Capitolo 16

La nevicata durò intensa per una settimana con la coltre nevosa che aveva assunto una bella consistenza con grossi cumuli complice il vento, che aveva spirato forte e gagliardo.
Ferrara era paralizzata, le strade impraticabili, per non parlare del contado sepolto e inghiottito sotto il manto bianco. Tutti erano costretti a restare al chiuso delle abitazioni. I negozi e le botteghe erano sbarrati sia per la neve sia perché nessuno azzardava mettere il naso fuori dalla porta. Le derrate alimentari ferme, i commerci sospesi Sembrava una città di fantasmi, se non fosse per il fumo che usciva dai comignoli.
Alfonso osservava dalle finestre incrostate di ghiaccio del suo appartamento sulla via coperta la desolazione della piazza e del giardino abitato solo da qualche raro passero alla ricerca di un improbabile cibo. Tutte le attività amministrative e politiche erano ferme, i lavori nello studio ducale interrotti., perché i pittori non potevano raggiungere il Castello Il ricordo di Laura si era sbiadito e quasi dissolto, perché nuove preoccupazioni, complice la forzata reclusione nelle sue stanze, avevano avuto il sopravvento. Le casse ducali erano vuote o quasi, nessuna novità arrivava da Roma circa i possedimenti modenesi.
“Il  tempo non aiuta ma l’attesa logora” rifletteva seduto accanto al camino acceso.  Il tempo sembrava avesse smesso di scorrere, si fosse fermato.
Il Duca, uomo d’azione, sembrava un leone in gabbia, perché costretto all’inazione. Anche le settimane future non promettevano nulla di buono. Alla neve si sarebbe sostituito il ghiaccio mentre sarebbe assai difficoltoso e pericoloso avventurarsi fuori dal Castello.
Si alzò, guardò nuovamente fuori, mentre un sole invernale illuminava lo scorcio di città visibile. Lo spettacolo era bello ma lo stato d’animo non gli consentiva di apprezzarlo. Lo riteneva, come era in realtà, un ostacolo, un impedimento al suo desiderio di muoversi, agire, decidere.
Aveva mille pensieri ma nessuno realizzabile, perché la neve aveva bloccato tutto. Erano giorni che non riceveva un consigliere o discuteva di un atto di giustizia. Era talmente furioso per essere costretto all’inedia, che si era dimenticato anche di avere una moglie e dei figli.
“Madonna Lucrezia starà bene? L’ultima visita risale a circa una settimana fa, prima della nevicata. E il piccolo Ercole? Con tutto il tempo che avevo non l’ho mai cercato e mi sono interessato a lui”.
Stava decidendo di andare nell’appartamento della Duchessa, quando udì bussare con discrezione alla porta del salotto ducale.
“Avanti!” tuonò indispettito.
Il maestro di casa si affacciò sull’uscio e disse che Messere Matteo Caselli chiedeva di essere ricevuto.
“Che entri” borbottò mentre si domandava quale problema urgente lo reclamava per affrontare le strade innevate.
“Mio Signore” iniziò ossequioso il consigliere di Giustizia. “Vengo per sottoporvi questa bozza da far approvare al prossimo Consiglio dei Savi”.
Il Duca lo guardò come si poteva osservare un oggetto strano, mai visto prima. Si era scomodato e aveva affrontato i problemi e i disagi del tragitto da casa al Castello per un editto, la cui urgenza non pareva assoluta, perché non ricordava di quale soggetto si trattava.
“Di grazia, quale bozza? Qual è l’argomento?” domandò curioso.
Matteo Caselli si avvicinò con un rotolo in mano, che aprì sul tavolo del salotto ducale, prima di consegnarlo a Alfonso.
“Vedete, mio Duca. Tempo fa mi avete richiesto un documento dove venivano messe in chiaro le disposizioni in caso d’incendio”.
“Ma non me l’aveva sottoposto messere Rinaldo Costabili? All’incirca una settimana fa?”
“Sì, illustrissimo Duca. Quello era una bozza informale, questa, salvo obiezioni da parte vostra, ha una veste definitiva” replicò pacato l’uomo.
Alfonso prese il documento e stupito cominciò a leggerlo.
 
In caso di incendio i pompieri, dovendosi recare immantinente sul luogo, recano con sé fabbri ferrai, legnaioli e muratori. Il massaro della contrada si deve preoccupare dell’apertura senza indugi dei negozi di droghieri, cerchiari e mastellari.

Il primo gennaio di ogni anno, a partire dal 1518, i massari di contrada devono nominare dei soggetti, a loro cognito per onestà, che al suono delle campane debbano correre sul luogo dell’incendio senza indugi o tentennamenti, giacché si era veduto nel passato per esperienza che concorrevano i cattivi per rubare anziché per aiutare. I nominati non possono ricusare la chiamata.

Per la contrada di San Romano i nominati sono 20, per Boccacanale 16. Per tutte le altre 10.

Ogni furto sarà punito con la forca. Se questo sarà di lieve entità, sarà cavato un occhio e a tal altro una mano
 
Il Duca finì di leggere la bozza e si appoggiò allo schienale della Savonarola, meditando su quanto c’era scritto.
“Interessante, messer Matteo! Molto interessante. Conciso e chiaro senza troppi fronzoli. Lo capirà anche il più umile stalliere”.
Il consigliere di Giustizia sorrise soddisfatto per la buona accoglienza del suo lavoro ma rimase in silenzio.
“Il prossimo consiglio dei Savi si terrà ai primi del mese di Febbraio e glielo sottoporrò affinché venga ratificata l’ordinanza. Così diventerà legge”.
“Col vostro permesso io mi ritiro e vi lascio la bozza”. Detto questo con un gran inchino lo salutò e si diresse verso l’uscio.
“Ora è giunto il momento di recarmi in visita alla Duchessa” e lasciato sul tavolo il documento si avviò per raggiungere gli appartamenti di Lucrezia.

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Capitolo 15

Giacomo era ancora confuso e allo stesso tempo eccitato per l’avventura notturna della quale non ricordava nulla o solo qualche brandello piuttosto sbiadito. Anche il risveglio era stato sulla falsariga della notte. Quello di cui aveva certezza erano una donna al suo fianco della quale non rammentava il nome, un letto non suo e tanti interrogativi non risolti.
“Chi è?” si domandava al termine dell’eccitante amplesso. “La contessa Giulia o la vedova Ginevra? Oppure quell’altra misteriosa donna che si era unita a loro?”
L’unica evidenza era il tatto. Percepiva forme rotonde e una carne soda, compatta, mentre il resto era avvolto nella nebbia.
Della sera precedente rammentava con chiarezza l’arrivo, l’accoglienza e i sottili giochi, intrecciati a tavola con Giulia e Ginevra, sui comportamenti sessuali degli invitati e nel proseguimento della serata più esplicitamente sui loro.  Poi i fumi delle abbondanti libagioni con quel vino bianco ambrato e apparentemente innocuo, che hanno accompagnato il pantagruelico pranzo, l’hanno fatto scivolare in un limbo indefinito, composto da tanti piccoli scampoli di rara lucidità.
Adesso che la sbornia era passata, lasciando solo un pesante cerchio alla testa, si domandava dov’era. Questa sembrava una domanda ricorrente, che lo ossessionava dal giorno precedente, senza che riuscisse a dare una risposta coerente al suo stato. Quello che non comprendeva era se fosse il frutto di un incubo più o meno felice oppure fosse una realtà alquanto romanzata.
“L’unica certezza è che sono in una camera del tutto sconosciuta insieme a una donna della quale posso percepire i contorni senza conoscerne il volto. Invero assai poco per potermi destreggiare senza rischiare di smascherare le mie mancanze”.
La campagna di letto era nuda come lui d’altra parte. Respirava serena dopo aver fatto all’amore, assopita e tranquilla. Presumeva che fosse anche appagata, almeno questo era il suo convincimento. Giacomo allungò le mani esplorando nuovamente il corpo con circospezione. Il seno al tocco gli appariva florido, duro, che immaginò che restasse in posizione anche senza altri sostegni. Fece scivolare discreta e leggera la mano sinistra verso il basso che sentì sodo e compatto. Questi movimenti lo eccitarono nuovamente, mentre la donna mugolava come se provasse delle emozioni di piacere.
Si fermò e attese che desse qualche cenno di risveglio. Doveva essere già mattina inoltrata dal leggero chiarore che filtrava attraverso i pesanti tendaggi davanti alle finestre. Gli occhi cominciarono a intravedere le forme. Un naso regolare e un viso rotondo erano quello che poteva osservare, mentre il resto era nascosto dalla coperta di lana e agnello, sotto la quale erano rintanati per proteggersi dal freddo piuttosto pungente. La donna adesso era sveglia e vigile.
“Messere Giacomo, aveva ragione mia cugina ..” disse stringendosi nuovamente a lui. “Siete un amatore eccezionale”.
“Quale cugina?” si chiese stupito. “E poi fino a ieri non conoscevo nessuna donna, all’infuori di quelle della mia epoca! Come possono conoscere le mie doti amatorie, se per me erano delle illustre sconosciute?”. Però conservò gelosamente dentro di lui questi pensieri.
“Ma anche voi avete dimostrato una passione ardente e una natura focosa” replicò l’uomo con dolcezza.
“Siete galante e discreto, messere!”
Rifletté che doveva essere Ginevra, la vedova, la donna che gli stava accanto.
“Madonna Ginevra, vedo che la vedovanza non ha smorzato i vostri ardori” azzardò Giacomo, sperando di avere eseguito l’azzardo giusto.
Una gaia risata, che lo rincuorò, risuonò sotto le coperte.
“No! Era tempo che provassi nuovamente i piaceri della carne” replicò senza imbarazzo e con naturalezza.
Un sospiro di piacere mascherò il sollievo nell’avere indovinato chi era la compagna. Un veloce flash gli sovvenne, ricordando gli ultimi istanti del banchetto prima dell’oblio notturno.
Era ormai la fine del convivio, quando una terza donna giovane e sfrontata si unì a loro, proponendo una gara alle altre due.
“Vi propongo un gioco. Il premio è messer Giacomo. Chi vince ha diritto a passare la notte con lui” disse sistemandosi vicino a loro.
“E perché dovremo eseguire questo gioco?” domandò scocciata Giulia. “Nessuno vi ha invitata a aggregarvi a noi. Il messere è nostro ospite. E poi non è detto che noi abbiamo questi pensieri. Siamo ..”.
“Suvvia, dame! Lo sanno tutti che gli ospiti sono tali e vanno onorati al termine del convivio!” replicò scanzonata e pungente.
I fumi del vino fecero il resto. Ricordò che fece da paciere nel litigio, del quale era l’involontario protagonista, e accettò di essere l’oggetto della scommessa. Brandelli confusi del gioco e di come terminò veleggiavano nella mente. Infine il buio inghiottì tutto e con esso anche chi era risultata la vincitrice.
“Dunque ha vinto Ginevra. Mi domando se avesse vinto una delle altre due come sarebbe stata la notte” si chiese, mentre si stringeva alla donna.
Come se gli avesse letto il pensiero, Ginevra cominciò a parlare..
“Avrebbe vinto sicuramente Costanza, se la cugina non avesse fatto in modo che io risultassi la vincitrice. Quella donna non perde occasione nei banchetti di scegliere l’uomo col quale vuole trascorrere la notte. E’ sfrontata e priva di morale e tradisce il marito con tutti”.
“E lui cosa fa?” chiese curioso.
“Come tutti gli altri mariti. Tradisce la moglie, andando a letto con le amiche” rispose ridendo. “Perché voi non fate lo stesso?”.
Giacomo stava per replicare che non avrebbe tradito la moglie, quando si ricordò che in questa epoca ne aveva una, rimasta a casa.
“Sì, avete ragione, Madonna Ginevra. La mia era una domanda oziosa. Ma vi chiedo come siete riuscita a sconfiggere Costanza, la rivale”.
“Vedete la scommessa verteva se fosse entrato per primo una donna o un uomo oppure nessuno. Ella aveva puntato su una donna mentre io su nessuno e dama Giulia su un uomo. Quell’intrigante si era accordata con l’amica compiacente e avrebbe vinto di certo, se la cugina non avesse fatto un cenno al servitore per bloccarla. Così è andata. Non saprò mai ringraziarla per quello che ho provato stanotte”.
Aveva appena finito di mormorare le ultime parole, quando un bussare discreto e qualche colpetto di tosse annunciarono l’arrivo di qualcuno. Giacomo avrebbe voluto porre altre domande ma non c’era tempo, perché la porta si aprì mentre una donna scivolava furtiva dentro.
“Vi ho svegliato?” chiese una voce divertita. “E’ tempo di fare colazione. Fuori imperversa una bufera di neve che sta bloccando tutta Ferrara. Qui si muore dal gelo! Il fuoco è morto da un pezzo ma forse non ne avete avuto necessità”. E un risolino irriverente e vagamente geloso accompagnò quest’ultima affermazione.
“Neve? E come faccio a rientrare?” chiese sbigottito Giacomo, senza raccogliere la non troppo velata frecciata.
“Già stanco di Madonna Ginevra, Messer Giacomo?” replicò ironica Giulia.
“No, anzi .. Ma mi chiedevo come potrei raggiungere la casa fuori città”.
“Spedite il vostro staffiere. Però io sto gelando, mentre voi siete al caldo sotto le coltri”.
“E la colazione?” rimbeccò l’uomo, mentre Ginevra si stringeva con passione al suo corpo.
“Aspetta solo un mio cenno. Mi fate posto o non sono gradita?”
“Cosa dite, Madonna Ginevra? L’accogliamo qui o la lasciamo al gelo?”.
La donna sbuffò indispettita, senza dire nulla, lasciando il compito al compagno di decidere sulla risposta. Era chiaro che non desiderava la presenza della cugina.
Giacomo era preso tra due fuochi e avrebbe scontentato o l’una o l’altra con qualsiasi decisione che avrebbe preso. Decise di giocare la carta di fare colazione intorno al tavolo che stava accanto al camino, spento e gelato. Sicuramente avrebbe deluso entrambe ma almeno avrebbe avuto il tempo per ricucire, visto che era rimasto bloccato dalla neve.
“Accendo il camino e facciamo colazione attorno a quel tavolo” esclamò deciso, mentre incurante del freddo si precipitò verso gli indumenti ammonticchiati alla rinfusa ai piedi del letto.
“Siete impazzito?” urlarono all’unisono vedendolo nudo armeggiare con calzamaglia e corsetto. “Morirete dal gelo”.
“Se sarà così, sarà dolce dopo una notte fantastica” replicò battendo i denti.
“Ma perderete l’occasione di altre notti straordinarie” disse Ginevra, rimasta al caldo sotto le coperte.
“Per il momento sono sopravvissuto” e cominciò ad armeggiare col camino con scarsi risultati.
“Messere Giacomo, lasciate perdere. Chiamo la cameriera che in un attimo lo accenderà” e battè le mani.
La giornata prometteva bene.

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Capitolo 14

Laura Dianti lavorava alacremente ma continuava a rimuginare quanto aveva ascoltato dalla madre. Era una ragazza giovane ma aveva ben chiaro quello che voleva. Assecondare le voglie del Duca senza opporre resistena non erano questi gli obiettivi in cima alla scala dei desideri. Trovare un bel giovane, che le volesse bene, era un’aspirazione difficile da conquistare, anche perché la città non godeva di un grande credito morale. Ascoltando le amiche, pareva che ci fossero più bastardini che abitanti. Naturalmente sapeva che erano esagerazioni, ma un sottofondo di verità c’era. Un bel dilemma si annidava nella mente della ragazza tra sogni improbabili e realtà non lusinghiere.
Un senso di gelo percorreva le mani che faticavano a muovere l’ago con destrezza. Le accostò al braciere che emanava un caldo tepore che mitigava solo in parte l’aria circostante. Un breve sollievo irruppe dentro di lei, mentre un senso di calore rimetteva in circolo i pensieri. Si alzò per riattivare il sangue che pareva essersi congelato per il freddo, coagulandosi nelle vene, e guardò la strada dalla porta.
La neve turbinava in fiocchi ampi come una mano e tutto era bianco immacolato. Nessuno aveva osato uscire di casa o dalla bottega. Il silenzio era opprimente e affascinante.
Laura rimase immobile a osservare lo spettacolo, inalando il profumo della neve fresca.
“Se continua così, domani non possiamo uscire di casa” udì la voce del padre che commentava la spettacolare nevicata.
“Come facciamo?” replicò la ragazza per nulla entusiasta dell’idea.
Un lieve sorriso increspò il viso dell’uomo che continuò a parlare.
“Come facciamo? Come negli inverni passati. Restiamo chiusi nelle nostre case finché le scorte di legna e di cibo ce lo consentono. Poi ..”
“Poi, padre? Siamo nella strada dei commerci. La Calle di Ripa Grande. Nessuno fa nulla? Dobbiamo restare barricati in casa, finché il sole non tramuta neve in acqua?”.
L’uomo allargò le braccia e aggiunse. “Qualcuno libererà il portone d’ingresso del proprio negozio, qualche altro davanti a casa. Ma la strada rimane bloccata e nessuno oserà avventurarsi fuori”.
Alla ragazza non sembrava una buona giustificazione ma doveva accettarla. Tornò al posto di lavoro per riprendere a cucire il berretto iniziato il giorno precedente. Si era appena seduta e aveva ripreso l’ago che manovrava con rapidità e abilità, quando udì entrare la madre con una tazza di latte bollente in mano. Volute di vapore si levavano dalla scodella come tanti piccoli serpentelli.
“Ecco la vostra tazza con qualche piccola ciambella dolce appena cotta” e osservò lo stato del braciere.
Ormai le braci erano diventate cenere calda e non scaldavano più di tanto. Lo raccolse per mettere nuovi tizzoni ardenti, perché l’aria era veramente gelida e il fiato si condensava in minuscole gocce di ghiaccio.
Laura era ghiotta di quelle ciambelle che parevano sia nella forma sia nella sostanza minuscole brazadele, che la madre preparava con grande abilità di arzdoura. Ne prese una che ammorbidì nella scodella fumante e rifletteva ancora una volta sugli eventi del giorno precedente. Più mandava giù, più svaniva un po’ di consapevolezza e di sicurezza che aveva alimentato con l’uomo ideale, anche se non si era mai fatta illusioni. Era come se ingoiasse speranze friabili, che venivano dimenticate in fretta. Mangiava con calma, assaporando il gusto e il profumo delle ciambelle appena sfornate. Però il senso di colpa saliva insieme a quella folle, insana sensazione che stava effettivamente concretizzando ma che non aveva ancora focalizzato nella sua interezza.
Sul piatto di metallo, leggermente ammaccato sul bordo, stavano invitanti le ultime ciambelline che parevano suggerire che tutto sommato non avrebbero rovinato nulla, se ne avesse presa un’altra
“Non sono una gran bellezza, non sono neanche così donna, come molti credono. Sono una ragazzina invecchiata con l’aria innocente” si disse, mentre ne intingeva un’altra nel latte ormai intiepidito.
Il pensiero scivolò leggero nella bocca piena di briciole di ciambella e poi giù senza rimorsi verso lo stomaco. Si rendeva conto che nonostante tutte le smentite pubbliche un pensierino al Duca l’aveva fatto. Era un affascinante connubio tra sogno e realtà ma poi ripensandoci bene tornò coi piedi per terra. Tutto sommato era un’insignificante e semplice ragazza, magari anche noiosa e soprattutto inesperta. Quindi volare troppo alti non era mai un aspetto positivo, perché rischiava di passare il suo tempo a metà nel confronto con le altre e il resto nella ricerca di nascondersi agli occhi della gente.
“Lo pensano tutte, quando mi vedono. Segretamente e alle mie spalle confabulano ponendosi delle domande simili alle mie. «Perché lei e non io?»  Allora mi comincio a chiedere cosa c’è nel mio aspetto, nel mio modo di agire che possa dare l’impressione che ci sia qualcosa che abbia attirato il Duca. Lentamente acquisto la consapevolezza che in realtà lo sto facendo per una scelta precisa, quella classica «voglio uscire da questa vita di rinunce». Però non mi renderò conto di avere la sensazione di ballare su una corda tesa a 10 m dal suolo. Il risveglio potrebbe essere amaro”.
Laura era immersa in questi pensieri, mentre senza accorgersene aveva finito le ciambelle. Eppure c’era qualcosa che la rendeva nervosa, restia a lanciarsi in un’avventura dai contorni incerti. Forse era l’istinto di conservazione, che la frenava, perché percepiva di essere meno amabile o appetibile. Avrebbe desiderato essere amata e riamare a sua volta, ma era la sensazione di lasciare tutto al caso che non la convinceva. Doveva prendere in mano il suo destino e decidere cosa fare del suo futuro. Capiva di essere ancora una ragazza po’ timida ma non quella solitaria e superba di un tempo. Non si era spaventata, quando il Duca le aveva rivolto la parola, perché nel bene e nel male aveva un’idea sufficientemente precisa e chiara di quello che voleva. Doveva trovare solo la strada per raggiungere l’obiettivo che aveva in mente per poter dire a se stessa che se lo era guadagnato. Desiderava costruirsi un percorso per diventare una nuova donna senza aspettare che qualcuno le desse valore.
“A cosa state pensando” le chiese la madre vedendola assorta con la scodella del latte ormai freddo.
“A nulla, madre. A nulla” rispose pronta, riprendendo il lavoro interrotto.

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Capitolo 13

Alfonso si aggirava inquieto nei suoi appartamenti. Fuori fioccava con grande intensità e tutto quello che vedeva attraverso le finestre era bianco. Il giardino ducale aveva assunto un aspetto allegro. Non certamente era così il suo umore.
Chiamò il cameriere personale per farsi aiutare a vestirsi e il maestro di casa per controllare gli appuntamenti nella giornata odierna.
“Al tocco Rinaldo Costabili. Poi il segretario Bernardino de’ Prosperi e Boezio de’ Silvestri .. Ma chi è costui?” si chiese vedendo questo nome. Gettò la carta sul tavolo, mentre andava a controllare alla finestra. La nevicata era diventata un diluvio per l’intensità. Finora il tempo era stato clemente. Un po’ di nebbia, qualche pioggia, freddo ma non eccessivo e pochissima neve. Adesso sembrava che volesse mostrare il suo vero volto invernale, arcigno e per  nulla rassicurante. Per qualche mese tutte le attività sarebbero state ferme o si sarebbero mosse al rallentatore.
“Circolare con la carrozza sarebbe pressoché impossibile. A piedi estremamente pericoloso”. Esclamò ad alta voce.
Come un leone in gabbia si trasferì nello studio ducale per leggere alcune carte e scrivere qualcosa per i giudici dei savi e il segretario.
Era da poco seduto sulla sua Savonarola, quando udì un bussare discreto alla porta.
“Avanti” urlò più per rabbia che per farsi sentire.
Il maestro di casa gli annunciò la visita dell’ambasciatore di Firenze.
“Eppure non l’avevo in lista per oggi” rifletté scorrendo velocemente la lista.
“Fattelo entrare” gli confermò di malagrazia. “Se devo ricevere qualcuno, non è certamente costui”.
L’ambasciatore entrò accompagnato dal maestro di casa e porse i suoi omaggi al Duca, che a denti stretti gli rispose in maniera poco ortodossa.
“Volevo salutarvi, Eccellentissimo Duca, perché sono di partenza per Firenze”.
“Ma sperate di mettervi in viaggio con questo tempo da lupi?” replicò divertito Alfonso.
“Devo farlo, perché sono stato richiamato con urgenza. Il governo della città è dilaniato da molte fazioni. Spero di partire oggi o domani al massimo”.
“E come credette di procedere? Il tempo è pessimo e le strade sono piene di neve ..”
“Con qualunque mezzo: la carrozza, il cavallo o la slitta. Ma devo raggiungere Firenze il prima possibile. Prendo commiato da voi e spero che rivederci tra qualche mese” tagliò corto l’ambasciatore.
“Che la fortuna vi assista” rispose asciutto e ironico il Duca.
Mentre l’ambasciatore prendeva congedo e spariva oltre la porta, Alfonso pensò che dovesse essere un temerario per affrontare un viaggio in quelle condizioni. Il Duca ricordò come in maniera rocambolesca era riuscito a ritornare nelle sue terre dopo essere stato ostaggio del Papa Giulio II.
“Sono stato fortunato, tutto sommato e me la sono cavata con poco” commentò la partenza dell’ambasciatore fiorentino. Però adesso doveva concentrarsi, perché tra non molto Rinaldo Costabili, nominato giudice dei Savi qualche anno prima, sarebbe venuto per discutere un’ordinanza che regolava le azioni in caso di incendi.
“Ma sarebbe riuscito a raggiungere il Palazzo Ducale?” era questo il pensiero.
Però c’era un altro punto che premeva urgentemente, relegando in un angolino Laura Dianti. Con la mediazione di Carlo V aveva versato al Papa una bella somma in fiorini d’oro per riconquistare i territori di Modena e Reggio. Leone X, un Medici, aveva accettato il pagamento ma aveva fatto orecchie da mercante perché aveva altre mire su quelle terre. Questo gli dava un senso di frustrazione e impotenza contro il quale non poteva fare nulla ma solo aspettare gli eventi.
Puntuale Rinaldo Costabili si presentò nello studio ducale. Era stato il consigliere segreto del padre di Alfonso, Ercole d’Este, mentre adesso ricopriva il ruolo di giudice dei dodici Savi. Questi amministravano il ducato imponendo gabelle e tasse, ma soprattutto rappresentavano la mano armata del Duca in tema di giustizia. Loro si riunivano in alcuni locali posti al piano terra del cortile Ducale, ma avevano anche un ingresso da via Cortevecchia accanto all’Osteria del Cavaletto.
“I miei omaggi, eccellentissimo Duca” esordì con un inchino Rinaldo. “Oggi il tempo non è clemente e presto la città sarà bloccata dalla neve”.
Alfonso annuì replicando al saluto, mentre consultava gli appunti che i Savi gli avevano sottoposto nei giorni precedenti.
“Dunque. Voi scrivete che i pompieri «devonsi recare sul luogo dell’incendio accompagnati da fabbri ferrai, legnaioli e muratori. I negozi di droghieri, cerchiari e mastellai devono essere aperti. I massari dei rioni devono nominare, a loro cogniti per onestà, delle persone, che devono correre sul luogo al suono delle campane. Loro ne saranno i responsabili, giacché si era veduto per esperienza che concorrevano anche i cattivi per rubare anziché per aiutare. Il massaro di San Romano dovrà indicare venti persone, sedici quello di Boccacanale e dieci quelli per i restanti rioni. Le nomine sono annuali ed eseguite il primo di ogni anno». Sì, mi pare un’ordinanza equilibrata. Pertanto completatela e sarà pubblicata col mio sigillo”.
Parlarono poi di giustizia e tasse. Il Duca doveva raccogliere molti fiorini per estinguere il debito contratto per il riacquisto di Modena e Reggio.
“Messer Rinaldo, restate mio ospite a colazione?” chiese Alfonso.
“Grazie, mio Duca” rispose pacato. “Un impegno gravoso mi attende. Dobbiamo valutare come punire i riottosi, affinché non ci siano più tumulti di piazza”.
E uscì dalla stanza dopo avere reso omaggio al Duca.

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Capitolo 12

Le prime luci dell’alba accolsero Laura con un cielo imbronciato che preannunciava neve. La ragazza rimase al caldo sotto le coperte, ripensando al sogno della notte. C’era qualcosa di strano che la turbava, perché raramente aveva visioni oniriche così ricche di particolari. Era questa la stranezza che la faceva riflettere.
Due erano i dettagli che erano rimasti impressi: la localizzazione sconosciuta e il misterioso personaggio che era apparso prima del risveglio quando quel «No!», che inizialmente le era morto in gola ma che poi era uscito di prepotenza nel silenzio della notte, aveva destato tutta la famiglia.
Si domandava quale era il reale significato del sogno e quale messaggio recondito voleva trasmettere.
“Quel labirinto verde, dove mi sono persa angosciata, non l’ho mai potuto ammirare. Chissà se esiste realmente. Era un posto meraviglioso e, allo stesso tempo, inquietante. Giravo e mi rigiravo in continuazione senza trovare la strada per uscire. Ad ogni passo cresceva l’inquietudine fino a diventare terrore. Che senso ha tutto questo? E poi quell’uomo misterioso, che è comparso all’improvviso, chi è? Cosa voleva da me?”.
Il dubbio non si era sciolto ma continuava a tormentarla. Doveva alzarsi ma inquieta e ansiosa titubava a uscire dal caldo rassicurante del letto come se fuori ci fosse l’ignoto, pronto a fagocitarla. Raccolse tutte le sue forze e, sospirando, uscì nel gelo della stanza. Velocemente si tolse il pesante camicione della notte per infilare i gelidi abiti da lavoro. Brividi di freddo attraversarono il corpo senza che Laura riuscisse a dominare ogni parte del corpo. Rapidamente raggiunse la cucina, dove la madre stava ravvivando il focolare per riscaldare la stanza.
“Buongiorno, madre” disse entrando, mentre si avvicinava al fuoco, che stava spandendo i primi tepori, per riscaldarsi.
“Buongiorno, Laura. Oggi la giornata sembra grigia. Il cielo non promette nulla di buono. Se volete, sulla madia c’è qualcosa avanzato da ieri sera. Più tardi scaldo una scodella di latte fresco”.
Poi Paola le domandò perché aveva urlato nel cuore della notte svegliando tutti i componenti familiari. Laura era incerta nella risposta perché non la conosceva neppure lei. Non poteva accampare come scusa che qualcosa era rimasto sullo stomaco a provocare un incubo, visto che si era ritirata a cena appena iniziata, mangiando poco o nulla.
“Niente, madre, niente. Solo un cattivo sogno che mi ha spaventato da morire” replicò la ragazza, per chiudere l’argomento.
Laura tagliò una fetta di pane, ormai avvizzito e secco, che cosparse con una cotognata di prugne. Aveva fame, perché la sera precedente non aveva assaggiato nulla o quasi nulla. Doveva tacitare lo stomaco, che brontolava per essere rimasto vuoto.
L’aria era diventata meno gelida, mentre il corpo aveva acquistato un po’ di calore. Aprì l’uscio dell’orto per sbirciare fuori. C’era ancora buio ma il cielo era chiaro, lattiginoso. Una raffica di vento la spinse a chiudere in fretta quella fessura e tornare al caldo accanto al camino.
“Fuori c’è aria di neve. Avete ragione, madre. Fra non molto cadranno i primi fiocchi”.
Preparò una grossa bugia con un cero nuovo, svuotò il braciere dalla cenere del giorno precedente prima di riempirlo con i tizzoni ardenti del focolare. Si avvolse nel pesante scialle di lana grezza colorata vivacemente e si preparò a trasferirsi nella stanza laboratorio. C’era molto lavoro arretrato, perché la visita del Duca aveva scombussolato tutte le loro attività.
“Io vado, madre. C’è molto lavoro da completare oggi”.
“Quando il latte sarà caldo, ve lo porto” aggiunse la donna, mentre la ragazza spariva nell’altra stanza.
Posata la bugia sul tavolo e il braciere sotto di esso, vicino ma non troppo alle gambe, cominciò a lavorare di cucito in maniera meccanica. Negli occhi c’era ancora la visione di quelle siepi, ben più alte di lei, dalle quali non  riusciva a venirne fuori.
«Ma chi era quell’uomo, sbucato all’improvviso?» era la domanda ricorrente alla quale non trovava una risposta soddisfacente.
 
Alfonso si svegliò nel grande letto e rimase a mirare il baldacchino che stava sopra di lui. Aveva ancora nitida la visione notturna. Lui e Laura nel grande giardino del Verginese. Avevano giocato a lungo a rincorrersi nel labirinto verde, prima che lui l’afferrasse e la trasportasse nella stanza da letto preparata per l’occasione.
Era stato un momento magico possedere quella fanciulla. Il ricordo di quel momento era ben fisso nella mente. Scacciò questi pensieri con forza, perché non poteva essere stato attratto da una ragazzina ancora acerba come lei. Eppure lo tormentavano come una spina infilata tra la pelle e il corsetto senza che lui riuscisse a porre rimedio.
“Io sono il Duca e non devo chiedere nulla a nessuno. Tutto è mio”.
Però quel viso continuava a galleggiare dinnanzi ai suoi occhi, Nella giornata odierna doveva sbrigare molte questioni politiche e risolvere diversi problemi relativi alla giustizia. Queste considerazioni gli fecero svanire tutto l’entusiasmo che il sogno notturno aveva acceso A malincuore tirò il cordone vicino al letto. Aveva fame.
Il cameriere personale si precipitò e chiese cosa desiderasse.
“Ho fame” rispose asciutto, mentre si era appoggiato con la schiena alla spalliera del letto.
Un altro servo, piuttosto giovane, era intento a riattivare il fuoco del camino per riscaldare la stanza. Le pesanti tende cremisi furono spostate dalle finestre per far entrare la luce del nuovo giorno. Questa era debole, offuscata da cristalli di ghiaccio depositati sulle vetrate colorate del finestrone di sinistra.
“Nevica” annunciò il cameriere personale mentre deponeva un tavolino sul letto.
Alfonso fu contrariato da questa informazione, perché complicava tutti i suoi progetti. C’era stato bel tempo fino al giorno precedente, mentre adesso il maltempo la faceva da padrone. Significava che tutti gli spostamenti sarebbero stati difficoltosi per non dire impossibili. Il solo pensiero di restare vincolato agli appartamenti ducali senza possibilità di muoversi liberamente lo rendeva irascibile.
“Oggi devo ricevere i rappresentanti dei Savi per stabilire le pene di alcuni condannati. Se nevica salta tutto. Poi devo incontrare gli ingegneri per le nuove fortificazioni .. Invece dovrò rimandare tutto!”. E non erano i soli appuntamenti della giornata odierna.
Però era il pensiero di Laura che lo rendeva di cattivo umore, perché il segretario, Bernardino de’ Prosperi, non sarebbe stato in grado di eseguire i suoi ordini.
Il profumo del pane appena sfornato dalla cucina ducale lo distolse momentaneamente da queste meditazioni cupe.
 
Giacomo si svegliò chiedendosi dove era, Percepiva al suo fianco la presenza di una donna sconosciuta, che non era sua moglie. Almeno quella che ricordava nella sua epoca. Poi il letto era più duro di quello nel quale era abituato da una vita a dormire. Aprì un occhio e notò che per tre lati cadeva un pesante tendaggio. Tutto gli appariva insolito come se fosse ancora in braccio a Morfeo tra sogni e fantasie.
“Ma dove sono finito?” si chiese muovendosi con cautela per non destare chi dormiva vicino a lui. Poi come un raggio di sole squarcia il muro di nebbia, rammentò che era stato proiettato in un’altra dimensione, che faticava non solo a comprendere ma anche ad adattarsi.
“In questa vita profondamente differente da quella nella quale ho vissuto fino a ieri non riesco ancora a capacitarmi in quale spazio temporale sono finito. Ma in particolare stento a calarmi nel nuovo ruolo, di ingegnere del Duca. Ma quale Duca?”.
Allungò una mano tastando la presenza di una donna che dormiva profondamente al suo fianco. Al contatto ella si girò, accovacciandosi su di lui soddisfatta.
“Ma chi è costei?” si domandò. La sua nuova esistenza era tutto un indovinello del quale doveva trovare le risposte giuste per non incappare in pessime figure.
Ricordi confusi vennero a galla senza che Giacomo riuscisse a distinguere quelli recenti da quelli passati. Ricordava vagamente che nella giornata precedente si era recato in biblioteca per consultare un vecchio libriccino, che non aveva ancora visto. In compenso era finito nel periodo storico del ducato estense. Per questo motivo tutti i suoi guai nascevano da questo improvviso e non voluto salto indietro nel tempo, perché non era in grado di governare le sue azioni quotidiane per la mancata conoscenza delle circostanze che lo riguardavano. Un senso di incertezza unitamente ad ansia accompagnava i suoi pensieri, rischiando di creargli seri problemi.
“Quale duca?” si domandò ancora una volta. “Presto lo scoprirò. Almeno questo è il mio auspicio”.
Però adesso era impellente scoprire chi era la misteriosa donna che stava accoccolata su di lui. Nebulosamente altri frammenti tornavano a galla: aveva fatto all’amore con una passione insospettata, perché nella nuova dimensione era ringiovanito miracolosamente. Almeno questo aspetto della nuova esistenza era stato piacevolmente gradito e apprezzato da Giacomo.
“Ma chi è costei?” si chiese per l’ennesima volta. “Come sono finito a letto con lei? E’ stato sicuramente piacevole ma ..” e la domanda sfumava.
Provò a ricordare cosa era successo la sera precedente. La mente era ancora annebbiata dalle molteplici libagioni, accompagnata da una feroce emicrania che gli martellava la testa.
“Ero fra due splendide donne, Giulia e Ginevra, che facevano a gara per conquistarmi ..Ah! che mal di testa!”. Una fitta lancinante lo distolse dal ripercorrere la serata precedente.
“Sei stato magnifico” udì mugolare dalla donna che si stringeva a lui. Questo aggettivo lo rese euforico, mentre percepiva delle labbra incollarsi sulle sue e un movimento del corpo che non si prestava a equivoci.
“Ma chi sei? Giulia o Ginevra?” si domandò quasi implorando, mentre ricambiava il bacio.
Qualche altro frammento si ricompose nella mente ma era insufficiente a svelarne l’identità. Ricordò che due o forse tre donne fecero un gioco dove Giacomo era il trofeo in palio. Però non rammentava come era finita la gara, salvo che adesso si ritrovava in una stanza buia a letto con una sconosciuta. Al vago ricordo un sorriso gli increspò le labbra, perché tutto sommato aveva avuto un epilogo molto felice e gradevole.
“Era una delle due oppure una terza persona che non conosco?” rifletté, mentre le mani della donna frugavano il suo corpo in maniera impertinente.
Rimase passivo per un lasso di tempo non troppo lungo ma ben presto divenne attivo, dimenticando tutti i dubbi che lo avevano assalito dal momento del risveglio.
E fu un altro tripudio dei sensi.

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Capitolo 11

Giacomo, salito sulla carrozza che l’attendeva sul viale principale illuminato da numerose torce, disse al cocchiere: “Alla casa della contessa Giulia” con la speranza che questa indicazione fosse sufficiente.
Mentre udiva lo scalpiccio confuso dei cavalli che trottavano lenti verso Ferrara, cullato dal dondolio un po’ scomposto della carrozza, si abbandonò a mille pensieri.
“Ghitta mi sembra troppo impertinente e poi mia moglie ..” e un largo sorriso affiorò sul viso su questo aspetto. “E poi Isabella mi sembra un po’ acida. Se non voleva correre rischi, sostituiva Lorenzo con un altro servitore. Invece mi ha fornito una giovane ragazza come domestica personale. Valle a capire le donne. Però devo ammettere che è meglio una serva disinibita a un servitore dalle tendenze non chiare”.
Un leggero sorriso increspò le sue labbra, subito smorzato da altri ragionamenti. La mente corse alla contessa Giulia e alla giovane vedova della quale aveva già dimenticato il nome. Però era un pensiero che frullava subdolo nella testa. “Sono l’ingegnere del Duca”. Quale era il significato di questa affermazione non l’aveva ancora scoperto.
Un brivido percorse la schiena di Giacomo  riflettendo che non era assicurato che fosse all’altezza dei compiti richiesti. Scacciate queste considerazioni moleste, si concentrò sulla serata che si annunciava interessante, molto di più di quella che avrebbe condiviso, rimanendo a casa con la moglie saccente e per nulla attraente.
Il tempo volò e si ritrovò, quasi senza accorgersene, nel cortile del palazzo, illuminato dalle molte fiaccole poste sulle colonne che lo delimitavano. Un servo l’aiutò a scendere, mentre un altro prese il mantello prima di indicargli la scalinata di marmo che portava al piano nobile. Giacomo si fermò un attimo per imprimere nella mente lo spettacolo offerto dalle luci delle candele che in gran numero rischiaravano i gradini rosati. «Sono di marmo di Verona» concluse mentre affrontava i primi scalini.
Prima di avviarsi fece un ultimo paragone tra il palazzo che ricordava dei suoi tempi e la visione attuale, ammettendo che il confronto dello stato presente era vincente. Dopo pochi passi udì un suono familiare, una voce femminile che lo salutava con calore
“Messer Giacomo!”.
“Dama Giulia” rispose al saluto con un largo sorriso, alzando lo sguardo verso di lei.
Una splendida donna, al cui fianco stava una signora vestita di nero che lo lasciò a bocca aperta per la bellezza che spandeva, lo aspettava in cima alla scalinata. Riconobbe immediatamente nella vedova, la persona che nella mattinata era la compagna della contessa.
Questa vista accese il desiderio di Giacomo che si affrettò a raggiungerle. Un pensiero passò veloce nella mente dell’uomo. «Sono solo sogni incantati oppure è una realtà concreta?».  Era un dubbio legato al fatto che si era ritrovato in un secolo che non gli apparteneva e che doveva esplorare istante per istante per ricomporre la propria identità, del tutto differente da quella che aveva conosciuto fino a poco tempo prima.
Dunque quella sottile eccitazione che la visione delle due donne aveva originato era un aspetto che doveva tenere sotto controllo per non incappare in brutte sorprese.
Si affrettò a salire, percorrendo i pochi gradini che lo dividevano  dalla padrona di casa per rendere omaggio a entrambe.
“Dama Giulia. Siete uno splendore, se non fosse che ..”.
“Che cosa messer Giacomo? Volevate dire che, se non foste sposato, mi corteggereste?” disse con un tono che non lasciava dubbi. Trasmetteva un messaggio inequivocabile «Fattevi avanti, senza remore o tentennamenti. Accetterò la vostra corte. Non m’importa se siete sposato».
L’uomo sorrise compiaciuto, annuendo per confermare di averlo raccolto, mentre prendeva le mani delle due donne per rendere loro omaggio.
“Vedo che anche ..” e fece una pausa di sospensione alla ricerca del nome in qualche angolo della mente.
“Anche la cugina, Ginevra, ha deciso di concederci la sua gradita presenza” venne in soccorso di Giacomo che stava annaspando coi nomi.
“Madonna Ginevra, il nero vi dona molto” concluse osservandola in una maniera che non sfuggì a Giulia. L’aveva letteralmente mangiata e spogliata con gli occhi.
“Devo fare attenzione o la bella cugina mi soffia il bocconcino” rifletté ingelosita. Non si aspettava un approccio così diretto.
La padrona di casa fece strada accompagnandoli al tavolo dove gran parte degli ospiti stava già banchettando.
“Messer Giacomo, anche voi qui?”. Erano tutte facce sconosciute e ancor di più era quello che l’aveva chiamato. Accennò a un sorriso e un gesto della mano per ricambiare il saluto, ma non osava aprire la bocca. «Non saprei cosa dire» disse fra sé e sé, mentre rispondeva ad altri saluti, ignorandone i nomi. I suoi gesti parevano più di sufficienza che veramente sentiti con l’anima.
“Di sicuro domani il nostro Duca saprà dal quel pettegolo di Bernardino de’ Prosperi che il suo ingegnere era mio ospite a palazzo” bisbigliò senza farsi notare troppo Giulia. Ancora una volta si era salvato in extremis, anche se ignorava il ruolo del personaggio a corte.
Giacomo era stato collocato in mezzo alle due donne: Giulia a destra e Ginevra a sinistra e osservava compiaciuto queste due bellezze delicate e tanto diverse.
“Sono splendide entrambe e meritano più di un pensiero, a costo di sfidare le ire di Isabella. Però ho l’impressione che non sarà facile districarsi senza suscitare gelosie tra di loro. Sono cugine ma paiono rivali, almeno per stasera. Giulia ha trasmesso senza equivoci un messaggio. Ginevra pare più contratta, ma qualche bicchiere di vino presto la scalderà”. Erano i pensieri dell’uomo diviso sulle scelte, perché alla fine doveva scegliere o rischiava di perderle entrambe.
Un servitore riempì i calici con un vino dal colore giallo miele. Giacomo si chiese che bianco fosse senza profferire parola.
“Brindo a voi, dolci Madonne, che allietate la vista col vostro splendore”.
“Sembrate un poeta, messer Giacomo” cinguettò Ginevra.
Giulia si rabbuiò un attimo prima di sfoderare il miglior sorriso che aveva in serbo.
“La vostra presenza è per me un grande onore che diletta gli occhi e che riempie il mio animo di gioia. Il vostro spirito nobile e sensibile si manifesta con le parole. Ricambio il brindisi con molto piacere” replicò Giulia, accostandosi a Giacomo.
Un breve sorso per individuare il vino prima di riprendere le galanterie. “Ottimo questo Trebbiano! Deliziosamente profumato come i fiori che mi circondano” disse accennando a chi gli stava di fianco.
Aveva intuito fin dal primo istante che sarebbe stato l’oggetto del contendere delle due dame. Una soddisfazione intima affiorò nella mente dell’uomo che mascherò abilmente. Non aveva ancora deciso su quale delle due avrebbe puntato.
La serata si preannunciava intrigante.

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Capitolo 10

Laura mangiava svogliatamente, mentre i genitori continuavano a discutere sulla visita del Duca. Ascoltava con la mente volata verso altri lidi e rispondeva con dei sì e dei no più o meno azzeccati. Quei discorsi l’annoiavano. Per lei erano senza sugo.
“Vi vedo distratta” disse la madre rivolgendosi a Laura.
“Vi sembra?” rispose abbassando gli occhi. “Ascolto le vostre parole e imparo cose nuove sul come comportarsi in quelle situazioni”.
Paola scosse la testa come per affermare che non ci credeva a quelle frasi, che avevano il sapore di circostanza e non dettate dalla testa.
“Madre, pensate che possa esserci una nuova opportunità?” continuò la ragazza nel tentativo di ricucire lo strappo.
“Quello che è perduto, è perduto e le buone occasioni o si prendono al volo oppure sono andate per sempre. Credo che questa sia volata via con il battito delle ciglia”.
Il padre ascoltava, annuendo col capo per sottolineare quello che la moglie stava dicendo. Di certo era stata una buona occasione ma non poteva biasimare la figlia, perché si interrogava quali prospettive future ci sarebbero state se si fosse mostrata più calda e appassionata.
“Forse è stato meglio così” rifletteva Francesco ascoltando il dialogo tra madre e figlia. “Forse avrebbe raffreddato gli ardori del Duca con un comportamento più sfacciato. E poi fra qualche giorno sarebbe passato per provare il cappello. E allora ..”.
Laura ascoltava a occhi bassi quello che la madre diceva senza replicare o giustificare l’atteggiamento tenuto.
“Quale era il comportamento giusto da seguire? Mostrarmi per quello che non sono oppure essere me stessa? Tutte, a cominciare dalle amiche, hanno pontificato che loro sarebbero state più intraprendenti. Ma io dove lo acquisto il coraggio? Al mercato di Piazza di San Crespino? Vado in chiesa a San Paolo e ascolto prediche dal prevosto sui facili costumi delle donne, come se fosse tutta loro colpa. Quando mi confesso devo sudare non poco per convincere il confessore che sono ancora vergine e non faccio né penso atti impuri. Eppure sembra che questo non sia una virtù ma un peccato capitale”.
La ragazza non ascoltava più le parole della madre ma era immersa nei suoi pensieri, distaccata dal mondo terreno.
“Col vostro permesso, mi ritiro nella mia stanza. Domani dovrò lavorare duramente per recuperare il tempo perduto oggi con la visita del Duca”. E si alzò senza aspettare l’assenso dei genitori.
La madre la guardò male con degli occhi che parevano incenerirla.
“Perdita di tempo? La visita del Duca è stata un onore per la nostra famiglia. Tutta Ferrara parla di noi. Vostro padre diventerà il berrattaio di corte dopo l’ordine del Duca. Ritiratevi pure ma non farete mai strada nel mondo che conta” rispose acida Paola.
Il padre sorrise e con un cenno del capo le concesse di andare nella propria stanza.
Percorsa una ripida scala di legno, Laura si preparò per la notte, anche se era appena passato l’imbrunire. Si sentiva stanca, agitata ed eccitata. Desiderava raccogliere le sue idee senza sentire il cicaleccio fastidioso di sua madre.
“E’ una madre amorevole ma a volte mi preferirebbe che scaldassi il letto di qualche facoltoso signore di Ferrara. Per ricavarci cosa? Un figlio illegittimo? Qualche scudo o fiorino d’oro? Mi sembra poco e mi dà l’idea di essere una donna di malaffare, che si fa pagare le sue prestazioni. Invece vorrei essere amata e riamare a mia volta. Però paiono una strada in salita i miei desideri”.
Dopo queste ultime riflessioni, cadde in un sonno profondo.
 
Si trovava in un posto sconosciuto dove spiccava un imponente palazzo e un giardino curato. Laura era disorientata, camminava senza riuscire a trovare una via per uscire da quel labirinto verde. Tutto appariva uguale e diverso allo stesso tempo. L’angoscia stava montando e il cielo da azzurro andava colorandosi di grigio. Cominciò a correre fino a rimanere senza fiato, accasciandosi sul sentiero. Le veniva da piangere, mentre sopra di lei il grigio virava al nero.
“Tra pochissimo pioverà” pensò sollevando lo sguardo, mentre qualche lampo violaceo percorreva la volta sopra di lei.
La ragazza temeva i temporali come il topo è atterrito dal gatto. Il cuore prese a battere a mille per la sensazione di affanno che stava salendo.
“Devo trovare la via di uscita o rimarrò annegata sotto il temporale estivo”.
Stranamente le sembrava che il tempo corresse tanto che l’inverno aveva lasciato il posto all’estate. Strana percezione temporale era la sua. Giorni e settimane che duravano lo spazio di un battere di ciglia.
Le prime gocce bagnarono l’abito leggero di lino che indossava. Non ricordava di averne mai posseduto uno. Però adesso copriva il suo corpo. Era un vestito con un’ampia scollatura a U, che lasciava intravedere quel seno acerbo appena modellato. Due maniche a sbuffo consentivano di mostrare le braccia, mentre appena sotto il seno partiva un’ampia gonna che arrivava fin quasi a terra.
Altre gocce caddero su di lei e la veste cominciava ad aderire al corpo, lasciando intuire cosa stava sotto. L’ansia si era tramutata in terrore, mentre si aggirava in maniera sempre più frenetica alla ricerca dell’uscita.
Si trovò sbarrata la strada da un uomo dai lineamenti forti, vestito come un soldato, che l’afferrò e la trasse a sé.
“No!” urlò con quanto fiato aveva in gola.
Adesso vedeva tutto buio, mentre udiva del trambusto prima che una candela tremolante illuminasse la scena.
“Cosa c’è?”. Era una voce familiare.
“Perché state urlando?” le chiese apprensiva la madre.
“Nulla, madre. Solo un brutto sogno”.
“Tornate pure a letto. Nessuno mi sta minacciando” continuò Laura con le parole impastate dal sonno e dalla paura.
Tornato il buio, si rannicchiò sotto le coperte e cominciò a pregare prima di riaddormentarsi di nuovo.

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Capitolo 9

Cristoforo Messisbugo era indaffarato a correre tra il piano nobile e le cucine al pianoterra per sovraintendere al banchetto che la contessa Giulia Bevilacqua aveva organizzato per l’apertura del Salone d’Onore dopo gli ultimi lavori di pittura sul soffitto..
Non andava bene niente. In cucina le cuoche non preparavano i piatti come voleva lui.
“Quello stagnatello deve stare ben coverto. Se no, il bollore dell’acqua non è giusto per la minestra di Diamante” imprecava con la cuoca che aveva dimenticato coprire la casseruola.
“Quel capretto deve essere sbollanzato prima di togliere la pelle” urlava agitando il coltellaccio con la serva che doveva scuoiarlo.
Non andava meglio nell’apparecchiatura della tavola. La tovaglia non cadeva bene, i candelabri non erano disposti come si doveva, le bacinelle per lavarsi le mani erano insufficienti. Un piccolo disastro per lui così meticoloso nella cura dei particolari.
“I coltelli con le sue forzine non sono sistemati come vi ho insegnato! E dove sono i pironi? E i coltelli per trinciare? E i cucchiari per la minestra?” urlava inseguendo il domestico addetto alle posate, che fuggiva terrorizzato.
“Quei mazzoli di fiori sembrano buttati lì per caso” imprecava, aggiustando la loro disposizione, mentre la ragazza addetta ai fiori si mimetizzava tra le altre domestiche.
Era tutto un gridare, un rincorrersi, un controllare la lista delle vivande, degli oggetti della tavola, dei vini e di quanto serviva per un banchetto secondo le sue precise regole.
Era pignolo e iracondo, se non venivano rispettate le sue istruzioni. Però forse lo sarebbe stato anche se venivano seguite a puntino tutte le sue raccomandazioni. La confusione regnava sovrana con serve e servitori che si agitavano come tante marionette i cui fili erano mossi da mani inesperte.
Mentre fervevano i preparativi per il convivio, che sarebbe cominciato tra qualche ora, in un tripudio di voci cacofoniche, la contessa Giulia era nelle sue stanze con la cameriera personale che l’aiutava a prepararsi per la serata. Il caotico bailamme delle cucine non la sfiorava, né udiva il veloce scalpiccio di chi trasportava stoviglie e tovaglie dal piano terra al salone.
Anna, la cameriera personale, la stava pettinando contando una lieve filastrocca mentre con rapidi colpi di spazzola lisciava la lunga capigliatura scura della ragazza.
“Mi fai male” disse stizzita agitando le mani, come per difendersi da un nemico invisibile.
“Mi spiace, mia signora, ma nei capelli si sono annidati dei diavoletti che non vogliono andarsene” replicò bonaria e paziente. “Stasera dovete essere bellissima per essere la regina del banchetto”.
Giulia a queste parole si quietò e pensò a messer Giacomo, perché  quell’uomo la intrigava moltissimo, le piaceva anche se era a conoscenza che era già sposato. Quando l’aveva visto nella sala di lettura, non aveva resistito dal contattarlo e l’aveva trovato misteriosamente delizioso. Rifletté sullo stato dell’uomo, non libero sentimentalmente.
“Perché forse non ha mai tradito la moglie? Di sicuro l’avrà fatto. E lei è casta e pura? E quando la duchessa Lucrezia l’ha invitata a palazzo Costabili per i banchetti in onore dei suoi ospiti, si è forse comportata come una moglie fedele e irreprensibile?”.
Sapeva come andavano a finire quei convivi quando la duchessa chiamava a raccolta tutte le donne sposate della corte per rendere omaggio agli ospiti e al seguito. Nessuna di loro aveva mai parlato direttamente di quello che avveniva ma le voci correvano e non erano certamente benigne.
Il solo pensare a questi eventi l’aveva eccitata ancora di più. Stasera era lui l’ospite d’onore, del tutto ignaro di essere stato nominato tale da lei. Era intenta in queste riflessioni, quando fu distolta dalla voce di Ginevra Rangoni, una cugina di quarto grado, rimasta vedova da pochi mesi e ospite della sua casa.
“Cugina, non siete ancora pronta?”
Giulia si girò lentamente verso di lei e l’ammirò nella veste nera della vedovanza che faceva risaltare pienamente la bellezza sensuale della donna. Era uno schianto e sicuramente stasera al banchetto avrebbe ricevuto molte proposte. Si domandò se avrebbe rispettato il lutto oppure no.
“Ginevra, non vedete?” rispose asciutta con un bel sorriso. “Al banchetto mi offuscherete con la vostra bellezza. Sono quasi gelosa di voi e della vostra bellezza. Se fossi un uomo, vi corteggerei finché voi non avreste ceduto ai miei desideri”. E allargò le braccia per accoglierla.
“Cugina, mi fate arrossire con le vostre parole. Lo sapete che sono vedova da poco e sarebbe sconveniente cedere alle lusinghe degli uomini. Forse fra qualche mese, quando ..”.
Una breve risata accolse queste ultime parole.
“Nel buio della stanza non vi vede nessuno. Basta essere discreti nel raggiungere le camere da letto e poi ..” replicò la ragazza mimando i gesti dell’incedere furtivo. “Se il corteggiatore è anche un gran amatore, potete raggiungere l’estasi dei sensi. Le occasioni perdute sono perse per sempre” disse ammiccando verso la cugina, che ricambiò l’abbraccio.
Tra loro l’intesa era perfetta.
 
Il Duca si era ritirato nel suo appartamento. Stasera non aveva molta intenzione di visitare Lucrezia. L’avrebbe lasciata in pace. Però il viso di Laura continuava a danzare dinnanzi agli occhi. Tirò un cordone per richiamare l’attenzione del segretario che sentiva armeggiare nella stanza accanto. Un bussare discreto annunciò il suo arrivo.
“Bernardino” esordì Alfonso. “Mi dovete nei prossimi giorni eseguire una commissione”.
“Quale, vostra grazia?” chiese umilmente Bernardino de’ Prosperi.
“Dovete condurre una ragazza nella delizia di Belfiore”.
Il segretario rimase perplesso, perché non era consuetudine incaricarlo degli intrighi amorosi del Duca.
“Non è detto che la fanciulla accetti” disse incerto per smarcarsi da questo compito.
“E’ vostro dovere persuaderla” replicò in maniera tale che non ammetteva repliche. E lo congedò, ritirandosi nella camera da letto.
Fu una notte agitata dallo spettro di Laura che danzava dinnanzi agli occhi di Alfonso come un folletto impazzito. Il Duca la rincorreva nel labirinto verde del Verginese senza mai raggiungerla. Si sentiva prostrato, stanco e accaldato nonostante le rigida temperatura.
Si svegliò di soprassalto sbarrando gli occhi.
“Quella ragazza mi ha stregato” e riprese il sogno interrotto.
 
Giacomo ragionava su quello che aveva imparato in questa mezza giornata. Doveva organizzare le sue attività sulla base di queste informazioni per non commettere dei passi falsi. Non era semplice inventarsi dei ruoli in un mondo che non conosceva.
“Dunque ho una moglie, che si chiama Isabella. Una cameriera personale di nome Ghitta. Un fratello, Ercole. E pare che sia l’ingegnere del duca. Ma quale duca? Stasera sono stato invitato da una contessa simpatica e bella, della quale ignoro tutto. Non so dove siano le stanze di mia moglie. E’ possibile?”.
Ghitta lo lavò e l’asciugò con cura senza troppi imbarazzi. Anzi con malcelato piacere. Giacomo percepì un’eccitazione crescente verso questa ragazza spigliata e semplice. Però non aveva molto tempo a disposizione perché l’attendeva un viaggio verso la città, sicuramente non agevole.
“Madonna Isabella mi aspetta nelle sue stanze?”.
“Si, messere” rispose asciutta la ragazza mentre l’aiutava a infilarsi la calzamaglia pesante.
“Siete impertinente” disse l’uomo ridendo. “Se non avessi fretta ..”.
“Cosa mi farebbe?” domandò maliziosa, mentre gli porgeva il corsetto elegante di velluto e lana.
“Ne riparliamo domani”.
“Peccato. Sarei molto curiosa di conoscere perché sono impertinente” e continuò a lisciarlo tra le gambe.
“Ora basta. Andiamo da Madonna Isabella” troncò deciso.
Ghitta l’accompagnò fino alla porta prima di ritornare nelle stanze del padrone.
“Madonna Isabella” salutò Giacomo entrando. “Desideravate vedermi?” e salutò anche altre due donne che tenevano compagnia alla moglie.
Isabella distolse lo sguardo dalle carte che aveva in mano e si girò con lentezza verso l’uomo.
“Sì” rispose seccata da quell’intrusione che le aveva interrotto la concentrazione.
“Avete un nuovo servitore personale. Anzi una nuova serva, Ghitta. Ha preso il posto di Lorenzo, richiamato alle armi dal Duca. E’ una ragazza giovane e inesperta. Vi raccomando ..”
Giacomo sorrise senza mostrare apertamente quanto fossero fallaci le affermazione della donna.
“Vi raccomando di badare a lei come a una figlia. La casa è già troppo piena di bastardini da mantenere ..”
“Certamente, madonna Isabella” la interruppe l’uomo. “Sarà mia premura tenerla lontana dai servitori e metterla sotto la mia ala protettrice. Nessuno oserà sfiorarla”.
“Questo vale anche per te, messer Giacomo” concluse secca la donna.
“Ora se ..” riprese Isabella.
“Ho compreso il vostro messaggio. Tolgo il disturbo e torno a Ferrara” e senza attendere risposta uscì velocemente dalla stanza.
La carrozza lo stava aspettando.

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Capitolo 7

Giacomo, dopo essersi accomiatato da Giulia e Ginevra, dandosi appuntamento per la sera, cominciò a girare per le vie intorno alla Cattedrale.
Era smarrito perché non riconosceva quasi nulla né vie né abitazioni. Una carrozza chiusa lo attendeva nei pressi di Palazzo Paradiso per riportarlo a casa.
“Quale casa?” si domandò perso mentre percorreva via Gorgadello facendo attenzione ai numerosi rigagnoli che come torrentelli scorrevano verso il Palazzo Ducale.
“E a casa chi troverò? Una moglie? Dei figli? Fratelli e sorelle?” continuava a riflettere un po’ angosciato.
Il timore di non sapere cosa avrebbe trovato, la quasi certezza di non conoscere il proprio cognome erano il viatico che gli faceva compagnia in questo girare in una città che non riconosceva come propria, almeno in gran parte. Percorse un tratto di strada verso la chiesa di San Francesco, che scorgeva in lontananza. Qualcosa di familiare finalmente gli rischiarò la vista.
“Quale palazzo mi ospiterà stasera? Qui sembrano tutte nuove costruzioni. Giulia ha parlato di quello che occupa un isolato in Voltapaletto. Però qui sono tutti immensi e freschi di calce. Il cocchiere saprà condurmi sicuramente a quello giusto. Mi sento fuori posto, anche se pare che tutti facciano a gara per mettermi a mio agio”.
La sera declinava rapidamente e le strade diventavano buie in fretta. Giacomo si affrettò a tornare dove stazionava la carrozza. Non si sentiva sicuro nell’oscurità incipiente.
“A casa” disse una volta salitovi mentre si abbandonava sul comodo sedile di raso rosso. “Tanto lui sa dov’è la mia casa in questa epoca. Io no”. Era una sensazione strana quella di non conoscere chi era in questa epoca.
Lentamente si avviò verso la Zuecca che risalì per uscire da Porta San Giovanni. Quello che lo stupiva era che la strada era più stretta di quel che ricordava. Adesso era un immenso cantiere sia a destra che a sinistra, che confondeva i suoi ricordi. Raggiunse la porta che era già chiusa e vigilata dal corpo di guardia. All’imbrunire dunque le porte cittadine venivano sprangate fino al sorgere del nuovo sole. La carrozza si fermò, mentre il cocchiere confabulò col capitano. Un lento cigolio avvertì Giacomo che i soldati stavano aprendo il portone per consentire l’uscita. Percepì che si era rimessa in moto dall’andamento saltellante delle ruote sul terreno irregolare.
Scostò la tendina per scrutare fuori ma osservò solo buio e un accenno di bruma che si levava dai campi. Le strade gli erano sconosciute o quanto meno non identificabili con quelle che conosceva. Qualche misera abitazione sorgeva qua e là ai bordi ma su tutto regnava oscurità e foschia.
Si domandava come il cocchiere riuscisse a guidare senza perdersi ma in particolare si chiese con quale coraggio avrebbe affrontato il percorso inverso per raggiungere il luogo del convivio.
Lui continuava a sentirsi fuori posto ma scacciò questo pensiero, perché voleva scoprire le motivazioni per le quali era piombato in un secolo che non gli apparteneva. Si concentrò sui rumori che ascoltava. Per le azioni ci sarebbe stato tempo.
Il lento battere degli zoccoli del cavallo, il cigolare delle ruote sul terreno irregolare, gli sbalzi della carrozza sulle asperità della strada furono i compagni di viaggio di Giacomo, immerso nei suoi pensieri.
Avvertì che la carrozza si era fermata di nuovo.
“Siamo arrivati?” rifletté scrutando fuori. La sagoma di una chiesetta compariva alla sua destra, mentre in lontananza si vedevano dei fuochi tremolanti che illuminavano un viottolo.
Il cancello cigolante si aprì e la marcia fu ripresa.
“Messer Giacomo, siamo arrivati” udì la voce ormai familiare del cocchiere mentre si apriva la porta per scendere.
Giacomo osservò la facciata della sua abitazione senza riuscire a memorizzare nulla.
“Ci sarà tempo per osservarla meglio. Ora le ombre impediscono di vederne i contorni”.
Accompagnato da un domestico con un grande candelabro raggiunse quella, che suppose, fosse la sua stanza.
Una graziosa serva gli portò dell’acqua calda e gli disse: “Madonna Isabella vi aspetta nelle sue stanze”.
L’informazione lo fece riflettere.
“Dunque sono sposato”. Era una nuova indicazione che si aggiungeva alle altre. Lentamente il mosaico avrebbe mostrato il disegno complessivo.
La ragazza, vestita con panni di lana ruvida, l’aiutò a togliersi il mantello e il farsetto. Poi versò l’acqua in un bacile elegante e dai riflessi metallici, invitandolo a immergervi i piedi che strofinò con forza.
Giacomo si domandò chi fosse questa serva e le chiese chi era, perché gli sembrava un viso nuovo.
“Sono Ghitta, messer Giacomo, per servirla” rispose pronta mostrando un viso furbo e pulito.
“Zucola mi ha assegnato a lei in sostituzione di Lorenzo, che è stato arruolato nell’esercito del Duca”. Precisò con una punta di orgoglio.
“Zucola? Lorenzo? E chi sono costoro? Servi? Domestici? Qui tutto si complica e si fatica a capire il nesso tra nomi e mansioni” rifletteva Giacomo, sbottonando un corpetto con le maniche.
La ragazza continuò a parlare, a spiegare mentre l’aiutava a togliersi gli indumenti.
“Sono la figlia di Antonio, un contadino di messer Ercole, vostro fratello. Oggi è il mio primo giorno. Sarò la vostra cameriera personale”.
Giacomo si fermò un istante a riflettere perché oltre che a una moglie aveva anche un fratello.
Ghitta afferrò la calzamaglia per sfilarla e nel farlo toccò le parti intime emettendo un gridolino tra lo stupore e la gioia.
“Quanti anni hai?” le chiese, un po’ infastidito, anche se quel tocco aveva risvegliato qualcosa di sopito.
“Diciotto, messer Giacomo. E non sono ancora maritata perché mio padre non ha i soldi della dote” rispose pronta.
Raccolse tutti gli indumenti e sparì velocemente in una porta.
C’era qualcosa che non quadrava mentre era rimasto praticamente solo con un camicione di lana.

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Capitolo 6

Castello Estense, salotto ducale. Vespro stesso giorno
 
Alfonso entrò nello studio ducale per vedere lo stato dell’arte. Era rimasto solo la sua sedia “Savonarola” nella stanza. Ponteggi e pitture ovunque, il salotto ducale era un cantiere aperto. Una squadra di pittori era all’opera per affrescare il soffitto. Si intravvedeva il disegno, appena abbozzato. Tutta l’area intorno alla torre Marchesana e nella via Coperta era un laboratorio, una fucina per ridisegnare i suoi appartamenti.
Si sedette a contemplare l’opera, che prometteva bene, ma la mente era occupata da un altro pensiero: Laura, la figlia del berrettaio.
“E’ una donna che emana forza e tranquillità. Nessun timore. Ha tenuto sempre gli occhi puntati verso di me senza mai abbassarli. Mi ha stregato”.
Si stupiva nel formulare questi pensieri. Era la prima volta che una donna generava in lui queste riflessioni.
Il Duca guardava il soffitto senza vedere niente mentre la mente associava Lucrezia.
“E’ sempre stata disponibile ma ora dopo otto gravidanze e faticose maternità la sua salute è sempre più un’incognita e fatica a riprendersi. E’ ancora una bella donna ma va declinando. Non riesco a comprenderla perché ha abbracciato il terz’ordine francescano, legandosi ai seguaci di San Bernardino e Santa Caterina. Sembra che voglia espiare delle colpe delle quali sicuramente si è macchiata nel passato, ma  che non mi interessano”.
I suoi pensieri erano rivolti solo all’unione carnale, a tenerla occupata nel governo della famiglia e del ducato, quando lui si doveva assentare per seguire una guerra o perorare una causa dei suoi possedimenti. Un sorriso comparve sul viso bruciato dal sole, mentre ricordava che in quasi quindici anni di matrimonio aveva generato quattro figli ancora in vita, l’ultimo dei quali era nato solo l’anno prima. Il ducato era salvo, perché la discendenza era assicurata: il papa, del quale era feudatario per Ferrara, non poteva revocare l’investitura agli eredi naturali, anche se era in corso un nuovo braccio di ferro con Clemente VII per i possedimenti modenesi. La scomunica era stata tolta ma stava ancor lottando per riottenere i territori di Modena e Reggio.
Dunque non era il pensiero di Lucrezia che lo tormentava ma la caparbia volontà di opporsi alle mire del Papa sul suo ducato.
“Ho accettato di sposare Lucrezia perché era la figlia del potente Papa Borgia ma in verità non ne ero molto felice. E’ vero che ha portato in dote una montagna di fiorini d’oro ma la sua bellezza è stata come un fiore che attrae le api. Ora questi pensieri sono svaniti perché non temo più che si svii. L’ho domata, imbrigliata ma è diventata passiva, Non c’è più gusto di passare le notti con lei. Devo ammettere che mi ha concesso un bel erede”.
La fugace immagine di Ercole, il primogenito passò nella sua mente. Lo vide, nonostante i suoi otto anni, forte e robusto, dal carattere risoluto e già sufficientemente scaltro nel farsi valere. “Sarà il mio successore alla guida del ducato quando Dio mi avrà richiamato a sé”.
Si domandò meravigliato le motivazioni di queste associazioni, che erano state avviate dal solo pensare alla donna vista nella mattinata, neppure logicamente correlate tra loro. Era un vagare  saltando da una considerazione all’altra sul filo della ragione.
Adesso però i suoi pensieri erano tornati a concentrarsi su Laura, la giovane dalla personalità forte e indipendente, che in qualche modo l’aveva attratto. Era titubante nel lanciarsi in questa nuova avventura.
“Perché?” si domandò mentre continuava a fissare inutilmente il soffitto.
Doveva riconoscere che Lucrezia aveva dimostrato delle capacità politiche, insospettate in una donna ed era molto amata dai ferraresi che vedevano in lei oltre la bellezza anche la bontà d’animo verso i poveri.
“Abbiamo gusti differenti in tema di arte. Lei si è circondata di poeti e letterati mentre io ho chiamato grandi pittori e scultori per abbellire i camerini del mio appartamento sopra la via Coperta. Io preferisco l’arcigno Cosmè Tura, lo scarno e rarefatto Ercole de’ Roberti, il potente Dosso Dossi, il sereno ma maschio Lorenzo Costa, mentre lei adora le dolci pennellate del Garofalo per decorare le sue stanze. Ma perché mi ritrovo a rincorrere questi pensieri?”.
Tutti questi turbinii di considerazioni avevano travolto Alfonso distraendolo dalla visione di come procedeva l’affresco del soffitto.
Però tornava con la mente alla mattina quando si era recato da Francesco, il berrettaio, con la scusa di ordinare un cappello da usare nelle prossime feste di carnevale.
Dunque era Laura il centro dei suoi pensieri, mentre il divagare su Lucrezia era solo un diversivo. Doveva rifletterci ma percepiva di essere stranamente incerto, lui che non aveva minimamente disdegnato di accoppiarsi anche con donne del mestiere.
Ancora una volta gli tornò prepotente alla mente Lucrezia e decise di rendergli omaggio prima di coricarsi.
Percorsi i corridoi che lo conducevano all’appartamento della moglie, la trovò intenta a giocare coi tarocchi nella sala dei Giochi.
“Madonna Lucrezia” esordì Alfonso sedendosi tra lei e Laura Rolla.
“Come state? Mi pare che abbiate una buona cera. Chi vince? E quale premio toccherà in sorte alla vincitrice?”.
“Va meglio, mio Signore” replicò serenamente la duchessa.
“Nulla. Giochiamo per ingannare il tempo prima di coricarci per il riposo notturno. Ma ora scusatemi” e si alzò diafana uscendo dalla sala.
Il duca rimase pensieroso faticava a comprenderne l’atteggiamento. Il suo temperamento robusto gli impose di salutare la compagnia delle donne che stavano con Lucrezia e rientrare nel proprio appartamento senza attenderne il ritorno.

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