È un post atipico, inusuale rispetto a quello che scrivo di norma. Chi si annoia a parlare di green pass è esentato dal proseguire la lettura.
Il green pass è un’autentica trappola per topi che creerà seri problemi se non si modifica la natura. È il parto dell’orgasmo vaccinale che ha colpito i nostri governanti. In particolare non è inclusivo ma divisivo perché genera cittadini di serie A e di B. Sembra che le lancette dell’orologio si siano spostate all’indietro di cento anni, quando se non avevi la tessera del partito non potevi fare nulla. Mancano solo le purghe e poi abbiamo fatto bingo.
Anche per me dal venti agosto, al termine dei quattordici giorni dalla seconda dose, è operativo. Dopo mesi di riflessioni e incertezze mi sono vaccinato. Tutti i timori si sono rivelati infondati e non ho accusato il minimo malessere, nemmeno stanchezza o altro. Del green pass non me ne frega nulla e la vaccinazione non l’ho fatta per questo scopo. Anzi. Non lo userò salvo per una emergenza assoluta che al momento non riesco a quantificare. Allo stato attuale la carta sta in una custodia di plastica insieme ai documenti vaccinali. Il qrcode è confinato nell’app IO accessibile solo con lo spid che posso farlo unicamente a casa per il banale motivo che non ricordo la password di primo accesso. Niente credenziali niente accesso. Non ho neppure l’intenzione di ricordarle. Trasferirla tra le immagini? Non ci penso per nulla. Però non era questo l’argomento del post.
Il green pass è un documento a scadenza come patente o carta d’identità. Ha una non piccola differenza: la durata, solo nove mesi. Per chi è guarito dal COVID, mi pare, solo sei mesi. È rinnovabile, credo, con altre dosi di vaccino di cui non si sa nulla. Al momento solo chiacchiere.
Basta fare un piccolo conto e chi si è vaccinato in gennaio dal diciotto ottobre, come qualcuno ha già detto, è scoperto, nel senso che il documento è scaduto. Da quel momento sono a rischio, mi pare d’aver letto, due milioni di persone. Qualcuno può obiettare che a gennaio sono stati vaccinati gli over novanta che del green pass non importa nulla. Purtroppo insieme a loro ci sono operatori sanitari e delle RSA ovvero quelli che possono importare nelle strutture il virus o esportarlo all’esterno. Senza green pass non potrebbero operare in ospedali e RSA. Bel colpo che metterebbe in crisi queste strutture. Corriamo il rischio oppure li vacciniamo di nuovo? Poi Il rinnovo è ancora per nove mesi? Per quanto? E poi? Tante domande e tanti dubbi senza risposte certe o rassicuranti.
Col passare delle settimane da quella data a queste categorie professionali si aggiungono il personale scolastico, gli studenti, i lavoratori e la lista si allunga. Questo a regole invariate.
Qualcuno ha avuto la bella pensata di prorogare i nove mesi a dodici e così di seguito. Senza vaccinare nessuno. Una bella presa per i fondelli, visto che i nostri baldi governanti l’hanno sbandierata come l’arma risolutiva contro la pandemia.
I giorni passano e nessuno osa prendere posizione. Invece di fare il green pass all’amatriciana l’avessero lasciata con lo scopo originario, ovvero libera circolazione in Europa e altri paesi, tutto questo caos annunciato non ci sarebbe stato.
Attendiamo fiduciosi che il genio italico molto creativo risolva la questione. I giorni passano e nessuno fiata…
Sono incredula. Non può essere. Faccio qualche passo dentro la stanza, affascinata da quella vista. Mi do un pizzicotto sulla guancia. Sento male. Vuol dire che non sto sognando.
“Si accomodi” dice una voce dal tipico accento siciliano. Personalmente non saprei distinguere un palermitano da un catanese nel parlare. Per me sono tutti uguali.
Mi siedo su una comoda sedia imbottita di velluto cremisi. Continuo a restare in silenzio. Mi sembra di vagheggiare mondi impossibili.
“Dunque è tornata”.
Non rispondo. Apro la bocca ma non esce nessun suono. “Che abbia perso la voce?” mi chiedo inquieta. Vorrei dire tante parole ma non riesco a emettere nemmeno un sibilo.
“É diventata muta?” fa ironicamente la persona seduta dietro la scrivania.
“No!” Finalmente qualcosa sono riuscita a dirla.
“Dunque parla!” dice in maniera sarcastica chi mi sta di fronte.
“Sì”. Non si può affermare che sia stata loquace! Ma la sorpresa era ancora troppo forte per riuscire a mettere insieme un discorso decente.
Ripete quanto detto prima con un sorriso cattivo. Ho qualche timore. Incrocio le dita non vista e comincio a parlare.
Uffi! Ancora qualcuno che interrompe sul più bello. Che vuole? Non lo sa? Allora taccia e ascolti! Non capisco questi zoticoni. Vengono, sbuffano e parlano a casaccio.
“Mi dica” comincio titubante. Non so da dove iniziare la risposta alla sua domanda.
“La sto ascoltando”.
“Mi dica. Alice dov’è?”
Una sonora risata risuona lugubre nella stanza.
“Non posso credere che lei sia tornata per Alice?” dice, spalancando gli occhi come sorpreso.
“Se le dicessi di sì, lei cosa direbbe?” faccio con tono spavaldo. L’udire la mia voce mi rincuora e assumo un atteggiamento più baldanzoso.
“Mi verrebbe da ridere” mi dice senza troppe perifrasi.
“Suscita tanta ilarità, quello che ho detto?”
“Alla sua esternazione non crede neppure lei”.
“Dunque per quale motivo sarei tornata?” domando con tono duro.
“Non saprei. Pensavo che ce lo spiegasse lei. Forse potrei capire” risponde calmo, senza tic particolari.
“Sono tornata a Palermo per due motivi”.
“Ecco. Vede che avevo ragione?” afferma interrompendo quello che avrei voluto dire.
“Sono tornata a Palermo” riprendo come se non fossi stata interrotta, calcando la voce sulla parola Palermo. “Perché volevo ritrovare Alice, la mia compagna di corso e la sua splendida casa”.
Annuisce con la stessa accondiscendenza del duca nei confronti del suo vassallo. Questo mi infastidisce molto. Non sono nelle sue disponibilità, quindi preferisco mantenere le distanze.
“La seconda motivazione è che un anno fa ho vissuto un’esperienza bella e brutta allo stesso tempo. Ora tutti implicitamente mi danno della sognatrice” affermo con tono di superiorità.
Sì! Pensate che sia tocca o che stia navigando nel mare della fantasia. Niente di più falso. Ho vissuto un’esperienza del tutto anormale. Quindi smettetela con quel sorrisino di compatimento.
Riprendo fiato dopo aver detto le ultime parole. Adesso tocca a lui mostrare le carte ma dubito che lo faccia. La situazione appare irreale ma non ho ancora compreso il punto focale della storia.
La persona. che mi fronteggia, si stringe nelle spalle.
“Non c’è posto per Alice nella storia” fa con tono bonario.
“Quale storia?” domando, stringendo gli occhi. Mi sto chiedendo a quale allude, perché tutto mi appare misterioso ed enigmatico.
Non risponde. Finge di non aver ascoltato la mia domanda. Questo mi fa innervosire. Forse fa parte della strategia. Buttare un’esca per vedere quale pesce abbocca.
“Allora perché scomparsa?” dico piuttosto arrabbiata.
“Ha sgarrato. Ha subito la giusta punizione”.
“Solo perché a tenuto tra le mani quel famoso libro?” domando inquieta.
“No. Quell’episodio non conta nulla”.
“Allora perché?” dico veemente.
Il viso diventa una maschera grottesca come se fosse un guitto siciliano.
“Qui le domande le facciamo noi” risponde con tono arrogante.
“Ma ho già risposto” faccio per nulla intimorita. “Quindi ora ho il diritto di domandare”.
“No. Lei non ha risposto con correttezza alla domanda. Perché è tornata?”
“Le ho già risposto. Per Alice e verificare che un anno fa non ho sognato”.
Sembra un dialogo tra sordi, perché nessuno dei due vuole dire la verità.
“Non sono esaurienti le risposte. Sono banali e non aggiungono nulla da parte sua. Un modo generico per eludere il nocciolo del problema” mi dice, guardandomi con decisione negli occhi.
Capisco che non si va da nessuna parte. Però non saprei cosa dire. Taccio.
“Dunque non vuol rispondermi?” continua insistente.
“No!” Mi rifugio nuovamente nei monosillabi.
“Cosa le fa supporre che conosca la sorte di Alice? Chi è questa Alice?”
“Lei la conosce. Ne sono certa. E poi mi ha detto che è stata punita”.
“Forse non parliamo della stessa persona”.
“Questo lo dice lei. Ha affermato che per lei non c’è posto nella storia” continuo implacabile.
Tuttavia non sembra che sia riuscita a scalfire la corazza. L’uomo non fiata ma pare un dobermann pronto ad azzannare.
“Eppure mi è bastato chiedere di Alice e mi hanno condotta da lei” dico con sicurezza. A quest’ultima affermazione non ribatte. Rimane rinchiuso nel suo mutismo. Il viso fa una smorfia, che cerco di interpretare. Credo di averlo in pugno. Sono rinfrancata, perché sono convinta di averlo messo nell’angolo.
Scuote la testa senza rispondermi. Continua a fissarmi malignamente ma reggo con disinvoltura lo sguardo. Devo battere il ferro finché è caldo.
“Lei conosce l’Istituto degli orfani e trovatelli a Palermo?” chiedo, cambiando argomento della disputa, perché la questione Alice è finita su un binario morto.
“E chi non lo conosce! Era un’istituzione benefica, che ha salvato molti bambini e bambini dal baratro della strada. Ora è sparito. Non esiste più da almeno settant’anni!”
Sono basita. Non è possibile! Cinquantuno anni prima ha accolto Maria Ablesi! Ricordo benissimo quella lettera con tanto di data e dati anagrafici.
“Perché mi guarda in modo strano? Pensa che le racconti una frottola? Era già sparito prima della guerra!”
“Ma non è possibile!” ribadisco convinta.
Un sorriso perfido si stampa sulle labbra dell’uomo, che fa un cenno a qualcuno alle mie spalle. Mi giro e vedo quell’ometto calvo e segaligno che mi ha condotto in questa stanza.
“Due tè!” e rivolgendosi a me mi chiede se voglio latte o limone.
“Non voglio il suo tè” replico memore di quanto avvenuto dodici mesi prima.
“Non può usarmi questo sgarbo” dice con voce cattiva.
“No, no!” faccio, cercando di alzarmi.
Non riesco. Qualcuno mi tiene inchiodata per le spalle. Sono nel panico. Comincio a urlare. Mi dibatto come una forsennata.
Mi sento scuotere forte.
“Angelica, Angelica! Svegliati!”
E’ una voce amica. Mi metto eretta. Apro gli occhi e vedo Alice. L’abbraccio e piango.
L’amica ricambia e mi guarda sorpresa.
“Stavi urlando” mi dice pacatamente. “E non riuscivo a farti smettere”.
Guardo il calendario e mi accorgo di aver viaggiato avanti nel tempo.
La donna, che curiosamente si chiama Maria come la lontana trisavola, mi congeda con un sorriso. Sembra Mona Lisa. Lo so che mi ha raccontato solo uno spicchio di verità ma nemmeno io sono stata totalmente sincera.
Vedo un braccio alzato. Che vuoi? Domando scortese, perché queste interruzioni mi fanno perdere il filo del discorso e incavolare alquanto. Dici di sveltire il racconto? Se hai fretta, puoi andartene. Nessuno sentirà la tua mancanza. Sei curioso di conoscere come andrà a finire? Allora resta lì seduto. Quando ho finito, scriverò la parola FINE. Uffa! Che rompi… che sono!
Mi alzo. Non so dove andare. Yossuf se ne è andato. Anche lui ha un lavoro e non può perdere tempo con me. Penso di chiamare un taxi per farmi condurre in una biblioteca. Di sicuro ce ne sarà una ben rifornita. Ma cosa devo cercare? Non ho uno straccio di idee. Salgo in camera. Non è stata felice la decisione di rimanere a Palermo per scoprire il segreto che è nascosto nel ricordo di un anno prima.
Guardo fuori dalla finestra nella speranza di trovare un elemento che possa chiarificare le idee. No, niente da fare. Ricapitolare tutto non serve a nulla. Ogni tassello è ben chiaro nella testa e poi…
Lo so che state sbuffando, perché invece di sbrogliare la matassa, questa diventa sempre più ingarbugliata. Avessi uno straccio di filo da seguire! E voi non dite niente? Nessun indizio per dipanare il gomitolo? Bella compagnia mi fate!
Scuoto la testa. Vado verso la porta. Ritorno sui miei passi. Sì, insomma avete compreso bene. Nessun lampo squarcia le tenebri della mente. Eppure qualcosa mi sta sfuggendo.. Troppe Marie, troppe Alici. Troppi dubbi e nessuna certezza. Mi concentro e mi dico: “Non ha senso che io abbia vissuto degli eventi vecchi di un secolo e forse anche oltre. Devo dunque ammettere che sono passata dal sogno alla realtà?”
La logica in questo momento mi manca. Dovrei affidarmi all’istinto. Ma cosa mi suggerisce? Nulla, calma piatta. Sono prigioniera dei miei pensieri, quando sento bussare alla porta.
“Avanti” grido, non avendo l’intenzione di alzarmi per aprirla.
Da una fessura vedo spuntare la testa di Rosaria con la classica cuffietta bianca. Aspetto che dica qualcosa.
”Yossuf la sta aspettando davanti all’ingresso”.
Rimango senza parole. Avrei atteso tutti fuorché lui.
“Cosa devo dire?” domanda cortese la cameriera.
“Scendo tra un minuto” le rispondo, ritrovando il suono delle parole.
“Mi dica, Rosaria”.
“Cosa, signorina Angelica?”
“Lei conosce Alice?”
La donna rimane in silenzio, come se elaborasse una risposta plausibile. Attendo calma, diversamente da altre occasioni. Si avverte nell’aria una certa elettricità. Percepisco anche il senso della presenza di Yossuf.
“Non importa, Rosaria” le dico bonaria. “Non fa nulla. Il tempo di prendere la borsa e sono giù. Ringrazi la signora per avermi letto nei pensieri”.
Rosaria, sollevata dalla mancata risposta, annuisce e richiude con dolcezza la porta.
Afferro il telefono, una piccola agenda, anacronistica al tempo del web, la fida moleskine rossa e qualche altra cianfrusaglia. Ficco tutto nella borsa alla rinfusa.
Cinque minuti più tardi salgo sul taxi bianco.
“Dove mi conduce?” gli domando, perché so già che mi porterà da qualche parte.
“Dove vuole lei, signorina” dice Yossuf, scoprendo quei denti candidi che mi fanno morire d’invidia. Ogni volta che li vedo, mi pare di impazzire.
“Suvvia, Yossuf! Crede che non sappia che donna Maria le ha dato istruzioni precise”. Butto là queste parole, sperando di cogliere nel segno.
Il tassista innesta la prima e si avvia lentamente nel traffico di Palermo. Resto in silenzio. Vorrei che fosse lui a parlare ma non lo fa. “Che istruzioni ha avuto?” mi chiedo nella speranza di trovare uno spiraglio di sole tra le nuvole.
Dopo diverse giravolte si ferma davanti a un portone, contrassegnato dal numero otto. Se pensa di avermi depistato, si sbaglia. Mi ero già persa al primo incrocio! Figuriamoci al secondo. Quindi non so dove mi trovo. Un bel guaio se mi lascia lì.
“Siamo arrivati” dice laconico Yossuf.
“Arrivati dove?” esclamo sorpresa. La casa non mi dice molto, anzi direi niente.
“A destinazione. Dove mi ha chiesto di condurla” afferma serafico e sorridente il tassista.
“La devo aspettare?” aggiunge, spegnendo il motore.
“Certamente. Non so nemmeno se siamo a Palermo o a Trapani” dico ridendo. Ci mancherebbe solo che mi lasciasse qui. Ignoro in quale parte di Palermo mi ha condotta e dubito di impararlo. Per me tutte le strade sono uguali.
Scendo. Mi guardo intorno smarrita. Una via anonima. Un palazzo ancora più anonimo e grigio. Faccio qualche passo verso un portone marrone e scrostato, salendo un paio di gradini malmessi. “Se Maria gli ha detto di condurmi qui, vuol dire che forse sono arrivata alla fine dei misteri. Sarà vero oppure no?” rifletto per darmi coraggio.
Suono a un campanello, che gracchia in lontananza. Aspetto paziente. Passano i secondi di attesa che mi sembrano minuti od ore.
Scricchiolando il portone si apre lentamente e sporge la testa calva di un uomo.
“L’aspettavamo” mi dà il benvenuto e si scosta per farmi passare.
Che c’è? Dico a lei. Sì, proprio lei con barba e capelli candidi. Che vuol sapere? Perché mi aspettavano? Abbia pazienza e legga la settima e conclusiva parte.
Entro titubante in un androne buio. Mi fermo per abituare gli occhi alla non luce.
“Mi segua” fa l’uomo, di cui sento solo la voce.
“Non vedo nulla!”
“Non c’è nulla da vedere” ribatte, mentre ascolto il suo ciabattare piano che si allontana.
Mi faccio coraggio e, allungando le mani in avanti, comincio a camminare.
Non so quanti passi faccio ma a me sembrano un’infinità, prima che riesca a trovare un po’ di luce a guidarmi.
“Dove stiamo andando?” chiedo. Nessuna risposta. Capisco che è inutile porre domande. La consegna del silenzio è ferrea. D’altra parte secoli di storia malavitosa hanno lasciato il segno.
“Cammina e sta zitta!” mi dico, mentre adesso almeno lo vedo.
Si ferma davanti a una porta. Bussa con tre tocchi lunghi e uno veloce. A prima vista pare un segnale convenzionale. “Perché?” mi domando.
“La storia è lunga, Angelica. Gradisce una granita al limone?” dice la donna.
Annuisco. Non voglio perdere la concentrazione su quello che mi vuol dire. Ho la sensazione che mi permetterà di conoscere l’enigma che da giorni mi assilla.
Fa un cenno a una persona che non avevo mai visto. “Da dove sbuca fuori?” mi domando un po’ turbata. L’albergo sembrava privo di personale ma mi ero sbagliata. Si avvicina in silenzio.
“Rosaria, portaci due granite al limone. E dì a Mimma di prendere quel libro in camera mia e di portarmelo. Lei sa a quale mi riferisco”.
Cosa dici? Che dovrei essere grassa come un maiale? E perché? Mangio in continuazione? Non si vive d’aria e poi sono così buone…
Non so il perché ma qualcosa mi dice che quel volume sarà familiare. Resto in silenzio. Sono in agitazione. Cerco di non dimostrarlo e di calmarmi. Però faccio fatica a rimanere tranquilla e impassibile.
Lei… Sì, proprio, lei. Perché storce il naso? Non crede a quello che sto raccontando? Ma mi faccia il piacere. Là c’è la porta, se se ne vuole andare. Che saccenti ho trovato questa sera.
Dicevo che faticavo a rimanere fredda e distaccata.
Mi dimeno sulla sedia e aspetto con impazienza la consegna del libro.
“Deve sapere che mia nonna si chiamava Alice. Strana coincidenza?” mi dice, osservandomi di sottecchi.
“Sembra che voglia giocare al gatto col topo. Solo che il topo sono io” rifletto, tentando di assumere un’aria rilassata.
“Davvero singolare!” rispondo.
“É nata agli albori del secolo passato. Mi parlava sempre della sua nonna. Nonna Maria e dell’infanzia di quella lontana trisavola”.
Non capisco cosa c’entrino questi ricordi della nonna con quello che stiamo trattando. Se nonna Alice è dei primi del novecento, nonna Maria sarà di metà ottocento. Ma che razza di collegamento può esserci con la mia storia? Scuoto il capo. Aspetto ma il libro non pare in arrivo. In compenso due sontuose granite sono poste sul tavolino attorno al quale sediamo.
“Nell’attesa gustiamoci queste granite”.
In effetti è strepitosa. Mai assaggiata una così buona.
Mentre con calma assaporo questa autentica delizia, arriva un’altra donna che porta con sé un qualcosa che assomiglia a un volume. Pare anziano e non in buono stato.
Mi sembra di riconoscerlo. Resto col cucchiaino pieno di granita sollevato a mezz’aria. La bocca è socchiusa per la sorpresa.
“Sì!” esclamo, passato il primo istante di sbigottimento.
La donna mi guarda. Non capisce il mio stupore. É incerta nel formulare la domanda.
“Sì! Mi sembra che sia quello che abbiamo comprato con Alice al mercatino delle pulci da quel vecchio, che nessuno degnava di uno sguardo!” affermo decisa.
“Quale? Il mercato del Papireto?”
“Non so. Era immenso. Da perdersi per le molte bancarelle”.
La proprietaria mi guarda, soppesando la risposta.
“Forse era una copia. Questo volume è un ricordo di famiglia. É il dono che mi fece nonna Alice prima di morire con l’impegno di consegnarlo a una erede femmina”.
“Quello che ho comprato un anno fa era polveroso e al suo interno c’era una chiave e una lettere incollata all’interno della copertina” dico con veemenza.
La donna apre il libro e osserva l’interno della copertina. Non apre bocca nulla ma il viso trasmette una sensazione di sorpresa. La guardo con curiosità. Eppure quel moto involontario dei muscoli facciali è eloquente. Credo di aver colto nel segno.
“Sarà stata una copia. Questo tomo è dei primi dell’ottocento. Era di proprietà di nonna Maria. Maria Ablesi” fa con calma, mentre lo sfoglia con attenzione.
Rimango a bocca aperta. Adesso sono io che mostro stupore. Quel nome mi è familiare. Era riportato in quella lettera incollata alla copertina. Ricordo con precisione anche la data della lettera 23 ottobre 1950. Maria Ablesi era nata cinque giorni prima. Qualcosa stona. Sono basita.
“Mi dica” faccio per riprendere il filo del discorso. “Questa nonna Maria… Ma forse è meglio parlare dell’istituto degli orfanelli, del quale mi aveva promesso di come ne aveva sentito parlare”.
“Ci sarei arrivata ma credo che debba parlare di nonna Maria”.
“Va bene. Ascolto il suo racconto senza interromperla” dico con la faccia seria.
“Nonna Maria è nata il 18 ottobre 1850. La madre viveva in contrada Terre Rosse, dove aveva la residenza il principe Lanza di Trabia e Branciforti, don Giuseppe. Non volle mai rivelare chi fosse il padre della piccola e dovette a malincuore affidarla all’Istituto degli orfanelli e delle orfanelle di via degli Scalini, quando aveva cinque giorni, il 23 dello stesso mese. Rimase lì per vent’anni, quando una misteriosa signora non le consegnò questo libro e la fece uscire, prima che per prassi dovesse prendere il velo”.
Sono a bocca aperta per lo stupore. Sono incredibili le analogie con la mia avventura di un anno prima. Le date, a parte il secolo, il nome, il libro assomigliavano come gocce d’acqua a quanto trovato all’interno del volume. Sono certa che esiste nella copertina un incavo che aveva contenuto una chiave. Questa, la ricordo bene, era piccola e sembrava vecchia.
Altrettanta sicurezza ho sui segni di una busta incollata sotto la chiave. Non oso chiederle se i miei dubbi sono certezze. Preferisco ascoltare in silenzio.
“Si sposò. Ebbe una figlia che la rese nonna con Alice. Nonna Alice aveva dieci anni, quando lei morì. Però prima di andarsene le raccontò la sua storia e le consegnò questo libro, che ora custodisco io. Ho un unico cruccio”.
“Quale se non sono indiscreta” faccio, fingendo curiosità. In realtà del suo cruccio non me ne importa molto.
Un lieve sorriso increspa la bocca della signora.
“Non ho eredi femmine alle quali possa trasferire questo volume”.
“Dunque è questo il suo tormento?” mi dico, storcendo le labbra.
Però percepisco che la proprietaria ha raccontato solo una parte della storia. Una mezza verità. Non può essere solo questo aggancio, vecchio di un secolo e mezzo, che collega l’Istituto degli orfani, scomparso da oltre settant’anni, con quella lontana parente. “No, non può essere solo quello. Sembra che conosca molto di più” ragiono, rimanendo in silenzio. Decido di non scoprire le mie carte. L’enigma è ancora coperto da un velo di mistero abbastanza spesso. Una cosa ho compreso che la soluzione si trova all’interno del volume. Ricordo bene cosa c’era scritto nella lettera.
‘Vi prego cercate mia figlia. Consegnatele questo messaggio, la chiave e il libro. Lei saprà trovare la pagina giusta per capire‘
Sento un bisogno impellente: alzarmi e uscire alla ricerca di altri indizi.
Devo andare in una biblioteca e fare qualche ricerca.
La granita nel frattempo è diventata acqua zuccherata.
Il messaggio era dunque fasullo. Mi domando il motivo. “Perché Alice sta giocando a rimpiattino con me?” É inutile cercare delle risposte che non ci sono.
“Signora” esordisco. “Sto cercando una compagna di Università, con la quale ho fatto esattamente dodici mesi fa una vacanza nella sua città natale, Palermo”.
La donna annuisce come a incitarmi a proseguire. Respiro a fondo.
Uffa le solite facce schifate. Se non vi piace quello che scrivo e come lo scrivo, potete togliere il disturbo. Anzi cambiare aria e blog. Mi sento indispettita.
Conto fino a dieci, sperando che mi dica qualcosa. Non arriva nulla. Allora proseguo.
“Poi da quel momento si è volatizzata. Numero di cellulare, che risponde nel vuoto. Indirizzo inesistente. In realtà esiste ma non corrisponde al ricordo della sua casa. Yossuf mi dice che via della Ginestra è sempre stato un viottolo di campagna. Eppure ricordo bene una strada elegante con tante case basse con giardino. Non posso credere di essermi sognato tutto questo. Lei mi può aiutare?”
La proprietaria sorride e mi fa cenno di seguirla in giardino. Ci sediamo sotto uno splendido limone in fiore.
“Non credo che la tua amica ti abbia dato quell’indirizzo. Sono poche le zone di case basse con giardino nell’area più urbana, anzi direi che quasi non esistono. Qualcosa c’è oltre l’autostrada per Mazara del Vallo. Forse in via Bernini. Di sicuro in via della Ginestra no!”
“Eppure Alice parlava di via della Ginestra. Ne sono certa” esclamo concitata. “Guardi questo sms che ho ricevuto poche ore fa”. Le mostro il messaggio.
“Sì. Senza dubbio cita questa via ma, mi creda, qualcuno si sta divertendo con lei”.
“Però è il numero che mi ha dato Alice” sostengo con vigore la mia tesi.
“Sarà come dice lei ma Alice potrebbe aver perso il telefono oppure le è stato rubato”.
“Perché scegliere proprio il mio numero?” chiedo con forza.
“Ha detto che ha provato a telefonare a questo numero?”
“Sì”.
“Allora le ha mandato questo messaggio per vedere chi è” concluse la donna.
“Ma perché indicare una via che in qualche modo mi è nota? Come può conoscere gli indirizzi fasulli di Alice?”
“Non saprei. Forse è casuale questo aspetto”.
Non ne sono convinta. Qualcosa mi sfugge ma per intuito il messaggio indica che mi conosce e sa che quell’indirizzo è un modo per attirarmi in una trappola oppure.
“Oppure è una richiesta di aiuto che però non so come decifrare” mi dico concludendo la riflessione. Qualcosa non torna e vorrei che tornasse tutto.
“Lei non mi sembra giovanissima, anche se lo spirito lo è” comincio facendo un largo giro per arrivare alla questione che mi sta a cuore.
“Grazie. Ho superato i sessanta. Comunque ha colto nel segno” mi risponde con un bel sorriso.
“Quindi potrebbe aver sentito parlare dell’Istituto per orfanelli e bambini abbandonati, quando era piccola. Se esiste ancora, mi piacerebbe visitarlo”. Non voglio sbilanciarmi più di tanto.
“Oh! Certo! É esistito realmente ma ora al suo posto c’è un grosso condominio” dice, socchiudendo gli occhi.
Fingo stupore per questa informazione che in qualche modo conoscevo.
“Mi hanno detto che era stato trasformato in un Istituto per bambini. Un asilo nido, insomma”.
“No. Il vecchio istituto è stato chiuso. Credo prima della guerra. Ed è rimasto così, finché non è crollato a pezzi. Demolito e ricostruito, ora è un grosso condominio popolare” conclude, scuotendo il capo.
Sono in un vicolo cieco. Un messaggio fantasma e un istituto che non esiste più. Ho messo in campo quelle che erano le mie conoscenze, senza ricavarci un ragno dal buco.
Adesso devo riflettere seriamente. Non che …
Perché quella signora mi guarda storta? Cosa dice? Che sto girando intorno al tavolo affermando che devo ragionare sugli eventi? Uffa! ma non ha capito che sto narrando un’avventura? No? Allora dormiva. Cosa dice? Che era sveglia e vigile? Non mi pare. Ma adesso non mi faccia perdere il filo del ragionamento.
“Sì, devo fermarmi e mettere insieme i pezzi del puzzle” mi dico, mentre restiamo in silenzio.
“Ma quell’Istituto per orfani in che via si trovava?” le domando.
“In via degli Scalini otto” mi risponde serafica, quasi intuendo quale sarà la prossima domanda.
“Via degli Scalini otto?” le chiedo, spalancando i miei occhi blu.
“Sì, perché?”
“Eppure Yossuf mi dice che non esiste!” esclamo con voce sorpresa.
Un sorriso compare sul viso della donna. Non riesco a comprenderne i motivi ma taccio e ascolto quello che intende dire.
“La via non esiste più, come gli edifici che la contornavano. Spazzati via tutti. Demoliti e trasformati. L’area è stata ridisegnata come le vie”.
“Ma quando?” la incalzo.
“Non so ma prima che nascessi. Quanti anni prima non lo so. Forse nell’immediato dopoguerra”.
“Ma allora come fa a conoscere questo istituto?” le domando stupita.
Un bel sorriso incornicia quel viso che mostra i segni del tempo.
“Allora le spiego” comincia, mentre io mi faccio attenta.
L’enigma non è ancora sciolto.
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