La fiamma – parte prima

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La notte lo avvolgeva dentro il suo manto scuro e impenetrabile, costringendolo a camminare a carponi tastando il terreno con le mani per capire dove stava andando. Ignorava se la direzione era quella giusta ma non aveva alternative. Doveva muoversi, non poteva restare fermo. Intorno a lui c’erano pericoli che avvertiva come fitte nella testa.

Nella mano stringeva una pietra appuntita che gli dava relativa tranquillità ma sapeva che erano solo illusioni, un mero simbolo di speranza. L’aveva già usata per difendersi da un coyote che gli contendeva la preda appena uccisa. Non era servita a molto, perché aveva dovuto cederla all’altro, al predatore.

Secondo lui aveva una seconda e più importante proprietà: quella di generare il fuoco. Aveva visto molte lune prima, che un uomo del suo clan aveva usato una pietra dai colori strani emettere scintille come opera di magia. Poi si era sprigionata una fiammata rossa che aveva spaventato i presenti. Gli altri uomini si erano allontanati di un passo ma donne e bambini si erano stretti intorno a lui. Per questo prodigio era stato acclamato capo del clan e aveva intorno a sé donne e bambini che ubbidivano ai suoi ordini. Lui non poteva accettare la sua superiorità, perché lo giudicava vanitoso e senza capacità di guida. Così era partito alla ricerca del simbolo del fuoco. Aveva vagato per giorni nella valle, aveva scalato pendii impervi ma della pietra del fuoco nessuna traccia. Deluso aveva rinunciato alla ricerca e deciso di ritornare nel suo clan e accettare la guida dell’altro. Inciampò in una pietra e rovinò nella polvere. Avvertì nel costato un oggetto pungente che segnò la sua pelle dura come il cuoio. Alcune stille di sangue bagnarono il terreno. Si mise seduto e osservò alla luce del sole morente quello che gli aveva procurato dolore. Era una pietra aguzza dal colore strano. Verde con venature biancastre. Non ne aveva mai visto una simile. Con la mano tolse la polvere e acquistò lucentezza. Mandava bagliori a seconda di come la teneva in mano. Forse era la pietra che aveva cercato per giorni senza successo. Provò a sfregarla su un pezzetto di legno e produsse alcuni puntini luminosi che si spensero subito. Sobbalzò, lasciandola cadere. Riprovò e di nuovo quella magia si riprodusse. Quella scheggia di legno era diventata nera dove aveva sfregata la pietra. Intorno ce ne erano delle altre di forma diversa ma del medesimo colore. Incrociò le gambe sotto di sé e cominciò a lavorarla per renderla più aguzza. Osservò soddisfatto cosa era riuscito a ottenere ma il sole era basso sull’orizzonte. Doveva muoversi perché rimanendo fermo sarebbe stata facile preda degli animali che cacciavano di notte. Si alzò e si incamminò per tornare dal suo clan, tenendo stretto nella mano sinistra il suo trofeo.

[continua]

Pubblicato anche su Caffè Letterario.

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Ultimo gioco

Ultimo gioco linguistico del 2023 proposto da Eletta Senso.

Un doppio un tautogramma e un haiku in onore di Natale.

Tautogramma in N come Natale

Nella notte di Natale il nonno nasconde i ninnoli per i nipoti. Nastri e nappe.

Si narra che un nano nasce nella nebbia tra la neve.

La natura nutre le nuove nenie del naif narcotizzante.

Haiku

Natale, notte.

Novella narrazione,

nudo neonato.

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Debbi

Su Caffè Letterario ho pubblicato un nuovo post, che potete leggere anche qui.

La parte in corsivo era l’incipit proposto come sfida al lettore attento alle sfumature.

Era uno stimolo all’inventiva dell’aspirante scrittore, che doveva dimostrarsi abile nel calarsi in un ambiente diverso dal suo.

Ci sarò riuscito? Leggete e poi giudicate.

Nel mentre pubblico il racconto.

Quando riaprì gli occhi, Debbi vide il sole, le foglie verdi e il viso di un uomo. Non si impressionò a quella vista. “So che cos’è tutto questo” e richiuse gli occhi.

Era quello che avevo sempre sognato. Avevo sedici anni allora… In quel istante avevo raggiunto quel mondo pieno di fantasie… Tutto pareva semplice e normale, come il sentimento che provavo adesso.

Scrutavo il volto inginocchiato vicino a me e sapevo che avrei dato la vita per poterlo vedere. Era una faccia senza segni di dolore, di paura o di colpa. La bocca… sì, la bocca era un qualcosa che metteva orgoglio. Era come se sentisse la fierezza di essere orgogliosa.

Continuai a esplorare i tratti del viso. I lineamenti decisi facevano pensare all’arroganza, alla tensione, all’ironia, eppure non c’era niente di tutto questo. Era il compendio di queste sensazioni: un’espressione di serena decisione e sicurezza, un’innocenza spietata che non avrebbe chiesto né accordato pietà. In conclusione era un volto che non aveva niente da nascondere. Sembrava una casa di vetro dove tutto era trasparente…

***

Chi era Debbi? Era la domanda che Barbara si poneva. Aveva tra le mani un brandello di carta, stropicciato e consunto. Era tra le pagine di un suo vecchio diario scolastico, dove annotava con cura i suoi pensieri anziché registrare compiti da fare a casa. Quegli oggetti che le ragazze custodivano con maniacale gelosia, tenendoli sotto chiave.

Era salita nella soffitta a cercare un vecchio oggetto di cui aveva perso memoria. In effetti aveva un vago sentore della forma e non ricordava il nome. Polvere e ragnatele avevano ricoperto tutto con una patina di oblio.

Stava rovistando in un baule con metodo alla sua ricerca, quando notò tra libri ingialliti e malmessi, blocchi di carta pieni di scarabocchi una copertina di pelle blu o meglio il dorso blu di qualcosa che stonava nel contesto. Un tempo era tenuto insieme da un elastico rosso, che adesso era diventato un segno appiccicaticcio appena definito. Era malconcio con la copertina staccata dal dorso e coi fogli che si staccavano tenendolo in mano.

L’aprì con cautela. Fu un tuffo nel passato. Tornò ragazza: i primi amori, le prime delusioni. Poi trovò i disegni infantili in stile Heidi dell’amica Serena, la sua compagna di banco. Infine delle fotografie in bianco e nero dai bordi seghettati, che facevano tenerezza. Ritraevano lei con le amiche, dei ragazzi, i primi amori disperati. Tra le ultime pagine scorse piegato in quattro parti un pezzetto di carta scolorito, quasi illeggibile.

Barbara lo girava e rigirava. Era stato strappato malamente da un quaderno a quadretti, su cui erano scritte un paio di frasi, cancellate con un tratto di biro e riscritte più volte. La grafia non era la sua, perché questa era lineare e rotonda, mentre lei usava tratti più spigolosi. Chi l’aveva scritto? Un maschio? Una femmina? Per alcuni svolazzi sulla A e sulla P era quasi certa che fosse una mano femminile, ma il resto era neutro. Avrebbe potuto essere un ragazzo o una ragazza in maniera indifferente ma di una cosa era sicura: non era la sua grafia.

Lei scriveva con caratteri minuscoli, nervosi, inclinati a destra con le righe che tendevano a salire verso l’alto tutte sbilenche, come se una calamita attirasse la penna in direzione del bordo superiore.

La grafia dell’ignota scrittrice era perfettamente dritta, come le cancellature e le riscritture. I caratteri allineati della medesima grandezza mostravano una precisione e un ordine che lei non aveva mai posseduto.

Barbara teneva in mano quel pezzetto di carta ingiallito con delicatezza. Faceva attenzione perché non si sbriciolasse, prima di essere in grado di conoscere l’autore e comprendere il senso delle poche frasi riportate.

«È il riassunto di un libro letto?» Scosse la testa, perché non ne aveva lo stile. «Forse è una frase tratta da un romanzo che l’aveva colpita. Ma quale romanzo? Eppure è così particolare che lo ricorderei se…». Strinse gli occhi e corrugò la fronte per concentrarsi nel tentativo di ricordarne il nome. «Ma forse è l’incipit di un racconto…». Chiuse le palpebre e si appoggiò al vecchio canterano coperto da un telo bianco. Il foglio planò con delicatezza accanto a lei. «Ma quale racconto? Io non ci ho mai provato. Basta leggere poche righe di questo diario per capire il perché. Non è il mio stile».

Riaprì il diario alla ricerca di qualche indizio. Si accoccolò sui talloni, appoggiando la schiena al baule aperto mentre teneva il diario sulle gambe.

Lunedì 6 maggio 1974

Oggi ho conosciuto Roby, finalmente! Gli ho parlato o meglio ho farfugliato qualcosa mentre le orecchie diventavano rosso fuoco e non solo loro! …

A quella lettura un sorriso compiaciuto le comparve sulle labbra. «Che imbranata ero a diventare rossa come un peperoncino. Oggi di sicuro sarei più aggressiva verso chi mi piace o mi attira». Però rise perché in verità mentiva a se stessa. Non era cambiata più di tanto da quegli anni.

Ricordò chi era Roby: il ragazzo più ricercato del liceo scientifico Roiti. Fece un rapido calcolo di quanti anni doveva avere nel 1974: ne aveva solo sedici. Lui frequentava la V C. Lei era in III A. Non era stato il primo ragazzo, né sarebbe stato l’ultimo. Eppure era arrossita come una ragazzina al primo amore.

«Sì, era un vecchio per me con i suoi diciotto anni». Chiuse gli occhi ritornando sedicenne. «Arrivava a scuola su una rombante Fiat Abarth 500 rossa dagli scarichi cromati lucidi ed enormi e il motore truccato». Li riaprì e scoppiò in una fragorosa risata. «Sì, tutte noi ragazze avremmo fatto carte false pur di sederci accanto a lui».

Poi una smorfia di tristezza le velò gli occhi al pensiero di quegli anni. Erano ricordi che bruciavano, ripensando come era cambiata da quegli anni.

«Allora ero timida e imbranata coi possibili morosi. Faticavo a spiaccicare due parole in fila senza diventare rossa dalla punta dei capelli ai piedi. Sembrava che tutti i pensieri si fossero volatilizzati, quando dovevo parlare con un ragazzo che mi piaceva. Si creava un vuoto nella testa e mi bloccavo».

Con Roby il copione non era mutato. Proseguì nella lettura di quegli appunti scritti venti anni prima.

Arrivata a trentasei anni, era ancora single perché non era mai riuscita a domare il suo carattere spigoloso e aggressivo. Eppure era in sostanza una timida che rappresentava la molla, che attirava i ragazzi allora e adesso gli uomini. In quegli anni la timidezza si palesava nel suo goffo agire tramite un gesticolare nervoso, con le parole che non uscivano dalla bocca, dal suo arrossire quando un ragazzo le parlava. Però ben presto loro si stancavano delle sue indecisioni e del suo mutismo e l’abbandonavano al suo destino. La situazione non era cambiata di molto nemmeno adesso che era una giovane donna in carriera.

Barbara ricordò come avesse timore del suo corpo che secondo lei era sgraziato e poco interessante. In realtà non era vero, perché era la seconda molla che attirava gli sguardi maschili. La sua figura era slanciata e ben proporzionata coi fianchi stretti e il seno sodo. La statura era superiore rispetto alle coetanee tarchiate e formose col viso deturpato dall’acne giovanile. La sua pelle bianca liscia senza i segni della pubertà valorizzava gli occhi blu e i capelli biondi appena mossi. Eppure si sentiva a disagio all’interno del suo fisico.

Nonostante un’intelligenza pronta e reattiva che esprimeva attraverso la scrittura brillante e asciutta, si ingarbugliava non poco quando doveva parlare. Si chiudeva a riccio impedendo ai coetanei di capire la sua vera essenza.

Questo era stato il suo limite durante il percorso scolastico. I professori l’avevano ritenuta una mediocre, anche se otteneva dei voti superiori alla media.

Come per contrappasso per superare questa timidezza innata aveva assunto col passare degli anni una personalità spigolosa e urticante che aveva tenuto lontano da lei i possibili corteggiatori. Non solo quelli.

Finita l’università aveva affrontato il mondo del lavoro con molte difficoltà. L’ingresso non fu facile, perché, quando affrontava test attitudinali e colloqui di assunzione, lasciava nello sconcerto gli esaminatori. Erano incapaci di decifrarne la personalità e comprenderne le potenzialità. Anche se mostrava una mente pronta e acuta nel rispondere alle domande più insidiose, non era in grado di esprimere con chiarezza una frase di senso compiuto tenendo atteggiamenti talvolta irritanti.

Ricordò che, se voleva essere indipendente, doveva trovare un lavoro dignitoso. Ebbe la fortuna di trovare un posto dove non le si chiedeva di parlare ma di scrivere. Una casa editrice importante era alla ricerca di una persona che doveva analizzare il contenuto dei manoscritti. Non doveva parlare ma scrivere se era meritevole di essere pubblicato. Le sue grandi capacità di analisi furono ben presto apprezzate. Aveva selezionato sempre il romanzo vincente senza mai sbagliare una valutazione. I libri da lei scelti finivano sempre in cima alle vendite. Le bastavano poche pagine per capire se manoscritto era in fieri un bestseller oppure sarebbe stato un fiasco colossale. In breve tempo aveva scalato le gerarchie interne e tutti i testi prima di essere stampati passavano dalla sua scrivania per il parere definitivo.

Ben presto si sparse la notizia che se un autore voleva pubblicare il suo testo doveva passare il giudizio di Barbara. Era diventata lo spauracchio di tutti gli scrittori, che cominciarono a tempestarla di inviti e omaggi con la speranza di ottenere una valutazione positiva. La vita sotto i riflettori non era adatta a lei.

Seduta sui talloni si riscosse e interruppe il fiume dei ricordi e riprese la lettura del diario.

«Dove ero rimasta? Ah! Stavo leggendo di Roby. Mi domando dove sarà in questo momento».

Lui era stato l’unico che, invece di ridere delle parole arruffate, le aveva chiesto: «Esci con me?». Non era molto cambiata, perché il suo viso diventò rosso incandescente a questo ricordo.

Barbara rise. Era stata una scena quasi fantozziana. Lei tra l’interdetto e la sorpresa rispose con un sì appena percettibile prima di scappare in aula. Ignorava dove e quando, mentre lui meravigliato era rimasto a bocca aperta per la sua fuga.

L’incontro fu un fiasco colossale, come era certificato dalla sua grafia ormai scolorita dal tempo. Rammentò che non era riuscita a dire tre parole di fila senza farfugliarne altre tre incongruenti tra l’ilarità e lo sconcerto di Roby. In compenso le scoccò un bacio mozzafiato da lasciarla tramortita per i resto della serata.

La relazione durò qualche mese finché lui stanco della timidezza di Barbara in tutti i sensi non la scaricò senza troppi rimpianti per Eleonora, meno bella e intelligente, ma in compenso molto più disinibita.

Barbara chiuse il vaso dei ricordi, riponendo il diario dove l’aveva trovato, mentre portò con sé il foglio per rileggerlo.

Ebbe un flash e capì che il destino aveva scritto quel pezzo di carta in cui si specchiava amaramente.

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Acrostico per dicembre

Copertina Daniele

Questa settimana si celebra dicembre. Come? Con un acrostico.

Per Eletta Senso ho proposto questo

Dovendo

Immortalare

Come

Esalti

Monte

Bianco,

Rimango

Esterrefatto.

Per Luisa invece quest’altro

Destino

Infame!

Correre,

Emergere,

Mostrare.

Biasimo

Roma

Eterna

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La bambina senza nome – parte undicesima

Su Caffè Letterario è stata da poco pubblicata la nuova puntata de La bambina senza nome, che ripropongo anche qui.

Sulla porta era comparsa una fanciulla, anzi una giovane donna, con serici capelli neri che si adagiavano morbidi sulle spalle. Incorniciavano l’ovale del viso leggermente abbronzato dove spiccavano due enormi occhi gialli. Alta slanciata indossava una camicetta di lino bianca che lasciava intravvedere il reggiseno dello stesso colore. Un paio di jeans azzurro sbiadito le fasciava il bacino e le gambe. Ai piedi portava delle ballerine nere. Anche senza l’aiuto dei tacchi la sua statura era ragguardevole quanto quella di Beatrix che da dietro la spingeva a entrare.

«E lei chi è?» Chiese quasi urlando Samuele a quella vista. «E che ci fai, Beatrix, alle sue spalle?»

Anche Otello e Ciccaja borbottarono qualcosa a quella apparizione. Niente di intellegibile ma solo stupore e apprensione. «Ma la cinna dov’è?» Bofonchiò con la voce ansiosa Otello. Non era lo stupore dell’apparizione della giovane ma l’affanno per la sorte della bambina quasi fosse la sua nipotina prediletta.

Lorenzo seduto sullo sgabello col braccio appoggiato al bancone a sorreggere la testa dapprima sgranò gli occhi per la sorpresa ma poi scoppiò a ridere. “Era arrivata bambina ma adesso è diventata una donna fatale”. Era sempre più convinto che non potesse stare per la notte nelle sue stanze. “Troppo rischioso”. Doveva sperare che Sam avesse una camera del bed and breakfast libera. Se così non fosse doveva parcheggiarla presso un’altra struttura dei dintorni. “Un passo alla volta” rifletté, mentre osservava Esme e ascoltava i commenti. “Domani deciderò se portarla a Bologna con me oppure caricarla su un treno per allontanarla”.

Esme rimase immobile accanto al bancone, mentre Beatrix con lo sguardo furioso si piazzò dinnanzi a Lorenzo. «Ho reso i tuoi acquisti ma è rimasto un bel buco da chiudere dalla Giannina. E la prossima volta…». Fece una pausa per prendere fiato prima di proseguire. «La prossima volta, ammesso che ci sia, la gestisci tu questo tipino».

Si girò per andarsene, quando Lorenzo le afferrò un braccio per bloccarla. «Cosa è successo dalla Giannina?»

Beatrix spalancò i suoi occhi che erano già grandi di natura. Sembravano due lampioni incandescenti. «Prima ho dovuta trascinarla come un sacco di patate. Poi ha fatto mille storie con Angela. Non voleva farsi toccare, non voleva togliersi i vestiti per provare quelli nuovi. Ha tentato di morderle una mano e per poco non ci è riuscita. In bocca non ha denti ma una tagliola per lupi. Gliela avrebbe mozzata se non avessi bloccato la sua testa. Ho sudato talmente che dovrò portare in lavanderia tutto quello che indosso. Mutande comprese!»

Detto questo urlando, Beatrix lasciò sgomenti Samuele e i due avventori perché cosi infuriata non l’avevano mai vista o sentita. «È demoniaca la tua Esme. È una diavolessa. E prima la porti via da qui, meglio è!» Si divincolò dalla presa di Lorenzo e ad ampie falcate sparì dietro la porta.

Samuele era impietrito col respiro affannoso. «Questa è Esme?» chiese volgendosi verso l’amico.

«Sì» annuì mortificato. Da quando l’aveva raccolta alla Fonte Vecchia, erano stati solo guai. Adesso doveva trovare una giustificazione per questa trasformazione del tutto inspiegabile, salvo ammettere che fosse una creatura del diavolo come cominciava a supporre. I dubbi prendevano la forma di certezze.

«E questa quando è arrivata? Non l’ho mai vista? La bambina dove l’hai nascosta?»

Lorenzo cercava le parole giuste per far capire che bambina e giovane erano la stessa persona, quando intervenne Otello.

«La piccietta dov’è?» Il tono era quello di chi ha perso di vista la nipotina che gli era stata affidata. Mieloso e tremulo.

Lorenzo si raddrizzò e guardò dritto negli occhi smarriti di Samuele. Sapeva che nessuno gli avrebbe creduto e la spiegazione poteva alzare un polverone di domande.

«Sam, dimmi prima se hai una stanza libera. Te la pago doppia ma dimmi di sì. Ti prego» Il tono era accorato come se la risposta avesse il potere di vita e di morte su di lui. «Poi ti spiego tutto. Ma prima rispondimi».

Lorenzo era quasi certo che tutte le stanze fossero libere. C’era sempre il tutto esaurito in luglio e agosto per la vicinanza del Corno alle Scale. Settembre e ottobre erano mesi di riposo.

«Sì. Sono libere. Puoi scegliere quella che voi per lei. Ma…».

Lorenzo con la mano fece il gesto di tacere. Si schiarì la voce. «Sam è meglio sistemarsi attorno a questo tavolo con tre calici e la bottiglia buona di vino rosso».

Presa per un braccio Esme la fece sedere accanto a lui tra loro due.

Nella sala si udiva solo il respirare delle cinque persone.

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Gioco del lunedì

Per il gioco linguistico ho proposto questo per Eletta Senso

Haiku in T

Tensione Tiri,

Trepidazione Trionfo,

Trasalimento.

Tautogramma in T

Tempesta di tiri, tabellone, trepidazione, tuffi: il tennis. Un trionfo tempestato da terribili tiri senza timore trascina tutti a tuonare. Il tennista trafigge senza tremare. La torta traballa per il terremoto.

per Luisa

haiku

Timori, Tremi.

Tempesta Terribile,

Test taciturno.

Tautogramma

Il Tennista si Tuffa e Tira.

Temporeggia, Tempesta di Tiri, Trepida, Toglie.

Tampona, Trascina Tutti.

Il Tabellone Traccia il Trionfo.

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La bambina senza nome – parte decima

Su Caffè Letterario è stata da poco pubblicata la decima parte del racconto ‘La bambina senza nome’ che potete leggere anche qui.

Samuele maledì dentro di sé quel impiccione di Otello con le sue uscite fuori tempo.

«Lore, Esme è una tua amica che deve arrivare da Bologna?»

«Ma di ben so. Non vuoi rispondere!» esclamò ancora una volta Otello col suo vocione sgraziato alto più di tre ottave del normale. Aveva sovrastato tutte le altre voci presenti nella sala.

Samuele si appoggiò coi gomiti sul bancone e fissò l’amico. Aspettava una risposta che tardava a venire.

Lorenzo inspirò un bel po’ di aria prima di rispondere. Si diede dello sciocco. Nessuno poteva associare quel nome alla bambina che aveva portato lì, perché solo lui e Bea conoscevano che l’aveva battezzato così.

«Scusa Sam. Mi ero dimenticato che l’ho chiamata Esmeralda, come quella del gobbo di Parigi, perché non vuol dire come si chiama. Quindi la stanza è per lei».

Samuele stava per dire qualcosa, quando udì un perentorio «Cammina» che proveniva dall’esterno. Una voce che non riuscì attribuire a nessuna delle sue conoscenze.

Come telecomandati si volsero verso la porta che rimaneva chiusa. Però fuori si sentiva uno strascicare di piedi e delle imprecazioni colorite.

Samuele uscì sullo spiazzo anteriore ma non vide o ascoltò nulla. Solo lo zirlo, il verso del tordo nascosto tra il fogliame della quercia, che durante la stagione estiva offriva un po’ d’ombra alle macchine parcheggiate. In quel momento c’era solo l’Audi A3 di Lorenzo. Sul prato alla sua sinistra che aveva necessità di essere falciato non c’era nulla. Nemmeno il solito merlo impertinente che veniva a elemosinare delle briciole. Sotto il gazebo, dove nelle giornate calde d’estate sedevano i clienti della trattoria, lui cercava l’origine dei rumori percepiti.

Poi girò intorno all’edificio fino all’ingresso del bed and breakfast, al momento deserto, seguendo la striscia che consentiva alle macchine, la sua e di Beatrix, di entrare e uscire dalla rimessa. Nulla. Allungò lo sguardo fino al bassocomodo, piuttosto malmesso, senza vedere nessuna persona. A quella vista Samuele ricordò il motivo per cui aveva chiamato Lorenzo. Dovevano valutare se ristrutturarlo oppure demolirlo per costruirne un altro con il forno a legna. In entrambi i casi l’amico doveva fare disegni e calcoli per il progetto da consegnare all’ufficio tecnico del comune. Anche lui sarebbe stato capace di produrre quanto serviva ma non si era mai iscritto all’albo, al contrario di Lorenzo. Per lui era vitale, perché era la sua professione. «Non appena rientro gliene parlo» mormorò a filo di labbra proseguendo verso l’ultimo lato dell’edificio dove c’era il suo ingresso privato e quello del ricevimento merci.

Nulla.

Deluso e inquieto, perché avvertiva che qualcosa di strano si stava verificando o tra poco sarebbe avvenuto, si avviò per rientrare nella sala. Un nuovo segnale lo colse.

Un brivido di freddo scese lungo la schiena. “Non è freddo ma qualcosa che non so governare”.

L’aria era immobile, neppure un refolo di vento. Nessun uccello cantava o volava nonostante la mangiatoia fosse ricca di leccornie per loro. “Di solito c’è movimento! Oggi tutto sembra fermo. Quella cinna non ha portato fortuna alla trattoria”. Riprese a camminare lentamente e col capo che guardava in basso. Si fermò ancora un istante fuori dalla porta della trattoria come se sperasse di trovare la soluzione a tutti i suoi malesseri. Rimase di stucco perché anche il brusio dei clienti era sparito.

«No. C’è una malia cattiva nell’aria» borbottò spingendo con decisione il battente della trattoria.

Tutti guardavano verso la porta su cui era scritto ‘privato’ con la mano che diceva ‘alt’ ai non autorizzati.

«Ecco il motivo del silenzio!» affermò con voce per nulla dolce.

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