In questi giorni oltre a leggere e commentare un testo di Sara Tricoli che richiede molta attenzione nella lettura, sto procedendo alla lettura di un testo di Stato Mentale, con un titolo provvisorio non ancora definito che io ho battezzato Aglaja.
Entrambi mi stanno prendendo e dedico loro ogni secondo libero. Oggi vi propongo questo stralcio, tra qualche giorno qualcosa dell’altro.
Di Aglaja ne conoscevo una versione a puntate che seguivo sul blog di Stato Mentale. Ovviamente questo sotto forma di libro è la bella copia di quello su wordpress.
Mi sono imbattuto in questo pezzo che vi sottopongo. Immagino che qualcuno, o forse molti, storceranno il naso ritenendolo blasfemo. Io invece la considero una bella riflessione che si può condividere oppure no al di là delle proprie convinzioni personali.
Ve lo sottopongo senza altre mie considerazioni.
Era parecchio che era in lite con i “piani alti” e il suo astio nei confronti del
“Principale”, così lei chiamava col suo elaborato e ironico linguaggio quello
strano Dio che le avevano presentato nell’infanzia, era progressivamente cresciuto
fino a raggiungere la più totale e radicale avversione verso ogni forma
religiosa istituzionalizzata e definita, verso ogni Divinità. Impossibile
credere a una qualsiasi Entità superiore a cui, questo era il pensiero di Aglaja,
conveniva non esistere piuttosto che essere un cinico sadico con la “sindrome
del castello di sabbia” che si dilettava a schiacciare le formichine che aveva
creato appositamente a questo scopo, ma soltanto dopo averne abbattuto i sogni,
i desideri e le aspirazioni che vi aveva instillato. Con tanti affettuosi saluti
a bontà e misericordia. Aglaja non poteva concepire una mentalità per la quale
Dio, in quanto buono, inviava disgrazie ed accidenti di vario genere ai suoi
fedeli, per quanto ligi e sinceri, al fine di metterli alla prova, di purificarli
per offrire così loro la vita eterna.
Tutto questo per Aglaja non aveva alcun senso logico. Mettere alla prova chi
già seguiva le regole del gioco, chi già era di fatto “degno” del premio
rasentava la totale illogicità, era assurdo. Se le disgrazie fossero capitate
solo agli “infedeli”, ai peccatori, sarebbe stato un conto, ma così! Che colpe
avevano, che prove dovevano superare quei milioni di bambini innocenti che
nascevano deformi, che si ammalavano inguaribilmente, che erano maltrattati,
distrutti e oppressi da adulti mostruosi? Quale motivo abissale poteva dare
ragione dei milioni di individui che morivano atrocemente in guerre da loro
solo subite e non volute, e delle quali non conoscevano l’eventuale ed
improbabile senso? Da che terribili delitti dovevano essere purificati i nativi
americani, gli africani ridotti in schiavitù, perché i loro bambini fossero
uccisi, le loro donne violentate, i loro uomini sfruttati fino alla morte?
Di quale misterioso peccato si era macchiato il popolo eletto, gli ebrei, per
subire l’orrore della Shoah? Queste erano le “ombre in un bel quadro”?
L’abissalità del male per Aglaja era talmente devastante che per lei appariva
come una tela nera con solo qualche graffio di luce. Non era per lei concepibile
alcuna teodicea. Male e dolore restavano essenzialmente irredimibili. Com’era
possibile che dinanzi a un simile panorama Dio venisse anche definito “giusto e
amorevole” nei confronti dei suoi “figli”? Agli occhi di Aglaja tutto questo
appariva come un’enorme balla che veniva propinata da millenni all’umanità per
tenerla a bada, per placarne gli istinti, per tenere le masse sotto alla ciabatta.