“Ho sacrificato il mio essere donna all’arte, così nessun uomo ha mai capito che io avevo desiderio di donare il mio corpo a loro. Io volevo essere amata perché sono donna e non perché posso produrre ricchezze, ma nessuno ha mai osato afferrare il dono che facevo loro“.
Era l’amaro sfogo di Angelica, rimasta sola e preda del male sottile che lentamente la stava divorando giorno dopo giorno, poiché nessuno era stato capace di donarle amore e renderla felice.
Ormai incapace di tenere in mano un pennello e preda di crisi depressive sempre più acute stava in un angolo della stanza a guardare fuori i colori intensi dell’autunno con lo sguardo vacuo, perso nel vuoto. Percepiva che la fine si stava avvicinando a grandi passi senza che trovasse il conforto in qualcuno, che le stesse vicino e la sostenesse. In un lampo di lucidità, sempre più raro nel buio che la stava sovrastando, ricordò chi era prima che la malattia degenerasse.
“Sono stata una ..” e ripiombò nell’oscurità della mente mentre le pareva di veleggiare su terre sconosciute fra persone che non parlavano la sua lingua. Volti senza corpi, corpi senza volti.
Avvolta in un ampio scialle di lana riccamente lavorata continuava a fissare inutilmente il giardino spoglio mentre le foglie lentamente cadevano per terra come una danza macabra. Il pomeriggio romano era inondato da un pallido sole che illuminava parzialmente il vetro, attraverso il quale Angelica osservava il mondo esterno. La vista cadde sul pino piantato al centro dello spiazzo antistante la casa sul Pincio.
Un lampo, un ricordo, un flashback accese la sua mente e cominciarono a scorrere delle immagini lontane.
«Chi sono?» si chiese tremante mentre si stringeva lo scialle sul petto come per proteggersi da un nemico misterioso e pericoloso.
“Sono Angelica Kauffmann, una pittrice famosa, anzi la più famosa del mio tempo. Sono conosciuta in tutta Europa ed ero ricercata da nobili e mercanti danarosi che passavano dal mio atelier romano con la speranza di portare a casa un ritratto dipinto da me”. Era l’amaro sfogo nella solitudine della casa romana, un tempo cenacolo di artisti e viaggiatori di passaggio, adesso silenziosa dimora disertata da tutti.
Di nuovo il buio calò sulla sua mente e si spense quel piccolo barlume, che l’aveva ravvivata, simile a una candela dalla luminosità incerta.
I suoi pensieri vagavano tra il vuoto della malattia e la regressione nel tempo. Altri flash, altri sprazzi di luce mentre tornava bambina. Si vedeva una ragazza di dieci anni, mentre seguiva il padre, partito dal Voralberg austriaco per approdare a Coira in Svizzera, dove era nata. Lo vedeva intento a raffigurare immagini sacre in piccole chiese tra le valli alpine e la pianura padana.
La bella voce allietava quel vagabondare incerto e frettoloso. Qualcuno voleva che lei si dedicasse al canto ma i colori, i volti, che prendeva forma come per magia sulle pareti nude, la fecero scegliere un’altra strada. Ben presto si scoprì una cittadina del mondo, perché la fama non era dovuta solamente a suoi meriti artistici ma era il risultato della sua personalità forte e decisa.
Come nella sua infanzia si alternavano montagne impervie e innevate a valli dolci e verdeggianti, così in questa stanza, che era inondata dalla luce crepuscolare della sera incipiente, si ritrovava tra ricordi lontani e vuoti presenti.
Si era sposata con un artista mediocre e avanti nell’età. Il loro matrimonio non era stato esaltante sotto il profilo amoroso, ma era stata semplice convenienza economica dopo l’infelice e sfortunata della prima unione.
“Nessun rimpianto. Né il primo né il secondo hanno saputo donarmi affetto. Carlo, molto più vecchio di me, non mi ha dedicato molte attenzioni. Ho sofferto, perché la mia femminilità aspirava a ricevere amore e passione ma non sono state appagate per nulla tra le mura domestiche”.
Un sospiro, un amaro ricordo.
“Per dimenticare la mancanza di sentimenti, mi sono dedicata senza tentennamenti alla pittura, che è stata ricompensata con molti zecchini d’oro. Ero ricca, perché Carlo ha amministrato con molta oculatezza il mio patrimonio, ma povera di emozioni, perché nessuno ha saputo cogliere i fiori del mio cuore”.
Possedeva una bellezza rara e delicata che attirava naturalmente gli uomini. Abituata a essere corteggiata da tutti, ricambiò pochi con uguale passione e riservatezza. Era sempre combattuta tra accettare la corte assidua e insistente dei molti ammiratori o rimanere fedele ma infelice al marito sposato nel 1781 a Londra. Il gran numero di uomini che frequentavano lo studio alimentò le dicerie che fosse una grande consumatrice di sesso, una mantide, suscitando le gelosie delle altre donne.
Torno a guardare fuori dalla finestra, osservando il pino che le ricordava una persona speciale, che aveva amato con passione e le aveva donato delle giornate meravigliose.
«Avevo 45 anni ed ero profondamente depressa, quando ho incontrato Goethe ma ero ancora meravigliosamente bella. Gli anni non avevano intaccato lo splendore del mio corpo».