Konnie – parte undicesima

Copertina di un Paese rinasce

Su Caffè Letterario è stata pubblicata l’undicesima parte del racconto Konnie. La potete leggere anche qui.

Buona lettura

21 agosto 2144

Le cime rosate dei monti circostanti danno il buongiorno ai ragazzi, che dopo una rapida colazione fredda riprendono il cammino. Però prima provano a contattare la Città del Sole. Sono tre giorni che non la sentono. Nessuna risposta. «Forse siamo in un punto dove non si prendono le comunicazioni» afferma Matteo, riponendo l’apparato nello zaino senza spegnerlo. La batteria dovrebbe durare almeno sei mesi.

La strada è umida e sdrucciolevole. La ricopre un velo di ghiaccio.

«Siamo ancora in tempo per ritornare indietro prima che sia troppo tardi» suggerisce Matteo con tono neutro. Tuttavia lui vorrebbe portare a termine la spedizione ma vuole sentire il parere della compagna.

Alba si ferma. Lo guarda mettendosi con le spalle al sole. «Dici sul serio o stai scherzando?» Fatta una breve pausa riprende col tono deciso di chi non ha intenzione di gettare la spugna. «Ti capisco e capisco che siamo in ritardo. Le tue preoccupazione sono anche le mie. Ci aspettano giornate dure perché le strade sono tutt’altro che agevoli e il tempo non sarà nostro amico. Restando al calduccio nella nostra tana, non ci siamo resi conto che il mondo esterno è ben diverso dal nostro. I ritmi sonno veglia sono scanditi in altro modo. Piove, nevica e c’è il sole in maniera imprevedibile. La natura non è benevola. Tuttavia la nostra missione è quella di portare certezze se in futuro decidiamo di uscire da sotto e riappropriarci del mondo di sopra».

Matteo ascolta col sorriso sulle labbra il monologo di Alba che si è infervorata, agitando le mani. La voce è salita di due ottave ed è vagamente stridula. «Allora rimettiamoci in marcia!» Prende per mano la ragazza con Cucciolo che scodinzola felice.

Avanzano con lentezza per diversi motivi. La strada è in salita e incontrano ostacoli di varia natura. Inoltre ignorano quali pericoli si celino dietro ogni curva. Alcuni tornanti sono franati su quelli sottostanti e per avanzare si sono dovuti arrampicare su cumuli di rocce col timore di rovinare a valle.

Matteo vede Alba ansimare un po’ più del dovuto. Fatica a tenere un passo spedito. Si guarda intorno alla ricerca di un punto dove fermarsi per riposare e mangiare qualche barretta energetica.

Salgono in silenzio sempre attenti alla strada piena d’insidie. «Ecco!» Si affretta a dire indicando col braccio un anfratto nella roccia. «Possiamo fermarci lì. Quei nuvoloni neri non promettono nulla di buono».

Alba si ferma. Osserva il cielo perplessa. «Forse è meglio proseguire e raggiungere la sommità del passo. Lì dovremmo trovare un posto migliore per ripararci se per caso si scatenasse un temporale o una nevicata improvvisa».

«Ti vedo stanca» replica il ragazzo osservandola. I movimenti sono rallentati e le risposte meno incisive.

Alba sorride ma ha pronta la replica. «Mi vedi sbuffare ma sono ancora in grado di camminare. Se non ce la faccio più, ti chiedo di fermarci».

I due ragazzi riprendono con buona lena la marcia, anche se il fondo stradale è scivoloso per il sottile strato di neve ghiacciata. Non hanno l’attrezzatura idonea a camminare in montagna e quindi faticano più del dovuto. Pagano l’inesperienza di non conoscere la variabilità del tempo in montagna come hanno già provato da quando hanno lasciato la Città del Sole. Lì c’è sempre il sole e il tempo è costante al bello ma fuori non è così. La temperatura può scendere di molti gradi nell’arco di breve tempo. Il sole può comparire o sparire in maniera improvvisa. Per i due ragazzi tutto questo rappresenta una novità.

I nuvoloni si allontanano veloci lasciando il cielo pulito. L’altezza del passo, il camminare spediti ha messo loro il fiatone e, respirando con affanno, raggiungono la sommità.

Lo spettacolo è desolante: non è restato quasi nulla in piedi. Ci sono solo rovine e ruderi con la natura che si è riappropriata del terreno, cancellando ogni traccia umana. I raggi del sole morente illuminano quel senso di abbandono che i resti delle antiche costruzioni trasmettono ai due ragazzi. Devono decidere se fermarsi oppure proseguire verso il fondovalle. Come stanno sperimentando da quando hanno lasciato la Città del Sole, la situazione meteorologica sta virando al brutto. Il cielo si va coprendo di nuvole nere, cariche di pioggia. Il vento comincia a rinforzarsi soffiando con forza. La temperatura scende in picchiata.

La stanchezza del camminare a piedi a cui non si sono ancora abituati e il timore di un peggioramento del tempo li fa optare per la soluzione più ovvia. Scelgono di riposarsi per riprendere il cammino la mattina seguente. Trovare un posto riparato è un problema. Il sole e il gelo hanno spaccato tutte le opere umane. Dopo aver girato tra i vari ruderi si sistemano tra le rovine di un hotel di cui è rimasto ben poco. Un muro rimasto in piedi quasi per miracolo offre un valido riparo dal vento.

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Konnie parte nona

Su Caffè Letterario è stata pubblicata la nuova puntata di Konnie, che potete leggere anche qui.

Oggi nel 1476 nasceva a Ferrara Alfonso primo d’Este, il protagonista del mio romanzo storico i tre cunicoli , insieme a Giacomo anche lui nato a Ferrara il 21 luglio di molti secoli dopo.

I tre cunicoli – carteaceo

È la storia romanzata dell’amore tra Alfonso e Laura Dianti col contorno di altri personaggi in parte reali e in parte di fantasia.

10agosto 2144 Bozen ore 10

Sono passati sei mesi da quando Konnie ha fatto una sortita all’esterno. Il compleanno degli ottanta è passato e avverte tristezza come se incombesse su di lui una sciagura. In realtà da troppo tempo è solo e avverte che la sua ora si avvicina a grandi passi. Non ha più stimoli. Le pagine bianche del suo diario sono finite da oltre un anno ma anche se ce ne fossero altre non saprebbe come scrivere i suoi pensieri. Non ha materiale per la scrittura.

Si trascina stancamente da una stanza all’altra e questa apatia è cresciuta un giorno dopo l’altro. Si è accentuata da quando ha fatto sei mesi prima una sortita fuori dal bunker. Avverte dolori articolari ed emicranie. Ogni tanto ha eruzioni cutanee dolorose che crescono. Ricorda bene le raccomandazioni di Marie, sua madre. «Non uscire se i sievert superano il valore di uno. Potresti rimanere in vita solo con l’aiuto di cure ospedaliere. Purtroppo gli ospedali non esistono più».

Però lui non ha intenzione di trasformare il bunker nel suo sarcofago come è stato per i suoi genitori. «Preferisco morire all’aria aperta. Le mie ossa diventeranno polvere».

Anche le scorte di cibo sono ridotte al lumicino. «Forse bastano per una settimana o anche meno».

Konnie si agita inquieto tra dolori e paure dell’ignoto. Si alza dalla sedia a fatica ma ha deciso. «Esco e sarà quel che sarà!» A fatica si trascina nella sua stanza. Prende una cartella di cuoio nero dove dentro ci mette il diario, la piantina del bunker e la sua localizzazione. Poi ci aggiungerà le chiavi per aprire le porte. In una sacca di iuta grezza infila qualche capo di vestiario, e le vivande rimaste. Spegne la luce e si avvia verso l’uscita. Il generatore atomico garantirà la corrente elettrica per molti anni. Quindi terrà in vita l’area del freddo, la purificazione dell’aria e tutto quello che funziona in modo elettrico. È l’unico apparato che non ha mai destato preoccupazioni.

Fa i gradini che lo conducono all’esterno con grande fatica. Gli manca il fiato e sono ancora più sdrucciolevoli rispetto all’altra volta. Non sembrano finire mai. Prima di aprire la porta che lo conduce all’esterno si appoggia alla parete socchiudendo gli occhi. Deve calmare il battito cardiaco e regolarizzare il respiro.

Esce e rimane abbagliato. La luce intensa ferisce la sua vista. Chiude gli occhi e li copre con una mano. Avverte un calore intenso sulle guance e sulla testa. Il suo corpo è abituato alla temperatura costante del bunker e alla luce soffusa delle lampade interne.

S’inginocchia perché gli mancano le forze per restare ritto. Si fa forza per alzarsi usando un bastone da montagna di suo padre.

È preso tra due fuochi: proseguire o ritornare nel bunker. «No, non posso tornare indietro. Devo andare avanti per vedere se incontro qualche essere umano». La decisione è presa senza tentennamenti.

Konnie non conosce nulla di quello che vede intorno a lui. Alla sua destra ci sono dei ruderi. «Forse è la casa dei miei genitori o meglio quello che resta». Sono cresciuti degli alberi all’interno e dei rampicanti sui pochi muri in piedi. Davanti delle erbe sono alte quasi come lui. Ricorda vagamente che sua madre gli aveva descritto la presenza di un giardino ben curato tra l’abitazione e la strada. Ride perché adesso ci sono solo erbacce che con fatica fende per raggiungere la strada o quello che resta.

Alle sue spalle osserva incassata due speroni rocciosi una stretta gola, mentre davanti si apre una pianura.

parte una, parte due, parte tre parte quattro parte cinque parte sei parte sette parte ottava 

Foto di cottonbro studio: https://www.pexels.com/it-it/foto/persone-che-tostano-bicchieri-di-vino-3171837/

Il 21 luglio è anche una data molto cara a me. È il mio compleanno

Tanti auguri.

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Konnie parte ottava

Su Caffè Letterario è stata pubblicata la nuova puntata di Konnie, che potete leggere anche qui.

17 agosto 2144

Si sono sistemati in una piazzola più a valle accanto a un rudere ricoperto di muschio ed edera. Accendono un piccolo fuoco con i legnetti raccolti intorno per scaldarsi e mangiare qualcosa di caldo. Si è alzato un vento freddo e il cielo si è coperto. Cucciolo si sistema tra loro.

L’alba non è rosata ma grigia e umida. Una fastidiosa pioggia li sveglia. Un pessimo buon giorno. Piegata la tenda gocciolante si mettono in cammino per raggiungere il fondo valle seguendo la vecchia strada costruita per la Città del Sole.

Un ostacolo si para dinnanzi a loro: un torrente incassato tra le due alte sponde. «È il Cordevole» spiega Alba dopo aver consultato la carta. Il vecchio ponte che lo scavalca non sembra molto sicuro. Provare a guadarlo è ancor più rischioso. Gocciolanti per la pioggia che sta infittendo restano in silenzio mentre Cucciolo si scrolla per liberare il pelo dall’acqua.

«Cosa facciamo?» Il tono di Alba è tutt’altro che rassicurante. «Rinunciamo?»

«No!» replica secco Matteo che sta valutando di rischiare il passaggio sul ponte che presenta vistose crepe sia sul manto stradale sia sulla fiancata. Questa appare sgretolata in più punti mettendo a nudo l’armatura corrosa dalla ruggine.

«Sistemiamoci al riparo di quell’abetaia. Facciamo una sosta e mangiamo qualcosa» propone Matteo, riflettendo sul da farsi.

Fissati i teli della tenda tra due alberi, si mettono al riparo per rifocillarsi. Accendere un fuoco è proibitivo, quindi si accontentano di mangiare pane e formaggio. Cucciolo trema per il freddo e la pioggia che ha infradiciato il suo pelo. Ai ragazzi va meglio perché la tuta protettiva li tiene all’asciutto.

Il tuono brontola e un violento scroscio si abbatte su di loro. Il torrente fa sentire la sua voce cupa e minacciosa. Un ruggito feroce.

«Ci conviene trovarci un’altra sistemazione meno pericolosa, se si scatenano i fulmini» suggerisce Alba con voce preoccupata, mentre osserva la radura che si sta ricoprendo con le nuvole basse. «Mi pare di scorgere un rudere alla nostra sinistra. Non è molto ma possiamo sistemarci là».

Matteo annuisce e raccolte le loro cose e liberato il telo si avvia verso quelle pietre che un tempo era un’abitazione o un riparo per custodire delle attrezzature. Cucciolo soffia e abbaia deciso verso un cumulo, finché non si calma. “Deve aver scorto o avvertito un rischio per noi, liberando l’area” pensa il ragazzo, accarezzandogli la testa.

«Non capisco perché Cucciolo si sia innervosito» chiede Alba con tono interrogativo.

«Noi non vediamo o sentiamo i pericoli ma lui sì e quindi ha fatto sgomberare il posto da intrusi sgraditi».

Matteo raccoglie un grosso ramo caduto da un abete e con quello batte le pietre a terra e quel poco che è rimasto in piedi per avere la certezza che non ci siano altre insidie. Inoltre controlla che le due pareti rimaste siano sufficientemente statiche e non crollino sotto l’effetto del vento.

Sistema la tenda addossata ai muri che la proteggono su due lati. Steso sotto un telo per proteggersi dall’umidità del terreno, Matteo va alla ricerca di rami e piccoli legnetti per improvvisare un fuoco. Sa che sarà difficile accenderlo e tenerlo acceso ma sono in quota e la temperatura scende di parecchio. Con le pietre meno umide prepara un focolare approssimativo proteggendolo dalla pioggia.

Non è molto ma almeno possono mangiare qualcosa di caldo e creare un po’ di tepore che asciugherà i loro zaini e il pelo di Cucciolo.

Il picchiettare della pioggia ora leggero, ora violento è una specie di litania musicale per le loro orecchie. Hanno visto qualche video ma è la prima volta che ne prendono coscienza. Un’esperienza nuova che si aggiunge alla scoperta del sorgere e del tramontare del sole e a tante altre sperimentate durante l’uscita nel mondo esterno.

«Torniamo indietro?» Alba ha dismesso il sorriso e i lineamenti del suo viso sono tesi. Osserva con apprensione la violenza della pioggia che sembra travolgere la loro tenda.

«No. Non dobbiamo lasciarci prendere dal panico». Matteo nota che rivoli di acqua mista a fango scendono dall’abetaia e lambiscono il loro rifugio improvvisato. “Devo deviare questo flusso. Come?” Ci sono altre pietre di discrete dimensioni rotolate più a valle. “Se le sistemo sul quel lato impedisco al fango di penetrare nella tenda”. Sotto gli occhi curiosi di Alba comincia il lavoro. Quando ha finito, è un solido argine alla pioggia e alla fanghiglia.

Il rumoroso picchiettare della pioggia e la stanchezza compiono il prodigio di farli addormentare subito.

Cucciolo dorme come i gatti con un occhio chiuso e l’altro aperto.

le altre puntate le trovate qui

parte una, parte due, parte tre parte quattro parte cinque parte sei parte sette

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Konnie – parte settima

Su Caffè Letterario è stata pubblicata la settima puntata di Konnie che potete leggere anche qui.

Buona lettura

Le cime delle montagne intorno si tingono di rosa e le ultime stelle si confondono col cielo.

Alba si muove grugnendo. Avverte dolori alle spalle e formicolio alle mani. Si drizza eretta, guardandosi stupita intorno. Non si trova nella sua cameretta nella Città del Sole ma sulla nuda terra, dura e scomoda. Poi scoppia in una risata liberatoria. Ricorda che con Matteo sono usciti dalla calda cuccia della Città del Sole per esplorare quello che c’è tra loro e Bozen.

Il ragazzo si sveglia per le risate di Alba. Distende le articolazioni che sono intorpidite per la postura sconnessa assunta durante il sonno.

«Sveglia, dormiglione!» Urla la ragazza trattenendo la risata. «La giornata è splendida e la vista è mozzafiato».

Fatta la colazione col caffè liofilizzato e qualche galletta abbrustolita si rimettono in viaggio dopo avere ripiegato la tenda. Continuano a segnare il loro passaggio mentre scendono verso valle. Sono alla ricerca della strada che secondo la carta porta al Passo Pordoi e da lì a Canazei.

«Eppure per costruire il nostro rifugio» borbotta Matteo, «di certo c’era una strada o un sentiero che serviva per il trasporto del materiale e delle persone. Questo mi ha raccontato Michele qualche anno fa».

Alba scuote il capo. «Ci dovrebbe essere ma la natura in assenza degli umani ha ripreso possesso di tutto il suo regno e cancellando tracce e ricordi».

Il ragazzo scuote la testa perché non è d’accordo. “Almeno una traccia ci dovrebbe essere rimasta ma sembra tutto bosco e basta”.

Quando il sole, leggermente velato da nubi bianche frastagliate che si muovono veloci nel cielo azzurro, è alto, i due ragazzi decidono per una breve sosta. Sono affaticati perché gli zaini pesano e devono prestare attenzione a non mettere i piedi su pietre o rocce per evitare passi falsi. Trovano una piccola radura ricoperta da enormi felci e fiori sconosciuti. La filmano a memoria futura. Fa caldo, un caldo afoso che potrebbe presagire un violento temporale. Il contatore geiger segnala un livello di radioattività di circa due sievert o poco più, ancora alto e pericoloso.

Sentono muovere qualcosa tra le felci come una specie di guaito. Matteo impugna quel coltellaccio che dondola sul suo fianco. Spunta un muso con la lingua rossa a penzoloni. Gli occhi implorano cibo e il corpo si muove sofferente come se fosse ferito. Il ragazzo rinfodera l’arma. Ha capito che non è una minaccia.

«Un cane oppure un lupetto?» Chiede Alba, gettandogli la galletta che stava mangiando.

L’animale si sdraia poco distante e afferra con le zampe anteriori il cibo che sgranocchia in fretta.

«Ha fame il cucciolo!» ridacchia Matteo dando un colpetto sulla spalla della ragazza.

Ridono vedendolo mangiare con avidità quel pezzo di pane. Alba gli lancia un cubetto di carne secca, che l’animale prende al volo masticandolo con vigore. La lingua a penzoloni fa intuire che oltre la fame abbia pure sete. Matteo si guarda intorno alla ricerca di qualcosa dove possa versare l’acqua. L’unico oggetto è una foglia verde che recide con un colpo del coltellaccio. La gira e dalla borraccia fa cadere delle gocce. Il cucciolo si frappone con la lingua per bagnarsi la gola.

Alba gli accarezza la testa. Un gesto che gradisce. «Ciao Cucciolo! Noi andiamo». I due ragazzi riprendono a scendere a zig zag ma si fermano subito. Qualche passo dietro loro c’è il lupetto intenzionato a seguirli.

«Bene, abbiamo la scorta» ridacchia la ragazza, che riprende la discesa. Il cucciolo sia pure a fatica si è accodato a qualche metro di distanza. Zoppica come se avesse una ferita alla zampa anteriore destra. Si fermano per vedere cosa non funziona. Il lupetto si lascia visitare e con la lingua lecca la mano di Matteo.

«Ha una brutta ferita infetta ma non solo» spiega il ragazzo con tono serio, mentre prende del disinfettante dalla sacca che porta a tracolla. «La zampa è più corta delle altre. Ecco perché il branco l’ha abbandonato».

Finita la medicazione riprendono la discesa col lupetto che si è sistemato tra loro. La sua andatura è meno zoppicante ma comunque fatica a tenere il loro passo.

«Finalmente!» esclama Matteo scorgendo sulla loro destra il segno di una vecchia strada tutta sconnessa e ricoperta da arbusti ed erba. La pavimentazione in macadam è quasi sparita ma camminare è più agevole rispetto al bosco.

Fatti tre tornanti sentono il rumore dell’acqua che scorre tra i massi, mentre Cucciolo sparisce attratto da quel suono.

«Andiamo a vedere. Possiamo riempire le tanichette con acqua fresca» suggerisce Matteo infilando un groviglio di rovi.

È una piccola cascatella che forma una pozza, prima di fluire a valle. I due ragazzi ridono vedendo Cucciolo che beve con abbondanza. Riempiono le tanichette di tessuto appese alla cintola e pensano di fermarsi per la notte nella piccola radura adiacente al minuscolo laghetto formato dal piccolo salto d’acqua tra le rocce. Però capiscono che il posto non è salubre vedendo il lupetto che si allontana dopo essersi dissetato.

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Konnie – parte sesta

Su Caffè Letterario è stata pubblicata la sesta parte del racconto Konnie, che potete leggere anche qui.

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Konnie ha quasi ottant’anni. Gli mancano poco più di sei mesi al compleanno. Si sente stanco con le forze che giorno dopo giorno tendono a scemare. Con lentezza strascicando i piedi va a controllare la radioattività esterna. Sa che è un proforma perché decresce con molta lentezza. «Due sievert» scuote la testa pronunciando queste due parole. Però sente il richiamo di uscire, di vedere cosa c’è là fuori, di scoprire un mondo ignoto.

«Non importa se morirò!» Ammette con se stesso con tono fatalistico. «Tanto dovrò morire. Se non oggi, domani. Finora ho visto solo queste pareti grigie. Anzi quasi nere!» Ridacchia socchiudendo gli occhi. «Fuori ci saranno altri colori oltre al bianco, il grigio e il nero di questo bunker?»

Mette una polo nera stinta, calza delle scarpe che gli stringono i piedi, indossa un paio di jeans che stanno dritti da soli. Prende le chiavi che gli permetteranno di rientrare dopo la passeggiata all’esterno.

Con passo strascicato e col cuore che batte a mille apre la porta che gli consente di risalire in superficie.

Accende la torcia per illuminare i gradini. È la prima volta che li percorre. Prova una sensazione strana, quasi sconosciuta: brividi di freddo. Un acre odore di muffa, di aria stagnante assale le sue narici. Fa una smorfia. Rimpiange l’aria asettica del bunker. Mette il piede sul gradino che sembra scivoloso. Lo illumina: è ricoperta da una patina di verde che imbratta la scarpa. Quando prova a caricare il peso sulla gamba, questa tende a scivolare verso il basso. Si afferra al corrimano che avverte ruvido e si issa sul gradino superiore e così con gli altri. Ne avrà fatti una dozzina e ha il fiatone. La tentazione di invertire la marcia è forte ma la curiosità vince sulla stanchezza che gli attanaglia i polpacci.

Rifiata, sta sudando e quella sensazione di freddo è sparita. Passo dopo passo, gradino dopo gradino arriva in cima. Le scale sono finite. Illumina una porta d’acciaio dalle cui fessure filtra una lama di luce.

«Ci dovrebbero essere delle chiavi appese per aprirla» mormora mentre dirige il fascio luminoso in modo circolare. «Eccole!»

Le afferra, mentre sfiora la tasca per sentire le altre. Apre e fa due passi fuori. Rimane accecato. Per lunghi istanti i suoi occhi percepiscono solo una luce troppa intensa che gli impedisce di vedere cosa lo circonda. Ha un brivido di freddo, sente la pelle accapponarsi, la bocca comincia a tremare senza che lui riesca a fermarla. Strizza gli occhi, riducendoli a una fessura, in modo istintivo porta la mano sinistra sulla fronte. Quello che vede lo terrorizza: è tutto bianco che riluce sotto i raggi del sole. Sulla sua sinistra osserva dei ruderi, sulla destra una distesa candida. «È questo il mondo esterno?» Si gira e rientra nella cavità che ospita il suo mondo.

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Konnie – parte quinta

 

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Su Caffè Letterario è stata da poco pubblicata la quinta parte del racconto Konnie. Di seguito qui la potete leggere.

15 agosto 2144

Il gran momento è arrivato Alba e Matteo curvi sotto il peso degli zaini salutano tutti. «Arrivederci! Tra quattro settimane torniamo con la speranza che possiamo uscire da questa Città del Sole senza problemi!»

È tutto un abbraccio e un arrivederci condito da qualche lacrima e tanti consigli. Poi dopo le ultime pacche sulle spalle entrano senza timori nella stanza che li separa dal mondo esterno. Un clack sonoro suggella la chiusura. Si tratta di aspettare che l’altra porta si apra per uscire e cominciare la nuova esplorazione.

«Alba, a destra o sinistra?»

La ragazza consulta la bussola, un retaggio del mondo antico che è sparito per l’insania di qualche potente. La pone sulla carta che servirà per raggiungere Bozen. «A sinistra. Dovremo trovare un paese o meglio un gruppo di paesi che prendono il nome di Livinallongo o quello che resta di loro».

Scendono attraverso un’abetaia non senza qualche difficoltà. Abeti crollati a terra e un sottobosco irto di spine e di rovi che coprono forre e altre insidie. Devono fare attenzione perché non esistono sentieri e sentono il rumore sordo dell’acqua che scorre senza vederla o individuare dov’è. Mettere un piede in fallo può rappresentare la fine della loro vita, perché nessuno li verrà a cercare.

Nell’uscita precedente si sono limitati a girare nelle vicinanze e non è stato facile ritrovare la strada del ritorno verso l’ingresso della Città del Sole. Si sono persi più volte perché è sembrato a loro di essere passati di lì mentre non era vero. Quindi l’esplorazione è stata piuttosto un girare confuso, a volte in tondo. Questa volta segnano con dei segnali il tragitto che fanno per raggiungere la strada, ammesso che esista ancora.

La protezione contro le radiazioni e il peso degli zaini non consente di muoversi con agilità mentre scendono con prudenza verso il fondovalle. La luce incerta del bosco non aiuta i due ragazzi che si fermano per calmare l’agitazione interna. La discesa è ripida più di quello che ricordano quando un mese fa hanno fatto la prima uscita.

«Mat, sei sicuro che stiamo scendendo nel modo giusto?» mormora con tono affranto Alba che sta sudando copiosamente dentro la tuta, mentre il casco si appanna. Si ferma, aspetta che la visibilità torni accettabile.

Matteo ritorna sui suoi passi e affianca la ragazza. «Premi questo bottone» e le indica un pulsante verde all’altezza delle orecchie. «Serve per togliere l’umidità all’interno del casco».

«Grazie, Mat! Non ricordavo questo dettaglio che Arturo ha aggiunto per evitare situazioni come questa».

Come la prima volta hanno perso il senso del tempo. Non hanno strumenti per misurarlo. Si basano sul sole. Il cielo è sereno privo di nuvole, mentre il sole declina dietro le montagne di fianco. Però non sarà sempre così, perché una giornata nuvolosa o grigia per la pioggia li trarrà in inganno.

«Alba, cosa ne pensi se cerchiamo un posto per la notte? Le ombre si fanno lunghe e il buio infittisce» propone Matteo che ha notato le sue difficoltà a muoversi con scioltezza. La stanchezza può diventare pericolosa in montagna, specialmente in un ambiente di sicuro ostile.

La ragazza annuisce, perché stava per proporlo. Avrebbero sperimentato il riparo costruito da Arturo. Scendono ancora più a valle finché un trovano una radura circondata da alberi molti alti che non sono abeti o larici. L’erba è giallastra, secca come se fosse da tempo che non piovesse. Decidono di sistemarsi sotto una folta chioma di albero. Qui dal terreno affiorano robuste radici e l’erba è rada e bassa.

Hanno da poco posizionato la tenda, quando di colpo si passa dal chiarore del giorno al crepuscolo della sera. Il cielo è ancora chiaro ma nel bosco l’oscurità diventa notte. Accendono una torcia alimentata da combustibile nucleare che illumina l’area dove sono accampati.

La stanchezza e lo stress compiono il miracolo di farli addormentare subito. Un sonno senza immagini.

[continua]

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Konnie – parte quarta

Mondi paralleli

Su Caffè Letterario è stata appena pubblicata la quarta parte del racconto Konnie, che potete leggere anche qui

Sono passati altri dieci anni e Konnie ha tutti i capelli bianchi. La voce si è arrochita anche se si sforza di parlare e registrarsi per riascoltare le sue parole. È l’unico modo per ascoltare una voce umana anche se è la sua.

Tiene un diario dove appunta gli avvenimenti e i suoi pensieri. Gli serve per non impazzire per la solitudine e lasciare un segno tangibile della sua presenza. «Non so se vedrò un altro essere umano prima di morire» borbotta con gli occhi acquosi, mentre chiude la pagina. «Questa segregazione sta diventando insopportabile. Però non posso uscire se non voglio morire».

Konnie osserva sconsolato il diario. Le pagine bianche rimaste sono poche. Non osa contarle per non deprimersi ancora di più. L’inchiostro è terminato da tempo o si è seccato. Le matite sono agli sgoccioli e le usa con parsimonia. Tra poco anche questo diversivo che gli tiene impegnata la mente non sarà più usufruibile. «Non oso pensare quando non potrò più tenere il resoconto delle mie giornate». Anche nella giornata odierna i valori della radioattività sono rimasti alti. Decrescono con molta lentezza. Troppo secondo lui ma non dipende dalla sua volontà.Va nella dispensa a controllare le scorte del cibo. Deve tenersi impegnato in attività che gli facciano dimenticare il suo stato di recluso forzato. «Non ho capito perché i miei genitori hanno pensato a tutto fuorché a protezioni per poter uscire in sicurezza». In realtà ricorda vagamente qualcosa che il padre gli ha spiegato quando era ancora un bambino. Gli ha parlato di una stanza di decontaminazione non prevista nella costruzione del bunker. L’ha cercata su un vecchio Treccani del 2020 ma non ha capito molto. “L’operazione, il processo di decontaminare; l’essere decontaminato: stazione di d., locale o edificio in cui si effettua la decontaminazione di oggetti o di persone. Nella tecnica nucleare, fattore di d ., il rapporto tra le percentuali iniziale e finale di una sostanza radioattiva…”. In un altro dizionario rimasto senza copertina legge. “Riduzione o eliminazione, da una miscela di sostanze radioattive, dei componenti che maggiormente contribuiscono alla sua radioattività: decontaminazione nucleare | estens., eliminazione di sostanze radioattive o inquinanti da materiali, locali, oggetti o persone contaminati.”.

Konnie è conscio delle sue lacune linguistiche e tecniche. Quello che conosce gli è stato insegnato prima da Kurt e poi da Marie. Poi video e letture hanno completato la sua preparazione ma sono rimasti molti buchi che non è riuscito a colmare. I video sono per lo più film o descrizioni di viaggi. Quelli tecnici sono pochi e scarsamente utili. Trattano di macchinari o elettrodomestici che sono fuori uso da molti anni perché mancano i pezzi di ricambio. I numerosi libri sono romanzi, racconti di vario genere a parte un paio di dizionari. Ci sono diversi smartphone e tablet e un paio di pc spenti, morti perché senza una connessione internet sono muti. Li usa solo per fare dei podcast per ascoltare la propria voce e sentire quella dei genitori. «Devo fare economia nel mangiare. Le scorte si stanno riducendo in modo preoccupante» borbotta con tono sconsolato dopo la ricognizione nella dispensa. Kurt aveva accumulato scorte per resistere ottanta o novant’anni ma la nascita di Konnie aveva scombussolato i piani. Secondo lui era un lasso di tempo ragionevole, perché la loro vita si sarebbe estinta prima come in effetti è avvenuta. Però Konnie deve fare economie anche se è rimasto da solo. «Non voglio morire d’inedia» afferma con tono deciso chiudendo la porta della dispensa. Controlla l’orologio atomico che per fortuna continua a segnare l’orario. Konnie ride e scuote la testa. «Ignoro se l’ora sia esatta!» Però per le lancette sono le sedici. È l’unico di tipo analogico, mentre i restanti sono digitali. Si avvia verso la palestra per l’ora di esercizio fisico. Si deve mantenere in buona forma se vuole vivere a lungo. Indossa una maglietta di cotone ormai sbiadita e un po’ lisa per i numerosi lavaggi. Calza delle scarpette che un tempo sono state di suo padre e infila dei calzoncini che un tempo erano neri.

Si chiede se per caso dovesse morire all’interno del bunker cosa succederebbe. «Credo nulla. Sarà difficile che qualcuno possa ritrovare il mio cadavere. Diventerò polvere e basta». Questo pensiero gli suscita un sorriso storto pieno di amarezza.

La palestra è ben attrezzata. In un angolo si può esercitare coi pesi e bilancieri. Nella zona centrale ci sono un tapis roulant e due cyclette. Un tatami verde lo utilizza per gli esercizi a corpo libero. Funi e una squadra svedese completano l’attrezzatura. Però Konnie non li ha mai usati perché teme di cadere e per lui sarebbe un guaio grosso. Fa qualche esercizio coi pesi di malavoglia. Si sente depresso. Sono quarant’anni che è da solo. Gli viene la voglia di farla finita. Depone i pesi nella rastrelliera e sorride storto. «Prima di morire vorrei osservare il mondo esterno».

[continua]

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Konnie – terza parte

Su Caffè letterario è stato pubblicato la terza parte di Konnie. La potete leggere anche qui.

Alba e Matteo sono gli unici che hanno scelto di uscire di nuovo dalla Città del Sole. Col consenso di tutti decidono di fare un’escursione per esplorare un’area più vasta rispetto a quella visitata circa un mese prima. Durerà almeno tre o quattro settimane con l’obiettivo di arrivare a Bozen. Secondo la vecchia cartografia dovrebbe distare qualche centinaia di chilometri ma dall’esperienza della precedente uscita non c’è da fidarsi. Strade inghiottite dalla natura, che si è presa la rivincita sugli umani, oppure franate a valle per l’erosione delle acque dei torrenti potrebbero rendere difficile raggiungere la meta.

Le altre coppie che avevano esplorato alcune aree adiacenti all’ingresso della Città del Sole hanno deciso di non ripetere l’esperienza senza fornire spiegazioni. «Forse si sono spaventati nel osservare un mondo esterno così ostile e pericoloso» ridacchia Matteo mentre prepara con Alba la nuova sortita senza trascurare nessun dettaglio.

Loro hanno il piglio e la curiosità degli esploratori che vogliono conoscere di persona quella realtà che hanno solo intravvisto tramite vecchi video, fotografie ingiallite oppure hanno letto su vetusti libri. Il tutto però è datato cent’anni prima.

Fanno tesoro della precedente esperienza e preparano in maniera meticolosa la spedizione. Ricordano il dolore che hanno provato i loro occhi, quando la luce naturale più intensa di quella artificiale, a cui erano abituati, li ha colpiti. Questi hanno iniziato a lacrimare, perché avevano la sensazione che fosse entrata della polvere sotto le palpebre. Stavano quasi per rinunciare, quando Alba aveva scoperto casualmente che schermandosi con delle foglie piuttosto ampie sopportavano meglio la luce solare. Così hanno pregato Arturo, un vero mago con le mani e con la testa, di preparare un casco modificato, dove premendo un tasto fosse possibile schermare la parte trasparente. Hanno scoperto pure che il loro viso dapprima è diventato rosso per poi virare allo scuro. Al loro rientro gli abitanti della Città del Sole osservando i loro visi scuriti avevano tratto la conclusione che avessero contratto una malattia pericolosa per tutta la comunità. Sono rimasti in quarantena per una settimana prima di convincerli che è stato l’effetto della luce solare.

Durante l’uscita hanno perso il senso del tempo come era programmato nella Città del Sole. Qui non ci sono albe o tramonti ma si passa dal buio alla luce senza passaggi intermedi. La giornata è divisa in due spezzoni fissi e immutabili. La luce dura sedici ore, il buio otto. Le ore dell’oscurità sono dedicate al riposo, le altre alle attività lavorative o ricreative. I loro ritmi circadiani si sono adeguati da sempre a questo alternarsi del giorno e della notte. Durante l’escursione hanno compreso che non era vero. Luce e buio si alternano in modo irregolare. Tutto questo ha sconvolto il loro orologio biologico mettendoli in crisi. Matteo ricordava con vaghezza che spostandosi sulla terra si subiva un fenomeno chiamato jet lag. Al loro rientro tutto si è sistemato nel giro di pochi giorni. Però adesso erano preoccupati perché l’uscita durava due o tre volte la precedente. Tuttavia sanno come combattere quella sensazione di stanchezza e sonnolenza che li ha colpiti. Si sono preparati nei giorni precedenti con un ciclo di veglia-sonno paragonabile a quello esterno.

Una delle esperienze peggiori è stato trascorrere la notte senza riparo, perché non sempre è stato possibile trovare rifugio in anfratti naturali. Arturo seguendo i loro suggerimenti aveva ricavato da teli impermeabili una mini tenda. Nella precedente escursione hanno incontrato più volte degli animali sconosciuti che sono fuggiti vedendoli. «Non sempre sarà così» ha affermato Alba rimasta impressionata da questi incontri. Hanno scelto di portarsi appresso un coltellaccio in un fodero di cuoio. Non manca il mini contatore geiger per misurare l’intensità della radioattività.

Caricati sulle spalle di Matteo due zaini colmi di vettovaglie, appende alla cintura il fodero col coltellaccio. Alba in uno zaino più leggero mette la tenda, ricambi di indumenti, due tablet, un altro mini geiger, una ricetrasmittente e una webcam per la registrazione del viaggio.

Studiando la cartina hanno deciso di raggiungere Bozen attraverso la val di Fassa e il Karersee. A Matteo e Alba sembra più corta e praticabile della val Gardena. L’escursione precedente ha dato un responso positivo per entrambi. La condizione fisica è eccellente e la gamba pure. Quindi possono affrontare un percorso più lungo senza temere la stanchezza. I primi due giorni resteranno nei dintorni della Città del Sole per abituare il loro orologio biologico ai nuovi ritmi veglia-sonno, a verificare che le attrezzature funzionino, a orientarsi nel mondo esterno.

[continua]

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Nuovo post su Caffè Letterario

Su Caffè Letterario ho pubblicato un nuovo post che replico anche qui.

21 Luglio 2144 – Sarntal

Sono passati cento anni da quando il mondo si è autodistrutto con’insensata guerra atomica. Era tutto cominciato vent’anni prima, nel 2024, con guerre regionali in Europa, in Medio Oriente, in Africa. Poi le scaramucce hanno innescato altri incendi in Asia e in America centrale. E il fuoco è divampato ovunque. L’industria della guerra prosperava sfornando munizioni, armi sempre più letali, droni guidati da quella che con grande pompa chiamavano Intelligenza Artificiale, AI per tutti. Pochi si arricchivano col sangue di molti innocenti.

Poi è stato un tutti contro tutti esiziale. All’inizio è stata qualche atomica tattica, che di tattico ha avuto solo il nome, perché le aree contaminate sono cresciute mese dopo mese, anno dopo anno. Alla fine il botto finale ha chiuso la partita nel 2044. La contaminazione radioattiva ha raggiunto valori insopportabili. Dieci e oltre sievert in ogni parte del globo terrestre senza eccezioni di sorta. La gente ha cominciato a morire tra atroci sofferenze, gli animali a sparire. I più ricchi si sono rifugiati nei propri bunker atomici per non morire come mosche sulla carta moschicida. I meno fortunati invece sono morti. Le città sono diventate luoghi spettrali dove la natura ha ripreso il sopravento, cominciando a sgretolare tutte le opere umane.

Amelia con Alfredo e un gruppo di amici pacifisti dopo essersi sgolati invano contro le scelleratezze di una guerra globale hanno deciso di costruire una città sotterranea per salvare un nucleo di uomini accomunati da un unico ideale: pace e concordia. Hanno realizzato una specie di Città del Sole sotto terra, simile a quella idealizzata da Tommaso Campanella molti secoli prima. Il posto individuato è sotto le montagne tra Veneto e Alto Adige. Sono riusciti appena in tempo a finirla e rifugiarsi lì, quando il mondo è collassato auto distrutto dall’insensatezza di chi stava al potere.

Cento anni dopo gli eredi di quel nucleo di visionari, che avevano compreso il pericolo che stavano correndo, hanno deciso di uscire dalla loro Città del Sole. La radioattività è ancora alta ma con le protezioni adeguate è possibile cominciare a muoversi all’esterno con cautela.

Quando si sono rifugiati sotto terra erano diverse centinaia di coppie con bambini e qualche anziano. Adesso sono cresciuti a un migliaio di persone tra giovani e adulti e ogni spazio della Città del Sole si è saturato nel tempo. La convivenza non è mai stata minacciata dagli egoismi personali. Però è arrivato il tempo di mettere il naso fuori per osservare cosa è rimasto della civiltà umana con la visione futura di ripopolare un mondo che a tutti appare ignoto.

Il loro modello non è verticista ma tutti sono alla pari. Le decisioni vengono prese dopo una pacata discussione che valuta tutti gli aspetti. Quando hanno pensato di uscire nel mondo di sopra, in modo collegiale hanno stabilito che solo gruppi di volontari si sarebbero avventurati all’esterno, tenendosi in contatto tra loro e con la Città del Sole. Ignorano cosa avrebbero trovato nell’ambiente esterno e come si presenta in questo momento il vecchio mondo che hanno conosciuto solo attraverso vecchi video e fotografie e dai racconti dei genitori o nonni. Nessuno di loro l’ha mai visto di persona. Il muoversi fuori dalla Città del Sole è un salto nel buio. Ignorano quali pericoli avrebbero affrontato.

Alba e Matteo, due giovani di vent’anni di terza generazione, si offrono volontari insieme a un’altra dozzina di coppie per esplorare l’ignoto. Con l’ausilio degli anziani pianificano le aree da esplorare con l’aiuto di vecchie cartografie dell’Istituto Geografico Militare molto dettagliate. Vengono caricate su vecchi tablet a colori che serviranno loro come guida per orientarsi. Dovranno camminare a piedi in assenza di altri mezzi di locomozione. Avranno scorte alimentari per circa dieci giorni. Quindi dovranno regolarsi per il rientro alla Città del Sole. L’unica arma di difesa sarà un alpenstock che servirà loro per aiutarsi a camminare nei sentieri di montagna. Per ripararsi nella notte dovranno arrangiarsi.

Indossate le protezioni e caricati sulle spalle gli zaini Alba e Matteo salutano la comunità e si avviano guidati dal GPS solare verso il mondo esterno.

La luce del giorno acceca i loro occhi abituati a quella artificiale della Città del Sole. Devono schermarsi per abituare la loro vista a qualcosa di insolito. Quello che vedono è molto diverso dai video osservati sotto terra. La natura appare di un verde più intenso e lascia filtrare debolmente delle spire di luce attraverso il fogliame fitto di alberi che non riconoscono. Si muovono con cautela nel sottobosco costituito da piante basse e spinose costellate da fiori dai colori vivaci, quasi violenti. È un mondo tutto nuovo quello che appare ai loro occhi curiosi. Anche i rumori sono delle novità per le loro orecchie abituate ai suoni ovattati e leggeri della Città del Sole. Devono abituare i loro sensi a sensazioni diverse di quelle vissute per vent’anni. Non possono sperimentare il gusto e il tatto per ragioni di sicurezza, né le diversità del mondo che stanno scoprendo.

Dopo dieci giorni ritornano al loro caldo nido. Descrivono un ambiente selvaggio dove è difficile muoversi perché non esistono più sentieri o strade come sono segnate sulle mappe. Hanno rischiato di finire in fondo a burroni perché il terreno è franato a valle. Hanno incontrato animali strani che li hanno osservati come intrusi. Hanno percepito suoni mai ascoltati. Quando le chiome degli alberi si sono diradate per mostrare il cielo, hanno visto figure bianche correre sullo sfondo azzurro, lasciandoli basiti. Ai loro occhi ingenui è apparso un mondo fantastico che hanno faticato a descrivere al loro rientro.

Anche gli altri gruppi hanno parlato di un ambiente che ha superato la loro immaginazione. Tutti hanno concordato che per le prossime esplorazioni bisogna migliorare l’attrezzatura da portare per rendere più comodo il trascorrere della notte e difendersi dai pericoli che si possono incontrare.

Tuttavia la curiosità di esplorare quello che sta fuori la loro Città del Sole è troppo forte per rinunciare a capire se sarà possibile riemergere dal sottosuolo. Così in accordo col resto della comunità Alba e Matteo decidono di eseguire un’escursione molto più lunga nel tempo verso la città più vicina: Bozen.

[fine prima parte]

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15 ottobre 1950

Su Caffè Letterario è stato pubblicato un nuovo articolo che potete leggere anche qui.

La Maharani Gayatri Devi osservava gli alberi del giardino interno nel palazzo di Japur e provava un filo di nostalgia per essere lì e non altrove. Avrebbe desiderato stare a Londra, dove aveva studiato prima del matrimonio con il Maharaja Sawai Man Singh II. Con l’indipendenza dell’India nel 1947 aveva perso lo status regale pur conservando il titolo di principessa.

Era di una bellezza misteriosa come molte delle maharani. Aveva lasciato alle spalle un’infanzia felice trascorsa lontano dall’India. Dapprima a Londra, poi a Losanna. Erano i ricordi londinesi quelli più felici anche se erano lontani nel tempo.

Si domandò se Lord David Mounbatton si ricordava di lei. Erano coetanei, entrambi nati nel 1919 a distanza di pochi giorni. David era nato il 12 maggio e Gayatri il 19 dello stesso mese a Londra. Lei era restata nella capitale inglese fino all’età di dodici anni, prima di ritornare a Cooch Behar nel West Bengal, dove il padre era il principe Jitendra Narayan di Cooch Behar. La madre Indira Raje di Baroda, una principessa della casta Maratha, era innamorata dell’Europa. Ritornò con la figlia quasi subito a Londra, dove la iscrisse in un college esclusivo, il Monkey Club, per avviarla alla professione di segretaria.

Lord David era il figlio cadetto di un Sea Lord inglese, legato alla corona inglese. Si incontrarono al ballo delle debuttanti che tutti gli anni si teneva in febbraio presso il Monkey Club. Gayatri avrebbe compiuto diciott’anni qualche mese più tardi. Ballarono tutta la sera senza stancarsi mai. Parevano una coppia affiatata. Impeccabili nei movimenti, sempre sorridenti con tutti. Lui alto e biondo, lei più bassa e dalla capigliatura corvina. C’era contrasto nei visi: lord David dal pallore chiaro, Gayatri dalla carnagione olivastra. Anche gli occhi erano del tutto diversi. Lui un azzurro ceruleo, lei scuri quasi neri. Però era un gradevole accostamento.

Si frequentarono fino a giugno, quando il padre le ordinò di ritornare senza indugi in India. Si salutarono scambiando la promessa di non perdersi di vista. Gayatri non sapeva che era stato combinato il suo matrimonio con quello che sarebbe diventato, qualche anno più tardi il Maharaja di Japur. Una fastosa cerimonia suggellò le nozze e l’anno successivo divenne la Maharani.

Lei però non aveva dimenticato quel lord inglese alto e biondo dal sorriso dolce, che aveva popolato i suoi sogni di diciottenne. Questo ricordo rimase confinato dentro di lei, anche se ogni tanto riaffiorava il desiderio di conoscere la sua sorte.

Gli anni trascorsero lieti e spensierati, appena lambiti dalla seconda guerra mondiale, che percepiva lontana dai fasti della corte di Japur. Poi arrivò l’indipendenza dell’India e la perdita del suo status regale, senza che questo incidesse minimamente nella sua vita.

Lei era sempre la Maharani, rispettata con deferenza dai suoi concittadini. Continuava a vivere in un’ala del palazzo reale, come se non fosse successo nulla nel 1947.

Il 15 ottobre del 1950 era una giornata soleggiata e calda nonostante fosse la stagione dei monsoni. Gayatri osservava il giardino da una finestra dei suoi appartamenti. In un angolo della stanza stava la dama di compagnia più fidata, che lavorava su un piccolo telaio. Era bassa di statura e coi capelli corvini. La Maharani lo guardò incerta se chiamarla oppure no. Si alzò e si diresse verso la camera da letto.

Da un secretaire aprì un cassettino, nascosto da una ribalta, e prese un sacchetto di pelle. Lo aprì e controllò il contenuto. Erano i gioielli indossati tredici anni prima durante il ballo delle debuttanti. Un collier di diamanti e rubini, un paio di orecchini a goccia, un bracciale d’oro tempestato di rubini e smeraldi. Li ripose nel sacchetto e richiuse il cassetto.

Tornò nella stanza dove Amrisha aveva continuato a lavorare al telaio. L’osservò e rifletté. Aveva saputo che tra quindici giorni un fratello della donna, un cadetto della ‘marine de commerce’, si sarebbe imbarcato su un aereo con destinazione Londra. Qui doveva armare una nave alla fonda a Newcastle upon Tyne in Inghilterra. Di lei poteva fidarsi sia per la discrezione sia per la fedeltà. Sarebbe stato il vettore più sicuro per trasmettere quello che per anni aveva conservato con gelosa segretezza.

Si avvicinò, mentre la ragazza sollevava il viso. Un viso ovale incorniciava due grandi occhi scuri.

«Vieni, Amrisha. Ho bisogno di parlarti» le susssurò con tono autoritario, accennando col capo di sedersi accanto a lei.

«Mi dica, Maharani» rispose con voce deferente.

«Devo trasmettere un cofanetto a Londra in assoluta segretezza. Nessuno deve sapere che proviene da me».

La ragazza strinse le labbra, perché aveva intuito chi doveva trasportarlo.

«Mio fratello, Banshidhar, partirà per Londra il due novembre insieme ad altri suoi compagni. Lui potrebbe portare con sé il suo pacchetto».

«È una persona fidata?» Le domandò, conoscendo già la risposta.

«È la discrezione fatta persona. Sapendo che è lei, Maharani, lo sarà ancora di più» ribattè di slancio con tono sicuro.

«Quando lo vedi?»

«Lo saluterò tra quindici giorni, quando passerà dall’abitazione dei miei genitori a Baroda» rispose abbassando gli occhi.

«Prima che tu parta per Baroda, ti consegnerò il pacchetto e una lettera. Grazie, Amrisha. Puoi tornare alle tue occupazioni» e la congedò.

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