Oggi giornata faticosa. Abbiamo preparato l’albero di Natale e relativi addobbi.
Non sarebbe faticoso ma addobbi e palle varie sono nel ripostiglio in mansarda ricavato nella parte bassa. Altezza massima 1,30 metri. L’albero invece è sepolto sotto attrezzi vari da giardino nel box.
Marzia di Alchimie mi ha inviato questa immagine sfidandomi a duello. Cosa produrrò con questa?
Ecco cosa ho prodotto.
Buona lettura
Nicola voleva vincere la sfida: suonare il violoncello davanti all’intera Venusia.
Aveva studiato al conservatorio di Ludi ma all’esame finale era stato bocciato.
Lui non ha potuto, né voluto accettare la sconfitta. Così si è messo d’impegno a suonare il violoncello per raggiungere le vette di Mstislav Leopol’dovič Rostropovič e fare ancora meglio di questo grande interprete.
Si è esercitato per dodici ore al giorno, sabato e domenica compresi. Solfeggi, passaggi musicali dove il La, il Do, il Re e il Sol vengono ripetuti con monotona precisione più volte per ore intere. Per fare questo e non essere disturbato si reca nella stanza della musica della Fortezza. Chi passa sotto le finestre sbuffa e afferma, non proprio a torto: «Che lagna».
Ascoltare una sola nota ripetuta con maniacale insistenza è un supplizio per l’udito di qualsiasi persona. Per i venusiani ancora di più, perché solo ad ascoltare un concerto di campane per loro è insopportabile.
Nicola fa questi esercizi tutti i giorni in perfetta solitudine alternandoli col solfeggio. Sembra un matto che parla da solo ma in realtà sta praticando il solfeggio. Legge le note ad alta voce accompagnandole col movimento delle mani. Un esercizio noioso ma gli serve per imparare i tempi e le battute. Quando era al conservatorio, ci ha provato ma dopo cinque minuti smetteva, sbuffando. «Che noia» sbottava chiudendo lo spartito. Questo mancato esercizio gli è costato l’esame finale. Eppure ha talento innato, perché riesce a suonare il violoncello con bravura e non solo quello. Anche la viola e il pianoforte sono tra gli strumenti che gradisce.
Però è scivolato sul solfeggio, scatenando la sua ira. Il maestro gli ha detto che sembra superfluo il solfeggio ma senza quello non sarebbe mai diventato un bravo violoncellista.
Memore di questa osservazione si è imposto di dedicare due ore tutti i giorni al solfeggio. All’inizio è stato un supplizio. Avrebbe voluto smettere dopo cinque minuti ma con caparbietà si è imposto di proseguire finché non sono passati tutti i centoventi minuti. Giorno dopo giorno ha faticato meno nell’eseguire il solfeggio e alla fine non gli è apparso che fosse quel supplizio che ricordava durante l’anno al conservatorio.
«Sono stato uno sciocco» si rimprovera in uno stacco per bere e mangiare qualcosa. «Se avessi avuto costanza, adesso sarei diplomato in violoncello.
Dopo mesi di duro lavoro si sente padrone dello strumento e le sonate di Bach e Beethoven le esegue a occhi chiusi. Non ha necessità di leggere lo spartito.
Il 21 luglio è il giorno del grande evento. Invita tutti i concittadini al suo concerto che terrà nella piazza della fontana senza acqua. L’unico posto che può ospitare tutti i venusiani. Fa venire da Ludi catering e sedie, per il palco ci penserà lui. Senza cibo e bevande offerte gratis nessun venusiano sarebbe venuto. Lui li conosce bene quando prenderli per la gola.
In un angolo della piazza Cipriani, il master chef di Ludi, offre stuzzichini e calici di vino rosso. Nicola ha spiegato a Cipriani che se avesse offerto vino bianco o spumante i venusiani l’avrebbero rifiutato sdegnosi. Lo chef ha storto il naso ma lui ha insistito convincendolo. Poi al termine dell’esibizione ci sarebbe stato il buffet di gala.
La pedana su cui Nicola si sarebbe esibito è un gradone ai piedi della fontana senz’acqua. Un arco di clematis viola forma il sipario. La vasca di marmo della fontana è il fondale del palcoscenico. Tutto intorno disposte a semicerchio stanno le poltroncine di velluto scarlatto. Un drappo rosso nasconde Nicola e il suo strumento.
Il colpo d’occhio è veramente magnifico. Nessuna poltroncina è vuota, il sole sta calando sulla sinistra della piazza illuminando di rosso il cielo. Un brusio diffuso sale dalla piazza.
Un accordo in la maggiore preannuncia inizio del concerto. Il drappo rosso cade mostrando la schiena di Carola che sembra un violoncello con le quattro corde disposte a regola d’arte. Nicola con l’archetto inizia a suonare e nell’aria si spande la sonata per violoncello in la maggiore di Carl Phillip Emanuel Bach.
Passando da Sara di milioni di particelle mi sono imbattuto in questa specie di gioco dove attraverso domande mostro il lato B di lettore ovvero quello un po’ nascosto. Più o meno come negli umani.
In cosa consiste il booktag? Una serie di domande a cui rispondere un po’ per ridire, un po’ seriamente.
Cominciamo?
Quale libro è rimasto nella tua libreria per più tempo?
Ho fatto tanti traslochi che è difficile dire quale libro. Ricordo con affetto I ragazzi della Via Pal e Zanna Bianca in quelle edizioni ridotte per ragazzi. Erano regali di Natale. Poi sono andati persi. Tra quelli che possiedo sono con me da quasi cinquant’anni delle edizioni della Medusa. Big Sur, I vagabondidel Dharma e Lolita. Il più vecchio è Kinder- und Hausmärchen von Brüder Grimm, che ho tradotto al liceo dal tedesco. Però qui mi fermo per non apparire patetico.
Qual è la tua lettura in corso, l’ultima lettura che hai affrontato e quella che affronterai dopo?
Cosa sto leggendo? Un ebook, I racconti di Walter di Walter Carrettoni, e un cartaceo, I cani e i lupi di Irene Némirovsky. L’ultima? I falò dell’autunno sempre di Irene Némirovsky. La prossima? Non ci ho ancora pensato. Di testi in attesa ne ho un bel po’ tra carta ed ebook. Nessuna fretta,
Qual è il libro che tutti hanno amato e tu invece hai odiato?
Boh! Bella domanda. A spanne nessuno, perché non odio nessun testo. Semmai evito di leggerlo o lo trovo noioso.
Quale libro ti ripeti sempre che leggerai ma probabilmente non lo farai mai?
C’è la domanda di riserva? In realtà se è nella mia libreria vuol dire che prima o poi lo leggerò.
Quale libro stai conservando per la pensione?
Sono già in pensione. Quindi nessun libro è stato messo in naftalina per essere letto più tardi. In realtà continuo a comprare libri che leggerò. Qualcuno subito, altri più avanti.
L’ultima pagina: la leggi subito o la leggi solo alla fine?
L’ultima pagina? Giammai la leggerò. Se lo facessi, metterei il libro tra quelli letti.
Prefazione, postfazione, riconoscimenti: un inutile spreco di carta o un’aggiunta interessante?
Per me un inutile spreco di carta. Le prefazioni le salto a piè pari. Le postfazioni solo se c’è qualcosa di interessante. I riconoscimenti, li salto.
Con quale personaggio dei libri scambieresti la tua vita?
Con nessuno. Amo la mia vita per quello che è stata, quello che è. I personaggi sono immaginari ma difficilmente potrebbero vivere nel nsotro mondo.
Qual è il libro che ti ricorda un momento specifico della tua vita (Un posto, un momento, una persona)?
Posso avvalermi di non rispondere? I libri sono fatti per essere letti, gustati in solitudine. Perché devo condividerli con un momento della mia vita?
Nomina un libro che hai avuto in un modo particolare.
Nessuno. Forse Quattro passi nella Taiga di Claudine Giovannoni, per il semplice motivo che ho fatto il beta reader.
Hai mai regalato un libro a una persona speciale per un motivo speciale?
Di libri speciali ne ho regalati diversi a una persona speciale, mia moglie.
Quale libro è stato con te in più posti?
Cosa si intende per più posti? Se si pensa a un libro che mi ha seguito in molti traslochi di certo sono quelli citati in precedenza ovvero Big Sur, I vagabondidel Dharma e Lolita e di certo anche Kinder- und Hausmärchen von Brüder Grimm. Se s’intende un libro che ho sempre portato con me, nessuno.
Letture obbligatorie: quale libro hai odiato al liceo che, riletto qualche anno dopo, non era così male?
Nessuna lettura obbligatoria al liceo. Come ho detto, non ho odiato nessun libro. Tutte le letture sono state consenzienti. Se penso a un libro letto al liceo e riletto più volte anche dopo è sicuramente La trilogia di Italo Calvino I nostri antennati.
Libri usati o nuovi?
Preferisco di gran lunga i libri nuovi ma ho diversi testi usati. A dire il vero assai pochi ma ci sono.
Hai mai letto un libro di Dan Brown?
Sì, Il codice da Vinci. In libreria ho anche Angeli e demoni, che però è in attesa di lettura, ricoperto di uno bello strato di polvere.
Hai mai visto un film che ti è piaciuto più del libro?
Non andando al cinema, dubito che riuscirei a rispondere a questa domanda. Ricordi sbiaditi sono i primi film di 007, di cui ho poi letto il cartaceo. Però sono tanto lontani nel tempo che difficilmente sarei in grado di dire cosa mi è piaciuto di più. La realtà è che sono due mondi distanti anni luce. Se leggi il libro e poi vedi il film rischi di dare un pessimo giudizio al film. Ovviamente vale anche il viceversa.
Hai mai letto un libro che ti abbia fatto venire fame?
Fame? Voglia di divorare il libro? Sì, i gialli, non tutti ovviamente. Però molti sì. Sono un patito di questo genere letterario come i romanzi storici. Se invece mi hanno indotto a saccheggiare il frigo, allora no.
Qual è la persona di cui segui sempre i consigli nell’ambito delle letture?
Nessuna. Compro e leggo in autonomia. Qualche volta qualcuno parla bene di un testo e mi sale la curiosità di comprarlo. Però sono casi isolati e non esiste una persona specifica che mi suggerisce l’acquisto.
Qual è il libro totalmente fuori dalla tua comfort zone che invece hai finito per amare?
Comfort zone? Il divano? La mansarda? Forse sono fuori standard. Non amo un testo in particolare ma semmai un autore. Se lo leggo vuol dire che lo amo.
Se qualcuno vuol cimentarsi vediamo se si mette a nudo.
O.T. un po’ di pubblicità occulta 😀 Se qualcuno li vuole comprare è sufficiente andare su Amazon.
Questa splendida immagine di Etiliyle mi ha dato lo spunto di creare un nuovo racconto ambientato a Venusia.
Buona lettura.
Venusia è un minuscolo puntino nella pianura di Ludilandia. Non c’è nulla a parte Sghego e poco altro.
Sghego fa da bar, trattoria e ritrovo per i venusiani. Insomma se si vuole incontrare qualcuno, quello è l’unico posto. Non c’è altro: o prendere o lasciare.
Quattro tavoli sotto il pergolato e altrettanti al suo interno. Un tavolo è sempre occupato da quattro venusiani che passano mattina, pomeriggio e sera a giocare a carte. Sono ospiti fissi e non fanno nient’altro che partite interminabili. Insieme alle napoletane non manca mai il calice di vino rosso, che viene centellinato come una reliquia.
Il gioco preferito è la scopa. Più di rado si gioca allo scopone scientifico, più complesso e impegnativo. Le coppie sono fisse e le partite accanite. Non di rado finisce a spintoni e urla con invettive che le sentono tutti i venusiani. In questi casi Sghego interviene a riportare la calma. Due pacche sulle spalle dei contendenti e la minaccia di tenerli lontani dai suoi locali per molto tempo. Uno spauracchio per Mario, Martino, Alberto e Marino, i quattro dell’Ave Maria del gioco. Un DASPO in piena regola che agisce da deterrente. Si mettono calmi in un amen. Il solo pensiero di essere banditi per mesi o per sempre fa sparire tutti i propositi bellicosi. In realtà è più scena che arrosto.
D’estate sotto il pergolato, d’inverno all’interno. Pioggia o neve non li scoraggia a venire puntuali come orologi svizzeri alle nove del mattino. Si siedono nel tavolo in angolo, tolgono le carte dal suo contenitore e Alberto estrae il quaderno dalla copertina nera e dai fogli a quadretti. Qui sono appuntati date e ore d’inizio partita dove segnano i punti delle coppie.
«Dovevi calare il sei e non il cinque» redarguisce Mario prendendo un ori dal tavolo.
Il suo compagno, Martino, scuote il capo e disquisisce sulla sua giocata. «Non conosco le tue carte ma quel cinque ha un senso» e cala un altro cinque di denari per recuperare la carta precedente.
Il mucchietto di prese sale davanti a Mario ma Alberto fa scopa con un Re e sogghigna felice. «Così si gioca, pantofoloni» ride felice.
Alberto richiama l’attenzione di Sghego per ordinare un altro giro di vino e qualche tartina. «Mettila sul conto di Mario e Martino» sghignazza irriverente. «Tanto questa partita l’hanno già persa».
«Non dire gatto, se non l’hai nel sacco» rimbecca acido Martino, che con un asso prende tutto e chiude la partita.
Quello che rende unico Sghego, oltre ai quattro giocatori, è il posto. Incassato tra due case con davanti il viale alberato, coi muri ricoperti dall’edera dona un senso di tranquillità. Il pergolato è ricoperto dalla vite americana, che in autunno si colora di rosso. L’edificio è un vecchio stabile di pietra ingrigita dal tempo. La pavimentazione è un acciottolato leggermente sconnesso formato da sampietrini di porfido scuro. L’interno è spartano. Un bancone non più lucido, che mostra tutte le sue smagliature legate alle diverse generazioni che si sono alternate dietro di esso, ha alle spalle uno specchio che occupa tutta la parete. Quattro tavoli di ferro smaltato occupano la sala interna e stanno tra il bancone e la porta d’ingresso. Una porta girevole consente l’accesso alla cucina e alla dispensa. Le pareti avrebbero necessità di una bella rinfrescata ma Sghego afferma che così hanno un’aria vissuta.
Marzia mi ha lanciato un nuova sfida. Partendo dall’immagine che segue, devo costruire una storia.
Io ci provo. Il giudizio lo lascio a voi.
Buona lettura
Carola è sempre stata curiosa. Ama le avventure, che qualche volta hanno rischiato di finire male. Come quella volta che ha azzardato l’esplorazione della Fortezza da sola.
La Fortezza è il simbolo di Venusia, un patrimonio comune a tutti i venusiani. Non ha padroni, fuorché gli abitanti di Venusia. Si erge sulla montagna, quel dosso alto poco più di duecento metri, tanto che chiamarla così fa sorridere tutti fuorché loro.
La Fortezza è un luogo ricco di misteri, abitato da fantasmi e frequentato solo dai più coraggiosi. Carola è una di questi.
Un giorno di giugno di qualche anno addietro Carola si è inerpicata sulla montagna passando nel bosco degli spiriti, altro luogo poco amato e frequentato dai venusiani.
Arrivata dinnanzi al grande portone di quercia, che è sempre chiuso si ferma a rifiatare. Per aprirlo serve una robusta chiave, che pende malinconica dal battocchio di ottone. Lo sanno tutti dove si trova e basta infilarla nella toppa e girare con foga per aprire il battente che silenzioso si apre.
Dunque Carola, dopo aver provato a spingere il portone, qualora qualche altro ardimentoso fosse entrato prima di lei, prende la chiave che è di proporzioni generose e pesa un chilo e mezzo. La infila nella serratura e la gira con forza. Dopo un mezzo giro si blocca. Riprova. Niente dopo un mezzo giro non ha intenzione di muoversi.
Carola freme per la novità che la incuriosisce. “Cosa la blocca?” si chiede con lo sguardo meravigliato. “È la prima volta che mi capita”. Osserva la chiave ma non nota nulla di strano. Dà una sbirciatina nella toppa e non vede nulla.
«Questa è proprio bella» esclama con voce squillante. «La chiave si rifiuta di girare».
Ha appena finito di dire queste parole che la chiave infilata nella serratura inizia a girare in silenzio come se fosse dotata di anima. Carola non si scompone nel vederla ruotare senza che qualcuno la muova. Spinge il pesante portone che cigolando sui cardini si apre mostrando il suo interno polveroso. Ride soddisfatta e incuriosita. “Si tratta del famoso fantasma Beniamino” si dice, mentre varca la soglia. “Tutti ne parlano ma nessuno l’ha visto. Sarò io la prima vederlo?”
Muove alcuni passi verso l’androne, quando il portone in silenzio si chiude, lasciandola al buio. Carola come è abituata a fare porta a tracolla uno zainetto rosso, dove appesa c’è una potente torcia. La prende e illumina l’androne. Il fascio luminoso percorre le pareti e il pavimento. Non ci sono tracce di passaggi umani ma nemmeno di animali. Questa la rassicura. Nessuno è pronto a giocarle qualche brutto scherzo.
Con passo marziale si dirige verso lo scalone che porta al piano nobile. Sente solo il rimbombo delle sue scarpe sul pavimento lastricato con pietre d’ardesia. Un suono familiare per lei. Procede senza cautele convinta di essere sola o al massimo seguita dal fantasma.
Salita al primo piano percorre il corridoio che la porterà alla stanza dei giochi. L’ha chiamata così perché ci sono bambole rotte e carrozzine sgangherate. È la sua stanza preferita. “Strano” pensa vedendo la porta socchiusa. “Di solito è chiusa”. Un raggio di luce filtra dall’apertura come se ci fosse una fonte luminosa attiva là dentro.
Le finestre sono sempre chiuse. L’impianto elettrico non esiste. Dal soffitto pende un lampadario di rame dove le candele sono consumate da secoli senza che nessuno abbia mai provveduto a cambiarle.
La curiosità in Carola aumenta un passo dopo l’altro. Si chiede chi abbia aperto le finestre o messo candele nuove nel lampadario.
«Forse è stato Beniamino» borbotta, stringendosi nelle spalle.
Spinge la porta è nota che c’è ancora più disordine. Una carrozzina per bambole rovesciata, pezzi d’intonaco caduti dal soffitto. Il lampadario penzola sghembo.
Carola guarda stupita che tutto è fuori posto. Non ricordava nulla di simile quando un mese prima l’aveva visitata. Le imposte sono aperte e le finestre lasciano entrare l’aria fresca del mattino che solleva minuscoli vortici di polvere.
Sta lì a bocca aperta nel centro della stanza, quando sente chiudere la porta e lo scatto della serratura. Si gira ma non vede nulla. Prova a fare forza sulla maniglia ma il battente rimane fermo.
«Forza Beniamino» esclama con voce squillante Carola per nulla impressionata. «Fatti vedere, così possiamo giocare insieme».
Però tutto tace e la porta rimane chiusa.
Passano i minuti lenti e la situazione non si sblocca. Carola dà segni di nervosismo, camminando per la stanza a scatti. Si avvicina alla finestra ma questa guarda il cortile d’onore al centro della fortezza. Anche l’altra finestra dà sull’interno. Le sembra di udire delle voci. «Aiuto» urla sperando che qualcuno ascolti il grido.
Le parole si perdono come inghiottite da un buco nero. Eppure ne è certa di aver udito voci familiari. Si sporge ma riesce a vedere solo uno spicchio del cortile. Un acciottolato scuro di pietre di fiume. Si siede sconsolata sul pavimento coperto di polvere appoggiandosi con le spalle alla parete, quando sente girare la chiave dall’esterno. Si stava rassegnando a passare la giornata chiusa là dentro, quando vede spuntare la testa castana di Sandra.
«Che ci fai qua dentro?» chiede basita, scorgendola col le mani che stringono le gambe.
«Niente» mormora con un filo di voce. «Ti aspettavo».
Ho letto con piacere Sillabari di Goffredo Parise – Ed. Adelphi un mix di piccoli raccontiil cui titolo inzia con ogni lettera dell’alfabeto.
Ho trovato due citazioni interessanti che ve le propongo.
“Un giorno un uomo aveva un appuntamento con una donna al caffè Florian, a Venezia, alle sette e mezzo di sera. Era l’inizio dell’estate, entrambi avevano un’età particolare, lui quaranta, lei trentacinque, in cui possono succedere molte cose nell’animo umano ma è meglio non succedano perché è tardi ed è inutile illudersi di tornare ragazzi.” (Grazia da Sillabari di Goffredo Parise)
È un’amara constatazione di questo scrittore, finito nel dimenticatoio. L’amore è qualcosa da maneggiare con cura, perché può fare male. I sentimenti a quell’età devono essere consapevoli senza abbandonarsi a quelli impetuosi e scanzonati di quando si ha quindici anni.
La seconda è questa.
“…un sentimento bellissimo ma diverso e non così allegro. No, quel sentimento senza nome era italiano e basta.
«Ma i sentimenti allungano o piuttosto accorciano la vita?» si domandò l’uomo e «sentì» che, per quanto ingiusta fosse, la seconda ipotesi era la più reale se non la più probabile.” ( Dolcezza da Sillabari di Goffredo Parise)
Anche qui Parise gioca coi sentimenti. Un sottile gioco di parole sui sentimenti che si provano.
Comincio col ringraziare tutti quelli che sono passati dal post precedente. Un abbraccio collettivo di tutto cuore. Poi leggerò i vostri commenti e risponderò a tutti.
È stata dura, lo ammetto e il blackout è stato più lungo del preventivato. Funziono ancora a scartamento ridotto ma ci sono. Devo riprendere il ritmo e mi servirà ancora qualche giorno.
Un’aritmia fortissima mi ha messo ko costringendomi al ricovero ospedaliero. Tornato a casa dopo qualche giorno, venerdì si ripetuto con minore intensità. Mi sono spaventato ma mi hanno rassicurato dandomi la bella notizia che si potranno avere altri episodi 😀 ma di non farci caso, perché il mio fisico deve ritrovare i nuovi equilibri. Beh! Almeno so come gestire quei momenti.
Grazie di nuovo a tutti.
Nel prossimi giorni tornerò a visitare i vostri blog.
Scrivere creativo dopo un lungo silenzio torna e propone un miniesercizio intrigante.
Questo esercizio, tornato a grande richiesta, è in collaborazione con goweddy.com, un progetto straordinario, che permette a chi sta per sposarsi di creare il proprio sito legato al matrimonio: dove si può organizzare tutto, mantenendo il romanticismo necessario.
Questo tipo di esercizio sviluppa la fantasia dello scrittore attraverso un approccio visivo statico: la fotografia.
Con i tre parametri definiti proponiamo una “confusione” mentale che può far scaturire una storia che non immaginavate neanche di poter pensare.
Per concludere: il limite di parole, che vi obbliga a non dilungarvi in concetti inutili o ripetitivi e a concentrarvi su un buon contenuto.
Inventate quindi una storia tra le 10 e le 200 parole avendo a disposizione:
Bea e Ico hanno un colpo d’ala: «Ci sposiamo». Però vogliono essere originali e scelgono per farlo Goweddy. Insomma un matrimonio 2.0 come non si è mai visto prima. Sì, perché Goweddy ti aiuta a creare il blog del tuo matrimonio, coinvolgere gli amici e preparare la lista di nozze. Mica fichi tutto questo!
Bea è speciale: una collezionista di matrimoni falliti. Ico lo sa ma la cosa lo intriga. Lui è al primo. Ha solo vent’anni mentre Bea è più scafata: ne ha ventuno ma con sette divorzi alle spalle. Ma siamo in Italia! È vero, ma basta scegliere mete esotiche che non trasmettono documenti all’anagrafe e il gioco è fatto. Sposarsi e il giorno dopo chiedere il divorzio.
Adesso il problema è una location fuori del comune.
«E se c’inventiamo un matrimonio virtuale?» suggerisce Bea a cui luccicano gli occhi. «Troviamo un paese dove piove per 364 giorni ma in quello fatidico c’è un sole splendente. Sposalizio sfortunato».
Ico ricerca con impegno e trova uno sgorbio di paese. Uno sputo, dove gli abitanti girano con maschere e pinne.
Fanno matrimoni per procura e divorzi ultra rapidi. Nemmeno il tempo di consumare che già sono liberi come due fringuelli.
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