Un amore non corrisposto

Proseguo nel riesumare vecchi racconti. Oggi è il turno di ‘Un amore corrisposto’

Buona lettura.

Copertina Kindle – La kitsune

Com’era avvenuto? Non lo sapeva neppure lui ma di una cosa era certo: qualcosa era cambiato.

“Dove?” si domandò, dondolandosi da un piede all’altro.

Riprese a camminare incerto e confuso con le mani in tasca e la testa incassata nel giaccone. Faceva freddo e tirava un’aria che non invitava a stare all’aperto. Il cielo era plumbeo, di un colore che non prometteva nulla di buono. Le nuvole basse formavano una cappa che contribuiva a deprimere Antonio.

Aveva diciotto anni e frequentava il primo anno di università.

«Nulla di eclatante» era solito dire a chi gli chiedeva cosa facesse.

Cosa volesse dire con quella frase non lo sapeva ma gli piaceva dirlo a tutti quelli che lo interrogavano a quale facoltà era iscritto.

«Frequento il primo anno di Università, quella della mia città» aggiunse in modo criptico alla solita frase un giorno di novembre. Antonio passeggiava con Giovanni, un amico che conosceva da quando era all’asilo.

«Ma perché niente di eccezionale?» chiese con tono curioso, strizzando gli occhi. «Eppure mi sembra che poi…».

«Poi, cosa?» ribattè fissandolo dritto negli occhi con lo sguardo lucido. «Quando tra tre anni, se sarò bravo, uscirò con quel pezzo di carta, cosa me ne farò? Lo metterò sotto vetro con una bella cornice marrone elegante e sobria, perché tutti quelli che entravano in casa possano ammirarla oppure la userò per trovarmi un posto di lavoro?»

«Non saprei. Pensavo che…» mormorò impacciato.

«Pensavi male. E tu cosa fai?»

«Tutto e niente. Non frequento l’università. Dopo la maturità lavoro nella ditta di mio padre».

«Beato te! Un posto ce l’hai assicurato…» esclamò Antonio, dandogli una pacca amichevole sulla spalla.

«Veramente avrei voluto frequentare l’Università come te ma mio padre mi ha detto “Cosa ti serve quel pezzo di carta? L’azienda è sana e genera profitti e quindi denaro, molti più soldi di quelli che potrai guadagnarne usando quel attestato che chiamate laurea”. Così non mi sono iscritto e sono entrato nella ditta. Lavoro ma alla sera sento la lingua secca come se non bevessi da molti giorni».

Antonio lo osservò stupito, perché, se suo padre avesse avuto un’azienda, non avrebbe avuto dubbi sulla strada da intraprendere. Però era un semplice impiegato di banca, un classico colletto bianco, grigio e anonimo, che sarebbe arrivato alla pensione, sempre che ci sarebbe riuscito, ancora più ingrigito. Non era quella la fine che voleva fare. Si sentiva creativo, avrebbe voluto dare sfogo alla sua fantasia ma sapeva bene che sarebbe stata dura la sopravvivenza.

«Non ho la tempra di chi, ignorando tutto, si lancia nel mondo dell’arte senza la preoccupazione di avere un pezzo di pane per mangiare» concluse con tono amareggiato.

Si conosceva bene compresi i suoi limiti, il frutto di tutti gli insegnamenti dei suoi genitori. Era cresciuto col mito del posto fisso, facendo un passo alla volta e solamente se era sicuro che non comportasse dei rischi.

Si salutarono con un abbraccio con la promessa di rivedersi presto.

“Sono un pavido” rifletté camminando per le vie della città con le spalle incassate nel giaccone. Faceva freddo per via di un vento di tramontana che si insinuava dentro con perfidia. Mentre vagava solitario per le vie della città svuotate per il gelo e la serata che si avvicinava, ricordò Ines, una vecchia fiamma o nuova. Dipendeva dall’angolazione con cui osservava il loro rapporto.

Ines era una ragazza solare col sorriso permanente sulle labbra mentre lui percepiva di essere un musone scontroso e introverso.

“Vorrei parlarle, dirle quello che provo ma non riesco. Mi sento impacciato, imbarazzato. Mi si secca la lingua, che si attorciglia in bocca. Le parole non escono e divento timido”.

L’aveva vista mille volte ma una mattina di dicembre la guardò sotto un aspetto che non aveva mai notato prima. Era una giornata soleggiata, fredda e senza nebbia, evento raro e insolito nella sua città. Aveva due ore di buco tra una lezione e quella successiva ma non aveva nessuna voglia di rintanarsi in biblioteca. Il cielo terso e il sole che riscaldava tiepido l’aria l’avevano invogliato a sedersi sulla panchina del parco retrostante l’Università. Era seduto a pensare che la sua vita sarebbe stata grigia come quella di suo padre e questo gli generava un grande rammarico. Percepiva che non sarebbe stato felice e avrebbe rimpianto sempre la non decisione di andarsene lontano e vivere romanticamente come un bohémien.

Scrollò il capo e si mise a osservare il parco con le grandi magnolie e le aiuole spoglie.

La vide con un’amica che chiacchieravano ridendo, mentre percorrevano il vialetto alla sua sinistra. Guardò con curiosità come gettava da un lato, in un certo modo allegro, la testa Prima di quel momento non se ne era mai accorto. Era un movimento, che lo colpì, istintivo e naturale. Il capo si muoveva verso destra mentre i capelli scivolavano su viso. Un colpo veloce per riportarli dietro l’orecchio. “L’ho osservata tante volte ma non avevo mai notato questo gesto che non sono riuscito a classificare. Però mi ha dato una scossa emotiva come se fosse la prima volta che la vedevo” ricordò con un pizzico di nostalgia.

Il gesto della mano rapido e coordinato faceva scivolare la manica del cappotto indietro verso il gomito, mostrando un polso esile e candido. La mano non era affusolata e neppure aggraziata. Piccola e leggermente tozza con le dita corte e grosse. Restò affascinato da quella gestualità che lisciava i capelli lunghi e setosi dopo averli riportati dietro l’orecchio. Aveva una grazia che lo ipnotizzava e non riusciva a staccare gli occhi da quelle mosse. Quel giorno di dicembre l’aveva guardata con occhi diversi. Forse il sole oppure quel modo di muoversi l’avevano stregato. In un altro contesto avrebbe giudicato i movimenti come normali e non degni di essere osservati.

Ne udì la voce e sentì come sottolineava le parola, una qualunque, con un tono che pareva musica. C’era un suono caldo nella sua voce.

“Quante volte l’ho ascoltata nei corridoi del liceo ma mi era sempre apparsa priva di grazia con quell’inflessione strascicata della esse e quel tono ruvido e freddo. Ma ora…”. Antonio era immerso in questo ricordo non troppo lontano e gli sembrava di vederla e ascoltarla vicino a lui. Poi lentamente, come in una dissolvenza fotografica, era uscita dai suoi pensieri.

«Sei un pavido» borbottò a mezza voce, mentre analizzava il suo comportamento in quella circostanza. «Se non ti fai notare, non potrà mai accorgersi di te. Inseguila, fermala e parlale come sai fare con gli scritti. Riuscirai a colpirle il cuore».

Qualcosa gli diceva che quello era amore, ma si domandò se conosceva il significato esatto di quella parola.

«So cosa vuol dire Amore. Lo scrivo nei miei racconti che parlano di Amore tra madre e figli, tra un uomo e una donna ma anche fra due persone dello stesso sesso. Quello che ho descritto tante volte con minuziosa pignoleria, ora perde di significato e non so cogliere questo fiore, lasciandolo appassire. Questo sentimento lo osservo con la morte nel cuore perché è vizzo e senza un’anima».

Benché sapesse che l’amore gli avrebbe recato dolore, tormento e umiliazioni, non smise di pensare a Ines nei giorni seguenti, a quello che aveva notato quel giorno di dicembre. Un amore che non aveva controparte gli dava spine e distruggeva la pace interiore. Nulla era più come prima ma nel contempo era riuscito a dare forma a qualcosa d’impalpabile: il sentimento dell’amore,

Un altro ricordo di quel giorno gli tornò in mente. Si era alzato dalla panchina, ma gli pareva di camminare a venti centimetri da terra. Non gliene era importato nulla se quelle sensazioni gli avrebbero procurato dolori e tormenti. Tuttavia lo aveva accolto con gioia e lo curò con tutte le sue forze, perché sapeva che esso l’avrebbe reso ricco e vivo come aspirava.

Aprì gli occhi, mentre anche l’ultima immagine spariva.

Un raggio di sole filtrava dalle imposte ma Ines sarebbe rimasto un amore non corrisposto.

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