Dalla finestra….

Questo era il capitolo iniziale del romanzo

Le linee parallele si incrociano

che poi è cambiato diventando il secondo capitolo.

Marco aspettava una telefonata che tardava ad arrivare e guardava fuori dalla finestra.

Da qui scorgeva nel vicino giardino un ciliegio giapponese, tutto rosa per i fiori sbocciati dopo il lungo inverno. Era un stridente il contrasto con la quercia della pubblica via, che mostrava solo piccole e timide foglie verde smeraldo. Un minuscolo uccello si posò su un ramo dell’albero. Tentò d’indovinare senza successo quale fosse il suo nome, mentre osservava un allegro via vai di gazze attorno al ciliegio.

Aveva le spalle appoggiate allo schienale del divano letto e ripensava alla sua vita, che assomigliava alle montagne russe del lunapark per il susseguirsi di gioie e dolori che l’avevano costellata. Sogni e amori si mescolavano fra loro in maniera confusa, ma tutto restava impastato e informe come bozze malriuscite.

Gli sarebbe piaciuto conoscere il mondo attraverso i viaggi armato di zaino e sacco a pelo. I suoi desideri rimanevano solamente sogni, proibiti e irrealizzabili, perché era senza soldi, avendo solo lavori precari e mal retribuiti.

Era un giorno senza chiamate che lo costringeva a rimanere a letto e rimuginare sullo stato attuale. Il contrasto tra l’intensa fioritura del ciliegio e il timido risveglio della quercia era uguale a quello che provava dentro di sé. Avrebbe voluto ma non poteva. Aveva amato ma adesso era solo. L’ultimo lavoro si perdeva nei ricordi, mentre attendeva invano squillare il telefono per uno nuovo.

«Signor Marco Pinotti? Sono Marta di Objob. Le telefono perché…». Era il dialogo immaginario che avrebbe voluto che si concretizzasse, ma le giornate passavano uguali e il telefono rimaneva muto.

Marta era una simpatica ragazza, che aveva conosciuto vagando tra gli uffici dei lavori interinali. Aveva più o meno la sua età, almeno questa era stata la sua valutazione quando l’aveva vista seduta dietro una scrivania. La statura non ben definita e una zazzera riccioluta del colore del grano maturo erano gli unici particolari fisici che gli erano rimasti impressi. Si sorprese a pensare solo a questi due dettagli come se il resto del corpo non esistesse. In realtà a parte il viso e le mani non l’aveva vista in piedi.

Avrebbe desiderato invitarla a mangiare una pizza. “Con quali soldi?” Le sue finanze gli impedivano di sgarrare dal bilancio giornaliero. Una pasta condita con un poco di sugo accompagnata da una verdura, quella a più buon mercato, era il pasto principale del mezzogiorno, mentre alla sera un frutto e qualche cracker era quello che poteva permettersi. Il resto dei pochi risparmi era destinato all’affitto del monolocale e alle bollette, che puntuali come un treno svizzero, arrivavano tutti i mesi.

Stava raschiando il fondo del barile e, se non arrivava una chiamata, doveva dichiarare default. Percepiva l’inadeguatezza della propria esistenza in questo momento della sua vita, che contrastava con la tiepida giornata primaverile serena e soleggiata.

Non aveva nessuna voglia di alzarsi da dove si trovava. Dove vado? A guardare le vetrine scintillanti di offerte e gadget che non posso permettermi? A desiderare qualcosa che rimarrà semplicemente un sogno?

Marco continuava a osservare quel minuscolo volatile, che saltava da un ramo all’altro, beccando ogni tanto qualcosa. Immaginò che fosse un piccolo insetto.

«È dura la vita, amico? Però almeno tu puoi volare libero e cercarti del cibo. Io dipendo invece dagli altri, dai loro umori, da altre mille limitazioni. Vorrei librarmi senza vincoli nell’aria e osservare il mondo dall’alto, ma non posso».

Distolto lo sguardo dall’uccello, lo posò sulle gazze, che parevano divertirsi, mentre giocavano tra loro in un balletto sfrenato e simpatico. Tutti all’esterno sembravano in apparenza felici, l’unico insoddisfatto era lui. Un pizzico di scoramento lo avvolse, tanto che l’idea di abbandonare Milano e di ritornare a casa, che aveva lasciato quattro anni prima, prese forma. Per lui avrebbe rappresentato una sconfitta cocente, una dichiarazione di resa senza condizioni, dopo essere partito con molte speranze e tanti sogni, contenuti nella sua piccola Samsonite. Si era trasferito nella grande metropoli, convinto di spaccare il mondo, di fare quel salto di qualità che aveva sempre desiderato. Tuttavia aveva dovuto ricredersi ben presto. Aveva combattuto con vigore e determinazione per mantenere il posto e lo stipendio, che gli serviva a pagare lo stretto necessario per vivere. Aveva lavorato duramente, facendo grandi economie su tutto. Quello che non poteva permettersi era ridotto al rango di desiderio.

Un giorno di un anno prima, arrivato davanti al cancello, lo trovò sbarrato: un asettico volantino,con uno strano timbro inchiostrato sintetizzava ‘Società chiusa per fallimento’.

«Come chiude?» Domandò, osservando gli altri compagni di lavoro, ugualmente sgomenti, che si assiepavano attorno a lui.

«È fallita. Non lo sapevi?» Uno alla sua destra enfatizzò con voce alterata dall’ira.

«E adesso?» Chiese terrorizzato al pensiero di non avere più un’occupazione.

«Cercati un altro lavoro» replicò asciutto un operaio dalle mani callose.

«E i miei soldi?»

Marco si guardo attorno terrorizzato.

«I nostri soldi? Forse degli spiccioli tra qualche anno, se ne rimangono» affermò amareggiato un omone con le mani in tasca.

Da quel momento cominciò il suo calvario. Un lavoro di due giorni come garzone di una panetteria, un mese come operaio a scaricare merci, quindici come lavapiatti. L’elenco era lungo e non valeva la pena di rinvangarlo. Ricordava solo il lungo pellegrinaggio da un’agenzia all’altra per mendicare qualche spicciolo di lavoro.

Due mesi prima, passeggiando per via Cordusio nel centro di Milano, aveva letto un cartello, appeso all’interno di una vetrina ‘Objob – Il posto giusto per trovare lavoro’. Scrutò il vetro dove erano appesi i soliti cartellini, ingialliti dal tempo e dal sole.

Spinse l’uscio ed entrò.

«Buongiorno» salutò cortese, piazzandosi dirimpetto alla postazione, dove una bionda riccioluta stazionava davanti a un monitor.

«Ciao, sono Marta. In che cosa posso esserti utile?» Due splendidi occhi blu si alzarono per fissarlo.

A Marco mancò la parola nel vederla. Deglutì in fretta col pomo d’Adamo che si muoveva freneticamente, passò la lingua sulle labbra per umettarle e rispose incerto: «Sto cercando un lavoro…».

Appena pronunciate queste parole, pensò subito che era stata una risposta insulsa ma era stata anche la prima e l’unica che gli era venuta in mente. Era conscio che era lì per trovare un’occupazione precaria e non per ammirare quegli splendidi occhi blu. Questa era una necessità che stava diventando giorno dopo giorno sempre più impellente. Però convenne che Marta avrebbe meritata la visita comunque.

«Sì, ho capito. Che tipo di lavoro? Cosa sai fare?» Dalla bocca della ragazza uscì un suono dolce, mentre sfoderava un meraviglioso sorriso.

«Beh! Ho lavorato quasi tre anni in una fabbrica di minuterie metalliche come…» e si interruppe incantato dagli occhi e dal sorriso prima di completare il discorso. «Ero assegnato alla selezione dei pezzi per le verifiche e i controlli a campione. Un lavoro delicato. Poi l’azienda è fallita e nell’ultimo anno ho svolto molti lavoretti. Garzone, operaio, cameriere…».

«Ho compreso» lo interruppe la ragazza, aggrottando leggermente la fronte.

Marco la trovò deliziosa. Quasi stava dimenticando il motivo per il quale era entrato.

«Non hai trovato niente di meglio?»

I suoi occhi si sgranarono un po’ curiosa e sorpresa.

«No, purtroppo. Tutti, per quella mansione, chiedevano una laurea. Sai, ho solo il diploma di un istituto professionale per l’industria e l’artigianato. Ero bravo, dicevano. Tuttavia sembra che sia servito a poco». Marco aveva lo sguardo amareggiato.

Marta abbassò lo sguardo sul monitor e digitò qualcosa come se cercasse qualcosa.

Lo fisso con gli occhi lucidi come se da un momento all’altro volesse piangere.

«Mi spiace, ma non c’è nulla di adatto al tuo profilo. Se vuoi lasciarmi i tuoi dati, nel caso che…».

Lui la guardò smarrito e disse che avrebbe accettato un qualsiasi lavoro, perché non poteva rimanere senza un’occupazione.

La ragazza gli diede alcuni indirizzi. Una piccola scintilla sembrava scoccata tra loro, almeno questa era stata l’impressione di Marco. Le lasciò i suoi dati e il numero di telefono.

«Se capita qualcosa, ti chiamo» aggiunse prima di salutarsi.

Da quel giorno Marco sognava la telefonata, perché quegli indirizzi erano stati solo fonte di delusioni cocenti. Lavori umilianti, sottopagati. Però era meglio di niente. Si esaurirono in breve e adesso era di nuovo in attesa di una chiamata. I soldi stavano finendo e non c’era nessuna prospettiva a breve termine. Aveva cercato anche in altre agenzie di lavoro interinale ma la risposta era stata sempre la medesima: «Non abbiamo nulla per lei». Aveva provato a inviare qualche curriculum, ma tutto era rimasto muto. La crisi stava mordendo tutti e nessuna azienda si sbilanciava ad assumere, anche temporaneamente, qualcuno.

Da quel fortuito incontro erano passati due mesi senza che la ragazza si facesse viva e la speranza di risentirla era un lontano desiderio. Continuò a guardare gli uccelli che volavano liberi da un ramo all’altro, dal ciliegio alla quercia. Era deluso e amareggiato quando risuonò una musichetta familiare, quella dei Doors. Osservò il display. ‘Numero privato’. Toccò il tasto verde per rispondere.

«Ciao! Sono Marta. Ti ricordi? Quella di Objob…» e fece una pausa.

«Ciao! Certo che mi ricordo di te!» Rispose entusiasta, risollevandosi dal triste mutismo che l’aveva travolto.

«C’è una buona opportunità! Cercano una figura professionale come la tua. Contratto a progetto. Mesi sei più un’opzione per altri sei. Milleduecento euro al mese circa con buone prospettive per il futuro…».

«Oh!» fu l’unica risposta di Marco.

«Ma di questo ne parliamo dopo. Volevo invitarti a mangiare una pizza…».

Lui fu colto dal panico. Fece un rapido calcolo: in cassa rimanevano disponibili solo cento euro. Dunque era impensabile uscire con Marta. Stava per rispondere, quando riudì la voce della ragazza.

«Volevo dirti…». Fece una breve pausa, perché aveva compreso l’imbarazzo. “«a pizza la preparo io. La mangiamo a casa mia, se sei libero».

Marco guardò fuori, mentre l’ansia andava scemando.

«Sì! Vengo volentieri! Ho due coke in frigo. Per festeggiare».

La ragazza riassunse il suo tono professionale.

«Se mi dai l’okay, puoi cominciare domani. È una bellissima opportunità! Devi portarti solo il libretto di lavoro. Stasera ti spiego tutto. Alle otto».

«Dove? Non so dove abiti» replicò prima che lei chiudesse la conversazione.

«È vero! In via della Vittoria, 13. Sai dove si trova?».

«Sì. Alle otto. Ma quale campanello suono?»

«Che sbadata! Mi sembra di conoscerti da una vita e do per scontato che tu sappia tutto! Mercuri. Terzo piano interno cinque. Ciao! Ti lascio. È entrato qualcuno».

A Marco sembrò di udire uno schiocco di labbra prima del segnale di libero, ma forse era solo fantasia.

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0 risposte a “Dalla finestra….”

    1. Così. Mi piaceva questo capitolo iniziale nella prima stesura ma poi è arretrato al terzo posto. Rileggendolo mi è venuta voglia di pubblicarlo e nel contempo ricordare il libro in cui è contenuto.

  1. Quanto mi piace me lo sono venuto a rileggere e sai che mi fa venire in mente delitto e castigo, ha quello stile un po’ scuro
    E bravo il Marco Longo
    Bellissima la copertina

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