Laura e Marco, stanchi ma appagati da quel rapporto un po’ sofferto inizialmente e poi decollato nella giusta misura, erano vicini abbracciati teneramente, mentre le loro menti vagavano leggere per il piacere ricevuto.
Lei percepiva che qualcosa lentamente stava cambiando dentro e che avrebbe voluto continuare il discorso sulle fobie nei confronti del proprio corpo per completare l’opera. Però aveva inopinatamente invitato Sofia, ed adesso ne era pentita, perché il discorso si sarebbe interrotto diventando monco e frammentario col rischio di perdere dei pezzi importanti o di ricominciare dall’inizio.
I pensieri turbinavano nella testa di Laura, come una tempesta di neve con i fiocchi che volavano da tutte le parti senza un disegno preciso, mentre ammirava Marco, che oltre ad un fisico eccezionale aveva una sensibilità ed un intuito fuori del comune. Come avrebbe desiderato che il tempo avesse retrocesso le lancette di sette mesi, così dubitava che sarebbe riuscita a trasformare il suo ADDIO in ARRIVEDERCI trasformando questo lasso temporale in semplice parentesi, spiacevole e temporanea da chiudere tra i ricordi da dimenticare.
“Io lo amo ed lui mi ama, ma i nostri mondi sono differenti” diceva sconsolata Laura, accostata a Marco, mentre faceva scivolare le mani cautamente fino all’inguine alla ricerca delle parti intime. Percepì un calore denso e sensuale salire da dentro, da sotto verso la testa, mentre le mani di Marco accarezzavano con dolcezza la schiena ed il collo. Sentì montare irrefrenabile il desiderio di ricevere nuovamente piacere, quando guardò l’orologio appeso al muro ed esclamò: “Accidenti! Perché ho invitata Sofia?”.
Proseguì, affermando irritata e indispettita che il suo arrivo fra dieci minuti avrebbe rovinato l’atmosfera magica che s’era creata nella stanza. Non c’era alcun dubbio che era ormai davanti al portone pronta a suonare il campanello, perché come un orologio svizzero non sgarrava un secondo.
“Marco, ho ancora voglia di te! Non vorrei vestirmi, ma lo dobbiamo fare” concluse amaramente e rassegnata a rimandare a dopo quello che desiderava con tutte le sue forze in quel momento.
Marco l’afferrò in silenzio con delicata decisione e la sdraiò sul letto, e mentre la sua lingua cercava la sua con passione, sussurrò dolcemente: “Se non siamo pronti, aspetterà!” e continuò a tenere premuto il corpo su di lei, che si abbandonò senza resistenza alla ricerca della passione.
Udirono un campanello in lontananza. Riluttanti si alzarono per aprire l’ospite indesiderato, si guardarono e risero, mentre si tenevano per mano.
“Sofia!” disse Laura allegra “non sono pronta. Conosci la strada. Mettiti comoda in salotto. Arriviamo subito”.
Andarono velocemente in bagno e poi nella stanza a rivestirsi, mentre Sofia si accomodava sul divano.
La ragazza aveva capito subito dal tono della voce e dalle parole di Laura che li aveva sorpresi nella loro intimità come il falco che vista una coppia di tortore in amore si getta su di loro sparigliandole.
La fantasia si accese come un film a luce rossa proiettando amplessi e gemiti, piacere e passione in un turbinio di immagini. Era sul divano tutta infoiata nelle fantasie di sesso e di desiderio, quando entrò Marco, che gli sembrò più un mitico guerriero antico da amare senza ritegno o pudore piuttosto che l’amico che non rivedeva da troppo tempo.
“Sofia, che piacere rivederti! Sei un vero spettacolo, lasciati ammirare!” disse galante e premuroso per stemperare il broncio della ragazza “e non fare quella faccia da offesa! Hai aspettato qualche secondo!”. E sorridente la salutava con un bacio pieno di passione sulle labbra.
Sofia, nera come la pece per l’attesa ma in calore per le fantasie erotiche, che la voce di Laura aveva scatenato, stava per dire qualcosa di piccante ed imbarazzante, quando quel bacio improvviso ed inaspettato le fece cambiare repentinamente umore. L’abbracciò e lo ricambiò, anzi andò molto oltre, insinuando la lingua tra le labbra a cercare quella di Marco, che rispose con uguale ardore.
Erano ancora abbracciati con le loro bocche unite, quando Laura fece il suo ingresso e li vide.
Un moto di stizza passò sul viso, che da sorridente diventò scuro ed imbronciato come un cielo che preannunciava tempesta.
“Avete finito?” disse con voce stizzita ed aspra “Sono arrivata! Sofia, …”.
Marco, staccatosi prontamente, l’abbracciò con passione non lasciandole terminare la frase nella speranza di porre riparo alla situazione equivoca nel quale si erano venuti a trovare.
Sofia, rossa in viso per l’eccitazione, guardò Laura con gli occhi che chiedevano perdono, mentre disse con tono di scusa: “Volevo dare il bentornato a Marco! Ma credo di aver ecceduto ..” e tornò a sedersi sul divano indispettita ed irritata per essere stata colta mentre si stringeva con troppa foga a Marco.
“Non sarai gelosa di Sofia?” replicò Marco trascinando Laura maldisposta accanto a Sofia.
Si sentiva in dovere di spiegare quelle effusioni troppo manifeste, ben sapendo che c’era poco da chiarire.
Era ben conscio che, se non lo faceva, rischiava di peggiorare la situazione, se parlava, rischiava di accrescere i malumori delle due amiche, e comunque da qualunque lato si osservava il contesto correva il rischio di gettare nuova benzina sul fuoco della gelosia di Laura e dell’irritazione di Sofia.
Marco si trovava in una posizione delicata ed imbarazzante sia nei confronti di Laura, che si sentiva profondamente ingannata dopo le ore di intimità e di gioia, delle quale non si era ancora spento l’eco, sia di Sofia che gli addebitava un bacio troppo passionale e galeotto che l’aveva eccitata oltre ogni misura.
L’atmosfera da gioiosa era diventata pesante come una cappa di smog.
Altro frammento e basta
Erano le quindici e trenta quando Marco suonò il campanello con lo stesso tremore di quando il primo giorno di scuola a sei anni aveva varcato il portone della scuola elementare Montessori sul bastione delle mura cittadine.
Pensava alla reazione quando l’avrebbe rivista, mentre un rumore di passi si avvicinava al portone d’ingresso insieme all’ansia che montava dentro di lui.
“Riuscirò a trattenere l’emozione? Io l’amo ancora come il primo giorno” diceva a se stesso per rincuorarsi e darsi un contegno dignitoso. Agnese per il momento era ancora una conoscenza lontana, quasi una scommessa al buio senza nessuna certezza che potesse sostituire Laura nel cuore.
Aveva portato nel borsone la busta bianca con fotografie e lettere, ma non era sicuro che le avrebbe mostrate, e mentre la mente stava divagando libera nella prateria dei pensieri, la vide.
Tornò indietro di cinque anni, lasciò cadere a terra quanto teneva i mano e l’afferrò tra le braccia stringendola al petto quasi sollevandola da terra.
Le loro labbra si cercarono con passione tra gli sguardi divertiti dei passanti: sembrava che non dovessero staccarsi più per effetto della supercolla Attack spalmata sulle labbra. Lei era in punta di piedi, lui la faceva dondolare in qua e in là come una foglia sul ramo.
Era una fresca giornata di marzo soleggiata e ventilata, ma non era caldo a sufficienza per giustificare un vestito leggero più adatto all’ assolato luglio: Laura indossava l’abito rosso ritrovato in soffitta. Una signora commentò ad alta voce: “Ah, l’amore cosa fa fare!” ed un’altra sorridente “I giovani hanno i bollenti spiriti!”.
A lei sembrava non sentire il freddo abbracciata a Marco, che trasmetteva tutto il calore dell’amore che provava.
Raccolse la borsa abbandonata sul marciapiede e stringendo Laura a sé entrò nella casa. Il portone si chiuse silenzioso alle loro spalle.
Nessuno dei due si aspettava una simile reazione da parte dell’altro: quel interminabile bacio aveva fatto palpitare i loro cuori e lievitare le loro azioni, tanto che i sette mesi di distacco parevano solo una piccola parentesi provvisoria durato un battito di ciglia.
Si sistemarono comodamente tenendosi per mano come se avessero paura di perdersi di nuovo.
“Mi sei mancato.” diceva la ragazza guardandolo fisso negli occhi “Mi sei mancato terribilmente tanto. Erano sette mesi che aspettavo questo momento, di rivederti, di parlarti, di assaporare le tue labbra. L’occasione è venuta. Grazie”.
Marco la fissava incredulo per via di quel vestito che appariva magico per averlo stregato una seconda volta. Taceva e osservava, non aveva altre parole per esprimere i pensieri che confusi si ammassavano all’ingresso della mente. La folla delle parole si accalcava sulle labbra che rimanevano chiuse e silenziose.
Calmato il tumulto che la vista di Laura aveva provocato, cominciò a parlare. Era venuto perché il sentimento che provava per lei avevano avuto il sopravvento sulla parte razionale che avrebbe consigliato di rispondere “Grazie, ma non posso venire”. E si domandava ancora turbato dalla vista di Laura, se fosse stata una mossa giusta quella di precipitarsi da lei, se avrebbe trovato la forza di restare fedele alle convinzioni che lo volevano lontano da Milano e da lei.
Era seduto con gli occhi che divoravano la figura adagiata di fianco a lui, mentre l’ammirava come se stesse osservando la primavera del Botticelli.
Laura, intuendo i pensieri di Marco, si alzò dalla poltrona e mise in mostra tutta la sua bellezza.
Marco era confuso ed indeciso tra sentimenti di amore e razionalità della mente, doveva decidere in fretta per non ingannare se stesso e Laura una seconda volta.
“Sei davvero splendida,” disse mentre la contemplava senza staccare un attimo lo sguardo “Lo sei sempre stata. Vieni qui vicino a me e raccontami tutto” e attese che lei parlasse, mentre si rannicchiava sicura fra le braccia protettive di Marco.
“Marco,“ iniziò Laura, “non so da dove dare inizio a quello che vorrei dirti. Mi ero preparata una scaletta di argomenti, ma ora sono confusa e frastornata. I pensieri si accavallano tra loro senza un ordine preciso come se riempissi alla rinfusa una borsa coi miei vestiti”.
Si fermò come per riprendere fiato dopo una lunga corsa e proseguì un discorso senza capo né coda passando da un argomento all’altro per la concitazione del momento. Non riusciva a resistere dal posare in continuazione lo sguardo su di lui, sulle sue mani, sul suo viso. Aggiunse che erano sette mesi che non si sentiva sicura di se e delle sue azioni come in questi istanti. Il tumulto interno, che aveva nascosto dentro di se, stava scemando con lentezza lasciando il posto ad una calma interiore che assomigliava alla natura dopo che si era placata la tempesta.
E concluse: “Capisci quello che voglio trasmetterti?”.
Marco baciò con dolcezza le labbra appena socchiuse ansiose di afferrare il sapore di lui, mentre le mani accarezzavano con leggerezza i capelli rossi appena mossi. Sentiva un profumo di donna, che lo inebriava, non un’essenza artificiale, ma qualcosa di vero e genuino. Era lo stesso odore che aveva fatto scattare cinque anni fa la molla dell’innamoramento. Adesso era diverso, capiva che sarebbe stato tremendamente difficile rinunciarvi per sempre, perché l’affetto non si era affievolito, ma era maturato e decantato con la lontananza.
Quel bacio aveva fatto venire i brividi a Laura, che aspettava da lui una risposta, che tardava ad arrivare.
Marco con lentezza scandendo le parole soppesò il pensiero che altrimenti sarebbe uscito prepotente senza freni dalla bocca: “Mi vuoi dire che mi ami ancora, anche se io ti ho detto addio?”.
Anche lui si sentiva confuso ed incerto, specialmente dopo averla ammirata con quel vestito rosso, che gli ricordava il 20 maggio di cinque anni prima. Poiché entrambi erano turbati ed insicuri per il tumulto interiore e l’emozione, che aveva reso poco lucidi i loro pensieri, Marco suggerì di stare in silenzio, mentre l’ansia si sarebbe placata lentamente e il cuore avrebbe ripreso i battiti regolari.
Si guardarono in silenzio, poi lei si rifugiò sul petto di Marco, mentre lui l’abbracciava con vigore. I rumori si dissolsero nell’aria, i respiri si chetarono pacatamente, mentre il trambusto interno si trasformava in placida quiete.
Laura sentendosi protetta dalle braccia e dal calore di Marco si appisolò serenamente, mentre lui continuava a riflettere sui motivi per i quali era venuto a Milano mentre non aveva avuto il coraggio e la forza di rifiutare con cortesia l’invito.
“Tutto diventa difficile ora.” pensava mentre teneva fra le braccia la ragazza addormentata “Tutto si complica. L’amore verso di lei si è risvegliato come un vulcano dormiente e non riesco più a tenerlo a bada. Quel vestito mi aveva fatto impazzire cinque anni fa e la magia si è ripetuta oggi quando l’ho vista. Io non posso tornare a Milano perché sento la città matrigna ed estranea alla visione che ho della vita. Lei non potrebbe vivere a F….., perché ha necessità di incontrare persone nuove, di girare il mondo, di vivere le novità, di sentire l’adrenalina salire nelle vene come la frenesia di questa città”.
Dopo un’ora Laura aprì gli occhi sgranandoli come se fosse stupita di essere lì fra le braccia di Marco a dormire placidamente.
“Ho dormito,” disse soavemente ed aggiunse che aveva dormito come non le era capitato da tanto tempo. Aveva ragione, quando diceva che un po’ di silenzio avrebbe rimesso a posto le idee.
Si stiracchiò come una gatta dopo essere stata al caldo sul calorifero, mentre si alzava in piedi, sbadigliando.
“Ti preparo un tè e poi parliamo”. Avevano molti argomenti da raccontarsi dall’ultima volta, ma lei doveva aprire l’anima con lui, perché solo Marco conosceva la soluzione del problema.
Una giornata fantastica
altro brutto voto, mio padre mi disse:
– Va bene, allora oggi verrai con me a lavorare. Così
vedrai come si fatica!
Mio padre faceva il giardiniere, e andava in giro per i
giardini altrui. Andava a potar piante, rastrellare foglie e tagliare erba col
suo potente tagliaerba.
Quel giorno doveva occuparsi niente meno del giardino
dei terribili Lorchitruci.
I Lorchitruci erano la famiglia più ricca e potente
della collina. A me facevano paura due cose di loro: il nome, perché mi veniva
da pensare a degli orchi molto truci; e il giardino, appunto, perché era chiuso
da una muraglia gigantesca dietro la quale chissà che cosa mai si
nascondeva." (incipit di Paola Mastrocola su ilmiolibro.it)
Però ero curiosa di sapere cosa si nascondeva dietro quel
muro. Mio padre c’era già stato, ma era sempre stato molto parco nel descrivere
le abitudini delle persone alle quali accudiva i giardini.
Dunque oggi marinavo la scuola col consenso di mio padre, ma
questo non mi piaceva e non i faceva gustare la giornata di libertà.
– Lavorare? – non ci pensavo nemmeno, perché ero sicura che
non mi avrebbe fatto fare nulla.
La sveglia era stata alle sei anziché alle sette come al
solito, ma mi piaceva vedere sorgere il sole con il cielo rosato là in fondo e
cupo sopra la mia testa. Questa mattina alcuni fiocchetti rosati solcavano il
cielo come graziose navicelle, mentre di buon passo lo seguivo lungo il ripido
sentiero che conduceva al giardino più impenetrabile della collina.
L’ululato sguaiato di due cani ci accolse da dietro l’enorme
cancellata di ferro, che chiudeva la vista della villa. Un brivido di freddo mi
percorse la schiena, ma mi dissi: – Non puoi avere paura! Sono solo due cani. –
Però un po’ di tremarella agitava le mie gambe, che avrebbero
voluto correre giù lungo quel sentiero percorso con tanta baldanza.
Ero sempre stata una bambina vivace, impertinente e con poca
voglia di applicarmi a scuola, ma la maestra, un donnone dalla circonferenza
smisurata, diceva ai miei genitori attoniti ed amareggiati:
– E’ intelligente e dalla mente sveglia. Sarebbe la prima
della classe, ma spesso la vedo con gli occhi sognare spazi aperti e campi
ricoperti di margherite ed elicriso.- Ed a casa erano rimproveri a non finire.
Mi piaceva sognare ad occhi aperti e poi amavo fiori ed uccelli, perché era
stato mio padre a trasmettermi quest’amore.
Dunque ero dinnanzi alla cancellata di ferro luccicante ed
imponente al fianco di mio padre e tremavo come una foglia agitata dal vento di
scirocco che seccava la gola d’estate, mentre lui era imperturbabile e sereno
come se il latrato furioso dei cani fosse musica celestiale. Mi domandavo come
faceva a rimanere così calmo senza tradire la minima emozione.
– Elisa – disse leggendomi il pensiero – tu hai paura e ne avrai
ancora di più quando vedrai Billo e Billa, due cagnacci neri e più alti di te.
Se stai calma e serena, non ti faranno nulla, ma se tremi aprono le fauci e zac
sparisci. –
Questo mi fece tremare ancora di più e i denti sembravano
impazziti dal freddo, impedendomi di fare uscire le parole, mentre la
cancellata si muoveva cigolando silenziosamente mossa da una mano misteriosa, e
vidi i loro musi spuntare dalla fessura.
Smisi di tremare perché ero diventata di marmo e loro non
abbaiavano più. Mi feci coraggio raccogliendo tutte le forze che non erano
fuggite giù per la collina e seguì mio padre all’interno.
Tutto era smisurato dagli alberi ai fiori compresi cani e
servitore che ci avevano aperto ed accolto gelidamente.
– Oh! – era tutto quello che ero riuscita a dire mentre
cautamente mi appiccicai alle gambe di mio padre. I due cani sembravano
soddisfatti, ma erano in attesa di balzarmi addosso se solo avessi accennato ad
aver paura.
Mio padre con fare sicuro si avvicinò ad una casetta
minuscola rispetto alla villa che si stagliava imponente al termine di un
ripido sentiero e cominciò ad estrarre gli attrezzi per lavorare il giardino.
Mi domandavo come avrebbe potuto manovrare quella zappa che
era alta tre volte la mia statura, che era di molto superiore alla media dei
miei coetanei di dieci anni.
La prese con disinvoltura e cominciò a zappare un angolo
dell’aiuola centrale dove fiorivano delle splendide rose vellutate di rosso,
grandi come una teste di bue.
Io a bocca aperta dallo stupore lo vedevo dare colpi
vigorosi e precisi di zappa come se l’attrezzo fosse normale.
– Elisa – mi rimproverò mio padre – non stare lì impalata
come una stoppia. Dati da fare, perché al tramonto dobbiamo avere sistemato il
giardino se vogliamo tornare a casa sani e salvi. Prendi dalla casetta degli
attrezzi il sarchio e comincia a sarchiare per togliere le erbacce intorno ai
rosai. Però fa attenzione alle spine, che sono pericolose.-
Alla paura era subentrato lo stupore e la sorpresa, perché
impugnando il lungo manico riuscivo a manovrare l’attrezzo con agilità e
precisione.
Lavorai, sudai e sbuffai tutto il giorno senza posa sempre
guardata a vista dai due cagnacci, che si erano accordati su come spartire il
mio corpo. Billo avrebbe preso la parte superiore, Billa quella inferiore. Non
potevo e non dovevo scompormi, perché erano subito lì pronti a saltarmi
addosso. Non sentivo la fame e la sete, perché la tremarella li avevano
scacciati, come la fame aveva allontanato il lupo dal bosco. Il sole stava
tramontando dietro quell’orrenda casa tutti merli e torrioni appuntiti e
dovevamo sbrigarci.
Finalmente dall’enorme uscio uscì Gianantonio Lorchitruci,
alto come un palazzo a tre piani, che guardò il lavoro che avevamo fatto e
disse soddisfatto ed amareggiato: – Anche stavolta dovrò rinunciare alla cena
serale. Prendi questi due zecchini d’oro e arrivederci al prossimo mese. –
Non vedevo l’ora di lasciarmi alle spalle quell’orrenda
cancellata e correre a perdifiato lungo la discesa verso casa.
Mi svegliai col cuore in gola e col fiato corto come se
avessi corso per mille miglia.
-Papà – dissi con un filo di voce – da oggi metto la testa a
posto e non prenderò mai più un brutto voto a scuola. È centomila volte meglio
andare a scuola con profitto che lavorare con te dai Lorchitruci. –
Mio padre sorrise accarezzandomi i capelli biondi e
spettinati.