Una vita – parte prima

Si chiamava Luca D’Astolfi, ma era conosciuto da tutti come Ninì al Ros. Non c’era speranza di chiedergli il motivo, perché era ignoto pure a lui. I capelli, prima di perderli, non erano diventati grigi ma erano di un colore prossimo al nero. Non schiarivano nemmeno col sole. Quindi il sopranome non dipendeva da questo.

Forse le tendenze politiche? No, nessuna illusione che virassero a sinistra. Lui si era sempre professato come apolitico. Quando andava a votare, se ne aveva voglia, metteva la crocetta su quei partitini curiosi e impossibili da essere seri. Gli sembravano patetici e meritevoli della sua compassione. Nomi improbabili con simboli curiosi. Così, quando era dentro quegli squallidi gabbiotti di legno, che stavano su per miracolo, con la tenda dal colore indefinito, passava in rassegna la scheda elettorale. Era alla ricerca del simbolo più insolito e improbabile da votare. “Che gusto c’è dare il voto alla Democrazia Cristiana o al Partito Comunista” si diceva col sorriso sornione. “Tanto loro del mio voto se ne fregano e non sposta gli equilibri”. Sembrava il buon samaritano che correva in aiuto di quei minuscoli partitini che alla fine ottenevano qualche migliaia di preferenze. Ovvero lo zero virgola zero e qualche centesimo.

Ricordava con una punta di malinconia che nel 1968, una delle prime volte che andava a votare, aveva contrassegnato con una bella ed evidente X il partito “PAPI”. Cosa significasse quell’acronimo non lo sapeva nemmeno lui. Immaginò che volesse dire ‘Partito Anti Partito Italiano’, Non indagò mai a fondo. Tanto non gliene fregava nulla. Il suo dovere di elettore l’aveva fatto.

«Eh! Sì. Quelli erano dei bei tempi» diceva al bar della piazza vicino a casa tra i sorrisi ironici degli amici e conoscenti.

Quando nei giorni successivi alle elezioni non andava a vedere i risultati ma scorreva le liste dei candidati. Era un dettaglio che lo incuriosiva parecchio. Scorrendo le preferenze, leggeva accanto al nome dei più sfigati, di solito quelli che stazionavano sul fondo della lista, un bel zero ovvero nessuno si era degnato di segnarlo sulla scheda elettorale. Si era sempre domandato. “Se mi candido, almeno metto il mio nome, perché sarebbe vergognoso che accanto a Luca D’Astolfi compaia un bel zero. Poi bastonerei mia moglie, i miei figli, gli amici più fidati se non facessero altrettanto”. Eppure questa vergogna era sotto gli occhi di tutti e lui non riusciva a comprenderla.

Dopo avervi tediato con queste parole, accantoniamo il problema sopranome, che rappresentava enigma anche per Luca, perché c’era poco capire. Da quando aveva la memoria, all’incirca sei o sette anni, si era sempre sentito chiamare così in casa e fuori e lui rispondeva a tono.

Aveva sessantasei anni quando andò in pensione dopo una vita di lavoro dentro e fuori da quel capannone sulla via del mare. La moglie, Ersilia, ma che razza di nome le avevano appiccato si domandava spesso, era in ansia al pensiero di trovarselo tra i piedi tutto il giorno. La figlia, Ofelia, in questo caso l’errore era stato suo, perché aveva litigato per il nome con Ersilia. Per dispetto l’aveva chiamata come la tragica protagonista di Amleto, era già oltre i trentacinque anni con zero matrimoni o convivenze alle spalle. “Un vero record” diceva spesso a Ersilia, che alzava le spalle. Secondo lui era irrecuperabile. Eppure era una donna piacente ma pure pedante. “Che fosse lì il segreto dei suoi insuccessi?” si chiedeva Luca, mentre al mattino sorbiva il caffè. Il figlio, Mario, finalmente un nome serio, se ne era andato da diversi anni per la sua strada. Faceva la vita da single incallito nonostante la corte assidua di una fanciulla, della quale Luca non ricordava né nome né viso. Però non gliene importava nulla, se il bambinone non voleva crescere in coppia. Erano affari suoi, perché lui l’errore l’aveva già commesso e non ci pensava minimamente di correggerlo.

Due giorni dopo avere raggiunto l’agognato traguardo decise che era venuto il momento di fare un bel viaggetto tutto solo. E lo comunicò a Ersilia.

«Parto per il mondo» le disse durante la colazione. «Mi vedrai al ritorno».

La moglie lo guardò stralunata e di sbieco, pronta a squartarlo vivo, se avesse osato mettere in piedi quel subdolo piano.

«Ho capito bene?» rimbeccò acida la donna.

«Vado a preparare la borsa con le mie cose» rispose soave e serafico Luca, per nulla intimorito dall’atteggiamento bellicoso, pronto alla rissa della moglie, e sparì nella camera da letto.

Così disse e così fece.

Luca D’Astolfi era un piccoletto, con la tendenza alla pinguedine, stempiato, forse più corretto calvo, ed eccitato per aver raggiunto la pensione. Guardava dall’alto del suo metro e sessanta gli altri per i quali il miraggio di goderla era una sorta di fata Morgana. Portava sul naso un paio di occhiali dalla montatura chiara, benché lui sostenesse che ci vedesse benissimo anche senza. In realtà faceva fatica a distinguere un tre dall’otto.

Luca prese la vecchia Fiat e si fermò al primo distributore che incontrò. Esattamente dove voleva andare era un mistero pure per lui. Dunque sceso dall’auto, intavolò infervorato con il gestore una lunga discussione su viaggi, lavoro e pensioni da fame. Non mancò di disquisire su donne, politica e calcio. Il classico argomentare da Bar Sport.

Il benzinaio, un uomo alto, ossuto, peloso e sporco di grasso, lo ascoltò infastidito, perché non gli andava di parlare di politica, di donne con uno sconosciuto. Mentre riempiva con la verde il serbatoio della Fiat Punto, anzianotta e scrostata, pensò che i clienti volevano parlare solo di donne, di politica e di calcio e non stavano mai zitti. Il flusso delle parole lo investiva come raffiche di libeccio.

«Sono 45€» disse a Luca, sperando che la mitragliatrice, che l’uomo aveva in bocca, cessasse di sparare parole per l’esaurimento delle cartucce.

Lui imperterrito continuò a parlare di Ibra e Ronaldo. E non solo. Di veline e donne, uscite alla ribalta del gossip nei giorni precedenti, di elezioni e governo. Mostrava una sicurezza, come se fosse un esperto in materia, senza prestare orecchio alle richieste dell’uomo in tuta giallo sporco. Non aveva ancora compreso che era in pensione da due giorni. Il benzinaio si comportava come gli ex colleghi di lavoro, che non lo ascoltavano.

Adesso il gestore era contrariato, perché quell’uomo parlava di argomenti che non lo interessavano e inoltre stava facendo crescere la coda dei clienti in attesa.

«Mi dia 45€. E sposti la macchina. C’è coda dietro di lei» disse irritato con un mozzicone di sigaretta spento tra le labbra, senza prestare attenzione al fiume di parole, che sgorgava senza posa dalla bocca di Luca.

A quella richiesta brusca la fonte cessò di colpo di zampillare, come se si fosse inaridita per un qualche accidente di imprevisto. Pagò in silenzio e se ne andò offeso.

Il viaggio non era iniziato sotto i migliori auspici.

parte seconda

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0 risposte a “Una vita – parte prima”

  1. Tipo: “esco a prendere le sigarette?”
    Ma che bel pezzo!
    Il tuo personaggio pare un rassegnato, un infelice comune, molto conune, che tira a campare senza obiettivi ma… secondo me arriverà una svolta.
    Mi piace quando scrivi brevi racconti.
    Cioa a presto! Sono proprio curiosa!😊

  2. Che tipetto questo Luca! In ogni cosa che fa sembra volersi distinguere e scappare da un cliché, dalle scelte elettorali controcorrente alla partenza vera e propria. Chissà se si tratterà di una fuga o di un viaggio alla ricerca di … non si sa.
    Attendo il seguito con curiosità.
    Buon weekend caro Gian Paolo 🙂
    Primula

  3. Ho voluto iniziare a leggere dalla prima puntata, visto che ultimamente sono sempre dovuta tornare indietro come un gambero. Ora potrò seguire con calma nel suo viaggio Luca, e scoprirò così cosa vorrà fare. Bravo Gian Paolo. Incuriosisci sempre. Un bacino della buonanotte. Isabella

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