Metti una sera a teatro – parte seconda

La seconda e ultima parte del racconto. La prima la trovate qui.

Foto personale

Irene si alzò e uscì prima che Jacques Saint Just salutasse il pubblico e si ritirasse nel camerino.

«Dov’è il camerino dell’artista?» chiese all’addetto del ingresso.

«Nel corridoio la seconda porta» rispose indicando con la mano il percorso.

Si avviò con passo deciso verso il punto dove l’uscio si confondeva con la parete. Era in preda all’agitazione per l’emozione, che l’aveva turbata, facendola piombare in anni lontani. Bussò con discrezione e attese che qualcuno si facesse vivo.

«Desidera?» chiese una donna facendo capolino dalla porta appena socchiusa.

«Devo vede Monsieur Saint Just» disse con un filo di voce come se questa non volesse uscire dalla gola.

«Non è possibile. Deve aspettare la fine del concerto» replicò accennando a richiuderla.

«Ho un appuntamento con lui rispose con un tono convincente.

«Aspetti» e sparì.

Dopo qualche istante ricomparve e le fece cenno di seguirla.

La contessa sentì crescere dentro di sé un mix esplosivo di gioia e angoscia che lottavano tra loro. La decisione di vedere il pianista era stata emotiva, irrazionale ma adesso pareva pentita dell’iniziativa. Non poteva più tornare indietro. Entrò in una stanzetta disadorna e lo vide.

«Jacques!» esclamò con gli occhi che ridevano per la gioia allargando le braccia per abbracciarlo.

«Irene! Che bella sorpresa! Non sapevo che tu fossi qui».

L’artista si alzò dalla sedia, stringendola forte. Un abbraccio che pareva non finire mai.

«Lasciati ammirare!» mormorò osservandola. «Sei più bella di quella che ricordavo. Allora eravate una fanciulla acerba, ora siete una donna meravigliosa piena di charme e nel fiore della vita».

Le labbra si unirono in un bacio caldo e passionale. Poi si staccarono per scrutarsi a vicenda. Erano commossi per essersi ritrovati dopo tanti anni. L’occhio era lucido ed era pronto a lacrimare.

Le girò intorno, stentando di riconoscere quella fanciulla alla quale aveva insegnato i primi rudimenti di musica nella Parigi scapestrata e bohemien del dopoguerra. Irene lasciò scorrere una lacrima, ricordando quegli anni felici trascorsi con Alberto e tutti quegli artisti che l’avevano allevata e coccolata come se fossero tanti padri e tante madri.

«Oh!» un sospiro e basta. Avvertiva la necessità di ascoltare quella voce calda e di essere tenuta stretta da quelle mani affusolate da pianista. «Oh, Jacques!» ripetè con la voce roca per l’emozione.

«Sst!» e le mise un dito sulla bocca. «Tenez» le disse allungandole una sedia. «Aspettami fino al termine del concerto. Nessuno verrà a disturbarti» e uscì per riprendere a suonare.

La signora Massone si girò verso il fondo e cercava la contessa con lo sguardo senza vederla. Si aggirò per la sala e nel vestibolo alla sua ricerca.

«Irene se ne è andata» confidò a Ivana con tono deluso. «Quel pianista francese non era di suoi gradimento».

«Io l’ho trovato fantastico. Suonare con quel antico pianoforte dal timbro forte e deciso è stata una delizia per le mie orecchie» rimarcò aggrottando le sopracciglia. Non comprendeva i motivi per cui era venuta, se poi non aveva apprezzato la musica.

«Rientriamo. Tra qualche istante il concerto riprende» disse Paola spingendo verso i loro posti l’amica.

Irene si sedette immobile sulla sedia, mentre in lontananza udiva quel suono melodioso. Quei lontani giorni adesso sembravano vicini come se fosse ieri. Quel ragazzo gentile, più vecchio di lei di qualche anno, era diventato un uomo, affascinante e gentile. “Se mi vedessero tutte quelle odiose filistee, pronte solo a pettegolare, e quello sciocco di mio marito, smorto come un cencio slavato, capirebbero quanto ero felice a Parigi. Ero in una casa sempre allegra e piena di gente sincera e rumorosa”. Era venuto finalmente il tempo di parlare a cuore aperto con qualcuno che stimava e amava. Voleva sentire la sua opinione, cosa avrebbe potuto dirle sulla sua condizione. La musica, che debole arrivava alle sue orecchie, accompagnava in sottofondo i suoi pensieri mentre rigida sedeva in quella stanzetta scarsamente illuminata e disadorna.

Avvertì l’aprirsi della porta e lo vide entrare pallido e sudato, ancora fremente per l’impegno nel suonare il fortepiano.

«Jacques» disse alzandosi per accoglierlo.

Lui la scostò con gentilezza. «Lasciami asciugare il sudore e poi sono da te».

Dopo qualche attimo le prese le mani e gliele baciò. «Quanti anni sono passati dall’ultima volta che ti ho vista?» chiese fissandola negli occhi.

«Troppi» fu la sola risposta che seppe dare.

«Sei una donna affascinante e meravigliosa. Ma raccontami di te» le chiese tenendole sempre la mani con forza.

«Oh, no. Ci vorrebbe troppo tempo e non ne abbiamo a sufficienza» rispose dispiaciuta.

«Allora mi racconterai mentre di accompagno a casa oppure c’è qualcuno che ti aspetta?»

«No, sono sola. Parleremo di noi durante il tragitto».

«Bene. Il tempo di raccogliere le mie cose, salutare qualcuno e poi sono pronto» spiegò mentre metteva in una borsa qualche oggetto, appoggiato su un tavolino d’angolo.

Uscirono e le disse di attenderlo. Sparì inghiottito da una porta che nella semioscurità del corridoio si materializzò per dissolversi di nuovo.

Irene rimase nell’ombra, osservando gli ultimi spettatori che rumorosamente si avviavano verso il portone di uscita. Aveva le guance che avvampavano di calore per l’agitazione interiore, mentre la testa le girava per la forte emozione della vista di Jacques.

«Eccomi» disse ricomparendo vicino a lei. «Possiamo andare».

La prese sotto il braccio mentre scendevano lo scalone appena illuminato da poche lampade, mentre le ombre dei quadri continuavano a scrutarli, disapprovando.

«Chiamo un taxi?» chiese premuroso, stringendola con calore.

«No. Possiamo fare quattro passi a piedi. La mia casa non dista molto. E poi avrei l’auto parcheggiata in quella grande piazza laggiù» e indicò col capo un lontano chiarore sullo sfondo di una via dritta.

L’uomo gettò uno sguardo distratto verso quel punto che non gli diceva nulla e riprese a parlare.

«Dunque raccontami tutto. Come stai? Cosa fai?»

«Oh, Jacques! Non sai quanto ho sofferto. Mi hanno torturata, imponendomi il loro stile di vita. Non potevo sfuggire alla loro persecuzione. Non potevo scappare, perché ero senza un soldo, nemmeno per affrancare una lettera e chiedere aiuto. Mi hanno costretta a riprendere gli studi, a prendere lezioni di bon ton, a stare in società. Un mondo frivolo e senz’anima, pronto solo a bruciare sul rogo della vanità chi osava starsene ai margini o chi era dissenziente. Avrei voluto fuggire. Ma dove?»

Irene fece una pausa per consentirgli di replicare.

«È terribile quello che dici. Una condizione orribile». Tacque per invogliarla a proseguire.

«Ero senza amici, senza nessun col quale confidarmi. Mi sentivo sola. Avrei voluto morire. Bon Dieu, tu poi non immagini cosa dicevano di Alberto, che era il diavolo, anzi il capo di tutti i diavoli dell’universo. Non potevo difendere mio padre, perché secondo loro ero stata la vittima sacrificale di un uomo senza testa e senza ritegno. Riesci a concepire mio padre come se fosse un arcidiavolo? Tu l’hai conosciuto…».

«Sì, lo ricordo bene. Un gran uomo pieno di amore disinteressato verso gli altri» e fece un sorriso, mentre la stringeva con maggior vigore.

Erano ancora sotto i portici del Collegio, quando le pose una domanda. «Ci fermiamo da qualche parte, così possiamo continuare la nostra chiacchierata al caldo?»

«Se non hai fretta possiamo fermarci nella dependance della mia villa. È l’unica cosa che possiedo. È tutta mia e là mi rifugio per ritrovare me stessa».

Camminarono spediti lungo il viale, mentre lei le raccontava altri particolari della sua vita.

«Dopo qualche anno al termine degli studi il conte Cittadini chiese la mano a mio zio Matteo, che fu ben felice di rispondere sì. Così finii sposa di quest’uomo grigio e monotono. Ero diventata la sua prigioniera senza possibilità di fuga. Sono sposata da cinque anni ma mi sembrano cinque secoli».

«Mon Dieu!» esclamò Jacques. «Hai avuto un’esistenza travagliata, a quanto pare».

«Sì» affermò con la voce ridotta a un sussurro, mentre si scostava. «Siamo arrivati» e prese una chiave per aprire il cancello.

Si avviarono per un viottolo oscuro verso una costruzione bassa e buia, contornata da piante e cespugli che apparivano come neri custodi dell’abitazione.

Sentiva scorrere il sangue nelle vene come mai le era capitato negli ultimi anni dopo tanto grigiore della vita matrimoniale. Era felice e spaventata allo stesso istante. Era rapita dall’uomo che stava al suo fianco ma ne percepiva anche la pericolosità. “Cosa ci vado a fare nella dependance?” si chiese trepidante e ansiosa. Era un tuffo nel passato, a quel passato che non aveva mai smesso di sognare neanche quando faceva all’amore con Antonio, suo marito. Le serviva per sopportare quell’atto che compiva senza amore e senza stimolo solo per adempiere a un dovere, perché così le avevano insegnato.

Ma è veramente un dovere oppure una costrizione?” rifletté mentre in silenzio si avvicinava alla porta d’ingresso. Sapeva che stava varcando le colonne di Ercole e avventurarsi in un mare ignoto. Però avvertiva la necessità di condividere con qualcuno che aveva amato il contenuto di quello che provava dentro di sé. Fremeva sia per l’impazienza di passare quell’uscio sia per il terrore di quello che sarebbe successo.

Sei ancora in tempo, Irene” pensò. “Puoi fermarti lì e ringraziarlo per la compagnia. Ma lo vuoi proprio mandare via?” Si coricò per prendere la chiave dalla fioriera accanto alla porta.

Entrarono e accese le luci, che illuminò una stanza di modeste dimensioni.

«Ecco questo è il mio regno che nessuno prima di te ha mai violato» disse mostrando con un ampio gesto della mano la camera dinnanzi a loro. «Ecco qui i miei tesori, i miei ricordi».

Le pareti erano ricoperte coi quadri del padre, su un mobile basso campeggiava una sanguigna dove era ritratto Jacques al piano. Ovunque c’erano ricordi di Parigi, del padre, dei loro amici.

«Ti piace» chiese trepidante, perché sentiva pulsare dentro di sé l’emozione e la gioia dell’amore, come una quindicenne in preda a una crisi ormonale.

Lui si guardò in giro, poi osservò la donna. Si tolse il cappotto e la sciarpa che gettò in un angolo, mentre lei tremava per un amore selvaggio come se fosse il primo della sua vita. Percepiva che doveva donarsi, che la doveva possedere ma non osava fare il primo passo. Rimase ferma e muta in mezzo alla stanza con il mantello ancora in dosso.

«Vieni» le disse avvicinandosi. «Ti aiuto a togliere…».

«No!» gridò in un sussulto di vergogna ma non si mosse e lo lasciò fare.

«No! Non toccarmi!» ripeté più di una volta ma senza opporre resistenza. Poi si abbandonò voluttuosa fra le sue braccia.

Era quasi mezzanotte quando rossa in viso, accaldata e coi vestiti in disordine fece l’ingresso nella villa.

Si avviò verso la scala per raggiungere la sua stanza.

«Sei tornata?» chiese Antonio, uscendo dal salotto del pianoterra. La scrutò, la guardò con attenzione e tenendo un libro in mano si informò sulla serata.

«Com’è andata?»

«Ottima musica» rispose preparandosi a salire per sfuggire all’occhio del marito.

«Sei spettinata» incalzò seguendola.

«C’era vento mentre rincasavo».

«Ma la macchina…».

«L’ho lasciata al parcheggio. Desideravo fare due passi. La serata è fredda ma il cielo è limpido. Buona notte, caro» aggiunse, mentre con passo deciso salì i gradini che portavano alla zona notte.

Arrivata nella sua stanza si tolse i vestiti con calma, annusandoli per sentire ancora l’odore di Jacques.

Ti ho ritrovato, Jacques! Non mi sfuggirai di nuovo! Domani ti rivedrò e fuggirò con te!” si disse mentre si spazzolava i capelli prima di coricarsi.

Jacques ritornò all’hotel dove alloggiava, ritirandosi nella sua stanza.

Prima di coricarsi, annotò sul diario, come sua abitudine per leggerlo poi insieme a Yvette.

Cara Yvette, non immaginerai mai chi ho incontrato al concerto? Irene. Sì, proprio lei! Ti ricordi? La figlia di Albert. È diventata una donna affascinante, moglie di un rispettabile cittadino dell’alta borghesia e per di più un nobile. Dicono che sia molto ricco. Ormai non è più una di noi con suo modo di fare civettuolo e aristocratico. Non la riconosceresti più, tanto è cambiata nel modo di porgersi. Pensa che crede di riaccendere quei fuochi ormai spenti da tempo con la credenza tutta femminile di farlo ricordando il passato. Ce qui est passé est bien passé. Che noia! Non riuscirebbe a eccitare più nessuno di noi. È veramente banale e deprimente. Spero che non capiti pure a te una così totale metamorfosi. Sarebbe deludente. Ha parlato male del marito dicendo che è tedioso. Sì, proprio così. Noioso e monotono, tanto che ho pensato al quel modo di dire che usiamo noi. È talmente grigio che non lo sopporterebbe nemmeno la sua ombra. Domani mattina dovrò evitarla mentre faccio l’ultima passeggiata per la piazza principale e poi volo da te tra le tue braccia, mon Chérie. Non vedo il momento di stringerti a me.

Adieu, à demain!

Bisou, mon Chérie

FINE

Se vuoi ricevere gli aggiornamenti sottoscrivi il form.

0

0 risposte a “Metti una sera a teatro – parte seconda”

  1. Ciao Giampaolo come va? Questo carogna virus se ne va oppure no? Temo che x lunedi sia troppo presto aprirete spalancare tutto! Un abbraccio affettuoso.

  2. Non hai idea di quanto tu mi abbia spiazzata con il finale…
    Ma come fa un uomo a possedere una donna, a farla sentire sua e ,poi, ad avere questi sentimenti?
    E’ quasi inverosimile..

  3. Molto bello. Peccato che il padre sia morto, vivere in quel mondo di artisti l’avrebbe resa una donna meravigliosa. Sento l’odore di provincia, di Ferrara. Mi è sembrato di scorgere Piazza Ariostea …

    1. grazie per le tue generose parole. L’ambientazione? No, non è Ferrara ma Modena. Il teatro esiste ed è reale – era il teatro privato dei duchi estensi – Quando ho abitato a Modena, lo frequentavo per ascoltare concerti di musica classica.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *