Su Caffè Letterario è stato pubblicato un nuovo racconto. Lo potete leggere anche qui.
Dal nevaio addossato alla parete rocciosa spuntava un luccichio bruno simile a quello di un oggetto di rame esposto al sole.
Jacques Philpott si fermò un istante per osservare meglio.
“Le rocce non luccicano” si disse, mettendo a fuoco il punto da dove provenivano i riflessi.
Si spostò di lato rispetto alla posizione iniziale ma osservò che la coltre di neve fresca adesso era tutta uniforme. Non notava più nessun bagliore dalla nuova ubicazione.
«Eppure qualche istante fa…» borbottò scuotendo il capo.
Jacques era un bel ragazzone di Les Houches, un sobborgo di Chamonix, un po’ orso ma mai scortese. Amava la montagna e in particolare il Mont Blanc, che vedeva tutti i giorni dalla finestra della sua stanza. Quando compì sedici anni, eseguì la prima escursione sul massiccio che si ergeva in tutta la sua imponenza davanti ai suoi occhi. Adesso che di anni ne aveva ventuno lo conosceva come le tasche dei suoi jeans.
«È una montagna infida anche se appare benevola» era solito confidare agli amici. «Non ci si può dare confidenza, perché subito ti tradisce. Una donna è più fedele». La sua era una battuta maschilista ma di elementi femminili ce ne erano pochi nel giro delle sue amicizie e le poche, che erano tutte più maschi di quelli autentici, ridevano a quella boutade.
Era il 20 luglio del 2013, quando di mattina presto era uscito di casa per compiere l’ennesima escursione sul Mont Blanc. Portava con sé un paio di corti sci, le racchette da neve, dei ramponi da ghiaccio e uno zaino con vivande e qualche indumento pesante qualora il tempo virasse improvvisamente al brutto. In montagna non c’era mai da fidarsi che il tempo rimanesse stabile.
La giornata si preannunciava bella e senza vento. Il cielo senza una nuvola cominciava a schiarire e le stelle brillavano ancora nitide, quando avviò il suo 4X4 a inerpicarsi verso il Mont Blanc.
Voleva essere all’inizio del ghiacciaio del Bossons, quando albeggiava per affrontarlo con la luce del sole. Era immenso, bello ma estremamente infido e pericoloso da affrontare con un’illuminazione incerta: crepacci e seracchi erano sempre in agguato. Era la sua intenzione iniziare l’escursione presto per raggiungere la base del Mont Blanc du Tacul per mezzogiorno.
Lasciata l’auto vicinissima alle ultime propaggini del Glacier des Bossons, Jacques mise sulle spalle gli sci, le racchette, i ramponi da ghiaccio e lo zaino. Si avviò verso la lingua di ghiaccio che scendeva dal Mont Blanc come un lungo serpente candido.
Facendo attenzione a dove poneva gli scarponi, saggiando il terreno davanti a lui, si muoveva con cautela, perché i grossi cumuli di neve fresca nascondevano insidie e pericoli.
«Quest’anno è caduta neve anche poche settimane fa» mormorò tenendo gli occhi ben aperti. «Quindi devo stare vigile e attento».
Erano le undici quando arrivò alla base rocciosa del Mont Blanc du Tacul, uno sperone che si erge a più di 4200 metri, di poco più basso della cima del Mont Blanc.
Non era sua intenzione scalarlo, lo aveva già fatto altre volte, ma voleva ammirare la spettacolare vista della vallata sottostante. Era fermo a rifiatare prima di riprendere la via del ritorno, quando notò lo strano luccichio. Non riusciva a localizzarlo con esattezza, perché era sufficiente spostarsi e il candore del nevaio diventava immacolato.
«Devo fare attenzione nel muovermi per non provocare una valanga che sarebbe fatale» affermò avanzando a piccoli passi, tenendo sotto controllo il nevaio.
Il tempo passava, mentre Jacques era alla ricerca dell’oggetto che mandava bagliori a intermittenza.
«Forse affiora appena dalla neve. Cambia l’angolo della luce che lo illumina, quando mi sposto» borbottò fermo sugli sci osservando intorno.
Non perdeva d’occhio la massa nevosa addossata alla parete del Mont Blanc du Tacul, pronto a cambiare veloce la direzione, se vedeva qualche impercettibile movimento.
Nonostante le condizioni climatiche favorevoli ogni muscolo del suo corpo era in tensione, molto di più del normale.
La perlustrazione dell’area circostante assorbì le sue energie mentre il tempo passava inesorabile. Ricominciò a muoversi con estrema cautela. «Altri cinque minuti e poi riprendo la via di casa. Ho perso mezz’ora in ricerche inutili e infruttifere. Potrebbe essere un gancio perso da chi sa chi».
Immerso in queste riflessioni, notò una piccola massa scura, sommersa da un velo di neve, a qualche decina di metri alla sua destra.
«Ecco la cerca è terminata. I riflessi che avevo notato provenivano da qui».
Prima di avvicinarsi si assicurò che nessun distacco di neve fosse presente nelle vicinanze.
«La prudenza non è mai troppa» affermò muovendosi con circospezione.
Passò una mano per togliere la neve ghiacciata e mise a nudo un coperchio brunito. Con lentezza scavò intorno con gesti misurati e calmi, finché una piccola cassetta non apparve dal candido nulla. La sollevò con un po’ di sforzo. Non pesava molto. Quindi decise di prenderla con sé, assicurandola con la corda che teneva nello zaino. Ridiscese di qualche centinaia di metri, allontanandosi dal nevaio per osservarla meglio.
«Ha strani simboli sul coperchio» notò con un misto di curiosità e stupore. «Forse sono cinesi… oppure no».
Scorse questi simboli “मेड इन इंडिया”, scritti sul coperchio, sbiaditi ma leggibili.
“È inutile sprecare tempo nel tentativo di decifrarne il significato” rifletté osservando il contenitore che presentava una chiusura insolita. “Non pesa molto ma come l’ho legato è solo d’impiccio per i movimenti”.
Si inginocchiò per controllare se poteva metterla nello zaino.
“Togliendo le vivande e la giacca, ci sta. Mangio qualcosa e quello che non sta nelle tasche, lo getto. La giacca la indosso sopra questa più leggera”.
Guardò l’orologio. «Porca miseria! Già l’una! Il tempo è volato via. Devo sbrigarmi. Il Glacier des Bossons con le ombre lunghe del pomeriggio è assai pericoloso» esclamò avviandosi a valle.
Come previsto la discesa non fu agevole. Anche se lo aveva percorso molte volte, il ghiacciaio pareva essere vivo, cambiando fisionomia a ogni istante. I crepacci che aveva evitato nella mattinata adesso parevano essersi spostati. Alcuni erano più larghi, altri quasi chiusi. Alcuni seracchi erano crollati per effetto del rialzo termico di mezzogiorno. Era quasi giunto al termine, quando avverti sotto gli scarponi un tremolio. Si bloccò, facendo un balzo indietro. A pochi centimetri si era aperto un baratro senza fine dinnanzi a lui. Ebbe un moto stupore e si lasciò scappare un «Merde! Per poco non finivo in fondo a questo crepaccio!».
Sentiva le gambe pesanti e una certa rigidità nel corpo, quando alle cinque uscì dal Glacier, dopo aver rischiato più di una volta di finire male. La luce ingannevole del sole ormai più basso delle cime l’aveva tratto in inganno sovente ma si era salvato unicamente perché i riflessi erano pronti. Lasciata la lingua ghiacciata e tornato sul terreno nudo, tirò un sospiro di sollievo.
«Anche stavolta è terminata bene» esclamò incamminandosi verso il suo fuoristrada, che l’aspettava tra il termine della carrareccia e il ghiacciaio. Si diresse verso Les Houches.
Arrivato a casa, estrasse dallo zaino la cassetta.
«Chissà quali tesori contiene» esclamò, osservando la serratura.
Per la Pasquetta Eletta Senso propone un lipogramma in A ovvero la vocale A è off limits.
ecco il mio
Pesce o non pesce? Questo è il dubbio che colpisce il primo giorno del mese. Il terzo o il quinto? Quello di mezzo è niet. Dunque niente scherzi. Non sono in televisione. Peccato, però è meglio così. Sono giunto in fondo privo di @.
Vito vede l’uscio del signor Princepino e dice con un bisbiglio: «Vuoi vedere che non è dentro! Così lo buggero con lo scherzo del vile servitore». Detto e … Niente il tocco muore monco, perché l’ingresso non c’è più.
Deglutisce e si chiede come si è dissolto. C’è il vuoto e il buio del corridoio. Corre, fugge e si rende irreperibile.
Simona Zillo alias Low ha scritto un bel libro che uscirà a dicembre 2024. Può sembrare lontano ma è dietro l’angolo.
Questa è la sinossi
Bellezza creatività personalità: prerogative rare che regalano una vita in discesa a una giovane stylist che veste, asseconda, deride e guadagna grazie alle insicurezze delle star più influenti al mondo. La strada verso la felicità è a portata di mano.
Così sembrerebbe.
Ma qualcosa non va nell’esistenza di Penelope, completamente assuefatta ad ogni tipo di droga che butta giù con molto alcol, senza controllo, perché una mente che non pensa ne guadagna in salute, e la sua ha bisogno di cancellare un intero passato.
Questa è la sua vita quando un Moleskine, trovato per caso in metropolitana, scuote le sue certezze facendola vacillare e la spinge a leggerne il contenuto, conoscendo Emma e stralci della sua vita attraverso le parole scritte in questo diario.
Il viaggio inizia adesso, un viaggio di sola andata e senza fermate intermedie.
Nulla sarà come prima nelle loro vite, ma neanche nelle vostre dopo averle conosciute.
Perché ho scritto questo libro?
Ho scritto questo libro in anni di forti cambiamenti nella mia vita. I personaggi sono nati spontaneamente, di riflesso ad un carico emotivo che aveva necessità di essere esplorato diventando la voce narrante di questo romanzo. La gestazione è stata lunga, e non mi sono mai separata da queste pagine scrivendo ovunque io andassi. È diventato un’appendice alla mia quotidianità, una certezza, la mia terapia. Il viaggio si è concluso con la parola “fine”… forse.
Qui potete metterlo in preordine e leggere anche l’anteprima per capire cosa contiene e come scrive.
Se non leggete il link ecco per esteso
https://bookabook.it/libro/quando-le-lacrime-si-confondono-con-la-pioggia/
Un romanzo sofferto per lunghi dieci anni ma che merita di essere comprato.
Oggi è martedì ma ogni giorno è buono per giocare con Eletta. Ho scritto un’epistola in P.
Buona lettura
Prego, permettetemi di perdonare Paolo per il processo perduto. Patisce le pene per la piccante proposta. Propende perciò per un pacchiano pacchetto prima di prendere un pacco perfetto. Prevedo per la primavera di procedere per la pace tra Penelope e Paolo. Privare il prevosto della sua paccottiglia mi pare perdente.
prego premettere che il pacchetto con i pellami è perduto per le poste pasticcione. Pertanto pagherò a primavera la perfetta paccottiglia del pacco preceduta da una pacchiana piantana con penne profumate. La piccante proposta promessa dal prevosto permette di privare del piedistallo il paffuto pinguino che propende per il paisà pendolare. Procediamo per il paese di Pompei come passeggero pagante. Il paesaggio prende la pagina di Panorama, una piattaforma pagante.
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«Accidenti a quella luce improvvisa». Il risveglio di Marta è quasi violento. Si guarda intorno smarrita. La luce è sparita ma il rumore no. Sente un fischio e un cigolio. Spalanca gli occhi da miope nella speranza di capire da dove vengono. Nuova luce, nuovo cigolio. Eppure, si dice, gli scuri li ho chiusi prima di andare a letto. Almeno questo che crede. Nuova sensazione di buio, nuovo rumore sordo.
Si muove o meglio tenta di muoversi ma qualcosa sembra impedirlo. Il braccio e la gamba sinistra non riescono a fare dei movimenti. Si gira sul fianco sinistro e con la destra cerca di liberare l’altra mano.
Nuovo lampo di luce, nuovo rumore cigolante.
Sì, deve essere quello scuro poco stabile sul vecchio cardine a produrre quel frastuono metallico. Forse il vento l’ha afferrato con forza e l’ha spinto in fuori. Però adesso deve liberare la sinistra, perché a parte i lampi di luce non vede nulla che sia distante oltre un palmo di mano.
Marta deve districarsi dal groviglio del lenzuolo che la blocca.
Nuovo lampo e nuovo accecamento. Impreca perché sta perdendo tempo.
«Dove sono?» Pian piano tornano i ricordi. Una stanza spoglia. La porta finestra priva di tende. Un lavandino scrostato, un letto matrimoniale semisfondato, un comodino traballante.
«Mattino? O è ancora notte?»
Adesso è libera di muoversi.
Marta annaspa e cerca a tentoni gli occhiali sul comodino. «Spero di non farli cadere! Sarebbe una tragedia!»
Lo scuro geme ma non si muove più frenetico.
Si mette ritta appoggiandosi alla testiera fredda. Inforca gli occhiali. Adesso riesce a distinguere i contorni degli oggetti.
Dalla fessura degli scuri prende forma nel cielo nero un vago cerchio giallastro o forse bianco sporco. È sfumato. A malapena si riconoscono i contorni neri delle piante sullo sfondo.
«Dove sono?»
Frammenti di ricordi sbiaditi si affacciano nella testa, esattamente come i lampi di luce. Adesso ci sono, un istante dopo spariscono.
Poi come un puzzle i vari pezzi si incastrano uno con l’altro a formare il mosaico dell’immagine.
È la prima notte che dorme sola, non è mai successo negli ultimi ventiquattro anni. Con Mauro hanno deciso che non si sarebbero mai separati di notte dopo la nascita del loro unico figlio. Non gli era stato concesso di assistere al parto. «Ci sono delle complicazioni. Lei deve rimanere fuori» gli hanno detto infermiera e ostetrica con tono sgarbato. Però non si è dato per vinto e ha litigato con loro perché ha insistito per vederla. Solo la mattina seguente ha potuto entrare nella cameretta e sincerarsi che tutto fosse a posto. Ha firmato tutte le carte per portarla a casa con Tommaso subito per non lasciarla un’altra notte in ospedale.
A Marta scivola una lacrima sulla guancia al quel ricordo. Hanno giurato non avrebbero mai trascorso una notte separati. Per ventiquattro anni il giuramento è stato rispettato.
Si alza, si avvicina al vetro, si scosta i capelli dalla fronte, come se tra un attimo arrivasse Mauro alle sue spalle. Le avrebbe tolto gli occhiali coprendole gli occhi col palmo delle sue grosse mani. «Chi è?» Uno stupido gioco infantile che le piaceva. Si divincola ma la tiene stretta finché le sue labbra incontrano il suo mento. È ruvido perché non ha avuto il tempo radersi. Una sensazione che genera in lei il desiderio di abbracciarlo, di stringersi forte e sentire il suo corpo sul suo.
«È Tristano che cerca la sua Isotta, è Lancillotto che cerca la sua Ginevra o è Mauro che trova la sua Marta?». Un gioco erotico ingenuo quanto prevedibile…
Marta accende la luce, riempe la valigia. Non vuole rimanere un minuto in più nella stanza. Poi si blocca. «Devo aspettare che apra la reception, verificare se ci sono voli in giornata e chiamare un taxi per farmi portare all’aeroporto. Che idea stupida è stata venirci da sola al Cavaliere di San Giorgio!» Non è stata una sua idea ma del figlio e dei genitori. Doveva dimenticare la disgrazia del giorno prima. È stato un fulmine a ciel sereno, perché ha colto tutti di sorpresa.
Le lacrime scendono copiose inumidendo la camicia.
Il cielo cambia colorazione: al nero si sostituisce
il rosa del sole che sta nascendo. È l’alba di un nuovo giorno.
Marta stringe i pugni e strizza gli occhi per non vedere lo spettacolo del nuovo giorno.
All’inizio ho scritto poesie perché non ero in grado di scrivere altro.
Il motivo sta nel fatto che attraverso le parole esprimi ed esterni quello che senti dentro di te. Diciamo rappresenti le tue sensazioni. Un modo per mostrare uno spicchio di te stesso.
Nel romanzo, nei racconti il personale non esiste ma solo la fantasia e l’immaginazione. Le mie storie non sono mai autobiografiche, non parlano di mie esperienze. Solo il contesto, e non sempre, risente di qualcosa in cui ho vissuto. Inventarsi luoghi o descrivere altri reali ma mai conosciuti è sempre una bella impresa col rischio di scrivere scemenze.
Premetto di non considerarmi un poeta, anche se averi avuto il desiderio di diventarlo. Le ho scritte tra i diciassette e trent’anni poi mi sono inaridito. Forse l’impegno della famiglia, del lavoro, gli spostamenti e i viaggi mi hanno tolto la voglia di scrivere. E per fortuna direte. Sono d’accordo con chi mi leggerà.
Tutte sono raccolte in un quaderno ad anelli con la copertina rossa, dove le ho trascritte più volte.
Le due che leggete dopo questa logorroica premessa fanno parte di un gruppo di otto dedicata a una ragazza scritte quando avevo diciassette anni.
Chi è? Oppure chi era? Andiamolo a scoprire.
Frequentavo il Liceo Scientifico. Ero in terza. Al pomeriggio o correvo sulle mura cittadine oppure stavo al campo scuola di atletica. Questa frequentazioni mi hanno fatto stringere amicizia con un ragazzo di due anni più vecchio. Entrambi avevamo la passione della bicicletta. Quindi terminate le scuole tutti i pomeriggi facevano un bel po’ di chilometri. Lui viveva in una villa nella zona più bella della città, almeno allora era così. Questa aveva un’enorme terrazza. Per me che vivevo in appartamento era un bellissimo sogno. Franco, così si chiamava, aveva due sorelle: Maria Elena e Doriana. Maria Elena era coetanea. Doriana più piccola di tre anni.
Tre fratelli diversi per aspetto e personalità. Franco alto, muscoloso e dal carattere tutt’altro che facile, pronto al litigio.
Maria Elena dai tratti regolari e raffinati, dolce e tranquilla. Non molto alta.
Doriana non si poteva definire una grande bellezza. Il naso leggermente storto, il viso affilato come una lama, secca come il chiodo ma ci poteva stare. Carattere ruvido, scorbutica. Per nulla accomodante.
Franco quasi tutte le sere mi invitava a casa sua e passavamo le serate in terrazzo a ballare.
Io sbavavo per Maria Elena ma lei manco mi degnava di un sorriso. In compenso Doriana mi era sempre appiccicata e me la dovevo sorbire.
Finita l’estate Franco si iscrisse all’università a Milano e la famiglia cambiò città.
Fine della storia. Di loro non ho saputo mai più nulla. È rimasto solo il ricordo di quei tre mesi estivi.
A Doriana
Poesia n.ro 1
Tu sei selvaggia e spinosa,
tu sei indomita e fiera:
non t’appassire ora,
perché bella è per te la vita ora.
Fiore di serra incolto,
fiore di campo disadorno
rifiorisci alla dolce aria
della fresca e odorosa Primavera.
Poesia n.ro 2
Quando tu graffi,
quando tu fai le fusa,
sei come una gatta,
che incanta.
Quando tieni il broncio,
quando sorridi,
sei come il sole
che gioca lassù fra le nubi.
Queste due composizioni, non oso chiamarle poesie, sono assai diverse per stile e contenuti dal quelle attuali dove spesso le parole sono mescolate a caso nella speranza di dare un senso ai versi.
Benedetta è annoiata. Sbadiglia e intreccia le mani dietro nuca. «È una serata noiosa» e guarda fuori dalla finestra senza vedere nulla. I vetri bagnati non riflettono luci esterne. Si alza e si sistema davanti al computer. Spera di trovare un diversivo per spegnere la noia. Naviga un po’ e poi si collega a Youtube.
«Di solito ci sono video interessanti ma stasera pare un mortorio» borbotta con tono affranto.
Si mette ritta, spalanca gli occhi, non ci vuol credere. «Moreno ha pubblicato sul suo canale un video che è stato visto 65891 volte in due giorni!»
Ricontrolla. Il numero è giusto, anzi si è incrementato di tre unità. Controlla i video precedenti e i numeri sono impietosi: due, dieci, ventidue, zero,…
«Ma cos’ha di tanto interessante da suscitare la curiosità di tanti navigatori?»
Clicca per vederlo. Durata venticinque secondi. Un titolo insignificante “Pratoline”. Le prime immagini sono tremolanti, quelle successive sfocate. Nessun audio, né sottotitoli. Una miseria di video. Riapre il video e non cambia nulla.
«Non è possibile che Moreno col suo video abbia attirato oltre sessantaseimila navigatori» esclama sgranando gli occhi. Il contatore delle visite continua a girare a ritmo folle. «È pur vero che ho dato tre esami massacranti ma è strano non aver sentito nulla dal gruppo. Domani chiamo Luciano. Di sicuro ne saprà di più.»
I ricci rossi si muovono al tempo di musica. Da Itunes sta ascoltando l’ultimo pezzo di Cassandra Wilson. Decide di scaricare l’intero CD sul Ipod. Domani se lo gusterà con le cuffiette mentre va in Università con la metropolitana.
Benedetta è stanca, anzi stressata per l’esame sostenuto in mattinata. Le si chiudono gli occhi. Lei dorme sulla parte sinistra del letto e sul comodino c’è una bella pila di libri che aspettano di essere letti. Prende quello che sta in cima rischiando di far franare a terra gli altri. Dondolano pericolosamente ma per fortuna restano al loro posto.
È una serie di racconti scritti da una scrittrice bengalese dal nome complicato. Sono le storie di giovani bengalesi, come l’autrice, che vivono in America. Alcune sono veramente stranianti, altre allegre. Benedetta ha iniziato a leggere la storia di Neha e Asim. La trama la prende talmente che immagina di viaggiare da Oakland, dove vivono, a Chittagong insieme a loro. In questa città sono rimasti i nonni materni, Hita e Shamsur. Hanno ricevuto un cablo che li ha informati che il nonno era morto e tra due giorni ci sarebbero stati i funerali con la relativa cremazione. I due fratelli non hanno molto tempo per aspettare un volo diretto. Puntano su Mumbai, da lì con voli interni sperano di raggiungere in tempo Chittagong. Un viaggio massacrante per i fusi orari e per le tappe intermedie. Alle sei di mattina, ora locale, arrivano stravolti a destinazione al Shah Amanat International Airport. Noleggiano una macchina con autista e dai finestrini osservano un paesaggio che non è più a loro familiare. Quartieri degradati e altri puliti, accattoni che dormono nei giardini, lussuose macchine e altre che sembrano uscite da un rottamatore. Una leggera nebbia dovuto allo smog e all’orario ovatta le immagini che appaiono sfocate.
Per Benedetta quel contrasto sono una novità. Aveva letto che in quell’area del sudest asiatico ricchezza e povertà stanno a stretto contatto ma non immaginava che fosse così scioccante. Osserva i due fratelli che anche loro sgranano gli occhi per la sorpresa. Vivono ad Oakland dove sono nati e cresciuti. Lei lavora come ricercatrice nel campus della locale università e lui è odontotecnico. Neha, la sorella più grande, propone a Asim di andare a Bhasam Char, visto che il funerale del nonno si tiene all’imbrunire. «Solo due ore di traghetto. Quando eravamo piccoli, siamo venuti per visitare i nonni che ci hanno portati lì in gita.»
Asim scuote il capo. «Ora è nonna Hita ad aver bisogno di noi. Non possiamo lasciarla sola.»
Neha sorride. «Hai ragione. Ma per mezzogiorno siamo di ritorno. Rimaniamo con lei tutto il pomeriggio.» Poi ordina all’autista di portarli al porto dei traghetti.
Sono a metà strada, quando un turbine sconvolge quel tratto di mare nella Baia del Bengala.
Benedetta apre gli occhi stordita. Intorno non c’è assolutamente nulla tranne la sabbia e una luce abbacinante. La t-shirt di cotone azzurra è appiccata alla pelle, mostrando i segni del piccolo seno. Mani e gambe sono ricoperte di sabbia finissima chiara. Si sente smarrita. «Eppure ero sul traghetto.» Geme, mettendosi seduta. Le ultime immagini sono sfocate. Il vecchio che le ha offerto un fascio di foglie di betèl come segno di rispetto e di buon auspicio, lo sguardo adulto del neonato che la madre allatta placidamente. Poi il cielo sempre più scuro, gli animali sulla barca agitati, schiamazzi di gabbiani. Due marinai con gli occhi iniettati di sangue urlano indicando che i giubbotti sono sotto, nella stiva. Lo scafo imbarca acqua, le urla, il terrore, poi il buio.
Si sente osservata. Si gira con lentezza in circolo. Strilla. «Ahhhh!» Chiude la bocca impietrita dal terrore. Una scimmia a qualche metro di distanza la guarda di sbieco. Si muove con calma, sperando di non eccitarla. Però in apparenza non ha intenzioni bellicose. «Ti sei svegliata! Da dove vieni?»
«Parli? Sei tu che parli?» Balbetta con voce incerta.
«E chi se no? Vedi qualcun altro qui? Ma senti questa!» Puntualizza la scimmia che dal tono sembra innervosirsi.
«No, no, hai ragione.» Si affretta a calmarla. «È che non ho mai sentito una scimmia parlare. Dove sono?»
La scimmia fa una smorfia. Forse voleva sorridere. «Non lo so! Ero Bhasar Chor, prima che scomparisse. Mi son svegliata qui come te qualche giorno fa.»
Benedetta strabuzza gli occhi. Tutto gli sembra incomprensibile come se vivesse un sogno impossibile. «Come, scomparsa?» Farfuglia incespicando sulle parole. «La guida sul traghetto ci ha detto che è nata cinquant’anni fa dal nulla…»
«La guida! La guida? Ma dove vivi? Lo sai o no che le variazioni climatiche originate dall’effetto serra generano fenomeni estremi sempre più frequenti?»
«Sì,sì, ma…»
«Lo Tsunami del 2004 ha spazzato città e isole intere. Un’amica a Pucket s’è vista annegare due dei piccoli senza poter farci niente.»
«Mioddio! Sì, sì ma…noi ora cosa facciamo?» Benedetta ricorda di non essersi presentata e allunga la mano ma la ferma a mezz’aria imbarazzata. «Benedetta.»
«Chiamami Challow.» La scimmia si muove facendole segno di seguirla. «Vieni che t’insegno ad acchiappare granchi e gamberi. Sarà la nostra colazione, pranzo e cena. Poi speriamo di trovare qualcosa per ripararci dal sole. Rischiamo di bruciarci.»
La t-shirt, che non ricorda di possedere, e i calzoncini corti con qualche strappo che mostrano l’intimo, si sono asciugati. Sente pizzicare la pelle. La sua carnagione candida sta diventando rossa.
Challow prende un granchio e glielo porge. Lei prova a mangiarlo dopo aver rotto il carapace e spezzate le chele. L’interno è dolce.
Alza gli occhi su, verso il cielo azzurro. Vede proiettata un’ora 9:43. È il soffitto della sua casa di Lambrate. Quasi le dispiace di non essere più con Challow, perché tutto sommato era simpatica.
«Peccato! È stato solo un sogno.»
Benedetta adesso è sveglia.
«Il video di ieri sera e il racconto della… Dai, telefoniamo a Luciano!»
Per il gioco del lunedì Eletta Senso ha proposto una epistola in C
Cinzia Candida, come una candid camera. Convengo che convincerti a credere a Carlo è compito complesso. Certamente cerchi nella cabala il compagno calzante. Carlo è il classico comandante del complesso. Cinico, un po’ crudele comunque calibrato. Centellina il consenso ma comprende la congiuntura conveniente. Capisci come il caso congiuri contro di te? Il clima confacente è una celia da celare nel cuore.
Crollasse il cielo ma di certo compilerò il cruciverba!
Carissima Clelia!
Le caselle celesti contengono il caso classico di cosa cerchi. Le caselle chiare comprendono i contenuti da chiedere con calibrati concetti da cerchiare a colori.
Capito?
Continuo con la cultura del canto. Certamente canti come un cherubino. Conosci le circostanze e le chiavi canore.
Concludo con la chiusa con un cenno di chiarezza.
Chiamami!
Ciao Clelia!
Tuo Corrado.
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