Cominciò a girare tra le bancarelle, dove erano esposti oggetti e cianfrusaglie. Per il momento aveva visto solo chincaglieria inutile, mobili usati spacciati per antiquariato e quadri dai soggetti noiosi come il paese in cui si trovava. Non sapeva nemmeno che esistesse un posto come questo. Per lei era una novità, che per il momento non la stava entusiasmando. Immersa nei suoi pensieri, Deborah si dimenticò di Gina, di Raul e del perché era capitata lì.
“Tra tutti i posti del mondo dovevano scegliere proprio questa località per la loro scappatella?” A quanto le sembrava questa era la risposta. Alzò le spalle e si osservò intorno. Gente chiassosa e un po’ volgare, buio e tanti lumini che pareva essere al cimitero. Eppure doveva essere una festa allegra, almeno questo era quanto aveva ascoltato da Raul, che aveva magnificato la serata.
“Visto che sono qui, tanto vale fare un giro. Sarà una sera diversa dalla monotonia di quelle precedenti. Potrò raccontare qualcosa di interessante al mio ritorno”.
Notò che le persone intorno a lei sembravano divertirsi tantissimo, almeno a giudicare dall’entusiasmo con cui affollavano le bancarelle. Si domandò cosa potessero scorgere su quei banchi debolmente illuminati.
All’improvviso un luccichio attrasse la sua attenzione: veniva da un teschio di cristallo in vendita insieme ad altri prodotti etnici e artigianali. Deborah si sentì inspiegabilmente attratta dall’oggetto e lo sollevò per osservarlo meglio: non era molto ingombrante, anzi sembrava di dimensioni modeste. Quello che più la stupì, fu di trovarlo così pesante.
“Bello, vero?” La voce la fece sussultare. A parlare era stata un’anziana signora, che Deborah pensò che fosse la proprietaria del banchetto.
“Sì” rispose, deponendo il teschio immediatamente.
“Viene dall’America centrale. Deve sapere che i Maya utilizzavano oggetti come questo per i loro riti. Sembra che siano dotati di grandi poteri”.
“Interessante” rispose meccanicamente Deborah, mentre la sua attenzione era tutta rivolta per l’oggetto, che continuava a mandare bagliori, nonostante il posto fosse alquanto buio.
“I Maya?” chiese curiosa.
“Perché dubita?”
Deborah entrò nel pallone, diventando più rossa della splendida luna piena che stava sorgendo dalla collina davanti.
“Non dubito delle sue parole” aggiunse sottovoce come per chiedere umilmente perdono. “Mi era parso strano che appartenesse ai Maya”.
Un sorriso compiaciuto comparve sul viso dell’anziana antiquaria, almeno questa era l’impressione della ragazza. L’oscurità di certo non favoriva la visione.
“Lei mi è simpatica. Per cinquanta euro glielo vendo”.
“Affare fatto” replicò immediatamente Deborah senza pensarci un attimo. Aprì la borsa e prese dal portafoglio una banconota da cinquanta. Non voleva che la donna cambiasse opinione e non glielo cedesse più. Quell’oggetto la stava attraendo troppo per lasciarlo lì sul banco.
“Glielo incarto. Ma faccia attenzione”.
“Sì. Vedo che è delicato. La tratterò con molta cura” le rispose, mentre si allontanava dal banchetto.
Deborah con suo fragile acquisto stretto al petto passò a quello accanto, che vendeva solo paccottiglia di infimo ordine.
L’oggetto che stringeva sembrava vivo, pulsava come un essere vivente. Aveva strane sensazioni, che non riusciva a catalogare. Continuava a muoversi da un posto all’altro ma desiderava tornare alla macchina e all’albergo. Era immersa in questi pensieri, quando udì una voce impastata dall’alcol.
“Bella signora! Fermati. Ho quello che ti serve”.
Un uomo trasandato e in apparenza vecchio stava attirando la sua attenzione. Lo guardò esterrefatta, domandandosi in base a quali considerazioni faceva quelle affermazioni. L’atmosfera intorno pareva mutata, senza che lei ne percepisse i contorni.
“Vedi questo candelabro?” le disse, indicando un oggetto che aveva le fattezze di tutto, fuorché di essere un candelabro. “Ti serve per usarlo con la testa di cristallo”.
Stava per rispondere, quando una donna che leggeva i tarocchi la chiamò: “Si sieda davanti a me. Le leggerò il futuro”.
Non riusciva più a raccapezzarsi. Un vecchio le voleva vendere un qualcosa che secondo lui era un candelabro, una donna le voleva fare le carte per predirle il futuro. Si domandò dove fosse capitata. Era vero che Raul aveva accennato a magie, ad atmosfere magiche, a un ambiente fuori del normale ma quello che stava intorno a lei superava la più fervida immaginazione.
Rifletté, chiedendosi come poteva quel vecchio, che puzzava di sporco e di vino scadente, sapere che lei aveva acquistato un teschio di cristallo. “Mi aveva forse seguita mentre giravo tra i banchi? Oppure mi aveva visto, mentre lo compravo?” Si sentiva come presa tra due fuochi: ascoltare il vecchio o la cartomante.
“Non voglio molto. Solo il prezzo di una bottiglia di vino”.
Si sedette di fronte alla donna, che cominciò a mescolare le carte, mentre prese un biglietto da venti euro da dare all’uomo. Era decisa a non accettare quell’oggetto, che le mandava segnali poco incoraggianti.
“Tenga” gli disse allungando la banconota.
“Grazie. É troppo” rispose mettendole in grembo quello strano aggeggio.
Deborah cercò di ridarglielo ma era era sparito, come se fosse un fantasma.
Si sentiva inquieta e non udiva quello che la cartomante le diceva.
“Non si distragga” udì Deborah ma la sua mente era altrove.
“Vedo difficoltà a breve, nell’immediato ma saranno superate con un aiuto insperato”.
La donna continuava a snocciolare le sue parole senza che Deborah le assimilasse. Lei stava riflettendo sugli ultimi avvenimenti e trovava tutto singolare. Perché era stata affascinata da quel teschio, mentre non provava la medesima attrazione per l’altro oggetto. Erano le domande che si poneva.
“Entro sei mesi troverà l’amore della sua vita. Un uomo alto e biondo, che saprà conquistare il suo cuore” concluse la cartomante.
Deborah sorrise. Aveva già incontrato l’uomo che aveva un posto nel suo futuro. Quindi cosa stava cianciando questa donna sul suo incontro con qualcuno di cui si sarebbe innamorata.
La ragazza la guardò stranita per le ultime parole e stava per replicare nervosa, quando fu prevenuta.
“Non voglio nulla”.
“Perché?” chiese sorpresa.
“Ogni dieci giri di carte, uno è gratis. É toccato a lei! É la sua sera fortunata!” affermò, invitandola con una mano ad andarsene.
Deborah si alzò barcollante e comprese chi stava alle sue spalle. “Sono Raul e Gina. Li riconoscerei anche al buio. Le loro voci sono inconfondibili”.
Li osservò nella penombra della piazza. Non davano uno bello spettacolo soprattutto lei, che aveva un figlio e forse un marito.
Tuttavia nella confusione della festa nessuno ci faceva caso. Scosse il capo e tentò di comprendere, dove si trovava e quanto distava dalla macchina. Aveva smarrito il senso dell’orientamento.
“L’auto dove l’ho parcheggiata?” si domandò smarrita.
Doveva ritrovare quel locale, del quale aveva dimenticato il nome. C’era un chiosco di piadine nelle vicinanze ma ne aveva incontrati molti altri. Un senso di panico la prese per la gola e si sentii sopraffatta dalle voci dei venditori e delle persone, mentre la testa cominciò a girare. Avrebbe voluto urlare per scacciare quella sensazione ma il frastuono era troppo intollerabile, perché qualcuno potesse raccogliere la sua invocazione di aiuto.
Posò il candelabro per terra ai suoi piedi e strinse più forte il pacchetto col teschio. Cominciò a vedere ruotare vorticosamente il mondo intorno a lei. Non emise un grido e, se non fosse stato per un uomo che ebbe la prontezza di sostenerla, sarebbe sicuramente crollata a terra come un sacco di patate.
Per un attimo sugli occhi di Deborah calò il buio e per lunghi istanti non ricordò dov’era.
Si sentì trasportata in un altro mondo lontano nel tempo e nello spazio e si trovò immersa in una vegetazione rigogliosa del tutto sconosciuta. Non era la protagonista della scena ma una semplice osservatrice.
Le persone vestivano in modo buffo e c’erano rovine tutto intorno.
Grazie Franca.
La blogger Franca, http://lemieemozioniinimmaginieparole.wordpress.com , ha pensato bene di nominarmi per una nomination One Lovely Blog Award. Ovviamente la ringrazio di cuore, perché ritiene il mio blog piacevole e bello. Ne sono lusingato per l’alta opinione che ha di me.
Le regole da seguire sono semplici:
ringraziare chi ti ha nominato e l’ho appena fatto.
dire qualcosa di sé (sette come i giorni della settimana)
prendere il logo e metterlo nel post (non saprei dove trovarlo ma lo cercherò)
nominare altri 15 blog (giammai lo farò. Non prenderla male ma non l’ho mai fatto Non comincio con questo. Se devo nominare qualcuno, allora tutti i miei followers lo meritano per il semplice motivo che perdono tempo nel leggermi)
Dunque vediamo i giorni della settimana.
Venerdì è bello o brutto. Dipende dall’angolazione della visuale. Per me precede il sabato.
Sabato dovrebbe essere di riposo ma non so il perché è una giornata faticosa. Boh!
Domenica è dedicata alla persona. Non sto in pantofole davanti alla TV, salvo rarissime eccezioni che confermano la regola.
Lunedì finalmente si respira. Inizia una nuova settimana
Martedì Ottimo giorno per dedicarsi al giardino, se non piove o tira vento
Mercoledì la salita della settimana è terminata. Da questo momento è tutta discesa.
Giovedì la settimana è praticamente chiusa. É meglio non tirare le somme. Si rischia di vedere il risultato scritto in rosso.
Così ho finito e posso mettermi in pantofole a continuare a leggere il libro.
A presto blogger
La notte di San Giovanni – parte seconda
24 giugno del 2012. Deborah stava in spiaggia a Cattolica, stesa al sole. Intorno unicamente bambini urlanti e madri che fingevano di osservarli, mentre in realtà erano attente solo alle chiacchiere della vicina e all’avvistamento di qualche bel giovanotto da rimorchiare con discrezione.
La ragazza si rosolava davanti e dietro con invidiabile costanza ma avrebbe voluto avere un paio di tappi nelle orecchie per isolarsi dal quel vociare convulso. In altre condizioni avrebbe schiacciato un pisolino dopo la notte passata tra sogni e incubi dei quali aveva perso le visioni. Sbirciò l’ora dal grande orologio digitale del bagno. Segnava solo le undici.
“Uffa ancora un’oretta buona prima del rientro in albergo” si disse, sbuffando. Stava maturando l’idea di alzarsi e andarsene, quando udì con la tipica cadenza romagnola una voce maschile, che invitava la bella signora, vicina di ombrellone, per la sera.
Si girò di quel minimo per intravedere un giovane ragazzo abbronzato che, seduto tra lei e la donna, prospettava una serata diversa dal solito. Nessuno dei due notò la ragazza, che ascoltava interessata i loro discorsi.
“Vada a vedere il mercatino di San Giovanni! E’ davvero bello, ci sono tante bancarelle, tante cose interessanti” le diceva.
“Ma Giuseppe dove lo parcheggio?” gli rispose con tono di chi era più attratto di passare la sera tra le bancarelle che restarsene chiusa in albergo.
“Non si preoccupi” replicò il ragazzo. “Lo affidiamo a Monica…”.
“E chi sarebbe?” domandò ancor più invogliata dalla possibilità di essere libera dalle responsabilità di custodire il figlio.
“E’ mia sorella. D’estate fa la baby sitter per le villeggianti. Lo farà giocare e poi lo metterà a letto…”.
“A letto? Dove? In albergo?”
Una franca risata interruppe la sequenza di domande della donna.
“No, no! Abbiamo molte stanze nella nostra casa. Dormirà in una di quelle” disse il ragazzo.
Deborah si avvicinò alla coppia per meglio origliare il loro dialogo. Si chiese perché continuava ad ascoltarli. “Forse un qualcosa che rompe la monotonia di questa vacanza noiosa”
“Ma il pigiamino…” domandò timidamente la donna.
“Lo mette nello zainetto insieme a qualche ricambio. Non si sa mai”.
“Uhm! Interessante ma Giuseppe è un po’ diffidente con le persone che non conosce” riprese la signora, che aveva perso l’entusiasmo iniziale. “Potrebbe mettersi a piangere e cercarmi…”.
“Lei non conosce Monica…”
“In effetti non la conosco”.
“Mia sorella ha diciassette anni ma è bravissima coi bambini. Dopo cinque minuti l’adorano. Sa raccontare storie che lasciano di stucco anche noi adulti. É paziente e dolce. Si fidi” concluse il ragazzo.
“Ci penserò… ma dove dovremmo recarci stasera?” chiese la donna.
“Alla fiera di San Giovanni. É una serata magica e si divertirà. Glielo garantisco”.
La signora rimase in silenzio a meditare.
“Come ti chiami? Posso darti del tu, vero?” domandò guardandolo negli occhi.
“Raul come quello che canta ‘Romagna mia’” rispose col sorriso sulle labbra.
“Bene, Raul. Io sono Gina”.
“Che bel nome, Gina”.
La donna, già rossa di per sé, avvampò di calore. Quel complimento non glielo aveva fatto nessuno prima di questo momento, nemmeno Alberto, il compagno.
“Ma in albergo” proseguì timidamente.
“Nessun problema. Si veste ed esce. La vedranno al rientro” rispose pronto, mentre le sfiorò un braccio.
Deborah sorrise ma ascoltava con interesse tutto quello che si dicevano. L’appuntamento era alle diciotto. La località non era stata detta ma non importava. Li avrebbe seguiti con discrezione.
“Bene, bene! Una sera diversa dalla solita passeggiata per il lungomare Rasi Spinelli e con l’immancabile sosta alla gelateria Pimpi” sogghignò soddisfatta.
Cominciò a pensare cosa mettersi per questa serata decisamente inconsueta, che veniva a movimentare una vacanza che si stava consumando senza grandi divertimenti.
Deborah aveva venticinque anni. Alta più della media delle coetanee, giocava a pallacanestro nel ruolo di guardia con discreto successo. Quest’anno il campionato si era chiuso piuttosto tardi, qualche settimana prima per via della partecipazione alla fase finale dei playoff, terminati con la promozione. Una stagione lunga, snervante e importante per lei e la sua squadra. Adesso aveva la necessità di ricaricare le pile e scaricare la tensione, accumulata in otto mesi intensi e combattuti. Due settimane al mare per disintossicarsi, poi un lungo viaggio in luglio con Simone, il suo ragazzo, prima di riprendere gli allenamenti in agosto. L’attendevano mesi faticosi e stressanti per svariati motivi: avrebbe partecipato al campionato di èlite per la prima volta e avrebbe rappresentato la svolta decisiva per la sua carriera. Doveva trovarsi alla ripresa degli impegni agonistici concentrata psicologicamente e fisicamente in forma. Per questo aveva scelto questa vacanza solitaria e poco stimolante.
“Se riesco ad avere un buon minutaggio con discreti risultati, allora so di poter rimanere ai vertici. Altrimenti dovrò eseguire una scelta: o proseguire nei campionati minori oppure appendere la scarpette al chiodo” si era detta mentre preparava la valigia per il mare.
Questo era il pensiero che l’aveva tenuta in ansia e non l’aveva abbandonata neppure a Cattolica. Il coach le aveva garantito che sarebbe stata con loro nella nuova avventura della massima serie. Tuttavia l’idea di non riuscire a sfondare era sempre in sottofondo.
Questi dubbi furono relegati in un angolo, mentre ascoltava Gina e Raul a progettare l’incontro serale. “Chissà come finirà!” ragionò sorridente. La risposta la conosceva già, mentre un pizzico d’invidia fece capolino nella sua mente. “Non essere impertinente! Sei venuta per rilassarti e non a inseguire improbabili avventure amorose”.
La serata si preannunciava calda. Deborah scelse un abbigliamento leggero. Un paio di jeans bianchi e una camicetta di lino azzurra. Ai piedi al posto delle infradito avrebbe messo un paio di espadrillas di Chanel, comode ed eleganti al tempo stesso.
L’appuntamento era nel parcheggio del bagno 42 quasi di fronte al Piazzale Primo Maggio. La ragazza lo raggiunse qualche minuto prima delle diciotto. Vide arrivare Gina, che salì su un’auto sportiva, immaginando che al volante ci fosse Raul. C’era con loro un’altra coppia. La donna indossava un abitino corto, leggero e trasparente, che mostrava slip e reggiseno. Una capiente borsa bianca completava il tutto. Li seguì a debita distanza, cercando di non farsi seminare. Presero una strada che non conosceva e che saliva verso le colline alle spalle di Cattolica.
Lesse all’inizio di un gruppo di case un cartello ‘San Giovanni in Marignano’.
“Che posto è?” si domandò, dopo essere entrata nel paese.
C’era molta confusione e caos per le strade. Nonostante tutto riuscì a vedere che erano entrati in un parcheggio di un locale. Sistemata l’auto alla belle e meglio, si diresse a piedi verso il posto. Il nome era invitante ma non le sembrò nulla di eccezionale.
“Che faccio? Entro anch’io o li attenderò fuori?” si domandò, osservando intorno. Vide un chiosco di piadina. “Ecco dove aspetterò Gina”.
Ordinata una piadina con mozzarella e rucola e una birra, si sistemò su uno sgabello. Il tavolo era una botte. Mentre era in attesa che le portassero l’ordinazione, cominciò a ragionare per quale motivazione si era messa sulle tracce di questa donna.
“Curiosità? Oppure più banalmente per movimentare queste vacanze per nulla stimolanti?” Non lo sapeva ma adesso era qui e doveva attendere l’uscita delle due coppie per conoscere quali sarebbero state le loro prossime mosse. Non intendeva riprendere la strada verso il mare, perché la stimolava l’idea di fare l’investigatrice per una volta. La piadina era eccellente e ne ordinò una seconda, perché era consapevole che l’attesa poteva durare a lungo.
Le ombre della sera avvolgevano il paese e le luci della festa si accendevano. Notò che era aumentato il flusso delle persone. Riconobbe qualche viso noto, che aveva visto in spiaggia. Forse era questa la meta finale della coppia. Non riusciva a immaginare quale fosse lo scopo della festa. Si festeggiava San Giovanni ma non sapeva come. Era già buio, quando li notò uscire dal locale. Emise un sospiro di sollievo, perché avevano lasciato la macchina nel parcheggio. Dunque si sarebbero fermati qui.
“Finalmente” si disse, perché aveva dovuto allontanare diversi ragazzi che tentavano di abbordarla. Aveva consumato tre piadine e tre birre e si sentiva piena e leggermente euforica.
Li seguì in mezzo a una fiumana di gente e si ritrovò tra bancarelle e banchetti. La confusione era notevole. Gina e Raul sparirono dalla sua visuale.
Si immerse nel flusso della festa.
La notte di San Giovanni – parte prima
24 giugno 1923 a Lubaantum nel Belize, che a quei tempi era la colonia inglese dell’Honduras britannico, il sole illuminava e abbagliava, come una sfera incandescente, la natura selvaggia dell’America Centrale, mentre degli inglesi procedevano a fatica nella foresta pluviale, aprendosi il camino con l’aiuto degli indigeni. Da mesi percorrevano strade che adesso erano appena riconoscibili, si imbattevano in ruderi ricoperti dalla vegetazione, sfidavano i pericoli che si annidavano a ogni passo. Ognuno di loro aveva mire differenti.
L’esploratore inglese Albert Mitchell Hedges si aggirava inquieto nella foresta del Belize, dove un tempo era fiorita l’antica civiltà Maya. Era alla ricerca di qualcosa che per lui era di vitale importanza.
Aveva avuto modo di leggere dei codici antichi che a prima vista sembravano solo trattati religiosi, che descrivevano un lungo percorso di storia. Non era la prima volta che si imbatteva in queste teorie, perché nel 1913 era stato al seguito di Pancho Villa durante la rivoluzione messicana e aveva ascoltato dei racconti che sapevano di inverosimile. Li aveva annotati su un diario a memoria futura. Parlavano della fine del mondo al termine dell’età dell’oro, di tredici teschi di cristallo che i sacerdoti avevano disperso ai quattro angoli del mondo
“Quattro angoli del mondo?” aveva chiesto a vecchio sciamano privo di denti, col quale stava parlando.
“Sì” aveva risposto, elencando quattro luoghi che conosceva già: Messico, Yucatan, Belize e Guatemala.
Aveva fatto una bella risata ma aveva continuato ad ascoltarlo con attenzione.
“Ecco” disse inalando una pozione magica. “Questa è la profezia dei tredici teschi”.
Mitchell Hedges, che tutti chiamavano familiarmente ‘Mike’, si fece più attento.
“Cosa dice?” domandò, trattenendo a stento la curiosità.
“‘Quando i tredici teschi di cristallo saranno ritrovati e riuniti, inizierà un nuovo ciclo per il genere umano, un ciclo di grande conoscenza ed elevazione’” rispose gravemente.
“Ma dove li posso trovare?” domandò tra l’incredulo e il curioso.
Lo sciamano si stringe nelle spalle e chiuse gli occhi. Aveva finito di parlare. L’esploratore inglese, che allora era una spia al soldo di Sua Maestà, Giorgio V, si alzò e se ne andò. Però l’idea di recuperare i tredici teschi continuava a ronzargli nella testa. Rientrato a Londra l’anno successivo, aveva scoperto che al British Museum ne era esposto uno da diversi anni in una sala appartata. Era diventata per lui una specie di ossessione e finalmente nel 1923 con la benedizione del museo aveva potuto dare corpo al suo desiderio di partire alla ricerca degli altri dodici.
Lui con Lord Gann e Lady Richardson-Brown, sua compagna e finanziatrice, partì per il Belize per una serie di scavi a Lubaantum, la città maya delle pietre perdute, scoperta anni prima dallo stesso organizzatore.
Inquieto e poco attento a togliere il velo da questa città, abbandonata ormai da mille e duecento anni, si aggirava nella giungla spesso da solo, qualche volta accompagnato da una guida indigena. Aveva ascoltato con molto interesse nelle bettole di Belize i racconti degli antichi discendenti maya, che narravano di grotte piene di oro e gemme, di un mitico teschio di cristallo dai poteri mirabolanti. Molti ritenevano quelle narrazioni il frutto della fantasia di quegli uomini, che erano scomparsi misteriosamente come le loro città.
“>No” era solito dire Mike a chi dubitava di quei racconti. “Sono storie vere. Le ho ascoltate anche nel Messico, qualche anno fa. Quando ci sarà il nuovo re degli indiani, il sacerdote lo condurrà in una città segreta sotto la terra e lì avrà a disposizione immense quantità di oro e l’uso di un teschio di cristallo”.
I suoi ascoltatori ridevano e si burlavano di lui. Tuttavia le tradizioni orali dei vecchi discendenti dei Maya lo attiravano e in particolare quella sui poteri dei teschi di cristallo.
‘Il teschio è un simbolo molto potente. É il simulacro di ciò che è stato e di ciò che è, di ciò che sarà, della vita che ha contenuto e della morte che rappresenta‘ erano le parole che aveva ascoltato più volte.
Mike sapeva che era un simbolismo antico, nel quale si era imbattuto più volte. Ogni cultura gli attribuiva una valenza. Per i maya, aveva appreso, rappresentavano un ciclo di baktun del lungo computo e la scelta del numero non era causale: tredici erano i cicli per arrivare al 12 dicembre del 2012, quando tutto sarebbe terminato per originare un nuovo ordinamento. Ma Mike sapeva che la leggenda maya ci avvertiva in maniera drammatica: il nuovo ciclo avrà inizio soltanto quando gli uomini saranno ‘sufficientemente evoluti e integri moralmente‘. Allora, ricordava di aver ascoltato dal vecchio sciamano, saremmo pronti a ricevere la formula per salvarci. Una formula potente, che sarebbe contenuta proprio nei tredici teschi. Questi dovevano essere riuniti in un solo posto alla presenza del re degli indiani e del sommo sacerdote.
Mike era rimasto stregato da queste parole, perché indicava che l’umanità doveva essere ancora una volta chiamata a compiere un salto di qualità ed elevarsi moralmente.
Era conscio di essere una contraddizione, perché di certo la sua vita non era stata irreprensibile, anzi molti suoi atti andavano nel verso opposto. Il passato non lo preoccupava, adesso era teso a rintracciare quel teschio, che alcuni indigeni avevano detto di aver osservato tra le rovine di Labuuntum. Aveva tentato in tutti modi di ottenere la localizzazione esatta senza successo. I suoi compagni non capivano perché si aggirasse freneticamente tra quelle rovine senza rispettare i protocolli della spedizione, che avevano stabilito prima di partire. I reperti trovati diventavano di proprietà della finanziatrice, Lady Richardson-Brown. Ogni ritrovamento doveva essere documentato. Ogni ricerca doveva essere condotta in coppia.
Però Mike agiva sempre da solo e questo era costante motivo d’attrito col resto del gruppo.
Deborah si svegliò madida di sudore con negli occhi quella visione che non riusciva a collocare né temporalmente né geograficamente.
“É stato un brutto sogno” si disse, tentando di riaddormentarsi.
Il sonno era stato interrotto brutalmente da quella visione, della quale non ricordava nulla a parte un uomo longilineo e ossuto, che parlava una lingua straniera.
“Oggi è il giorno di San Giovanni” ripeté con la voce impastata. “ora prova a riaddormentarti. E’ ancora notte”.
Si girò e il sonno riprese vuoto e senza sogni.
Rieccomi
Non sono sparito ma gravi e improrogabili problemi familiari mi hanno tenuto lontano dal blog sia fisicamente sia psicologicamente.
Da oggi spero che tutte le problematiche siano alle mie spalle e possa gradualmente riprendere possesso della mia mente e del mio tempo.
Passerò dai vostri blog per leggere l’arretrato e commentarlo, almeno questa è la mia intenzione. Infine riprenderò quello che ho abbozzato ed è rimasto lì in attesa di tempi migliori.
A presto
Avviso aii naviganti 2.0 – secondo.
Sono a singhiozzo sul blog cercando di leggere, commentare e rispondere ai vostri post. Però non riesco a produrre nulla di mio. Diverse cose impostate ma restate a mezz’aria in attesa di essere completate.
Mentre scrivo, ci sono ma non è detto che fra mezz’ora ci possa essere. Quindi mi manca tempo e concentrazione.
Previsioni? Come quelle meteo di questa estate. Dubbie e improbabili.
A presto
Il sacrificio dell’Arte. Rewind
Enigma – parte prima
Socrate, il re dei troll
Sette sei quattro
“Devi trovare l’equilibrio tra i doveri e la tua libertà. Devi dedicare un po’ del tuo tempo a quello che ti appaga, che e solo tu. Devi staccare la spina per un po’ … Sempre sotto tensione ti mette a rischio di un corto circuito. Finirai bruciata come si legge sui giornali”.
Camminavo a testa bassa, gli occhi fissi a terra, solo qualche sguardo buttato in avanti e subito ritratto, mentre ascoltavo queste parole. Rimasi in silenzio senza rispondere. Sapevo che aveva ragione
“Non puoi continuare a vivere la tua vita in funzione degli altri! Vuoi deciderti una buona volta a mettere in primo piano la tua persona. Per una volta assegnati il ruolo principale di questa commedia che chiamiamo vita. Guarda mi verrebbe proprio coglia di dire ‘unico protagonista’ e gli altri … ‘tutti affanculo‘”.
Ascoltavo Anna, senza interromperla, a tratti sorridevo, perfino, dentro di me. Diceva parole sante ma non facevano parte dei miei pensieri.
“Sei strano, sai, Andrea. Sei proprio un tipo singolare. Severo ed egoista con te stesso, disponibile e sempre possibilista con gli altri. Sei quasi maniacale e ossessivo in quanto a rispetto verso gli altri, nel significato più ampio che può essere attribuito al termine. Sei riflessivo ma anche istintivo, con impennate di imprevedibilità fuori dal comune.”
Eravamo quasi arrivati alla fine del viale alberato, a una decina di passi da un incrocio, dove, girando a sinistra dopo poche centinaia di metri, saremmo giunti in piazza Saturno, la piccola tonda, come la chiamo. E’ un cerchio perfetto, delimitato da colorate facciate di palazzi con balconi e finestre che sputano fiori, una serie di negozietti, perlopiù di artigiani, un paio di gallerie d’arte e un bar.
“Io sono preoccupata per te Andrea. Vorrei, per una volta, che tu mi garantissi che penserai seriamente al tuo stato fisico, alla tua ‘salute di vita’, perché…”
Presi la mano di Anna e la interruppi. Dovevo mettere fine a quella paternale.
“Vieni, vieni … ti faccio assaggiare una delizia, per la quale le tue papille gustative mi eleggeranno a loro guida spirituale, poi… vorrei farti vedere un quadro”.
Rise e scosse il capo. Aveva compreso tutto.
“Sei un eterno Peter Pan!” aggiunse, dandogli un buffetto sulla guancia.
“Perché?” le risposi sorridendo senza lasciarle la mano.
Anna cercò invano di divincolarsi dalla stretta di Andrea.
“Mi fai male” disse con tono piagnucoloso, senza che in effetti lo volesse fare.
“Ma no! Tu mi vuoi scappare!”
“Magari! Ti conosco da una vita e, anche volendo, non potrei! Ma dimmi cosa vuoi farmi gustare e vedere?” domandò curiosa. Sapeva che ero imprevedibilmente originale in certe occasione e questa sera lo ero.
“Vieni con me e potrai giudicare”.
Anna conosceva Andrea da quando i ricordi erano diventati nitidi. Avevano percorso insieme tutte le tappe scolastiche dall’asilo nido al Liceo. Sempre insieme come fratello e sorella. La ragazza ricordava come all’asilo lui la difendeva dalle prepotenze degli altri bambini, perché piangeva sempre e voleva la mamma. Avevano stretto un sodalizio fatto di complicità senza parole. Era sufficiente uno sguardo per stabilire il contatto, trasmettersi il messaggio o di aiuto o di approvazione. La madre di Anna non aveva visto di buon occhio l’amicizia di questo bambino più robusto rispetto i coetanei, un po’ manesco e pronto alla baruffa. Poi vedendolo come coccolava la figlia e con quanta delicatezza la trattava, cambiò idea anche se le rimaneva qualche dubbio sul fatto che i due bambini vivessero in simbiosi. Con gli anni si rassegnò vedendo che era una vera amicizia.
“Dove mi stai portando?” gli chiese la ragazza un po’ spazientita dalle arie di cospiratore di Andrea.
“Ancora qualche passo e poi tutto sarà chiaro” risposi sicuro.
Eravamo usciti dalla piazza tonda, infilando un vicolo stretto e perennemente in penombra, anche quando il sole era alto a mezzogiorno. Lo chiamavano via ma per noi era il Vicoletto. Il vero nome lo ignoravamo come tanti altri della nostra piccola città. Ogni via, ogni angolo aveva il proprio nick. Così come c’era la piazza tonda, esistevano il vicoletto, l’angolo dei quattro gatti, la via degli spiriti, il viale del tramonto e il vicolo degli innamorati. Li avevamo battezzati così, quando ancora bambini giravamo curiosi per la città e non ci importava conoscere i loro veri nomi.
“Dove stiamo andando” gli chiese curiosa e stanca di questa misteriosa destinazione.
Si fermò decisa a non muoversi dal Vicoletto, finché non avesse rivelato l’obiettivo di quella camminata. Andrea strattonò invano la sua mano ma resistette anche se aveva provato un dolore lancinante al polso. Lo avevo compreso dalla smorfia dolorosa del suo viso. Mi ero spaventato, perché non era da me essere violento, soprattutto con lei.
“Anna, non fare la bambina” l’ammonì bonario. “Fidati e seguimi. Vedrai la sorpresa”.
“Lo sai, Andrea che le sorprese non mi piacciono molto” rispose piccata.
“Sei unica e per questo mi affascini!” replicai divertito, mentre tentai di farla spostare da dove si era fermata.
“Non riesci a commuovermi”.
“C’è solo una donna al mondo che non ama le sorprese” dissi col tono più serio che serbavo per le occasioni speciali.
Una breve risata interruppe quel divertente dialogo.
“E va bene, ti seguo” concluse scuotendo la chioma riccioluta.
“Dobbiamo arrivare alla piazza quadra. Contenta ora?” le risposi.
Anna gli scoccò un bacio di ringraziamento. Riprese a camminare al mio fianco. Non dovevo più trascinarla con la forza.
“Perché cosa c’è di interessante nella piazza quadra?” domandò Anna.
“C’è il sette”.
“Il sette? Ma lì c’è il nulla. Nemmeno un albero. Solo asfalto” replicò dubbiosa.
“Fidati. C’è il sette!”
La ragazza scosse la testa, mentre giravano per via del ragno.
“Ma non è la direzione giusta” protestò energicamente, fermandosi nuovamente.
“Dobbiamo vedere il sette!” risposi infastidito.
“Ma lo hai detto tu. Nella piazza quadra non c’è” disse, riprendendo il cammino.
“Abbi fede. Lo vedrai il sette”.
Arrivati nella piazzetta dei pantaloni, le mostrai uno strano oggetto che assomigliava vagamente a un sette rovesciato.
“Ecco!” le dissi.
“Mi prendi per il culo?” replicò, guardandomi fisso negli occhi.
“No. Non me lo permetterei mai” risposi con calma, ridendo perché aveva compreso che non era il sette che cercavamo.
Le presi la mano e cominciai a correre. Avevo poco tempo. Appena due ore.
“Perché corriamo come due ragazzini?” mi domandò con fiato grosso.
“Risparmia le parole. Ti spiegherò tutto, quando siamo arrivati”.
Sbucati finalmente in piazza quadra, stanchi, accaldati e sudati per la folle corsa, la condussi al civico 6. Una bella targa in ottone ‘Osteria delle sette chiese‘.
“Vedi ancora il sette. E’ un numero magico come le pleiadi e tanto altro” le dissi soddisfatto.
“Tutto qui?” replicò delusa.
“No. Ora diamo la caccia al sei”.
“Ma è qui, davanti a noi” rispose basita.
“No. Quello è un semplice numero”.
La ragazza non mi capiva.
«Cosa stiamo cercando?» mi domandò, mentre rifiatava.
Infilato il vicolo delle miserie, sbucarono nuovamente nella piazza tonda.
“Ma siamo al punto partenza!” esclamò sorpresa.
“Abbiamo in pugno il sei!” replicai.
“Non sono scema!” replicò infastidita.
“Nessuno lo può affermare. Anzi hai un’intelligenza superiore alla media” aggiunsi, baciandola.
“Lasciami, traditore!”
“E no! Non ti baratterei nemmeno per il sei!”
“E perché?” mi domandò con gli occhi che brillavano.
“Per la smorfia il sei è l’organo genitale femminile …”.
“Sei uno screanzato!” mi disse interrompendomi.
“Non ci credi? Consulta la Smorfia e vedrai”.
“E va bene ma mi hai detto che non mi baratteresti col sei …”
“Appunto. Ti ritengo superiore” ribattei sorridente. “Per la cabala, per un gioco di numeri, bereshit corrisponde alla parola Dio. E’ una specie di scioglilingua che ti risparmio”.
Anna mi guardava come se fossi improvvisamente impazzito. Prima una corsa perdifiato, poi questa affermazione su una parola misteriosa aveva avuto il potere di destabilizzarla.
Si sedettero su una panchina sotto un olmo secolare.
“Per la numerologia il sei è il cammino della vita”.
“Interessante è tutto questo. Ma continuo a rimanere ottusa” disse con un sorriso poco convinto..
“Il tuo nome è palindromo …”.
“Calma, calma. Cosa significa questo?” chiese curiosa e interessata.
“Può essere letto in entrambi i sensi” risposi con un bel sorriso, mentre le tenevo la mano con delicatezza.
“Non ci avevo mai fatto caso” replicò mortificata. “Ma non ci arrivo lo stesso”.
“Usando l’alfabeto numerico Anna corrisponde a 1+5=6 due volte”.
“Ma quante cose sai” mi disse ammirata.
“Però. Ora viene il difficile” affermai con una punta di apprensione.
“Perché?” mi domandò.
“Dobbiamo andare in cerca del quattro”.
“Non ho capito questa ricerca, che mi sta facendo girare in tondo come questa piazza” replicò indispettita.
“L’osteria delle sette chiese ti hanno permesso di gustare qualcosa fuori del comune. La piazza tonda ci ha fatto stare bene, in pace con noi stessi. Ma è il quadro, il famoso quattro che manca all’appello” aggiunsi con tono mortificato.
“Quale quadro?”
“Quello che ti ho promesso all’inizio di questa avventura sconclusionata. Non ricordi?”
“Ma sì, che me l’hai detto ma sono passate quattro ore da quando giriamo in tondo per le vie e le piazze di questa città”.
“Quattro ore?” le chiese recuperando la speranza di concludere il tour.
“Non vedi cosa segna l’orologio tondo? Sono le 18 e siamo partiti alle 14. Quindi quattro ore tonde tonde”.
“Sei un tesoro, Anna” le disse stampandole un bacio sulle labbra.
“Però non mi sposi, Andrea”.
“Che importa! Ci vogliamo bene come fratello e sorella”.
“Beh! Io preferirei che fosse di altro tipo … L’incesto non mi va” concluse amaramente.
“Ci sono!” gridai alzandomi. “Torniamo alla piazza quadra. 4 lati uguali”.