva a comprendere dove si trovasse. “Sono… oppure è solo un sogno?” si disse, senza trovare una risposta sicura.
Avvertì sotto di sé una sedia che era comparsa come per magia. Non comprendeva come fosse finita lì. Era un particolare che non le interessava. Adesso doveva avere chiara la nozione del tempo e dello spazio. Doveva conoscere in quale località si trovava. Pareva aver smarrito la memoria.
“Dove sono?” chiese titubante, cercando di calmare il respiro affannoso. Si guardò intorno senza riconoscere né luogo né persone. Le pareva vivere un incubo, mentre la risposta non arrivava.
“Va meglio?”
“Sì,” rispose stordita “credo di sì”.
Però la domanda continuava a pulsare nella mente. “Perché non mi ha risposto? Perché non mi dice dove siamo? É forse un luogo segreto oppure?”
Reputò inutile riformulare la domanda, anche se non riusciva a delimitare il sogno dalla realtà.
Da qualche parte era comparso un bicchiere d’acqua fresca che l’aiutò a riaversi del tutto. La sensazione di vuoto si andava riempendo di suoni e di voci, di volti e di immagini. Intorno a lei s’era formato un piccolo assembramento di persone, tra le quali scorse il viso di Gina. “Dunque anche loro hanno assistito alla mia perdita di coscienza. Chissà cosa hanno pensato”.
Trascorsi pochi istanti rimase sola con un uomo che non conosceva. Gli altri erano sciamati nuovamente verso le bancarelle. La festa continuava e quello svenimento era stato un diversivo nella serata. La memoria riacquistava la percezione dove era e con essa stava sparendo la sensazione di angoscia che le aveva offuscato la mente.
Il primo pensiero di Deborah fu per il teschio. Temendo si fosse rovinato nel trambusto, aprii il sacchetto e la confezione di fortuna: sembrava intatto. Tirò un sospiro di sollievo. Ai suoi piedi vide l’oggetto che il vecchio ubriacone a tutti i costi aveva voluto donarle. Non le importava se si fosse rotto o scheggiato, perché le mandava impulsi negativi. Anzi imputò la sua presenza come la causa della sua perdita di conoscenza.
“Oggetto singolare” valutò il salvatore, mentre sbirciava nella borsa. Tutti i pensieri della ragazza erano rivolti al teschio tanto che si era scordata di lui.
Lo fissò, tentando di mettere a fuoco l’immagine. Il buio non favoriva di certo la visione, che appariva sfocata. Per la prima volta l’osservò con attenzione con tutte le cautele del caso. Occhi scuri, pelle olivastra, non si notavano con nitidezza, mentre il fisico asciutto era facilmente riconoscibile. “Però! Niente male! Che ci fa una persona del genere in questo buco di paese?” si disse, mentre sorseggiava l’acqua.
“Sì, molto” rispose Deborah, mentre si asciugava le labbra con un fazzoletto. “La signora che me l’ha venduto sostiene sia di origini Maya”.
“Addirittura? E lei ci crede?”
“Per la verità, no!” rispose ridendo. Fece una piccola pausa prima di riprendere a parlare.
“Certo, se fosse vero, sarebbero i cinquanta euro meglio spesi della mia vita”.
Un sorriso le illuminò il volto. L’uomo la guardò tra lo stupito e l’incredulo. Un’aria di commiserazione si stampò sulle sue labbra. Si domandò chi venderebbe per così poco un oggetto prezioso e antico. Assunse l’atteggiamento di chi finge di credere alle panzane. Di nuovo si pose la domanda se la ragazza fosse sana di mente o un’abile commediante.
Deborah non si accorse dello sguardo di compatimento che lui aveva sul viso, rimasto nell’ombra.
“Che sciocca! Non l’ho nemmeno ringraziata per l’aiuto! Senza di lei sarei caduta per terra come un sacco di patate”.
Lui sorrise, mentre diceva “Si figuri! L’ho vista in difficoltà e senza pensarci troppo sono intervenuto. L’importante è che lei si sia ripresa”.
“Che ne direbbe di darci del tu? Deborah” e allungò la mano verso di lui, mentre con la sinistra continuava a reggere il pesante souvenir.
“Alex” rispose in modo sbrigativo, stringendola.
“Posso farti una domanda?”
“Dimmi”
“L’oggetto dove l’hai trovato? É un teschio, mi pare. Non ho visto niente del genere sulle bancarelle. Eppure le ho visitate tutte”.
“Proprio dietro di me c’è un banchetto con oggetti etnici”. Si voltò e si accorse che non c’era più.
La notte di San Giovanni – parte terza
Cominciò a girare tra le bancarelle, dove erano esposti oggetti e cianfrusaglie. Per il momento aveva visto solo chincaglieria inutile, mobili usati spacciati per antiquariato e quadri dai soggetti noiosi come il paese in cui si trovava. Non sapeva nemmeno che esistesse un posto come questo. Per lei era una novità, che per il momento non la stava entusiasmando. Immersa nei suoi pensieri, Deborah si dimenticò di Gina, di Raul e del perché era capitata lì.
“Tra tutti i posti del mondo dovevano scegliere proprio questa località per la loro scappatella?” A quanto le sembrava questa era la risposta. Alzò le spalle e si osservò intorno. Gente chiassosa e un po’ volgare, buio e tanti lumini che pareva essere al cimitero. Eppure doveva essere una festa allegra, almeno questo era quanto aveva ascoltato da Raul, che aveva magnificato la serata.
“Visto che sono qui, tanto vale fare un giro. Sarà una sera diversa dalla monotonia di quelle precedenti. Potrò raccontare qualcosa di interessante al mio ritorno”.
Notò che le persone intorno a lei sembravano divertirsi tantissimo, almeno a giudicare dall’entusiasmo con cui affollavano le bancarelle. Si domandò cosa potessero scorgere su quei banchi debolmente illuminati.
All’improvviso un luccichio attrasse la sua attenzione: veniva da un teschio di cristallo in vendita insieme ad altri prodotti etnici e artigianali. Deborah si sentì inspiegabilmente attratta dall’oggetto e lo sollevò per osservarlo meglio: non era molto ingombrante, anzi sembrava di dimensioni modeste. Quello che più la stupì, fu di trovarlo così pesante.
“Bello, vero?” La voce la fece sussultare. A parlare era stata un’anziana signora, che Deborah pensò che fosse la proprietaria del banchetto.
“Sì” rispose, deponendo il teschio immediatamente.
“Viene dall’America centrale. Deve sapere che i Maya utilizzavano oggetti come questo per i loro riti. Sembra che siano dotati di grandi poteri”.
“Interessante” rispose meccanicamente Deborah, mentre la sua attenzione era tutta rivolta per l’oggetto, che continuava a mandare bagliori, nonostante il posto fosse alquanto buio.
“I Maya?” chiese curiosa.
“Perché dubita?”
Deborah entrò nel pallone, diventando più rossa della splendida luna piena che stava sorgendo dalla collina davanti.
“Non dubito delle sue parole” aggiunse sottovoce come per chiedere umilmente perdono. “Mi era parso strano che appartenesse ai Maya”.
Un sorriso compiaciuto comparve sul viso dell’anziana antiquaria, almeno questa era l’impressione della ragazza. L’oscurità di certo non favoriva la visione.
“Lei mi è simpatica. Per cinquanta euro glielo vendo”.
“Affare fatto” replicò immediatamente Deborah senza pensarci un attimo. Aprì la borsa e prese dal portafoglio una banconota da cinquanta. Non voleva che la donna cambiasse opinione e non glielo cedesse più. Quell’oggetto la stava attraendo troppo per lasciarlo lì sul banco.
“Glielo incarto. Ma faccia attenzione”.
“Sì. Vedo che è delicato. La tratterò con molta cura” le rispose, mentre si allontanava dal banchetto.
Deborah con suo fragile acquisto stretto al petto passò a quello accanto, che vendeva solo paccottiglia di infimo ordine.
L’oggetto che stringeva sembrava vivo, pulsava come un essere vivente. Aveva strane sensazioni, che non riusciva a catalogare. Continuava a muoversi da un posto all’altro ma desiderava tornare alla macchina e all’albergo. Era immersa in questi pensieri, quando udì una voce impastata dall’alcol.
“Bella signora! Fermati. Ho quello che ti serve”.
Un uomo trasandato e in apparenza vecchio stava attirando la sua attenzione. Lo guardò esterrefatta, domandandosi in base a quali considerazioni faceva quelle affermazioni. L’atmosfera intorno pareva mutata, senza che lei ne percepisse i contorni.
“Vedi questo candelabro?” le disse, indicando un oggetto che aveva le fattezze di tutto, fuorché di essere un candelabro. “Ti serve per usarlo con la testa di cristallo”.
Stava per rispondere, quando una donna che leggeva i tarocchi la chiamò: “Si sieda davanti a me. Le leggerò il futuro”.
Non riusciva più a raccapezzarsi. Un vecchio le voleva vendere un qualcosa che secondo lui era un candelabro, una donna le voleva fare le carte per predirle il futuro. Si domandò dove fosse capitata. Era vero che Raul aveva accennato a magie, ad atmosfere magiche, a un ambiente fuori del normale ma quello che stava intorno a lei superava la più fervida immaginazione.
Rifletté, chiedendosi come poteva quel vecchio, che puzzava di sporco e di vino scadente, sapere che lei aveva acquistato un teschio di cristallo. “Mi aveva forse seguita mentre giravo tra i banchi? Oppure mi aveva visto, mentre lo compravo?” Si sentiva come presa tra due fuochi: ascoltare il vecchio o la cartomante.
“Non voglio molto. Solo il prezzo di una bottiglia di vino”.
Si sedette di fronte alla donna, che cominciò a mescolare le carte, mentre prese un biglietto da venti euro da dare all’uomo. Era decisa a non accettare quell’oggetto, che le mandava segnali poco incoraggianti.
“Tenga” gli disse allungando la banconota.
“Grazie. É troppo” rispose mettendole in grembo quello strano aggeggio.
Deborah cercò di ridarglielo ma era era sparito, come se fosse un fantasma.
Si sentiva inquieta e non udiva quello che la cartomante le diceva.
“Non si distragga” udì Deborah ma la sua mente era altrove.
“Vedo difficoltà a breve, nell’immediato ma saranno superate con un aiuto insperato”.
La donna continuava a snocciolare le sue parole senza che Deborah le assimilasse. Lei stava riflettendo sugli ultimi avvenimenti e trovava tutto singolare. Perché era stata affascinata da quel teschio, mentre non provava la medesima attrazione per l’altro oggetto. Erano le domande che si poneva.
“Entro sei mesi troverà l’amore della sua vita. Un uomo alto e biondo, che saprà conquistare il suo cuore” concluse la cartomante.
Deborah sorrise. Aveva già incontrato l’uomo che aveva un posto nel suo futuro. Quindi cosa stava cianciando questa donna sul suo incontro con qualcuno di cui si sarebbe innamorata.
La ragazza la guardò stranita per le ultime parole e stava per replicare nervosa, quando fu prevenuta.
“Non voglio nulla”.
“Perché?” chiese sorpresa.
“Ogni dieci giri di carte, uno è gratis. É toccato a lei! É la sua sera fortunata!” affermò, invitandola con una mano ad andarsene.
Deborah si alzò barcollante e comprese chi stava alle sue spalle. “Sono Raul e Gina. Li riconoscerei anche al buio. Le loro voci sono inconfondibili”.
Li osservò nella penombra della piazza. Non davano uno bello spettacolo soprattutto lei, che aveva un figlio e forse un marito.
Tuttavia nella confusione della festa nessuno ci faceva caso. Scosse il capo e tentò di comprendere, dove si trovava e quanto distava dalla macchina. Aveva smarrito il senso dell’orientamento.
“L’auto dove l’ho parcheggiata?” si domandò smarrita.
Doveva ritrovare quel locale, del quale aveva dimenticato il nome. C’era un chiosco di piadine nelle vicinanze ma ne aveva incontrati molti altri. Un senso di panico la prese per la gola e si sentii sopraffatta dalle voci dei venditori e delle persone, mentre la testa cominciò a girare. Avrebbe voluto urlare per scacciare quella sensazione ma il frastuono era troppo intollerabile, perché qualcuno potesse raccogliere la sua invocazione di aiuto.
Posò il candelabro per terra ai suoi piedi e strinse più forte il pacchetto col teschio. Cominciò a vedere ruotare vorticosamente il mondo intorno a lei. Non emise un grido e, se non fosse stato per un uomo che ebbe la prontezza di sostenerla, sarebbe sicuramente crollata a terra come un sacco di patate.
Per un attimo sugli occhi di Deborah calò il buio e per lunghi istanti non ricordò dov’era.
Si sentì trasportata in un altro mondo lontano nel tempo e nello spazio e si trovò immersa in una vegetazione rigogliosa del tutto sconosciuta. Non era la protagonista della scena ma una semplice osservatrice.
Le persone vestivano in modo buffo e c’erano rovine tutto intorno.
La notte di San Giovanni – parte seconda
24 giugno del 2012. Deborah stava in spiaggia a Cattolica, stesa al sole. Intorno unicamente bambini urlanti e madri che fingevano di osservarli, mentre in realtà erano attente solo alle chiacchiere della vicina e all’avvistamento di qualche bel giovanotto da rimorchiare con discrezione.
La ragazza si rosolava davanti e dietro con invidiabile costanza ma avrebbe voluto avere un paio di tappi nelle orecchie per isolarsi dal quel vociare convulso. In altre condizioni avrebbe schiacciato un pisolino dopo la notte passata tra sogni e incubi dei quali aveva perso le visioni. Sbirciò l’ora dal grande orologio digitale del bagno. Segnava solo le undici.
“Uffa ancora un’oretta buona prima del rientro in albergo” si disse, sbuffando. Stava maturando l’idea di alzarsi e andarsene, quando udì con la tipica cadenza romagnola una voce maschile, che invitava la bella signora, vicina di ombrellone, per la sera.
Si girò di quel minimo per intravedere un giovane ragazzo abbronzato che, seduto tra lei e la donna, prospettava una serata diversa dal solito. Nessuno dei due notò la ragazza, che ascoltava interessata i loro discorsi.
“Vada a vedere il mercatino di San Giovanni! E’ davvero bello, ci sono tante bancarelle, tante cose interessanti” le diceva.
“Ma Giuseppe dove lo parcheggio?” gli rispose con tono di chi era più attratto di passare la sera tra le bancarelle che restarsene chiusa in albergo.
“Non si preoccupi” replicò il ragazzo. “Lo affidiamo a Monica…”.
“E chi sarebbe?” domandò ancor più invogliata dalla possibilità di essere libera dalle responsabilità di custodire il figlio.
“E’ mia sorella. D’estate fa la baby sitter per le villeggianti. Lo farà giocare e poi lo metterà a letto…”.
“A letto? Dove? In albergo?”
Una franca risata interruppe la sequenza di domande della donna.
“No, no! Abbiamo molte stanze nella nostra casa. Dormirà in una di quelle” disse il ragazzo.
Deborah si avvicinò alla coppia per meglio origliare il loro dialogo. Si chiese perché continuava ad ascoltarli. “Forse un qualcosa che rompe la monotonia di questa vacanza noiosa”
“Ma il pigiamino…” domandò timidamente la donna.
“Lo mette nello zainetto insieme a qualche ricambio. Non si sa mai”.
“Uhm! Interessante ma Giuseppe è un po’ diffidente con le persone che non conosce” riprese la signora, che aveva perso l’entusiasmo iniziale. “Potrebbe mettersi a piangere e cercarmi…”.
“Lei non conosce Monica…”
“In effetti non la conosco”.
“Mia sorella ha diciassette anni ma è bravissima coi bambini. Dopo cinque minuti l’adorano. Sa raccontare storie che lasciano di stucco anche noi adulti. É paziente e dolce. Si fidi” concluse il ragazzo.
“Ci penserò… ma dove dovremmo recarci stasera?” chiese la donna.
“Alla fiera di San Giovanni. É una serata magica e si divertirà. Glielo garantisco”.
La signora rimase in silenzio a meditare.
“Come ti chiami? Posso darti del tu, vero?” domandò guardandolo negli occhi.
“Raul come quello che canta ‘Romagna mia’” rispose col sorriso sulle labbra.
“Bene, Raul. Io sono Gina”.
“Che bel nome, Gina”.
La donna, già rossa di per sé, avvampò di calore. Quel complimento non glielo aveva fatto nessuno prima di questo momento, nemmeno Alberto, il compagno.
“Ma in albergo” proseguì timidamente.
“Nessun problema. Si veste ed esce. La vedranno al rientro” rispose pronto, mentre le sfiorò un braccio.
Deborah sorrise ma ascoltava con interesse tutto quello che si dicevano. L’appuntamento era alle diciotto. La località non era stata detta ma non importava. Li avrebbe seguiti con discrezione.
“Bene, bene! Una sera diversa dalla solita passeggiata per il lungomare Rasi Spinelli e con l’immancabile sosta alla gelateria Pimpi” sogghignò soddisfatta.
Cominciò a pensare cosa mettersi per questa serata decisamente inconsueta, che veniva a movimentare una vacanza che si stava consumando senza grandi divertimenti.
Deborah aveva venticinque anni. Alta più della media delle coetanee, giocava a pallacanestro nel ruolo di guardia con discreto successo. Quest’anno il campionato si era chiuso piuttosto tardi, qualche settimana prima per via della partecipazione alla fase finale dei playoff, terminati con la promozione. Una stagione lunga, snervante e importante per lei e la sua squadra. Adesso aveva la necessità di ricaricare le pile e scaricare la tensione, accumulata in otto mesi intensi e combattuti. Due settimane al mare per disintossicarsi, poi un lungo viaggio in luglio con Simone, il suo ragazzo, prima di riprendere gli allenamenti in agosto. L’attendevano mesi faticosi e stressanti per svariati motivi: avrebbe partecipato al campionato di èlite per la prima volta e avrebbe rappresentato la svolta decisiva per la sua carriera. Doveva trovarsi alla ripresa degli impegni agonistici concentrata psicologicamente e fisicamente in forma. Per questo aveva scelto questa vacanza solitaria e poco stimolante.
“Se riesco ad avere un buon minutaggio con discreti risultati, allora so di poter rimanere ai vertici. Altrimenti dovrò eseguire una scelta: o proseguire nei campionati minori oppure appendere la scarpette al chiodo” si era detta mentre preparava la valigia per il mare.
Questo era il pensiero che l’aveva tenuta in ansia e non l’aveva abbandonata neppure a Cattolica. Il coach le aveva garantito che sarebbe stata con loro nella nuova avventura della massima serie. Tuttavia l’idea di non riuscire a sfondare era sempre in sottofondo.
Questi dubbi furono relegati in un angolo, mentre ascoltava Gina e Raul a progettare l’incontro serale. “Chissà come finirà!” ragionò sorridente. La risposta la conosceva già, mentre un pizzico d’invidia fece capolino nella sua mente. “Non essere impertinente! Sei venuta per rilassarti e non a inseguire improbabili avventure amorose”.
La serata si preannunciava calda. Deborah scelse un abbigliamento leggero. Un paio di jeans bianchi e una camicetta di lino azzurra. Ai piedi al posto delle infradito avrebbe messo un paio di espadrillas di Chanel, comode ed eleganti al tempo stesso.
L’appuntamento era nel parcheggio del bagno 42 quasi di fronte al Piazzale Primo Maggio. La ragazza lo raggiunse qualche minuto prima delle diciotto. Vide arrivare Gina, che salì su un’auto sportiva, immaginando che al volante ci fosse Raul. C’era con loro un’altra coppia. La donna indossava un abitino corto, leggero e trasparente, che mostrava slip e reggiseno. Una capiente borsa bianca completava il tutto. Li seguì a debita distanza, cercando di non farsi seminare. Presero una strada che non conosceva e che saliva verso le colline alle spalle di Cattolica.
Lesse all’inizio di un gruppo di case un cartello ‘San Giovanni in Marignano’.
“Che posto è?” si domandò, dopo essere entrata nel paese.
C’era molta confusione e caos per le strade. Nonostante tutto riuscì a vedere che erano entrati in un parcheggio di un locale. Sistemata l’auto alla belle e meglio, si diresse a piedi verso il posto. Il nome era invitante ma non le sembrò nulla di eccezionale.
“Che faccio? Entro anch’io o li attenderò fuori?” si domandò, osservando intorno. Vide un chiosco di piadina. “Ecco dove aspetterò Gina”.
Ordinata una piadina con mozzarella e rucola e una birra, si sistemò su uno sgabello. Il tavolo era una botte. Mentre era in attesa che le portassero l’ordinazione, cominciò a ragionare per quale motivazione si era messa sulle tracce di questa donna.
“Curiosità? Oppure più banalmente per movimentare queste vacanze per nulla stimolanti?” Non lo sapeva ma adesso era qui e doveva attendere l’uscita delle due coppie per conoscere quali sarebbero state le loro prossime mosse. Non intendeva riprendere la strada verso il mare, perché la stimolava l’idea di fare l’investigatrice per una volta. La piadina era eccellente e ne ordinò una seconda, perché era consapevole che l’attesa poteva durare a lungo.
Le ombre della sera avvolgevano il paese e le luci della festa si accendevano. Notò che era aumentato il flusso delle persone. Riconobbe qualche viso noto, che aveva visto in spiaggia. Forse era questa la meta finale della coppia. Non riusciva a immaginare quale fosse lo scopo della festa. Si festeggiava San Giovanni ma non sapeva come. Era già buio, quando li notò uscire dal locale. Emise un sospiro di sollievo, perché avevano lasciato la macchina nel parcheggio. Dunque si sarebbero fermati qui.
“Finalmente” si disse, perché aveva dovuto allontanare diversi ragazzi che tentavano di abbordarla. Aveva consumato tre piadine e tre birre e si sentiva piena e leggermente euforica.
Li seguì in mezzo a una fiumana di gente e si ritrovò tra bancarelle e banchetti. La confusione era notevole. Gina e Raul sparirono dalla sua visuale.
Si immerse nel flusso della festa.
La notte di San Giovanni – parte prima
24 giugno 1923 a Lubaantum nel Belize, che a quei tempi era la colonia inglese dell’Honduras britannico, il sole illuminava e abbagliava, come una sfera incandescente, la natura selvaggia dell’America Centrale, mentre degli inglesi procedevano a fatica nella foresta pluviale, aprendosi il camino con l’aiuto degli indigeni. Da mesi percorrevano strade che adesso erano appena riconoscibili, si imbattevano in ruderi ricoperti dalla vegetazione, sfidavano i pericoli che si annidavano a ogni passo. Ognuno di loro aveva mire differenti.
L’esploratore inglese Albert Mitchell Hedges si aggirava inquieto nella foresta del Belize, dove un tempo era fiorita l’antica civiltà Maya. Era alla ricerca di qualcosa che per lui era di vitale importanza.
Aveva avuto modo di leggere dei codici antichi che a prima vista sembravano solo trattati religiosi, che descrivevano un lungo percorso di storia. Non era la prima volta che si imbatteva in queste teorie, perché nel 1913 era stato al seguito di Pancho Villa durante la rivoluzione messicana e aveva ascoltato dei racconti che sapevano di inverosimile. Li aveva annotati su un diario a memoria futura. Parlavano della fine del mondo al termine dell’età dell’oro, di tredici teschi di cristallo che i sacerdoti avevano disperso ai quattro angoli del mondo
“Quattro angoli del mondo?” aveva chiesto a vecchio sciamano privo di denti, col quale stava parlando.
“Sì” aveva risposto, elencando quattro luoghi che conosceva già: Messico, Yucatan, Belize e Guatemala.
Aveva fatto una bella risata ma aveva continuato ad ascoltarlo con attenzione.
“Ecco” disse inalando una pozione magica. “Questa è la profezia dei tredici teschi”.
Mitchell Hedges, che tutti chiamavano familiarmente ‘Mike’, si fece più attento.
“Cosa dice?” domandò, trattenendo a stento la curiosità.
“‘Quando i tredici teschi di cristallo saranno ritrovati e riuniti, inizierà un nuovo ciclo per il genere umano, un ciclo di grande conoscenza ed elevazione’” rispose gravemente.
“Ma dove li posso trovare?” domandò tra l’incredulo e il curioso.
Lo sciamano si stringe nelle spalle e chiuse gli occhi. Aveva finito di parlare. L’esploratore inglese, che allora era una spia al soldo di Sua Maestà, Giorgio V, si alzò e se ne andò. Però l’idea di recuperare i tredici teschi continuava a ronzargli nella testa. Rientrato a Londra l’anno successivo, aveva scoperto che al British Museum ne era esposto uno da diversi anni in una sala appartata. Era diventata per lui una specie di ossessione e finalmente nel 1923 con la benedizione del museo aveva potuto dare corpo al suo desiderio di partire alla ricerca degli altri dodici.
Lui con Lord Gann e Lady Richardson-Brown, sua compagna e finanziatrice, partì per il Belize per una serie di scavi a Lubaantum, la città maya delle pietre perdute, scoperta anni prima dallo stesso organizzatore.
Inquieto e poco attento a togliere il velo da questa città, abbandonata ormai da mille e duecento anni, si aggirava nella giungla spesso da solo, qualche volta accompagnato da una guida indigena. Aveva ascoltato con molto interesse nelle bettole di Belize i racconti degli antichi discendenti maya, che narravano di grotte piene di oro e gemme, di un mitico teschio di cristallo dai poteri mirabolanti. Molti ritenevano quelle narrazioni il frutto della fantasia di quegli uomini, che erano scomparsi misteriosamente come le loro città.
“>No” era solito dire Mike a chi dubitava di quei racconti. “Sono storie vere. Le ho ascoltate anche nel Messico, qualche anno fa. Quando ci sarà il nuovo re degli indiani, il sacerdote lo condurrà in una città segreta sotto la terra e lì avrà a disposizione immense quantità di oro e l’uso di un teschio di cristallo”.
I suoi ascoltatori ridevano e si burlavano di lui. Tuttavia le tradizioni orali dei vecchi discendenti dei Maya lo attiravano e in particolare quella sui poteri dei teschi di cristallo.
‘Il teschio è un simbolo molto potente. É il simulacro di ciò che è stato e di ciò che è, di ciò che sarà, della vita che ha contenuto e della morte che rappresenta‘ erano le parole che aveva ascoltato più volte.
Mike sapeva che era un simbolismo antico, nel quale si era imbattuto più volte. Ogni cultura gli attribuiva una valenza. Per i maya, aveva appreso, rappresentavano un ciclo di baktun del lungo computo e la scelta del numero non era causale: tredici erano i cicli per arrivare al 12 dicembre del 2012, quando tutto sarebbe terminato per originare un nuovo ordinamento. Ma Mike sapeva che la leggenda maya ci avvertiva in maniera drammatica: il nuovo ciclo avrà inizio soltanto quando gli uomini saranno ‘sufficientemente evoluti e integri moralmente‘. Allora, ricordava di aver ascoltato dal vecchio sciamano, saremmo pronti a ricevere la formula per salvarci. Una formula potente, che sarebbe contenuta proprio nei tredici teschi. Questi dovevano essere riuniti in un solo posto alla presenza del re degli indiani e del sommo sacerdote.
Mike era rimasto stregato da queste parole, perché indicava che l’umanità doveva essere ancora una volta chiamata a compiere un salto di qualità ed elevarsi moralmente.
Era conscio di essere una contraddizione, perché di certo la sua vita non era stata irreprensibile, anzi molti suoi atti andavano nel verso opposto. Il passato non lo preoccupava, adesso era teso a rintracciare quel teschio, che alcuni indigeni avevano detto di aver osservato tra le rovine di Labuuntum. Aveva tentato in tutti modi di ottenere la localizzazione esatta senza successo. I suoi compagni non capivano perché si aggirasse freneticamente tra quelle rovine senza rispettare i protocolli della spedizione, che avevano stabilito prima di partire. I reperti trovati diventavano di proprietà della finanziatrice, Lady Richardson-Brown. Ogni ritrovamento doveva essere documentato. Ogni ricerca doveva essere condotta in coppia.
Però Mike agiva sempre da solo e questo era costante motivo d’attrito col resto del gruppo.
Deborah si svegliò madida di sudore con negli occhi quella visione che non riusciva a collocare né temporalmente né geograficamente.
“É stato un brutto sogno” si disse, tentando di riaddormentarsi.
Il sonno era stato interrotto brutalmente da quella visione, della quale non ricordava nulla a parte un uomo longilineo e ossuto, che parlava una lingua straniera.
“Oggi è il giorno di San Giovanni” ripeté con la voce impastata. “ora prova a riaddormentarti. E’ ancora notte”.
Si girò e il sonno riprese vuoto e senza sogni.