Il ritorno

Era una calda giornata di Giugno il sei, quando Goethe entrò a Roma dopo il lungo viaggio di ritorno dalla Sicilia.
Era stanco, accaldato e polveroso per via delle strade secche per la lunga siccità. Il viaggio sulla carrozza non consentiva molte distrazioni perché buche ed acciottolato provocavano continui sobbalzi tanto da rendere impossibile prendere appunti o fare disegni.
Finalmente era tornato alla locanda, che per tutti questi mesi gli aveva conservato la stanza e custodito il bagaglio non essenziale. Il padrone era sulla porta ad aspettarlo, facendogli grandi feste insieme ad alcuni amici fidati.
Goethe era talmente prostrato dal viaggio da Napoli a Roma che per diversi giorni rimase nella sua stanza per riprendersi.
Angelica seppe il giorno dopo che l’amato poeta era tornato e cominciò a fantasticare sul suo ritorno.
“Chissà se la nostra lite ha lasciato il segno? In tutti questi mesi non ho mai disperato che la nostra rottura si sarebbe ricomposta. Io sarò stata dura, ma lui ha oltrepassato il segno accusandomi di essere una donna di strada che mendica un po’ di sesso. Gli farò una sorpresa, donandogli il ritratto che che ho terminato nelle scorse settimane. Mi hanno detto che Tischbein gli ha fatto un quadro in cui Wolfgang appare come un dio che osserva l’agro romano con lo sfondo dei colli laziali. Però io l’ho ritratto come lo vedo: un giovane uomo intelligente e sensibile.”
Goethe era tornato pieno di brio, ispirato e pronto a riprendere la scrittura delle tante opere incompiute che erano state interrotte più volte.
Era ricercatissimo tanto che aveva l’agenda piena di impegni: tutti volevano sapere, sentire, ascoltare i suoi racconti.
“E’ stata impressionante la moltitudine di persone durante la processione della festa di Santa Rosalia. La devozione, le preghiere, i petali di rose  che cadevano dai balconi sono stato uno spettacolo magnifico, che ho potuto ammirare dal balcone del Viceré. Non avrei mai creduto che per un Santo si festeggiasse così intensamente.”
“ E’ una vera sfortuna, quando si è inseguiti e tentati da ogni sorta di fantasmi! Una mattina presto camminavo spedito, quando ho visto un giardino aperto e sono entrato. C’erano tutte le specie di piante del creato, anche di quelle che non avevo mai visto! Ho alzato gli occhi ed ho visto dietro il vetro di una finestra una splendida ragazza, che mi osservava incuriosita.  Non sapevo più cosa guardare quella meravigliosa visione o quello spettacolo naturale. Ero ancora lì incerto sul da farsi, quando un domestico uscì dal portone per invitarmi a salire in casa. Ho passato una splendida giornata con una guida che sembrava un angelo: mi ha spiegato e nominato uno per uno tutte le piante, i fiori e gli alberi presenti in quel giardino che sembrava il paradiso terrestre.”
Goethe però si stava stancando di raccontare tutte le meraviglie che aveva visto passando di salotto in salotto, di osteria in osteria, sentiva che gli mancava qualcosa, sentiva che doveva andare in Via Sistina da Angelica, la sua musa, colei che con pazienza ascoltava, dava pareri su quanto stava scrivendo. Poi aveva la necessità di ascoltare la sua voce, deliziosa e sensuale e forse anche di qualcosa d’altro.
“Come posso presentarmi al suo studio dopo la furiosa litigata che abbiamo avuto? Sono stato veramente indelicato nelle espressioni! Lei dichiara il suo amore per me, io la ripago dandole della donna di strada. Saprà perdonarmi? Saprà accettarmi ancora? Ah! Se avessi qualcuno che interceda per me!” così pensava una sera il poeta seduto davanti ad un bicchiere di vino rosso ed piatto di gustoso agnello.
Come per telepatia Angelica, seduta nella poltrona della camera da letto, mentre Maria scioglieva i capelli, pensava sospirando: “Wolfgang è tornato da due settimane, ma non è ancora venuto allo studio, né mi ha mandato qualche messaggio tramite amici comuni. Io l’amo e lo perdonerei se si presentasse davanti alla porta dello studio! Però temo che lui sia ormai perduto, perché preferisce i salotti delle nobildonne romane alla mia poltrona di raso rosso! Come posso attirare la sua attenzione?”
Così si struggeva mentre le lacrime salivano sugli occhi e da lì scendevano leggere sulle guance.
Maria sempre attenta a cogliere ogni sensazione di Angelica disse: “Mia Signora, perché piangete? Quale pena d’amore, se si tratta di amore, vi appanna gli occhi e la mente? Posso fare qualcosa per voi?”
“Maria, siete davvero gentile e premurosa, ma credo che non possiate fare nulla per me. L’uomo per cui piango è vicino fisicamente, ma lontano col pensiero.”
Si asciugò le lacrime con un fazzoletto di mussola bianca ricamato con le sue cifre, andò come il solito ad inginocchiarsi sotto la Madonna, dicendo le usuali preghiere serali e poi si coricò.
Maria rimboccò le lenzuola, spense i candelabri uscendo dalla stanza silenziosamente. Si recò nelle cucine alla ricerca di Manico, perché voleva affidargli il compito di rintracciare Goethe.
La ricerca ebbe successo, così il poeta seppe che Angelica stava aspettando con impazienza una sua visita nello studio.
Lei ebbe incubi e sogni quella notte: angeli e demoni si rincorrevano nella sua mente, mentre smaniava di passione ed amore.
Il viso del poeta era sempre lì etereo, impalpabile, sfuggente, mentre soffriva le pene d’amore. Non sapeva se era più desiderabile che il sogno perdurasse all’infinito o svanisse come una bolla di sapone.
Le ore della notte trascorsero veloci e ben presto l’alba di un nuovo giorno stava spuntando, facendo capolino tra le pieghe della tenda.
Si svegliò sapendo che Wolfgang sarebbe tornato da lei. Era una certezza che misteriosamente faceva capolino nella sua mente.
“E’ un sogno quello che penso oppure è realtà? Il mio cuore batte leggero ma impetuosamente. I miei sensi sono all’erta perché sentono i suoi passi che salgono le scale e quel bussare discreto ma deciso alla mia porta.” Così si esprimeva ad alta voce e chiamò: “Maria, presto venite! Desidero alzarmi per andare allo studio!”
Goethe era là davanti al portone in attesa di Angelica.

(parte tredicesima)

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Durante l'attesa del ritorno

Angelica, mentre completava il ritratto di Goethe, ripercorse la sua vita, quando ancora una bambina osservava il padre Josef dipingere paesaggi, personaggi e soprattutto decorazioni religiose nelle chiese.
“Mio padre non è stato un pittore di gran talento o famoso, ma mi ha insegnato ad amare il bello e mi ha sostenuto ed incitato a diventare pittrice e scultrice. Se sono diventata quella che sono, io lo devo a lui”, così ricordava la figura paterna, che aveva segnato profondamente la sua esistenza.
Dalla cittadina svizzera di Chur era venuta in Italia una prima volta appena quattordicenne seguendo il padre, dove era rimasta per oltre dieci anni, acquisendo il gusto e la passione per l’arte, apprezzando la plasticità dei pittori e scultori più famosi da Michelangelo a Raffaello.
Con nostalgia ricordava i primi incarichi ufficiali: “Avevo solo undici anni, quando una signora mi ha commissionato quel ritratto di fanciullo. E’ stata un’esperienza memorabile, perché sono entrata a fare parte della cerchia dei pittori, accettata e benvoluta da tutti. Chissà dove sarà quel ritratto? E’ ancora appeso ad una parete o giace impolverato in un qualche scantinato?”
Gli occhi si inumidirono quando ricordò il primo soggiorno romano col padre: “Avevo solo venti anni quando l’Accademia di San Luca mi accolse tra i suoi membri. Io ero una bambina rispetto agli altri, molto più anziani di me”.
Fermatosi un istante mentre dipingeva il ritratto di Goethe, intonò una breve canzone: aveva una bella voce e sapeva comporre musica con testo di dialogo. “Lieber Gott, mi hai dato grandi doni: dipingere, comporre musica ed una notevole voce. Potevo eccellere in queste arti, ma la pittura e la scultura sono risultate vincenti nella sfida di essere una cantante. Quanti dubbi mi hanno assalita durante quegli anni ancora adolescente! Però il contatto con i grandi pittori e scultori italiani hanno fugato qualsiasi incertezza!”
Il suo carattere volitivo e deciso si era forgiato e maturato, quando ventiseienne era partita sola per l’Irlanda da dove si era trasferita presso lo studio londinese di Joshua Reynolds, famoso ritrattista.
“Devo tutto a Joshua, quando mi ha accolto nel suo studio. Mi ha formato graficamente e mi ha insegnato a miscelare i colori. Però soprattutto è stato per me un secondo padre, insegnandomi a stare in società, a respingere i pretendenti troppo insistenti, ad imporre le mie idee ai committenti. In quegli anni ho lavorato sodo e sono maturata artisticamente e come donna”.
“Mi hanno chiamata la poetessa del pennello” rammentava con una punta di orgoglio “ per l’abilità nel dipingere i ritratti della ricca borghesia e dei nobili londinesi. Ero io a dettare le mode e gli stili, ad influenzare gli altri artisti. Ero ricercata ed adorata dall’alta società di Londra. Ero talmente famosa che in un anno ho accumulato tanto denaro da potermi permettere l’acquisto di una comoda casa a Londra”.
Mentre ricordava Reynolds e i trascorsi londinesi, un pizzico d’orgoglio la colse nuovamente: “Che soddisfazione ho provato quando la Royal Academy mi ha accolta come membro. Io sono stata la prima donna ad entrare lì in quel ambiente maschilista! E questo lo devo a Joshua, che ha perorato la mia causa”.
La malinconia salì dentro di lei, mentre rammentava il doppio matrimonio, il primo con il Conte di Horn, un impostore, e il secondo con Antonio Zucchi, un pittore più vecchio di lei di ben 15 anni. Questo secondo non era stato un matrimonio d’amore, ma di convenienza, come spesso capitava. Nel periodo londinese aveva sposato un ciarlatano, che l’aveva raggirata con false credenziali aristocratiche, ma non era riuscita a liberarsene nonostante l’interessamento di Reynolds.  Pensava: “Come sono stata ingenua! Quell’impostore mi ha rovinato gli anni più belli della mia vita! Alla sua morte ho dovuto accettare come secondo marito Zucchi, solo perché ho girato con lui per convenienza, spacciandolo per mio marito!”
Aveva poco più di quaranta anni, quando l’aveva sposato, ma era troppo vecchio per lei, ancora bella e piacente, cercata dagli uomini ed odiata dalle donne. Però era stato un comodo paravento per respingere i corteggiamenti più assidui ed insistenti.
“Perché mi sono lasciata convincere a sposare Zucchi? Avrei dovuto resistere e cercare un altro uomo. Non mi ha donato mai un attimo di amore, uno slancio, un sentimento diverso dal formale. Ho bisogno di sentirmi donna, di amare ed essere riamata. Il sesso non è solo una necessità fisiologica, ma un modo di esprimere gli impulsi che nascono dentro di noi. Ora è vecchio senza più speranza che possa donarmi quello che cerco. Gli sono fedele a modo mio, senza mancargli di rispetto”.
Ormai erano cinque anni che abitava stabilmente a Roma, dove aveva comprato un bella e grande casa poco distante da Via Sistina, dopo avere vissuto per quindici anni a Londra, che aveva lasciata dopo il secondo matrimonio. In questa via posta nel cuore di Roma aveva il suo studio ed atelier con annesso un piccolo appartamento di servizio. Era diventata ben presto il crocevia di tutti i tedeschi che venivano a Roma, perché portavano notizie dalla Germania ed apprendevano le ultime novità di Roma e dei vari artisti che lì operavano.
Così attraverso amici comuni, riuscì a tenersi al corrente degli spostamenti di Goethe, prima a Roma, poi durante il viaggio in Sicilia.
“La Sicilia mi fa intendere l’Asia e l’Africa e non è poca cosa trovarsi nel centro meraviglioso dove sono diretti tanti raggi della storia universale” così diceva il poeta appena messo piede a terra dopo il disastroso viaggio in piroscafo da Napoli a Palemro. Aveva sofferto il mal di mare per quattro giorni, quanti erano stati quelli della traversata, aspettando solo il momento di potere calpestare nuovamente la terraferma.
Ancora una volta era ricorso allo stratagemma di viaggiare in incognito sotto il falso nome di Philippe Moeller, ma ben presto era uscito allo scoperto, perché il Viceré lo aveva mandato a prendere nella locanda dove alloggiava per averlo a corte.
Angelica ascoltava con attenzione ciò che gli amici le narravano del viaggio in Sicilia del poeta, che inviava lettere piene di entusiasmo per questa terra, tanto che scrisse in una dei primi messaggi recapitati a Roma: “L’Italia senza la Sicilia non lascia l’immagine nell’animo: qui, solo qui, è la chiave di tutto”.
Era entusiasta di questa terra, che il compagno di viaggio Kniep dipingeva con molta maestria. Sentiva rinascere dentro di sé una fresca sferzata di ispirazione poetica, annotando con cura tutto quello che vedeva e provava per tradurli in versi e poemi.
Era maggio quando Goethe carico di ricordi e di sensazioni cominciò il lungo viaggio che lo doveva ricondurre a Roma.

(Parte dodicesima)

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Viaggio in Sicilia

Goethe passò di osteria in osteria furibondo per lo smacco subito, cercando di calmarsi con vino e allegre compagnie, ritornando alla locanda sul far dell’alba.
Dormì per tutto il giorno fin verso sera senza mangiare un sonno agitato e tempestoso con incubi e sogni in cui Angelica lo cacciava da qualunque posto si trovava.
Al risveglio, dopo essersi data una sistemata sommaria, andò a mangiare in una osteria poco distante da solo per riflettere sulla situazione.
Era stato scaricato da una donna, che gli piaceva, si trovava bene nello studio di lei, che per lui era come una seconda casa, la scenata della sera precedente rappresentava uno smacco, che aveva ferito il suo orgoglio. Questi erano i pensieri che frullavano nella testa del poeta, mentre mangiava un piatto di fettuccine sorseggiando del generoso vino rosso. Non aveva molta fame, ma lo stomaco brontolva per il lungo digiuno e reclamava un po’ di cibo.
Pensò: “E’ tempo che riprenda il mio viaggio in Italia, andando verso sud, verso quel mondo misterioso vicino all’Africa. Devo parlare con Johann Tischbein per sentire se è disponibile ad accompagnarmi. Preferisco avere un buon compagno di viaggio con cui posso parlare, scambiare le opinioni, annotare quel che vedo. Ho la necessità di non pensare più ad Angelica per un po’ di tempo! Devo riflettere sulla nostra relazione”.
Però il pensiero della donna dominava ancora la sua mente, perché sentiva una forte attrazione difficile da sradicare verso la personalità di Angelica.
Le settimane successive furono impiegate da Goethe per i preparativi del lungo viaggio, forse due o tre mesi, verso Palermo e la Sicilia con una lunga sosta a Napoli per conoscere meglio questa città descritta con tanto entusiasmo dagli amici tedeschi.
Si ritrovava con Tischbein quasi tutti i giorni nell’osteria vicino al Tevere tra le viuzze strette, dove stavano i mercanti d’arte, per discutere di arte, poesia e del viaggio, che aveva intenzione di programmare nelle prossime settimane, tra un piatto pasta e un bicchiere di vino.
Conosceva Johann da molti anni ed era riuscito a fargli ottenere un buon sussidio per consentire la sua permanenza in Italia, dove lavorava a Roma, non rifiutando delle puntate a Napoli.
“Wolfgang, non so se potrò accompagnarti nel viaggio in Sicilia, perché ho paura della traversata via mare. Vedrai che troverò qualcuno che ti farà da compagno nel lungo cammino verso quelle terre calde e misteriose”, così disse una sera Tischbein al poeta.
“Johann, vorrei che tu mi accompagnassi almeno fino a Napoli e mi tenessi compagnia durante la visita alla città, anche perché la conosci bene.” rispose Goethe “Però prima di partire vorrei vedere il carnevale romano e divertirmi tra le vie in festa”.
L’organizzazione lo teneva occupato così fortemente che dimenticò Angelica o almeno non era in cima alle sue preoccupazioni.
Arrivarono i giorni del carnevale romano, che era particolarmente festoso ed era permesso circolare per strada mascherati.
Il carnevale romano apparve agli occhi del poeta una grande festa, che non era concessa propriamente al popolo, ma piuttosto dava se stessa a tutti i popolani. Era una festa che ricordava i saturnali di molti secoli prima a ricordo della mitica “età dell’oro” del dio Saturno. Vide i signori servire i propri schiavi e questi dovevano avere il cuore sulle labbra, quando per una volta volevano dire la verità sui loro signori senza essere presi a bastonate. Tutti giravano in maschera lungo il Corso, la grande e larga via che passava attraverso il centro di Roma. Grandi feste e balli all’aperto animavano le vie intorno al centro e le osterie, dove si consumavano grandi libagioni di vino. Era anche periodo rischioso perché pericolose violenze avvenivano per le strade male illuminate a causa delle persone rissose ed alticce.
Per Goethe fu uno spettacolo che superò la sua immaginazione e i racconti che tanti visitatori  tedeschi avevano fatto al loro ritorno in patria.
La mattina del 22 Febbraio 1787 Goethe accompagnato da Tischbein lasciava Roma lungo la via Appia puntando verso Velletri su una carozza chiusa. La strada era dissestata e non consentiva al Goethe e al suo compagno di prendere appunti o fare schizzi dei paesaggi.
La campagna romana era incerta sotto il sole pallido del mattino, perché risentiva degli influssi dell’inverno morente e della primavera che cominciava ad annunciarsi. Tuttavia presentava un certo fascino che attirava i due viaggiatori.
Goethe disse: “Ora è difficile prendere appunti o fare qualche disegno. Poi con calma metteremo sulla carta le nostre impressioni”.
Goethe ammirava il paesaggio e commentava con l’amico: “La campagna sta timidamente togliendosi i vestiti invernali per indossare quelli della primavera. Tra l’erba che sta spuntando crescono i crochi bianchi come minuscoli puntini colorati. E’ una meraviglia osservare la natura che sta risvegliandosi dopo la lunga parentesi invernale”.
Il 26 febbraio dopo avere attraversato l’agro romano e quello pontino, acquitrinoso e malsano, raggiunse finalmente Napoli, ricordando i racconti del padre che 25 anni prima aveva visitato la città durante il viaggio in Italia.
Goethe passando per la campagna romana convinse Tischbein a fare un quadro, che fu realizzato in poco tempo a Napoli, dove era ritratto con lo sfondo della campagna romana. Ne rimase entusiasta, perché era simile ad un dio della mitologia greca-romana a differenza di quello che stava dipingendo Angelica.
Il poeta, che viaggiava come al solito sotto il falso nome di Phillipe Moeller, ben presto fu riconosciuto dalla folta colonia tedesca, tanto che rapidamente si diffuse la voce che era in città.
Kniep, un discreto paesaggista ad acquarello, non appena sentì che era a Napoli, si precipitò a conoscerlo accompagnato da una conoscenza comune.
“Sono Cristoph Heinrich Kniep e sono molto onorato di poterla incontare e conoscere di persona,” disse l’artista ormai più italiano che tedesco.
Da quel momento era sempre con loro, ovunque andassero facendo da cicerone ed interprete con la gente del luogo.
Un giorno disse: “Mi hanno detto che cercate un compagno di viaggio fino alla Sicilia. Bene ecco di fronte a Voi c’è la persona che cercate. Posso dipingere per voi tutti i posti che visiteremo”.
Così alla di fine Marzo 1787 si imbarcò sul piroscafo per Palermo con Goethe dove sarebbero giunti dopo un viaggio di quattro giorni, da qui cominciò un lungo giro per l’isola prima del ritorno a Roma.
Dopo quella sera tempestosa Angelica per diversi giorni non frequentò lo studio rimanendo chiusa nelle sue stanze piangendo e interrogandosi sul suo futuro.
La ferita inferta da Goethe era troppo profonda da rimarginarsi subito, lasciandola prostrata ed infelice senza alcuno stimolo per superare la crisi profonda in cui era caduta.
Poi facendosi forza per affrontare la delusione patita riprese la strada dello studio e pensava: “Wolfgang è stato davvero meschino nei miei confronti, dimostrandosi privo di tatto ed offensivo, dandomi della donna di strada. Non è stato capace di intuire l’amore che provo per lui. E’ stato egoista e maldestro pensando che tutto il mondo ruota intorno a lui. Devo dimenticarlo e riprendere a lavorare di buona lena per recuperare tutto il tempo perduto.”
Consegnò alla baronessa de Kruederer il quadro prima della partenza per Copenhagen, ricevendone elogi e ringraziamenti.
Poi cominciò altri quadri, mentre la delusione si stemperava con il tempo.

 (parte undecima)

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Lo scontro

I due amanti si fronteggiavano senza vedersi, ma sentivano la reciproca presenza attraverso la pesante porta.
Goethe era più che mai deciso a chiedere ad Angelica il perché del suo comportamento di questa giornata, non riusciva a comprenderne le ragioni.
“Non le ho mai mancato di rispetto. L’ho trattata con dolcezza senza pretendere da lei nulla, che non fosse disposta a concedermi. Perché mi lascia fuori dall’uscio come se fossi un appestato?”, così ragionava il poeta incapace di cogliere le sfumature del rifiuto della donna. Era vero che si era comportato con correttezza senza mai eccedere o esigere la sua disponibilità, ma non aveva capito che la pittrice l’amava e lo desiderava, che il non avere rapporti sessuali era un’offesa alla  femminilità, perché lei si sentiva esclusa e tradita.
Goethe frequentava donne di strada quasi tutte le sere per soddisfare i suoi desideri sessuali, mentre sfiorava appena Angelica con qualche furtivo bacio e veloce tenerezza. Inoltre per giornate intere spariva senza dire nulla o giustificare le sue assenza, perché non poteva rivelarle che frequentava i salotti e le camere da letto di alcune nobili romane, che facevano carte false pur di averlo accanto loro.
Già a Weimar la relazione con Charlotte von Stein era stata burrascosa per i molti tradimenti con altre donne e la sua incapacità a restare fedele ad un’unica donna tanto che per sfuggire alle scene di gelosia era partito di nascosto per l’Italia.
Angelica era altrettanto decisa a non aprire la porta, finché non avesse licenziato quel quadro, perché era un impegno che aveva preso con se stessa ed intendeva mantenerlo.
Era sinceramente innamorata di Goethe, accettando i suoi tradimenti, ma desiderava maggiori attenzione verso di lei.
Dopo quell’unico rapporto avvenuto prima di Natale mai una volta il poeta l’aveva sfiorata, anche se lei aveva tentato più di una volta di volere fare sesso con lui.
Lei doveva ascoltare per ore quello che andava scrivendo dal Faust a Ifigenia in Tauride, a Egmont, a Torquato Tasso, pretendendo che lei prestasse la massima attenzione. Voleva sentire la sua opinione, a cui teneva moltissimo, mentre Angelica praticamente non lavorava quasi più.
Stava soffrendo tantissimo questa situazione di amante segreta senza sesso e voleva
riappropriarsi della sua vita. Da qui la decisione di escluderlo per un po’ di tempo dal suo studio, di non pensare più a lui, anche se questo le stava costando molte angosce d’amore.
Era un momento difficile per lei e il fatto che lui fosse lì, fuori dalla porta deciso ad entrare, la paralizzava e le impediva di trovare uno sbocco alla situazione.
Non le piaceva avere una vivace discussione lungo le scale male illuminate e con diverse orecchie indiscrete, né tanto meno in strada, come due popolani romani. Se fosse entrato, avrebbe infranto la promessa che aveva fatto qualche giorno prima di non vederlo lì, dove si era consumato l’unico atto d’amore.
Angelica aveva al piano superiore un paio di stanze, dove si fermava a dormire, quando tardava troppo nello studio.
“Ecco dove condurrò Goethe” pensò “e lì avremo il chiarimento”. Infilatosi il mantello e il capello, aprì la porta ben decisa a chiuderla immediatamente dietro di sé.
Goethe, colto di sorpresa, non riuscì a spingerla dentro e suo malgrado la seguì al piano di sopra, parlando fitto e senza interruzione, mentre Angelica in silenzio e con la grazia di un angelo saliva le scale.
Aperta la porta e accese le candele poste nell’ingresso, entrarono e si tolsero i mantelli e i capelli, che posarono sul divano dietro la porta.
Le stanze erano fredde, perché non aveva ordinato ai domestici di prepararle e illuminate da qualche candelabro, ma c’era ordine e silenzio.
Si sedettero sul divano che dava di spalle al letto posto al centro della stanza e davanti ad un camino impietosamente spento. Nessuno dei due pensò di accenderlo, ma forse non sapevano come fare, rimanendo al freddo.
Goethe cominciò a parlare con voce alta ed alterata, ma Angelica le mise un dito sulle labbra per farlo tacere.
“Wolfgang, ho deciso di non rivederti più, anche se questo mi costa un dolore profondo in fondo al cuore, perché io ti amo, come non ho mai amato nessun altro.
Tu avresti potuto possedermi quando volevi, ma mi hai trascurato con donne di strada e hai ignorato le sensazioni che provavo per te.
Mi hai ferita come donna e come amante e non posso perdonartelo. Mi stai facendo soffrire le pene d’amore con la tua indifferenza alla mia femminilità.
Ero disposta a diventare la tua amante segreta, ma mi hai deluso con la tua incapacità a comprendere l’amore che provo per te.”
Dette queste parole Angelica stette in silenzio, aspettando cosa Goethe aveva da dire.
Era una vera e propria dichiarazione d’amore la sua, cogliendo di sorpresa il poeta, che rimase zitto e senza parole.
Rimasero a guardarsi negli occhi per alcuni secondi e poi lui ritrovò la parola.
“Se mi ami, perché non mi vuoi rivedere più? Perché adesso siamo qui a parlare? Tu mi piaci, perché hai personalità e sei intelligente, non sei possessiva, ma accetti che io abbia la mia vita.
Mi vuoi come amante segreto, ma io voglio mostrarti a tutti, ma non posso, perché tu sei sposata.
Cerchi un uomo che ti possieda, ti dia le gioie e i piaceri del sesso? Vai per strada e ne trovi tanti!
Allora era vero quello che dicono di te, che sei una donna che ama passare da un letto ad un altro, gaudente e priva di vincoli morali, tradendo il marito!
Io invece ti ho trattata da donna seria rispettosa delle regole!”
Angelica dopo avere ascoltato quelle parole dette con tono indelicato si alzò da divano e furente per l’ira disse con tono duro: “Uscite immediatamente da queste stanze e non fattevi più vedere!”
Poi si diresse verso l’ingresso per indossare mantello e capello, lasciando Goethe sbigottito e adirato.
La prese per un braccio per farla girare verso di sé, ricevendo in viso uno schiaffo che sembrava uno schiocco di frusta nel silenzio della stanza.
Angelica per niente intimorita e decisa a farsi rispettare si divincolò dalla presa guardando dritto negli occhi Goethe e disse ancora una volta: “Uscite ed andatevene per la vostra strada. Mi auguro che non si incrocino più”.
Si avvolse nel mantello, spense le candele, lasciandolo al buio, mentre cercava affannosamente il mantello e il capello.
Goethe imprecava e pronunciava parole offuscate dall’ira, peggiorando la situazione.
Come una furia Angelica si precipitò giù per le scale uscendo sulla strada con il mantello svolazzante senza aspettare il poeta, che rischiò più di una volta di scivolare sui gradini.
Sembrava un angelo vendicatore mentre percorreva la breve distanza verso casa, dove si rifugiò senza mai voltarsi indietro.
Salita nella sua stanza si abbandonò sulla poltrona in preda ad una crisi di pianto, mentre Maria con delicatezza le toglieva mantello e capello.
La tavola era pronta per la cena serale, ma Angelica disse asciugandosi le lacrime: “Maria, portate via tutto. Stasera non ho fame. Vorrei coricarsi immediatamente. Portatemi dell’acqua fresca per rinfrescarmi il viso e le mani”.
La governante eseguì i suoi ordini e dopo avere atteso che lei dicesse le preghiere serali spense le candele, lasciando estinguere il fuoco del camino.
Goethe,dopo aver tirato il battente  dietro di sé, si avviò rabbioso e furente in cerca di compagnia per la sera.
Così i due amanti si lasciarono.

(parte decima)

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I giorni successivi

I giorni trascorrevano tra lunghe attese e passioni ardenti,mentre Angelica si consumava nel fuoco dell’amore.
Il ritratto di Goethe procedeva a rilento, come altri lavori erano lì incompiuti sul cavalletto, perché era distratta dall’innamoramento verso il poeta, che a volte scompariva per diversi giorni senza dire nulla, lasciandola nell’angoscia.
Al poeta quel quadro non piaceva, perché era troppo semplice e quindi non voleva posare più nell’atelier di Angelica.
Goethe aveva a Roma molti amici tedeschi, con cui spesso trascorreva le serate all’osteria a bere in compagnia di donne per lo più sconosciute.
La pittrice era entrata in crisi, perché si sentiva trascurata, conoscendo le sue frequentazioni notturne.
“Mein Gott! Cosa devo fare per riconquistare l’attenzione di Wolfgang? Sono forse diventata inguardabile o indesiderabile? Lo ascolto con pazienza mentre mi legge ad alta voce quello che scrive, poi preparo degli schizzi per illustrare l’opera. Non mi bacia più, mi tratta con freddezza. Non abbiamo avuto più rapporti da quella sera di alcune settimane fa”, Angelica si lamentava ad alta voce sdraiata sul divano, dove aveva trascorso quella sera indimenticabile.
I suoi lavori tardavano a terminare tra le proteste dei committenti, che avrebbero voluto una maggiore celerità nella consegna dei quadri.
Sapeva che il suo comportamento non era corretto, ma l’ispirazione e la voglia di completare i quadri rimasti lì incompiuti era a livelli bassissimi. Doveva ritrovare la propria determinazione chiudendo con Goethe.
Così una sera decise che l’avrebbe lasciato fuori dal suo studio, finché non avesse finito quel ritratto della baronessa de Kruederer con il figlio Paul. La baronessa con il marito Alexis, ambasciatore di Russia a Copenhagen, era giunta a Roma nell’autunno del 1786 ed aveva voluto farsi ritrarre dalla celebre pittrice insieme al figlio Paul. Però l’arrivo di Goethe aveva di fatto bloccato il completamento del quadro, che doveva essere finito entro i primi giorni del 1787, perché il soggiorno romano della baronessa stava terminando.
Così due giorni dopo la decisione di non vedere il poeta fino al completamento del quadro, sentì bussare alla porta dello studio, che era chiusa a chiave. Sapeva che era Wolfgang, perché aveva riconosciuto i suoi passi e il modo di bussare, ma decise di non rispondere.
Goethe, pensando che fosse ancora a casa, si diresse là per chiedere alla sua governante dove fosse Angelica.
“Sono andato nello studio, ma ho trovato la porta sbarrata e nessuno rispondeva al mio bussare. Sai dove si trova la tua signora?” Chiese il poeta a Maria.
“Mio signore, Angelica è nel suo studio, intenta nel suo lavoro. Deve finire un quadro rapidamente, perché la committente sta per partire”, così la governante rispose a Goethe, che in preda all’ira ritornò allo studio.
Bussò con energia e disse con voce alterata e perentoria: “Angelica so che sei lì dentro! Aprimi immediatamente!”
Angelica con le lacrime agli occhi non degnò di una risposta quel bussare frenetico, continuando a lavorare.
Goethe visibilmente adirato continuò a bussare e in uno scoppio d’ira la minacciò: “Se non apri immediatamente, non mi vedrete mai più!”
La donna decisa più che mai a rispettare la promessa fatta con se stessa continuò a dipingere, mentre le lacrime sempre più copiose rigavano il suo delicato viso.
Il poeta, stanco di stare fuori dalla porta e colpito nel suo orgoglio di uomo, uscì dal portone scuro in volto e ancora più stizzito, borbottando oscure minacce: “Mi hai messo alla porta come l’ultimo dei tuoi servi, ma io non verrò più a cercarti. Anzi non frequenterò più il tuo studio. Sei una femmina stupida, che hai cercato un maschio più giovane di te!”
Poi ad ampie falcate tra lo svolazzare del mantello si diresse verso la zona delle osterie per annegare la sua ira nel vino e solazzarsi con qualche donna più accondiscente.
Angelica, avendo sentito che si era allontanato, diede sfogo alla sua disperazione e solitudine piangendo a dirotto: “L’ho perso per sempre! Gli ho chiuso la porta in faccia e lui se ne è andato via. Io devo finire questo quadro senza vederlo prima.
L’avevo promesso a me stessa e devo mantenerla anche se l’ho perduto per sempre!”
Lavorò intensamente per tutta la giornata tra crisi di pianto e determinazione nel mantenere la promessa.
All’imbrunire il quadro era ormai quasi concluso, domani avrebbe portato gli ultimi ritocchi e poi l’avrebbe consegnato alla baronessa.
Con calma ripulì i pennelli e le mani, ripose i colori, sistemò sommariamente la stanza e si preparò per uscire, quando sentì dei passi familiari.
S’irrigidì e aspettò che lui fosse dinnanzi alla porta, nel frattempo pensava intensamente: “Esco? Apro la porta e lo faccio entrare? Rimango qui, chiusa dentro aspettando che se ne vada?”
Aspettò il bussare, la voce che conosceva da tempo, ma nulla di tutto questo. Percepiva che stava lì ritto dinnanzi alla porta, aspettando che lei aprisse per farlo entrare.
Il panico si impossessò di Angelica, paralizzandola nei movimenti e nelle parole: “Lieber Gott! Cosa devo fare? AVE MARIA, gratia plena, Dominus tecum. Benedicta tu in mulieribus, et benedictus fructus ventris tui, Iesus. Sancta Maria, Mater Dei, ora pro nobis peccatoribus, nunc, et in hora mortis nostrae. Amen”.
Il tempo si era fermato e non passava mai: lui fuori dalla porta in silenzio, probabilmente adirato e furioso, lei dentro la stanza intimidita e decisa.

 (parte nona)

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La notte

Maria l’aspettava nell’androne con ansia, perché non l’aveva vista rincasare per cena senza sapere dove fosse la signora, quando la vide approssimarsi al portone ancora aperto con una persona a lei ignota.
“Ecco con chi era la mia signora! Sembra un bel uomo e per di più giovane”, così Maria ragionava in silenzio andandole incontro con un lume. Dopo essere entrate, chiuse il battente senza fare troppo rumore per non svegliare le persone della casa.
“Maria, grazie per avermi aspettata. Sono stata sciocca a non avvertirti che facevo tardi, ma la giornata è stata troppo intensa per riuscire a trovare un momento per un messaggio. E’ stata una giornata fantastica. Ora sono troppo stanca e desidero coricarmi al più presto. Domani, chiamatemi di buona ora, perché ho molto lavoro allo studio".
“Mia signora, avevo tenuto in caldo il pasto serale, ma credo che abbiate già cenato. Quindi lo riporterò nelle cucine. Avete bisogno di aiuto per togliere i vestiti? Avete necessità di acqua calda prima di coricarvi? Il letto è già caldo, come la stanza, dove nel camino arde un bel ciocco di legno”, così la domestica si rivolgeva ad Angelica.
“Si, un aiuto e l’acqua calda per lavarmi prima di coricarmi mi servono per davvero”, mentre diceva queste parole sottovoce, rapidamente salirono al primo piano raggiungendo la stanza da letto. Era calda ed illuminata da diversi candelabri, su una sedia accanto al camino erano riposte la camicia da notte bianca ricamata e una pesante veste da camera.
Velocemente si spogliò aiutata dalla domestica, fece qualche abluzione prima di indossare la camicia per la notte.
Prima di infilarsi velocemente sotto le coperte, si pose sull’inginocchiatoio recitando due Pater Noster, cinque Ave Maria, un Salve Regina e alla fine il Confiteor, sentendosi sollevata dai peccati commessi nella giornata.
Il caldo tepore del letto la fece scivolare nel mondo dei sogni dolcemente, mentre la stanza diventava più buia con lo spegnimento di alcuni candelabri.
Dopo poco si udiva solo il respiro regolare e rilassato di Angelica, interrotto dal crepitio della legna nel camino, che si trasformava in brace ardenti.
Gli ultimi bagliori rossastri illuminavano la stanza creando sui muri e sul soffitto immagini fantastiche di animali e uomini, mentre il fuoco si andava lentamente spegnendo.
Maria con una candela su una bugia di rame entrò silenziosa per accertarsi che la sua signora stesse dormendo e per spegnere l’unico candelabro sul tavolo rimasto ancora acceso.
Rimboccata la coperta e sistemata la veste da camera su una sedia come era entrata uscì in silenzio senza svegliare Angelica.
“Era da tempo che non vedevo la mia signora dormire così tranquilla e serena. Quel giovane evidentemente ha avuto il potere di trasformarla” così pensava Maria, mentre chiudeva il battente della stanza.
Ora era tutto silenzio e buio a parte il leggero sibilo del respiro della dormiente, che stava sognando Goethe.  Era una bellissima visione onirica dove lei e lui erano i protagonisti in un giardino pieno di rose e di verdi prati.
“Wolfgang, come siete bello e desiderabile. Vorrei donarVi la mia anima e sentire la Vostra mano calda sul mio petto, così che io possa assaporare la sensazione di calore che Voi emanate.
Venite accanto a me e tenetemi la mano, come solo Voi sapete fare” così parlava nel sogno Angelica.
Goethe si avvicinò prendendole la mano e tenendola tra le sue, mentre Angelica appoggiava la testa sulle gambe.
Si sentiva sicura e felice, il cuore batteva veloce ed impetuoso, la mente volava leggera verso l’alto.
Osservava il prato illuminato dal sole dove le farfalle si posavano delicatamente sui minuscoli fiori che ornavano per pezzo di giardino, mentre tutto intorno c’era pace e calma.

Wie ich dich liebe
 mit warmen Blut,
 die du mir Jugend
 und Freud und Mur

Sentiva il poeta recitare un frammento di poesia: “Vi piace, mia adorabile signora? Voi siete luce per i miei occhi e stimoli per i miei sensi. AlzateVi e camminiamo su questo verde prato, come due giovani amanti”.
Goethe si alzò tenendo per mano Angelica e iniziarono una passeggiata nel giardino. Colse una rosa, che infilò tra i capelli di lei, dandole un leggero bacio sul collo.
Un brivido di piacere percorse il corpo della donna, che nel sonno emise sospiri di gioia e abbracciò con più vigore il guanciale, come se fosse il giovane amante.
Giunsero ad una panchina posta all’interno di un gazebo ricoperto di gelsomino selvatico e si sedettero uno accanto all’altro tenendosi per la mano.
Goethe la prese dolcemente per la spalla baciandole delicatamente le labbra, immediatamente ricambiata da Angelica, che si lasciò trasportare dalla voluttà di quel bacio.
Sentiva crescere dentro di sé il desiderio di unirsi al poeta e avrebbe voluto essere in una stanza da letto per assaporare il piacere dell’unione carnale.
Stava ansando per la voglia, quando si svegliò capendo che era stato semplicemente un meraviglioso sogno, rimanendo immobile per la delusione.
I suoi occhi vedevano solo buio senza distinguere nulla, finché non si abituarono all’oscurità percependo le forme famigliari della sua stanza.
Era delusa,perché quella visione onirica era svanita nel nulla, lasciandole una sensazione di vuoto e di passione inapagata.
Rifletteva e disse in modo impercettibile: “Sono stata punita per avere chiesto troppo al mio desiderio verso di lui, interrompendo quel sogno inebriante. Sento dentro di me i germi dell’amore che sbocciano con violenza ed irruenza. Saprà, Wolfgang, contraccambiarmi allo stesso modo? Ob du mir liebst, weiss ich nicht!!”
Rimase sveglia fino al mattino,perché desiderava di rivederlo al più presto, ma il tempo non scorreva mai, sembrava fermo da un’eternità.
Con grande gioia mista ad ansia vide uno spiraglio di luce affacciarsi dalla porta, era Maria che cautamente entrava a svegliare la sua signora.

(parte ottava)

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La prima volta

Erano contenti per la lunga passeggiata e perché avevano capito che il loro rapporto travalicava la semplice amicizia pur non sapendo come potevano esternare queste sensazioni.
Pagato il fiaccheraio per la lunga corsa, Goethe prese la mano di Angelica e la baciò con passione, mentre si accomiatava da lei senza proferire parola.
A passo svelto si diresse verso piazza di Spagna, sparendo ben presto dalla vista della donna, che salita nello studio si abbandonò su un divano piangendo a dirotto.
“Ormai l’incanto è svanito e nulla più potrà ricreare l’atmosfera precedente. Sono stata troppo fredda nei suoi confronti e questo mi ha persa. Ahimè, come potrò finire il ritratto di lui?” disse ad alta voce tra i singhiozzi guardando il quadro appena abbozzato, che stava triste sul cavalletto “Che ne faccio di questa tela?”
Un bellissimo tramonto romano illuminava di rosso la stanza, creando effetti ottici e cromatici insoliti sulle pareti.
Angelica si riscosse e si asciugò le lacrime, si mise il mantello e si preparò ad uscire, quando sentì bussare alla porta.
“Chi è mai a quest’ora che bussa? Devo aprire e guardare chi è oppure fingere che qui non ci sia nessuno” pensava mentre qualcosa la incitava ad aprire l’uscio.
Il bussare si fece insistente, mentre le parve di udire la sua voce.
“Non è possibile!” pensò, “Se ne è andato! Forse la stanchezza della lunga passeggiata mi fa sentire qualcosa che non è. Devo aprire oppure no?”
Si avvicinò alla porta e con voce tremula chiese: “Chi è che bussa alla mia porta?”
“Sono Wolfgang. Apritemi, per favore. Vorrei scusarmi per essere stato un villano, andandomene senza salutarVi adeguatamente”.
Col cuore in tumulto e la mente offuscata dall’ansia aprì il battente della porta e lo vide lì immobile avvolto dall’ampio mantello bianco con l’immancabile capello a tesa larga in testa.
Angelica si precipitò fuori baciandolo sulla bocca, mentre il poeta la strinse a sé e la spinse con dolcezza, ma con fermezza dentro lo studio, chiudendo la porta.
Lei, senza opporre resistenza, si lasciò sfilare il mantello, che fu gettato su una sedia insieme a quello di lui e al suo capello, conducendolo all’ampio divano posto dinnanzi ad una finestra.

Fromm sind wir liebende, still verehren wir alle Daemonen,
 
Wuenschen uns jeglichen Gott, jegliche Goettin geneigt.
  Und so gleichen wir euch, o roemische Sieger!

Goethe pronunciava queste parole mentre si accomodavano sul divano.
Angelica rapita si lasciava trasportare dai sensi e lo baciava con ardore, dicendo dolci parole amorose.
Così i due amanti, incuranti del buio incipiente, consumarono il rapporto carnale tra baci, sussurri appena accennati e dolci promesse di amore senza sentire né i morsi della fame, né il freddo pungente della stanza.
Era ormai sera inoltrata quando uscirono dallo studio avviandosi verso la trattoria per consumare la cena serale.
Entrati si sistemarono in un tavolo d’angolo appartato e discreto, lontano dagli altri commensali, mentre un grande frastuono sovrastava le loro voci. Erano suoni allegri ed alterati dalle abbondanti libagioni, mentre nel camino accanto ai due amanti la legna scoppiettava piacevolmente, riscaldando l’ambiente.
I loro cuori erano caldi, come i corpi, mentre i sensi erano appagati.
Parlavano sottovoce della giornata trascorsa, mentre lei ripeteva i versi che il poeta aveva declamato durante la passeggiata e nello studio.
Il poeta chiese all’oste della carta e una matita per trascrivere quelle rime che svanissero dalle loro menti.
Lei era felice per il rapporto amoroso appena consumato, essendo ormai da tempo che il suo corpo non aveva goduto delle gioie del sesso.
Tutti i dubbi erano svaniti e i timori per il tradimento compiuto si erano disciolti, lasciando il posto alla volontà di continuare questa relazione amorosa anche nei prossimi giorni, nelle settimane successive, finché la comunanza degli affetti non sarebbe cessata.
Angelica era talmente presa da quel fiume di pensieri straripante che faticava ad ascoltare Goethe e quello che le diceva.
Rispondeva a monosillabi, generando in lui stupore ed incredulità, perché non si aspettava una simile reazione, come se non ascoltasse le sue parole.

Ob ich Dich liebe weiss ich nicht;
  Seh ich nur eimal dein Gesicht,
  Seh Dir in’s Auge nur einmal,
  Frei wird mein Herz von aller Qual;
  Gott weiss, wie mir so wohl geschicht!
 
Ob ich Dich liebe, weiss ich nicht.
“Questa breve poesia l’ho composta quando avevo 21 anni e ora la dedico a Voi, che mi fate compagnia ed allietate la mia vista. Voi siete splendida e dolce, dalla personalità intensa e forte, come tanti amici comuni Vi avevano descritta”.
“E’ bella. Come s’intitola? O non ha nome?” chiese Angelica, “Siete veramente bravo ed ispirato nelle composizioni poetiche. Sapete dove cogliere i fiori del bello per il mio giardino!”
L’oste guardava di sottecchi i due amanti, che invece di gustare i suoi piatti parlavano fitto tra di loro in una lingua che non capiva. Aveva visto lui altre volte in compagnia di uomini e di donne, ma lei era un volto sconosciuto.
“E’ bella quella donna!” pensava l’oste appoggiato al bancone ben attento a correre per servire i commensali, “Chi sa da dove viene. E’ la prima volta che entra nella mia osteria. Ha un tocco di classe ben superiore a lui, che mi sembra più giovane. Però sono una bella coppia affiatata da come parlano e si guardano”.
Non avevano fame, toccando a malapena i cibi preparati per loro, perché essa era stata soddisfatta prima nello studio di Angelica.
La serata svolgeva ormai al termine e nella grande sala da pranzo erano rimasti solo loro e un paio di persone alticce per il molto vino bevuto, che parlavano a voce alta con toni striduli e impastati dal troppo bere.
Chiamato l’oste per pagare il conto, Goethe si alzò aiutando Angelica ad indossare il mantello e l’ampio capello ornato di fiori.
La donna accettò volentieri che il poeta l’accompagnasse verso la casa, perché la strada era mal illuminata da lampioni ad olio, che emettevano una fioca luce.
Come fantasmi scivolarono via lasciando una pallida ombra sui muri, finché giunti sull’uscio di casa si scambiarono l’ultimo bacio della giornata prima che il portone si chiudesse alle spalle di Angelica.

(parte settima)

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Ordine e caos: magnifiche ossessioni

Ordine e caos: magnifiche ossessioni

Sottotitolo: L’ansia di pulizia diventa un business, ma la virtù della confusione regna sovrana

Ordine e caos, caos e ordine: croce e delizia di tutti noi. Chi non ha subito il fascino del disordine o l‘ansia di rimettere tutto in ordine? Chi non ha affermato almeno una volta, parlando dell’amica con una punto di ironia: è una maniaca dell’ordine oppure non ho mai visto una persona così disordinata? Ognuno di noi ha un proprio caos ordinato sia mentale sia fisico: riponiamo gli oggetti secondo un ordine, che agli occhi degli altri sembra disordine, perché poi siamo in grado di recuperarli velocemente all’interno di un cassetto o sulla scrivania.
Come al solito gli americani hanno catalogato il caos organizzato, hanno scritto libri sul disordine, hanno creato siti web sull’argomento. Un fotografo americano si è divertito a raccogliere per dieci anni tutti i pizzini che uomini e donne hanno disseminato nei parcheggi dei supermercati e ne scritto un libro, che è uscito a maggio in America (“A perfect Mess”). Qualcuno si è divertito a definire le persone secondo il seguente schema.
CICLICI: sono persone che amano vivere nel caos, per poi rimettere tutto in ordine.
FURTIVI: fingono l’ordine, ma in realtà sono disordinati ovvero occultano il loro senso di colpa.
SATELLITARI: amano vivere in mezzo al disordine perenne e se non c’è lo creano.
PATOLOGICI: sono i maniaci dell’ordine, che può trasformarsi in un’ossessione.

Qualcuno s’è inventata una celebrazione annuale: il mese di gennaio di ogni anno è dedicato al riordino.
In Italia è uscito a marzo il libro “Il disordine come stile di vita” – edito dalla Rizzoli -, che teorizza il disordine in contrapposizione alla mania dell’ordine. Si sostiene che i disordinati hanno un’adattabilità che i “precisini” non hanno. Il disordinato è creativo, ha un rigore logico del tutto assente nelle persone ordinate.
Siamo alla paranoia!
Sono convinto che ognuno di noi sia disordinato per natura e che organizza il proprio ritmo di vita secondo degli schemi logici complessi, che non sono compresi dagli altri perché differiscono tra loro. In questo senso di caos organizzato ritrovano con facilità il giusto percorso per raggiungere gli obiettivi prefissati.

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Roma e il suo fascino romantico

La carrozza si fermò dopo qualche istante, mentre Goethe si ergeva dal sedile osservando con cura tutti quei ruderi pieni di storia una volta ritti ora malinconicamente ricoperti da erbacce e comodi sedili per i gatti.
E recitò ad alta voce :
Saget Steine mir an, o! sprecht, ihr hohen Palaeste.

 Strassen redet ein Wort! Genius regst du dich nicht?
Il vetturino rimase interdetto e pensò: ”Sono tutti suonati questi stranieri! Non parlano italiano, non capiscono il romano e sproloquiono in ostrogoto! Speriamo che mi paghino i quattro soldi pattuiti.”
Continuò a borbottare, guardando il poeta che si sporgeva dalla carrozza in attesa di nuove istruzioni.
Angelica si destò dal dolce tepore che la presenza di Goethe le assicurava e si pose eretta sul sedile ammirando quei ruderi vecchi di oltre un millenio, mentre lo ascoltava a declamare i versi.
“Sono appropriati i Vostri versi e sono meravigliosamente belli!”
Goethe continuò a parlare con enfasi.
Ja es ist alles beseelt in deinen heilegen Mauern

 Ewige Roma, nur mir schweiget noch alles so still.
E rivolgendosi a lei, disse: “Vi piacciono, mia dolce Angelica questi versi? Li ho pensati in questo momento vedendo questi marmi e colonne giacere a terra. Peccato non avere qualcosa per trascriverli, perché non vorrei dimenticarli. Pensate, mia bella compagna, di ricordarli fino a quando non torniamo da Voi?”
La donna guardando negli occhi Goethe rispose: “Come potrei dimenticare la sublime altezza di queste parole? Hanno colpito direttamente il mio cuore e la mente! Non temete, li ripeterò in silenzio per tutto il viaggio!”
Il pallido sole di Dicembre illuminava quei ruderi, tra cui si aggiravano gatti ben pasciutti, mentre altri pigramente si scaldavano sdraiati su di essi.
I minuti passavano e il fiaccheraio cominciava a dare segni di impazienza finché disse in romanesco: “Andiamo? Questa sosta vi costa altri due soldi!”
Goethe si riscosse dalla contemplazione delle rovine sentendo la voce del vetturino senza però capire nulla di quello che stava dicendo.
Angelica intuendo che il poeta non aveva compreso nulla gli fece una traduzione sommaria del discorso, anche perché aveva capito che era arrivato il momento di andare e che la sosta avrebbe fatto lievitare il costo della passeggiata.
Ricevuto un cenno d’assenso col capo, il fiaccheraio fece schioccare la frusta in aria, incitando il cavallo a riprendere l’andatura.
La carrozza si mosse con lentezza, mentre i due amanti si sistemarono sotto la coperta ben stretti l’uno all’altra.
Angelica si sentiva serena vicino a lui e percepiva un calore come mai aveva ricevuto da un uomo, ripensando al loro primo incontro di quel lontano pomeriggio di Novembre. Aveva capito subito che quell’uomo gli piaceva, ma l’educazione cattolica ricevuta e la frequentazione di alti dignitari della corte papale la frenavano e costituivano un potente blocco inibitorio nella sua personalità.
Era vero che aveva avuto occasionali avventure durate al massimo un giorno, ma erano state solo appagamenti dei suoi desideri carnali e tutto era finito subito, confessando il suo peccato il giorno dopo e facendo penitenza per alcuni giorni.
Questa volta era diverso, perché il tradimento, anche se solo virtuale, ormai durava da circa un mese e non aveva trovato il coraggio di parlarne col suo confessore, peccando ancora di più.
“Signore, abbi pietà della mia anima perché ho tanto peccato! Desidero quest’uomo che non è mio marito e so di peccare ancora di più!” così ragionava mentre era appoggiata col capo sul petto del poeta “E’ dolce e risoluto allo stesso tempo. Si esprime in maniera sublime toccando le corde più intime del mio cuore. La mia risolutezza di resistere alla tentazione carnale diventa sempre più flebile e credo che entro un giorno o due sarò io stessa che lo cercherò!”
Goethe accarezzava con dolcezza il viso e i capelli di Angelica, sentendo il suo corpo fremere di piacere, e sospirava: “Questa dolce e fragile donna emana una sensualità veramente insolita, ma sembra casta e fedele al marito. Eppure dopo il primo incontro mi pareva che avesse un desiderio forte per me. Forse mi sono sbagliato oppure sono stato troppo frettoloso ed irruente. Chissà se questa passeggiata la sgelerà come neve al sole.”
La carrozza dondolava i due amanti, che si desideravano l’uno verso l’altro, ma non riuscivano a trovare quell’intimità che provavano nel loro animo.
Alle prime ore del pomeriggio Goethe e Angelica fecero ritorno allo studio di via Sistina.

(parte sesta)

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La felicità sognata

Il poeta aveva preso l’abitudine di venire alla mattina nello studio, perché sentiva la forte attrazione che lei esercitava.
La sua presenza distraeva Angelica, perché le leggeva quello che stava scrivendo e ne pretendeva l’attenzione.
Aveva ripreso la scrittura del Faust, interrotto più volte, e annotava le impressioni e i ricordi del lungo viaggio attraverso la penisola, dove aveva toccato Milano, Venezia, Firenze e tante altre località minori.
Desiderava che la pittrice lo accompagnasse in giro per Roma per ammirare le antiche vestigia romane e le innumerevoli chiese sparse un po’ ovunque, chiedendole il suo parere e le sue sensazioni di fronte ad un capitelo rotolato a terra, ad una statua ridotta in frammenti.
Angelica accantonò l’autoritratto, perché voleva ritrarre Goethe, mentre lei lo ammirava seduto sulla poltrona di raso rosso, ma il soggetto era inquieto e non restava fermo in posa.
“Mio caro, Wolfgang, non siete mai fermo. Come posso ritrarVi?”
“Mia adorata dama, non posso restare passivo, mentre Vi guardo col pennello in mano. Voi siete troppo bella e seducente per non esternare il mio sentimento verso di Voi. Suvvia, non siate inquieta con me, oggi è troppo bella come giornata per restare chiusi qui dentro. Usciamo e godiamoci questo splendido sole romano.”
Si avvicinò ad Angelica, le prese il pennello deponendolo in barattolo di colore e le baciò le guance con ardore e passione senza che lei opponesse resistenza.
La donna sentiva il desiderio dentro di sé crescere giorno dopo giorno, ma era combattuta tra la voglia di trasgredire e la fedeltà a quel marito tanto mediocre quanto meschino. Altre volte lo aveva tradito, ma era durato la spazio di un mattino: quella che si era soliti dire che era una scappatella. Consisteva in qualche bacio furtivo e veloce senza passione, molto raramente si andava oltre nelle effusioni amorose. Tutto sommato erano peccati veniali, quelli che aveva commesso nel passato.
Questa volta era diverso, perché sentiva crescere dentro di sé un sentimento che non aveva provato prima, forse mai nei suoi 45 anni di vita. Sentiva il trasporto verso livelli più alti tanto da averne paura.
Tra loro il tutto si era limitato a qualche bacio appassionato, a qualche tenerezza, che a stento era riuscita a controllare la libido, ma sapeva che presto sarebbe capitolata.
Goethe aveva avuto molte donne nella sua vita amanti segrete oppure no, non disdegnava di accompagnarsi anche a donne di strada. Questa sua fama di donnaiolo era ormai risaputa nella cerchia degli amici e conoscenti. Così anche Angelica sapeva della particolare inclinazione del poeta, perché ne aveva sentito parlare a lungo e con dovizia di dettagli dalla nutrita schiera di tedeschi che vivevano a Roma e che non mancavano di invitarla alle loro feste o che frequentavano il suo atelier.
Però l’educazione e la frequentazione degli ecclesiasti la rendeva dubbiosa ed incerta se doveva lasciare libera le sue inclinazioni oppure mortificare la carne come un penitente.
Così quando quella mattina uscirono per le strade di Roma, sentì che il muro che aveva dentro di sé si stava sgretolando.
Era una fredda giornata di Dicembre allietata da un bel sole, che a stento riscaldava i corpi, quando i due amanti si avviarono verso Piazza di Spagna gremita di bancarelle e di giostre per l’imminente Natale.
Angelica si appoggiava sul braccio del poeta con tenerezza ed affetto sentendo il calore che emanava e sospirava.
“Mein Gott! Cosa devo fare? Quest’uomo mi piace e so di peccare, finendo i miei giorni all’inferno. Ma la carne reclama il suo dono, come posso negarglielo? Se cadrò, e cadrò sicuramente, in peccato, come potrò redimermi?” Così la donna pensava mentre con passo svelto seguiva Goethe tra la folla delle bancarelle.
Giunsero con una certa fatica in una delle vie che si dipartivano dalla piazza, dove sostava un fiaccheraio insonnolito e avvolto in un pesante mantello verde.
Il cavallo era circondato da una leggera nebbiolina prodotta dal sudore che condensava nel freddo della mattina ed aspettava che il suo padrone raccogliesse qualche cliente per muoversi e riscaldarsi un po’.
Goethe tirò per il mantello l’uomo e gli disse. “Vorremmo che lei ci portasse verso l’Appia ad ammirare qualche capitello romano. Ci dià una coperta ampia e calda per ripararci dal freddo durante la passeggiata. Mi raccomando vada piano, perché desideriamo ammirare il paesaggio”.
Il vetturino si riscosse dal torpore in cui era caduto, guardò i due amanti e allungò al poeta una coperta un po’ logora e non troppo pulita senza degnarsi di aiutarli a salire e sistemarsi sulla carozza.
Angelica si rannicchiò fra le braccia di Goethe, che la coprì con la coperta stringendola con passione.
Il lento incedere del cavallo trascinava la carrozza che sobbalzava sulle strade mal lastricate con grande rumore, mentre i due amanti erano sballottati sul sedile da dove guardavano fuori case, chiese e ruderi romani.
La donna era sempre di più in un forte tumulto interiore tra passione montante e volontà di essere fedele, mentre la vicinanza con l’uomo che l’attraeva incrinava sempre più la sua fermezza a non tradire il coniuge.
Mille pensieri affollavano la sua mente e molte congetture sul suo futuro apparivano e scomparivano come la folgore tanto che non riusciva più a concentrarsi sul suo lavoro, che stava trascurando vergognosamente.
“E’ bello e forte “ diceva in silenzio “ e io lo desidero tanto. Tutte le notti mi compare in sogno come un semidio o un novello Apollo popolando la mia mente con la sua immagine. E’ dolce e un po’ timido, come il personaggio della sua opera, Werther.
Quanto lo amo! Come vorrei essere posseduta da lui!”
Il fiaccheraio, intuendo che la coppia volesse avere intimità e non avesse nessuna fretta, fece un lungo giro passando dai fori imperiali, dove Goethe chiese in un italiano stentato di fermarsi per qualche minuto.

(parte quinta)

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