Il ritorno a casa

Venne l’autunno e poi l’inverno, mentre aveva completato il suo autoritratto, rimasto a lungo sotto un candido telo di lino. Il ritratto del poeta giaceva malinconico in un angolo, coperto da un velo trasparente.
I rapporti tra loro si stavano raffreddando, come la stagione incipiente, anche se continuavano a frequentarsi con regolarità.
Goethe sentiva che era giunto il momento dell’addio: la nostalgia della patria, di Weimar stava diventando troppo insopportabile.
Angelica aveva capito che la storia stava terminando e che non sarebbe riuscita a trattenerlo.
“Sento un vuoto dentro di me. L’amore mi consuma, ma Wolfgang non lo alimenta più col necessario vigore. Anche se non lo dice apertamente, ha deciso di partire di tornare in patria. Riuscirò a sopravvivere alla sua partenza?”
L’angoscia si impadroniva di Angelica, che aspettava con ansia la decisione del poeta, che tardava ad arrivare.
Si consumava lentamente, giorno dopo giorno, in uno stillicidio di vane speranze e tristi presentimenti, trascurando i suoi lavori.
All’inizio del 1788 Goethe cautamente cominciò a parlare di un suo possibile rientro a Weimar, adducendo come pretesto certe lettere del duca Karl August, che gli chiedeva di riprendere il governo del minuscolo ducato.
“Angelica, mia cara, “ diceva il poeta, “non vorrei lasciarti qui, ma prenderti con me! Non riesco a decidermi nella risposta al mio Duca, perché vorrei restare qui accanto a te. Anche la duchessa Anna Amalia mi scrive chiedendomi di tornare, perché vuole ascoltare dalla mia voce il racconto di questo viaggio alla scoperta dell’Italia e del bello, dove ho trovato una donna meravigliosa sia per bellezza sia per capacità artistiche”.
Angelica sapeva che erano solo lusinghe che laceravano la ferita che si stava aprendo dentro di lei.
“Wolfgang, non mentirmi”, rispose con la voce rotta dall’emozione, “non mentirmi. Stai preparando l’addio e non sai come dirmelo.”
Il poeta capiva che l’innamoramento stava svanendo, come già in passato era capitato.
Forse quel viaggio non era stato programmato per sfuggire alle insistenze di Charlotte?
“Non posso mentire a me stesso,” pensava con apprensione mista ad ansia, “non posso mentire nemmeno a lei, che ha capito. Però io ho necessità di riacquistare la mia libertà psicologica, di non avere legami stabili. Poi lei è sposata, ho conosciuto il marito, Antonio Zucchi, le chiacchiere sulla nostra relazione stanno serpeggiando tra gli amici comuni. Posso trattenermi ancora qui?”
Si avvicinò ad Angelica, stringendola a sé per fugare quei dubbi, sapendo che era un atto inutile.
Lei lasciò fare senza opporre resistenza: “Vuole convincermi che le mie paure sono infondate, ma tutto è inutile. Lo so. Lui vuole tornare libero, andarsene di soppiatto come oltre due anni fa ha fatto partendo da Karlsbad! Però godiamoci questi ultimi sprazzi d’amore. Dopo sarà il vuoto dentro di me, dentro la mia vita. Saprò dimenticarlo? Saprò cancellarlo dalla mia esistenza?”
Goethe la trascinò sul divano, ma lei disse: “Wolfgang, no! Non qui! Andiamo di sopra!”
Salirono in silenzio e giacquero sul letto sempre pronto ad accoglierli.
I giorni passavano, mentre la primavera si avvicinava. In silenzio il poeta cominciò a raccogliere le sue cose: i manoscritti delle opere, le bozze delle poesie, gli appunti del viaggio, i disegni e tutti i ricordi accumulati in questi due anni.
Continuò a frequentare Angelica, a girare per Roma con lei, che al suo passaggio suscitava sguardi di ammirazione e saluti dai passanti.
Angelica soffriva il distacco annunciato in silenzio, ma no dichiarato da Goethe.
“Mein Gott! Perché devo patire questi tormenti dell’anima? E’ forse la punizione divina del tradimento verso il marito? Vorrei che il giorno non arrivasse mai! Ma arriverà e deflagrerà con una forza immane dentro il mio cuore!”
Ormai il tempo volgeva al bello stabile ed era favorevole all’inizio del viaggio di ritorno.
Un pomeriggio di fine marzo 1788 Goethe arrivò allo studio di Angelica, che stava lavorando al quadro di Virgilio per non pensare al distacco.
“Angelica, mia adorata!” esordì, “Stamani ho ricevuto una pessima lettera dal mio Duca, che mi ordina di tornare sollecitamente a Weimar per riprendere le cure del governo del ducato. Mi è crollato il mondo addosso! Sono rimasto affranto tutta la mattina. Quindi in fretta e furia devo preparare i bagagli e partire”.
Angelica prese a piangere silenziosamente senza voltarsi verso di lui: “Wolfgang, non mentire, ne sei incapace! E’ arrivato il momento dell’addio tanto annunciato, tanto negato tenacemente da te. Concedimi l’ultimo afflato d’amore senza dire nulla. Vieni e saliamo per l’ultima volta quelle scale, che hanno conosciuto il nostro amore. Ti prego, resta in silenzio e in silenzio esci dalla mia vita”.
Deposti i pennelli, si avviò verso quelle stanze dove si era consumato un amore impossibile, aspettandolo di sopra.
Si era chiusa una parentesi della sua vita.

(parte diciottesima)

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La storia continua

I giorni si snodavano leggeri e quieti, mentre i due amanti erano sempre più uniti.
Goethe trasformò Iphigenie in Tauris in un’opera teatrale, la lesse dinnanzi ad Angelica, che paziente ascoltò il testo. Poi si dedicò ad immaginare le scene, che dipinse con la consueta maestria, mentre il poeta era soddisfatto del lavoro riuscito.
Il viaggio in Sicilia era servito a lui per ritrovare la vena poetica e una splendida amante, a lei per rinsaldare il vincolo amoroso.
Angelica non riusciva a lavorare molto allo studio, perché spesso accompagnava Goethe in giro per la città che conosceva bene e perché il suo italiano perfetto le consentiva di tradurre i pensieri del poeta.
L’unica opera importante, iniziata durante l’assenza di Goethe, era il ritratto del principino di Gloucester e di sua sorella, che terminò con un po’ d’affanno alla fine dell’estate come quello della baronessa de Kruederer, perché era sempre impegnata con lui.
Il poeta non aveva trovato di suo gradimento il suo ritratto, perché era troppo semplice e non solenne come quello dell’amico Tischbein. Tuttavia l’accettò sia pure senza troppo entusiasmo, lasciandolo nello studio di Angelica.
“Angelica,” disse Goethe, guardando quel ritratto ormai terminato sul cavalletto, “ mi avete ritratto troppo modestamente. Sembro dimesso e senza importanza”.
“Wolfgang,” rispose la donna “io ti vedo così: bello, giovane e dai lineamenti nobili. Ti sembra troppo dimesso? Allora lascialo, lì sul cavalletto, affinché io lo possa ammirare, quando un giorno tu deciderai di tornare a Weimar. Si, lo so e lo sento, che tra un po’ affronterai il viaggio di ritorno. Non dire nulla! Così posso cullarmi nell’illusione che tu resterai sempre qui con me”.
Goethe stava per replicare, ma tacque, perché sapeva che tra non molto avrebbe cominciato i preparativi per tornare in Sassonia, a Weimar.
Si avvicinò ad Angelica, la prese tra le braccia baciandola con passione, mentre lei si lasciava trasportare dai sensi.
“Si, lo sento che Wolfgang sta meditando il ritorno a casa. Lo sento inquieto, stanco del girare per Roma. La vena poetica si sta affievolendo a poco a poco. Ora scrive pochissimo, qualche ritocco in qua e in là. Riuscirò a sopravvivere senza di lui, senza la sua presenza, senza il suo corpo nel mio letto? Io sento amore per lui dentro di me, che arde alimentato dalle mie mani, dalle sue mani. Adesso sono solo le mie che aggiungono della legna per tenere vivo il fuoco della passione. Mi sta baciando con passione. Ma è vera passione la sua? Mi ricordo quei versi che ho ascoltato tempo fa ‘
Ob ich dich liebe, weiss ich nicht’ Si, se mi ama non lo so!”
Dopo quel lungo bacio Angelica si staccò da lui e lo prese per mano per condurlo di sopra nel grande letto che aspettava impaziente il caldo dei loro corpi.
“Godiamoci ancora questi momenti finché lui è qui e mi desidera ancora! Verranno tempi che io starò sola in queste stanze coi miei pennelli, i ritratti di tanti committenti nobili senza potere assaporare la passione, l’esser donna innamorata e trepidante” questi erano i pensieri che si accavallavano nella sua mente con tristezza e nostalgia, mentre salivano le scale per consumare alcune ore di passione.
Era una fresca giornata di Settembre ancora soleggiata e calda, quando Angelica volle condurre Goethe a visitare il famoso palazzo Barberini, ospiti di Cornelia Costanza.
Il palazzo era famoso per le numerose tele che adornavano le grandi stanze poste al primo e secondo piano e l’ampia scala elicoidale del Borromini.
“Wolfgang, questo è uno dei più belli di Roma. E’ ricco di quadri ed affreschi, ma non voglio toglierti la soddisfazione di vederli filtrati dal mio gusto estetico. Cornelia è rimasta vedova da pochi mesi ed è tornata nel suo vecchio appartamento, dove ci riceverà. E’ una donna minuta, apparentemente fragile, ma dal carattere deciso ed orgoglioso. Ti stupirà!”
Il cancello era aperto per accogliere gli ospiti: un rigoglioso giardino all’italiana li accolse con  cespugli di rose di tutti i colori, mentre un’imponente magnolia ombreggiava una parte.
Sembrava un tipico palazzo cittadino, ma l’ampio giardino, che circondava la costruzione, e lo spazioso cortile faceva pensare ad una bella villa suburbana. All’interno dello spazio chiuso da alte mura c’era un teatro dove si svolgevano rappresentazioni teatrali o musicali. Nell’ingresso furono accolti da Cornelia, che fece gli onori di casa.
“Nobildonna Cornelia, “ disse Angelica, che già la conosceva, “questo signore è Johann Wolfgang Goethe, il famoso poeta tedesco, che è venuto in Italia per ammirare Roma, i suoi monumenti e le tutte le opere ivi ospitate”.
Goethe fece un perfetto inchino baciando la mano della donna, dicendo in un italiano approssimativo: “Entrando ho ammirato uno spettacolo inaspettato passando dall’esterno. Un giardino meraviglioso, un ingresso degno di un principe e Voi, mia signora, che saluto e ringrazio per il cortese invito”.
Cornelia fece strada per lo scalone elicoidale fino al suo appartamento, mentre gli ospiti a naso insù osservavano stupefatti gli affreschi che abbellivano gli alti soffitti.
La padrona di casa fece ammirare la collezione di quadri e di mobili, anche se si lamentava che per via dei lasciti testamentari molti quadri erano stati alienati, visitando anche l’enorme biblioteca che occupava il secondo piano di un’intera ala.
Trascorsero l’intera giornata in quella splendida dimora.
Mentre accompagnava Angelica verso la sua casa sul Pincio, Goethe disse: “Quella Nobildonna è veramente straordinaria. Ha un vigore del tutto insospettato. Poi ha una cultura del bello che mi ha ammaliato, ben degno di un principe!”
“Si, Wolfgang, “ continuò Angelica, “come ti avevo preannunciato, è colta e raffinata. L’ho conosciuta appena arrivata a Roma ed abbiamo stretto una cordiale amicizia”.
Giunti dinnanzi al portone si salutarono augurandosi una serena serata.

(parte diciassettesima)

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Fine del racconto

La parte sedicesima del racconto sarà l’ultima, terrò chiuse nel cassetto senza pubblicarle le ultime due.
Lascio un po’ di curiosità a chi con pazienza ha letto tutte le altre. Così ognuno può liberare la propria fantasia sulla parola fine.
Il blog era nato per pubblicare solo poesie e torna alle origini.

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I pensieri

Mi domando
dove volano i pensieri,
tra nuvole bianche
e sbuffi di sole.
Sono leggeri
ed eterei
che si stagliano
come sentinelle
delle mia mente.
Penso
e quindi ripenso
a te,
che mi fai
da compagna
da tanti anni

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La passione brucia la carne

“Kanntest jeder Zug in meinem Wesen,
  spaetest wie die reinste Nerve klingt,
  konntest
mich Einem Blicke lesen
  den so schwer ein sterblich Aug durchdringt.
  Tropftest Maessigung den heissen Blute,
  richtetest den wilden irren Lauf,
  und in deinen Engelsarmen ruhte
  die zerstoerte Brust sich wieder auf,
  hieltest zauberleicht ich angebunden
  und vergaukeltest ihm manchen Tag.”

Goethe declamava questi versi, mentre Angelica sistemava la propria persona prima di uscire dall’appartamento.
Lei rispose cantando con la sua bella voce forte, soave e molto sensuale un Lieder dolce, che parlava d’amore.
Il poeta la ascoltava in silenzio: “E’ veramente brava sia come pittrice, sia come cantante. Ha delle doti fuori del comune. Penso che trasformerò Ifigenia da opera di prosa in versi da potere essere rapresentata a teatro. Angelica potrebbe disegnare le scene. Sarebbe una bella idea”.
Il poeta osservava Angelica con gli occhi della passione mentre senza falsi pudori si rivestiva dopo il rapporto amoroso lungo ed inebriante.
“E’ bella e sa accendere il sacro fuoco della passione! E’ sensuale, misteriosa ed eccitante. Come ho potuto essere così cieco e sordo ai suoi richiami?”
Lei disse al termine del canto: “Wolfgang, questo Lieder l’ho cantato per te, per farti assaporare la soddisfazione che porto nel cuore. E’ stato tutto dolce ed inebriante dopo tanta astinenza! Vorrei che questi momenti rimanessero fermi per gustare con calma il calice dell’amore”.
Goethe si alzò e avvicinandosi la baciò con passione, mentre Angelica si abbandonava tra le braccia.
Con dolcezza la portò nuovamente sul letto perché sentiva ancora il desiderio di lei.
Angelica lasciò fare, perché non si sentiva ancora appagata, mentre pensava: “Il piacere è intenso, ma l’amore verso di te è sublime. Vorrei essere posseduta per godere le gioie dell’essere amata! Mi sento tua, ma il sacro fuoco dell’amore arde dentro di me! Mai prima d’ora ho provato sensazioni così intense. Mai prima d’ora ho desiderato un uomo!”
Era pomeriggio inoltrato quando i due amanti emersero dall’appartamento e si avviarono verso Trinità dei Monti, da dove potevano ammirare lo spettacolo di Roma illuminata dal caldo sole di Giugno.
Si sentivano felici come due ragazzini tanto era stato il loro appagamento.
Scesero la scalinata verso la sottostante piazza di Spagna tra i saluti dei passanti e dei conoscenti: Angelica era conosciuta da tutti per la sua fama e la sua bellezza.
Passeggiarono a lungo andando verso il Tevere e da lì a San Pietro, parlando fitto di poesia, di pittura e di musica.
La giornata volgeva al termine, mentre un bel tramonto incendiava la città. Non erano stanchi, né sentivano i morsi della fame, anche se non avevano mangiato nulla dalla mattina.
Stavano tornando indietro verso il Pincio, quando videro sotto un pergolato i tavoli pronti per la sera. Si sedettero e chiesero all’oste di servire loro qualcosa.
“Lo sappiamo che siamo molto in anticipo e voi non siete ancora pronti, ma ci va bene qualsiasi cosa abbiate pronta” disse Goethe alla moglie che con un grembiule bianco si era avvicinata per sentire cosa volevano quest’uomo e questa donna dall’aria distinta.
“Non c’è nulla sul fuoco” rispose la donna un po’ mortificata, “ma se avete pazienza possiamo prepararvi una cenetta a base di agnello ed erbette. Nel frattempo vi posso portare pecorino fresco, pane di giornata e un generoso vino rosso per ingannare l’attesa”.
“Va benissimo. Oltre al vino portateci anche una brocca di acqua fresca, perché abbiamo la gola secca per il caldo” rispose Goethe.
Angelica era radiosa e bella con i capelli scomposti per la lunga giornata trascorsa nell’appartamento, mentre guardava il poeta con intensità.
La donna rientrata in cucina parlò al marito, dicendo: “Quella signora, non ricodo dove l’ho vista. Il viso mi è noto, m non riesco mettere a fuoco chi è”.
“Non ti ricordi? E’ la famosa pittrice Angelica Kauffmann! Per noi è un onore averla al nostro tavolo! Dobbiamo preparare una cena coi fiocchi, perché chissà quando potremmo averla ancora qui!”
“Ora ricordo! Si, è proprio lei! E’ una donna bellissima ed affascinante! Però il suo accompagnatore è un bel giovane”, disse mentre preparava quanto richiesto.
I due amanti parlavano e ridevano, raccontandosi gli ultimi avvenimenti: ne avevano di eventi da descrivere.
Goethe ispirato dal luogo e da Angelica disse ad alta voce: “ Questi sono versi che scrivo in tuo onore”.

Du hast mich rein, und wenn ich’s besser wuesste
so gaeb ich’s Dir; ich tue was ich sage.
So schliesst sie
mich an ihre suessen Brueste
als ob ihr nur an meine Brustbe hange.
Und wie ich Mund und Aug und Stirne kuesste
so war ich doch in wunderbarer Lage:
denn der so hitzig sonst den Meister spielet
wiecht schuleraft zurueck und abgekuehlet.

“Mi lusingate, Wolfgang! Sono davvero belli e tutti per me!” rispose Angelica arrossendo leggeremente.
Era stata una giornata memorabile, da rimanere impressa nelle loro menti e così terminò.

(parte sedicesima)

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Per LU

Su una bella card c’erano dei miei versi ed io ho aggiunto questi a commento.

Sul petalo
scivolano leggere
delle gocce di rugiada.
Si raccolgono,
si disperdono,
scendono a terra.
Un minuscolo uccello
si disseta
nel tuo calice.
Un raggio di sole
buca la coltre di nubi
e illumina
il fiore.

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L'amore sboccia

I due amanti si fermarono guardandosi a distanza, incerti sul da fare.
Goethe avrebbe voluto colmare in un attimo lo spazio che li divideva, ma rimase immobile, scrutando la reazione di lei.
“Come è bella!”, penso “Più la guardo, più mi sento attratto dalla sua personalità, da quell’aria sensuale che emana il suo corpo. Perché sono stato così sciocco da offenderla. Mi saprà perdonare e accogliere nuovamente presso di sé?”
Rimaneva fermo indeciso tra l’andarle incontro o aspettare che fosse lei a fare il primo passo.
Ad Angelica era svanita tutta la passione mattutina ed ora non sapeva se doveva tornare a casa oppure accettare l’incontro con Goethe.
“Mi sono svegliata con una grandissima voglia di vederlo, toccarlo, parlargli, di stare insieme a lui. Ora non vorrei vederlo, né averlo visto! Però lo desidero, lo voglio. Voglio sentire la sua voce che legge le sue opere. Sento dentro di me la passione troppo a lungo repressa. Cosa devo fare? Sono confusa, ma innamorata o forse sono una innamorata incerta ed indecisa. Mi muovo o resto qui ferma?”
Mentre Angelica rifletteva su cosa fare, Goethe prese l’iniziativa e la raggiunse. Ancora prima che lei potesse proferire parola, le afferrò la mano che baciò con grande calore e disse: “Mia cara Angelica, sono lieto di rivederti dopo un lungo silenzio. Ho fatto un lungo viaggio nel sud dell’Italia visitando posti incantevoli pensando sempre a te. Sarebbe stato meraviglioso se tu avessi potuto accompagnarmi, ma purtroppo non era possibile”.
Stette un attimo in silenzio per rifiatare e vedere le reazioni di lei, poi riprese senza consentirle di rispondere: “Sono stato maleducato ed insolente l’ultima volta che ci siamo visti. Accetta le mie scuse e chiedo di perdonare la mia insolenza”.
Poi tacque, guardandola negli occhi.
Angelica, colta di sorpresa dalle parole del poeta, rimase muta pensando alla risposta da dare.
“Venite, non è conveniente restare qui sulla pubblica strada a discutere e parlare. Saliamo nel mio appartamento sopra lo studio. Lì potremmo conversare e chiarirci i motivi del dissidio comodamente seduti sul divano”.
Lo prese per mano e con passo deciso si avviarono verso le stanze di lei.
Maria, con molta lungimiranza, aveva ordinato ai servi di sistemare l’appartamento con fiori e frutta per renderlo accogliente e confortevole.
Il sole inondava la stanza coi suoi raggi dorati giocando a rimpiattino con mobili e suppellettili.
Si sedettero sul grande divano posto di fronte al camino e tenendosi per mano cominciarono a parlare.
“Wolfgang, ti perdono l’insolenza delle parole usate ed accetto le tue scuse. In tutti questi mesi ho trepidato sperando che arrivasse un giorno come questo. Il mio cuore batteva per te, come ti ho già detto, ma non ha mai smesso in tutto il tempo di scandire l’amore che provo per te. Mi sei mancato. Mi sono mancate le tue parole. Sono stata sorda perché non sentivo la tua voce”.
Goethe l’abbracciò baciandola sulle labbra con ardore, mentre Angelica s’accostava a lui per sentire la presenza del suo corpo.
Il bacio durò a lungo, come i sospiri trepidanti di lei. Avrebbe voluto che continuasse all’infinito, anche se faticava a respirare premuta dal corpo di lui.
Il poeta si staccò e si raddrizzò, dicendo: “Sono stato sciocco a disprezzare il tuo sentimento. Sento dentro di te la passione che emana il tuo corpo. Sei sensuale e fatico a trattenere il desiderio di unirmi a te. Siete una donna splendida, raffinata e colta nel corpo e nella mente, che qualunque uomo vorrebbe avere al suo fianco. Come ho potuto essere così cieco e sordo, non vedendo e non percependo il tuo amore puro e sincero?”
Angelica mise un dito sulle labbra di Goethe per farlo tacere: “Non dite nient’altro. Non turbate questa atmosfera incantata con le vostre recriminazioni. Il tempo è passato, è fuggito via tra le nostre mani, non permettendo di ritornare a quell’epoca. Ora comincia un nuovo giorno. E’ splendido, caldo e voluttuoso. Aspetta solo noi per dare inizio al tripudio delle danze. Non temere, io ti ho aspettata fiduciosa in questi mesi per rendere possibile il miracolo del nostro incontro”.
Tacque ed aspettò che le mani di lui si posassero sul suo corpo per trascinarla sul letto, che alle loro spalle era pronto ad accoglierli.
Goethe capì che era giunto il momento di dare sfogo alla loro passione troppo a lungo repressa.
Un po’ goffamente cominciò a slacciarle il corsetto bianco con mano incerta e un po’ tremolante sperando di completare in fretta l’operazione.
Il letto ampio e a baldacchino li accolse amorevolmente tra le braccia ed assiste muto alle prove d’amore dei due amanti.
I raggi del sole frugavano la stanza alla ricerca dei loro corpi, nascosti sotto candide lenzuola.
Era pomeriggio inoltrato quando lasciarono le stanze per avviarsi verso la piazza vicina.

(parte quindicesima)

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La satira

La satira ha una componente di moralismo e una componente
di canzonatura. Entrambe le componenti
vorrei mi fossero estranee, anche perché non le amo
negli altri. Chi fa il moralista si crede migliore degli altri e chi
canzona si crede più furbo, o meglio crede le cose più semplici
di come appaiono agli altri. In ogni caso, la satira esclude
un atteggiamento d’interrogazione, di ricerca. Non
esclude invece una forte parte d’ambivalenza, cioè la mescolanza
d’attrazione e ripulsione che anima ogni vero satirico
verso l’oggetto della sua satira…
Però apprezzo e amo lo spirito satirico quando viene fuori
senza una particolare intenzione, in margine a una rappresentazione
più vasta e più disinteressata. E certamente ammiro
la satira e mi faccio piccolo piccolo al suo cospetto quando
la carica dell’accanimento derisorio è portata alle estreme
conseguenze e supera la soglia del particolare per mettere in
questione l’intero genere umano, confinando con una concezione
tragica del mondo

(di Italo Calvino – tratto da “Definizioni di territorio: il comico” e fa parte dei “Saggi 1945-1985”,
volume I (Meridiani Mondadori 2001))


Quale è il confine tra satira ed etica? E’ labile, per non dire invisibile, come quello che separa comportamenti leciti da quelli illeciti. Inoltre questo confine (la cosiddetta border line) si sposta nel tempo  e nello spazio.
La satira è un genere letterario che nasce con l’umanità ed ha sempre rappresentato un gesto di sfida verso il potere.
Nell’antica Grecia non era un genere molto comune e non sono rimaste molte opere.
Aristofane con la sua "commedia greca" fa della satira politica un suo ingrediente. In modo similare Ippocrate, che è certamente più noto per le sue opere mediche, negli Aforismi trattando del riso e della follia prende lo spunto per pungere sui costumi e sulle credenze dell’epoca.

"la vita è breve, l’arte lunga
l’esperienza ingannevole, il giudizio difficile.
Ippocrate"


Non era un genere letterario a se stante, ma nelle varie opere si introducevano elementi di satira politica o sui costumi.
Però è in età romana che il genere satirico raggiunge livelli superiori, quando punge e pungola la res publica per la rilassatezza dei costumi e i vizi della società.
Numerosa fu la schiera di autori di opere satiriche a cominciare da Lucilio (II sec. a.C.), che rese la satira un genere letterario autonomo codificandone la struttura e gli obiettivi. Prima di lui Ennio scrisse degli epigrammi, del tutto simili alle satire, di cui si conosce ben poco, essendo andati perduti nella quasi totalità
Orazio con i due libri di satire trasforma la satira dai toni aggressivi e degli attacchi personali in liriche più pacate e sorridenti, raffinate e pungenti. Hanno
un intento morale, quello di colpire, con ironia quasi sempre benevola, i più comuni vizi umani quali l’ambizione, l’avidità di ricchezza, la brama di ascesa sociale.Sempre con intenti fare satira compone gli epodi e le odi, dove il bersaglio e il tono sono diversi dalla satire.
Con Giovenale si chiude la grande epoca della satira latina.
E’ con Ariosto che la satira riacquista il suo rango di genere letterario, dove sono sempre i potenti, i costumi e la politica ad alimentare il filone satirico.
Così si arriva ai giorni nostri dove la satira spesso trascende nell’offesa in nome della libertà di espressione contro l’attività censoria delle istituzioni.
Qual’è il confine divisorio? Quando la satira da libertà di pensiero si trasforma in offesa personale? Il confine è incerto, labile e soprattutto mobile. Cambiano i tempi, cambiano le istituzioni e l’asticella si sposta.
Chi fa satira accusa l’attività censoria di essere al servizio del potente di turno, della persona oggetto degli strali satirici, di non potere esprimere liberamente il proprio pensiero.
I personaggi colpiti ovviamente accusano il satirico di farsi scudo dell’ironia per offenderli.
Chi avrà mai ragione?
Domanda dai mille volti e dalle mille risposte, ma nessuna certezza di essere nel giusto.

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La passione riprende

Maria sentendo Angelica che la chiamava accorse immediatamente per servirla, aprì la porta e domandò: “Desidera alzarsi, mia Signora? Preparo la colazione o il bagno?”
“Maria, ho fretta. Devo uscire al più presto per raggiungere lo studio. Mi prepari entrambi.” Rispose nervosamente e proseguì “Mi metto quel vestito bianco e nero di organza e seta con il mantello azzurro. Non restare lì ferma, ma servimi immediatamente”.
Angelica aspettò che la governante liberasse la grandi finestre dai pesanti tendaggi notturni per osservare il cielo e l’ampio giardino, prima di uscire dalle candide lenzuola.
Era emozionata come una ragazza quando va al primo appuntamento galante, fremente di gioia e di passione. Avrebbe voluto già essere fuori sulla strada e volare allo studio per aspettare Goethe sulla porta.
Maria si muoveva freneticamente per assecondare la sua signora, ma non sapeva da dove cominciare, quale priorità doveva seguire, facendo innervosire Angelica. Chiese a gran voce di portare la colazione e dell’acqua calda, mentre lei toglieva dal guardaroba le vesti richieste.
Terminate frettolosamente colazione e lavaggi mattutini, l’aiutò a vestirsi e pettinarsi, sistemando con cura tutti particolari del vestito.
Angelica era resa splendente e radiosa dal vestito che metteva in risalto la bellezza delicata e dolce del viso e della figura.
La giornata era già calda anche se era mitigata da un venticello fresco e lo sarebbe diventata ancora di più col trascorrere delle ore: sembrava che preannunciasse il clima dei due amanti.
Anche la notte di Goethe era trascorsa agitata per effetto del messaggio ricevuto dai servitori di Angelica, che gli chiedevano di recarsi la mattina seguente nello studio di Via Sistina.
“Ci devo andare? Cosa mi dirà? Cosa dovrò dirle? Il messaggio è stato ambiguo perché mi ha chiesto solo di recarmi allo studio. Forse mi vuole dire che non dobbiamo più vederci, che è ancora adirata per il mio comportamento. Forse …, ma se io le recito questa poesia, forse …

Sah ein Knab’ ein Roeslein stehn,
Roeslein auf der Heiden,
war so jung und morgenschoen,
lief er schnell es nah zu sehn,
sah’s mit vielen Freuden.
Roeslein, Roeslein, Roeslein rot,
Roeslein auf der Heiden.

 
Oppure quest’altra

Kennst du das Land? Wo di Citronen bluehn,
Im dunkeln Laub die Gold-Orangen gluehn,
Ein sanfter Wind vom blauen Himmel weht,
Die Myrte still und hoch der Lorbr steht,
Kennst du es wohl’
                        Dahin! Dahin!
Moecht’ ich mit dir, o mein Geliebter, ziehn.

No, no, non sono adatte! Devo pensare ad altro. Ma mi vorrà rivedere ancora?”
Eccitato ed ansioso uscì dalla locanda dirigendosi verso lo studio, mentre pensava a quali versi poteva ricorrere per farsi perdonare il modo indecoroso della sua ultima visita.
Camminava in fretta senza curarsi di chi incrociava, mentre recitava versi noti o altri nati lì per strada. Si fermava, riprendeva a camminare, si fermava nuovamente e poi ricominciava.
Non riusciva a trovare l’ispirazione giusta. Eppure doveva trovare le parole giuste per riconquistare il cuore di Angelica.
Stava salendo lungo il colle del Quirinale, quando si aprì l’interruttore dello stimolo poetico.
“Si, questi sono i versi giusti. Li devo tenere a mente, non posso dimenticarli, altrimenti sono perduto!”, così parlava ad alta voce giunto in cima alla salita, ansando un po’ per la fatica.
Ora aveva un passo più spedito e deciso ed ardeva dal desiderio di giungere in fretta allo studio, dove avrebbe aspettato Angelica.
Mentre Goethe camminava, pensava, parlava da solo ad alta voce, lei completava i preparativi della sua persona.
La pettinatura non andava bene, doveva essere rifatta, il corpetto era troppo stretto, la gonna era troppo ingombrante, la collana non si notava. Ogni cosa veniva fatta e rifatta una, due, tre … cento volte, mentre Maria pazientemente e senza proferire il minimo lamento dava seguito alle richieste, ai capricci di Angelica.
Così passò quasi un’ora prima che ogni particolare della persona fosse secondo i suoi desideri.
Accompagnata da Maria usci dal grande portone della casa e si incamminò verso lo studio in preda all’ansia e al timore che il sogno con cui si era svegliata svanisse come nebbia al sole.
Così lo vide, mentre il cuore accelerava i battiti e le gambe volevano rifiutarsi di obbedire alla mente.

(parte quattordicesima)

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