Angelica stava completando il ritratto di Goethe, quando si ritrovò bambina attenta a osservare il padre, Josef, mentre dipingeva paesaggi, personaggi e soprattutto decorazioni religiose nelle chiese. Con gli occhi sognanti e il pennello a mezz’aria smise di dipingere e cominciò a sognare. Un flusso caotico di pensieri di ricordi si affacciarono nella mente senza che riuscisse a mettere ordine.
“Sono nata a Chur nel cantone dei Grigioni per puro caso, ma le mie radici affondano nel Voralberg a Schwarzenberg, dove ho tutti i miei parenti, anche se ci sono passata raramente”. Erano queste le esternazioni, che riempivano immancabilmente le conversazioni con gli amici venuti a trovarla.
Della madre Cleofe, che aveva perso quando era ancora giovane, ricordava che era di aspetto piacente, minuta ed estremamente religiosa. Questa rigidezza etica e morale erano state per lei una fonte continua di dissidi interni per tutta la vita, sempre combattuta tra il rispetto della morale cattolica impartitale e la libertà dei costumi nelle relazioni. Al pensiero della madre un lieve rossore le imporporò le guance perché era certa che non avrebbe mai approvato i comportamenti attuali. Se fosse ancora in vita, immaginava che avrebbe affermato con tono categorico: «Espierete le vostre colpe tra i supplizi nelle fiamme eterne dell’inferno». Scacciati questi pensieri amari, ritornò con la mente alla madre, mentre si dilettava di musica e cantava. Ricordava che rimaneva a lungo ad ascoltare quei suoni, che le rimbombavano ancora adesso nella mente melodiosi e affascinanti. “Amava la musica e ha saputo trasmettermi questo amore. Se non avessi scelto di diventare pittrice, ora sarei una famosa musicista”. Sapeva di avere un grande talento musicale ereditato da Cleofe ma lo aveva sprecato per seguire le orme del padre. “Se non fosse morta così presto, forse avrei seguito l’inclinazione musicale o come valente soprano o come musicista. Però il destino ha provveduto in altro modo, facendomi seguire l’attività di mio padre”.
Un lieve sospiro interruppe il flusso dei pensieri mentre osservava sul cavalletto la tela, che non progrediva molto.
“Mio padre non è stato un pittore di grande estro o talento, perché non riusciva a gestire correttamente i colori. Ma mi ha insegnato ad amare il bello, le proporzioni e la forma, mi ha sostenuto e incitato a diventare pittrice e scultrice. Mi ha insegnato quella tecnica pittorica che a lui era mancata. Mi ha portato con sé a girare per l’Italia facendomi conoscere tutti i grandi artisti. Mi ha introdotto nel mondo dell’arte, presentandomi ai primi committenti, ai quali aveva mostrato i miei disegni. Se sono diventata quella che sono, lo devo a lui”. Era il commosso ricordo che aveva della figura paterna, che aveva segnato profondamente la sua esistenza. Il padre era uno dei tanti pittori itineranti che prestavano la loro opera nel decorare chiese, conventi e case. Era ricercato perché costava poco pur producendo apprezzabili opere senza mai diventare ricco o famoso.
Dalla cittadina svizzera di Chur era venuta in Italia sul lago di Como all’età di undici anni seguendo il padre nella sua attività, mentre operava per conto del vescovo Monsignor Nevroni a dipingere soggetti sacri. “Il vescovo è stato il primo a notarmi, mentre mi dilettavo a dipingere i ritratti delle persone che ci circondavano. Sono rimasta per dieci anni in Italia. Qui mi sono formata come pittrice e ho acquisito il gusto e la passione per l’arte attraverso l’apprezzamento della plasticità dei pittori e scultori più famosi da Michelangelo a Raffaello”.
Con gli occhi velati dalla nostalgia ricordava i primi incarichi ufficiali, quando era poco più di una bambina. “Avevo solo dodici anni, quando il vescovo di Como mi ha commissionato il suo ritratto da appendere sulla parete nella sala conciliare della curia vescovile. E’ stata un’esperienza memorabile, perché sono entrata ufficialmente a fare parte della cerchia dei pittori. Chissà dove è quel quadro. E’ ancora appeso o giace impolverato in un qualche oscuro scantinato?”
Interruppe di dipingere perché la marea dei ricordi la stava sommergendo. “Sono stati anni intensi mentre giravo per la pianura lombarda ed emiliana. La mia fama di brava ritrattista prese forma proprio in quei frangenti. Modena, Milano, Morbegno e altre città ancora mi accolsero, dove ho lasciato molti dipinti”.
Gli occhi si inumidirono quando ricordò il primo soggiorno romano col padre: “Avevo solo ventiquattro anni quando l’Accademia di San Lucia mi accolse come membro onorario. Io ero una bambina rispetto agli altri accademici dai capelli bianchi e molto più anziani di me. L’accademia è la più antica università dell’arte, dove si accettano solo le persone dotate di talento artistico. Che emozione ho provato entrando in quell’aula solenne e enorme. Quella fu l’occasione per la mia consacrazione definitiva, diventando parte stabile del consesso degli artisti”.
Si fermò di nuovo, mentre dipingeva il ritratto di Goethe, per intonare una breve canzone. “Lieber Gott1“ disse durante una pausa, volgendo gli occhi verso il soffitto. “Mi hai dato grandi doni: dipingere con maestria, scrivere musica col testo, suonare da virtuosa il cembalo e una notevole voce da soprano. Potevo eccellere in tutte queste arti, ma la pittura e la scultura sono risultate vincenti nella sfida di essere in alternativa una cantante o una musicista. Quanti dubbi mi hanno assalita durante quegli anni, quando ero ancora adolescente! Però il contatto con i grandi pittori e scultori italiani hanno fugato qualsiasi incertezza! Ho scelto la strada dell’arte e ora sono famosa e ricercata”.
Il suo carattere volitivo e deciso si era forgiato e maturato, quando ventiseienne era partita da sola per Londra dove si trasferì presso lo studio londinese di Joshua Reynolds, il più famoso ritrattista dell’epoca, per migliorare la già pur apprezzabile dote di valida pittrice. Qui era stata raggiunta dal padre, che la seguiva come un’ombra, poiché Angelica rendeva parecchi zecchini d’oro coi suoi ritratti. Era un’autentica miniera d’oro, perché era diventata famosa e ricercata per il suo talento.
“Devo tutto a Joshua, quando mi ha accolto nel suo studio. Mi ha plasmato graficamente e mi ha insegnato a miscelare i colori. Però soprattutto è stato per me un secondo padre, insegnandomi a stare in società, a respingere i pretendenti troppo insistenti, a imporre le mie idee ai committenti. In quegli anni ho lavorato sodo e sono maturata sia artisticamente sia come donna”.
Sono stati anni importanti quelli, come rammentava Angelica.
“Mi hanno chiamata la poetessa del pennello per l’abilità nel dipingere i ritratti della ricca borghesia inglese e dei nobili londinesi” mentre rievocava con una punta di vanità i vari epiteti che avevano coniato per lei. “Ero io a dettare le mode e gli stili, a influenzare gli altri artisti e non il viceversa. Ero ricercata e adorata dall’alta società di Londra. Ero talmente famosa che in un anno ho accumulato tanto denaro da potermi permettere l’acquisto di una comoda casa”.
Mentre ricordava Reynolds e i trascorsi londinesi, un pizzico d’orgoglio la colse nuovamente. “Che soddisfazione ho provato quando la Royal Academy mi ha accolta come membro fondatore. Io sono stata la prima donna a entrare in quel ambiente maschilista! Dopo di me è stata accolta Mary Moser. Gli altri 28 membri erano tutti uomini. E questo lo devo a Joshua, che ha perorato la mia causa con grande forza e determinazione”.
La malinconia salì dentro di lei, mentre rammentava il doppio matrimonio, il primo con il Conte de Horn, un impostore, e il secondo con Antonio Zucchi, un pittore più vecchio di lei di ben 15 anni.
Nel periodo londinese aveva sposato un ciarlatano, che l’aveva raggirata con false credenziali aristocratiche. “Nonostante le avvertenze di Joshua sono stata abbagliata dai modi di fare e dalle finte carte di questo pseudo conte. Sono stata una sempliciotta, quando lui mi chiese di tenere segreta la notizia del matrimonio. Non avevo compreso il raggiro che stava operando ai miei danni. Gran parte della ricchezza posseduta è volata via come le rondini in autunno”.Un lungo sospiro interruppe questa amara riflessione prima di riprendere il filo del discorso. “Come sono stata ingenua! Quell’impostore ha rovinato gli anni più belli della mia vita senza che avessi percepito l’inganno che mi aveva teso”. Le tornava in mente che non era riuscita a liberarsene nonostante l’interessamento di Reynolds, finché la morte non lo aveva colto e l’aveva trasformata in una vedova.
“Al suo decesso ho dovuto accettare come secondo marito Antonio, solo perché ho girato per l’Europa con lui per pura convenienza, spacciandolo per tale. La società non accetta che una donna, non sposata, giri da sola per il mondo. Quindi lo ho scelto come accompagnatore anche perché mio padre mi ha imposto che lui fosse il curatore del mio patrimonio. Io non sono mai andata troppo d’accordo col denaro, che arriva con facilità attraverso la mia attività. Sono diventata talmente ricca da permettermi l’acquisto del grande palazzo con annesso parco sul Pincio, dove abito, e di questo studio, dove lavoro, con l’attiguo appartamento”.
Il secondo non era stato un matrimonio d’amore ma di puro interesse, come spesso capitava a quei tempi. Aveva la necessità di un solido amministratore che gestisse dopo la morte del padre il cospicuo patrimonio accumulato, perché era tanto abile coi pennelli, quanto incapace di gestire il danaro che percepiva dai molti committenti.
Aveva poco più di quarant’anni, quando l’aveva sposato, ma era troppo vecchio per lei, ancora bella e piacente, cercata dagli uomini e odiata dalle donne. Era stato un comodo paravento per respingere i corteggiamenti più assidui e insistenti.
“Perché mi sono lasciata convincere a sposare Zucchi? Avrei dovuto resistere e cercare un altro uomo. Non mi ha donato mai un attimo di amore, uno slancio, un sentimento diverso dal formale. Ho bisogno di sentirmi donna, di amare ed essere riamata. Il sesso non è solo una necessità fisiologica, ma un modo di esprimere gli impulsi che nascono dentro di noi. Ora è ancora più vecchio senza più speranza che possa donarmi quello che cerco. Gli sono fedele a modo mio, senza mancargli di rispetto”.
Da cinque anni abitava a Roma nella bella e grande casa poco distante da Via Sistina sul Pincio, dopo avere vissuto per quindici anni a Londra, che aveva lasciata definitivamente dopo il secondo matrimonio. Il palazzo romano, che era stato di proprietà del pittore Anton Raphael Mengs, era molto ampio con una vista mozzafiato di Roma, che si poteva ammirare dall’alto. Nella parte posteriore un bel giardino comodo e spazioso consentiva di godersi il fresco durante i mesi estivi. In via Sistina, nel cuore pulsante di Roma, aveva lo studio con annesso un piccolo appartamento di servizio. La casa, già nota e frequentata col vecchio proprietario, era diventata ben presto il crocevia di tutti i tedeschi che venivano per svago o per studio nella città eterna, perché, mentre loro portavano le ultime notizie dalla Germania, apprendevano le novità su Roma e sui vari artisti che vì operavano.