Enigma – parte quarta

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Il messaggio era dunque fasullo. Mi domando il motivo. “Perché Alice sta giocando a rimpiattino con me?” É inutile cercare delle risposte che non ci sono.

“Signora” esordisco. “Sto cercando una compagna di Università, con la quale ho fatto esattamente dodici mesi fa una vacanza nella sua città natale, Palermo”.

La donna annuisce come a incitarmi a proseguire. Respiro a fondo.

Uffa le solite facce schifate. Se non vi piace quello che scrivo e come lo scrivo, potete togliere il disturbo. Anzi cambiare aria e blog. Mi sento indispettita.

Conto fino a dieci, sperando che mi dica qualcosa. Non arriva nulla. Allora proseguo.

“Poi da quel momento si è volatizzata. Numero di cellulare, che risponde nel vuoto. Indirizzo inesistente. In realtà esiste ma non corrisponde al ricordo della sua casa. Yossuf mi dice che via della Ginestra è sempre stato un viottolo di campagna. Eppure ricordo bene una strada elegante con tante case basse con giardino. Non posso credere di essermi sognato tutto questo. Lei mi può aiutare?”

La proprietaria sorride e mi fa cenno di seguirla in giardino. Ci sediamo sotto uno splendido limone in fiore.

“Non credo che la tua amica ti abbia dato quell’indirizzo. Sono poche le zone di case basse con giardino nell’area più urbana, anzi direi che quasi non esistono. Qualcosa c’è oltre l’autostrada per Mazara del Vallo. Forse in via Bernini. Di sicuro in via della Ginestra no!”

“Eppure Alice parlava di via della Ginestra. Ne sono certa” esclamo concitata. “Guardi questo sms che ho ricevuto poche ore fa”. Le mostro il messaggio.

“Sì. Senza dubbio cita questa via ma, mi creda, qualcuno si sta divertendo con lei”.

“Però è il numero che mi ha dato Alice” sostengo con vigore la mia tesi.

“Sarà come dice lei ma Alice potrebbe aver perso il telefono oppure le è stato rubato”.

“Perché scegliere proprio il mio numero?” chiedo con forza.

“Ha detto che ha provato a telefonare a questo numero?”

“Sì”.

“Allora le ha mandato questo messaggio per vedere chi è” concluse la donna.

“Ma perché indicare una via che in qualche modo mi è nota? Come può conoscere gli indirizzi fasulli di Alice?”

“Non saprei. Forse è casuale questo aspetto”.

Non ne sono convinta. Qualcosa mi sfugge ma per intuito il messaggio indica che mi conosce e sa che quell’indirizzo è un modo per attirarmi in una trappola oppure.

“Oppure è una richiesta di aiuto che però non so come decifrare” mi dico concludendo la riflessione. Qualcosa non torna e vorrei che tornasse tutto.

“Lei non mi sembra giovanissima, anche se lo spirito lo è” comincio facendo un largo giro per arrivare alla questione che mi sta a cuore.

“Grazie. Ho superato i sessanta. Comunque ha colto nel segno” mi risponde con un bel sorriso.

“Quindi potrebbe aver sentito parlare dell’Istituto per orfanelli e bambini abbandonati, quando era piccola. Se esiste ancora, mi piacerebbe visitarlo”. Non voglio sbilanciarmi più di tanto.

“Oh! Certo! É esistito realmente ma ora al suo posto c’è un grosso condominio” dice, socchiudendo gli occhi.

Fingo stupore per questa informazione che in qualche modo conoscevo.

“Mi hanno detto che era stato trasformato in un Istituto per bambini. Un asilo nido, insomma”.

“No. Il vecchio istituto è stato chiuso. Credo prima della guerra. Ed è rimasto così, finché non è crollato a pezzi. Demolito e ricostruito, ora è un grosso condominio popolare” conclude, scuotendo il capo.

Sono in un vicolo cieco. Un messaggio fantasma e un istituto che non esiste più. Ho messo in campo quelle che erano le mie conoscenze, senza ricavarci un ragno dal buco.

Adesso devo riflettere seriamente. Non che …

Perché quella signora mi guarda storta? Cosa dice? Che sto girando intorno al tavolo affermando che devo ragionare sugli eventi? Uffa! ma non ha capito che sto narrando un’avventura? No? Allora dormiva. Cosa dice? Che era sveglia e vigile? Non mi pare. Ma adesso non mi faccia perdere il filo del ragionamento.

“Sì, devo fermarmi e mettere insieme i pezzi del puzzle” mi dico, mentre restiamo in silenzio.

“Ma quell’Istituto per orfani in che via si trovava?” le domando.

“In via degli Scalini otto” mi risponde serafica, quasi intuendo quale sarà la prossima domanda.

“Via degli Scalini otto?” le chiedo, spalancando i miei occhi blu.

“Sì, perché?”

“Eppure Yossuf mi dice che non esiste!” esclamo con voce sorpresa.

Un sorriso compare sul viso della donna. Non riesco a comprenderne i motivi ma taccio e ascolto quello che intende dire.

“La via non esiste più, come gli edifici che la contornavano. Spazzati via tutti. Demoliti e trasformati. L’area è stata ridisegnata come le vie”.

“Ma quando?” la incalzo.

“Non so ma prima che nascessi. Quanti anni prima non lo so. Forse nell’immediato dopoguerra”.

“Ma allora come fa a conoscere questo istituto?” le domando stupita.

Un bel sorriso incornicia quel viso che mostra i segni del tempo.

“Allora le spiego” comincia, mentre io mi faccio attenta.

L’enigma non è ancora sciolto.

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Avviso

Su Caffè letterario ho cominciato a pubblicare un mini racconto, Enigna (prima parte), che è arrivato alla terza parte.  (la seconda è qui) . Ho pensato di proseguire con la quarta, la quinta e la sesta conclusiva puntata. su questo blog per non allungare troppo i tempi di lettura. Quindi sabato 1 novembre potrete leggere la quarta puntata. Poi a seguire le ultime due.
Buona lettura.

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La notte di San Giovanni – parte ottava

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“Li deve tenere sempre uniti” cominciò a parlare.
“Perché?” domandò Deborah, attenta alle parole della donna.
“Non porti delle domande inutili. Questi due oggetti sono nati insieme e insieme devono stare”.
La ragazza rimase in silenzio, mentre percepiva che la festa stava andando verso il culmine.
“Stanotte si celebra la festa di San Giovanni Battista. Un festa esoterica che coinvolge i sensi. Il sole è al suo culmine e da domani inizia a discendere fino al punto più basso rappresentato dal 27 dicembre, il giorno di San Giovanni Apostolo. Tra i due Giovanni esiste un legame, oltre che temporale, anche umano”.
Deborah non riusciva a seguire la narrazione dell’anziana signora. Si chiedeva cosa legassero queste parole alla festa senza riuscire a trovarne una ragione.
Deborah si trovò proiettata su un piroscafo in mezzo al mare. Vedeva solo acqua, ovunque si girasse. Scese sottocoperta, seguendo Anna, che con il suo teschio di cristallo, custodito gelosamente in una bisaccia. La ragazza non vedeva l’ora di sbarcare a Portsmouth. Durante la traversata da Belize all’Inghilterra più di una volta temette di non vedere la terraferma. Erano incappati in un paio di burrasche niente male. Il cielo livido e gonfio di pioggia si confondeva col mare spumeggiante, mentre l’imbarcazione sembrava salire e scendere come se fosse mossa da una mano invisibile.
Anna soffriva di mal di mare ed era verde per i conati di vomito che la squassavano. Però non lasciava per un istante il dono degli indios. Deborah era affascinata dal quel teschio lucente, che pareva dotato di luce vita propria.
Dopo lunghi giorni, che non finivano mai, udì la ragazza gridare ‘L’isola di Wright!’. Immaginò che avesse avvistato una terra emersa che avrebbe messo fine a quel lunghissimo viaggio. Era così. Dopo un giorno riuscì a calpestare qualcosa che non era pavimento del piroscafo. Era smarrita in una città portuale del tutto sconosciuta. C’era la frenesia e il clima tipico delle città di mare. Seguì come un’ombra Anna. “Guai a perderla di vista” si disse Deborah. Non passò nemmeno un giorno che fu di nuovo in viaggio.
Mike noleggiò una macchina per farsi condurre a Londra. La figlia era impaziente di conferire col direttore del British Museum e chiedergli un parere sul reperto.
“Fa attenzione, Anna” le disse il padre.
“Perché?”
“Il teschio possiede, secondo uno sciamano messicano, uno sguardo ipnotico e dei poteri soprannaturali”.
Deborah rabbrividì, perché aveva avuto delle strane sensazioni. ‘Avrei fatto bene a buttarlo. Anzi a regalarlo così com’era a Alex’ rifletté, mentre la voce senza variazioni della donna continuava a parlare dei due Giovanni.
Si ritrovò in una Londra che non conosceva, molto diversa da quella vista l’anno precedente. Qualche automobile, molto differenti da quelle che era abituata a vedere, e carrozze con pariglie di cavalli. Anche le persone erano curiosamente simili a certe immagini di fine ottocento. Si chiese dove fosse capitata.
Immersa in questi pensieri, seguiva la coppia, mentre ascoltava la voce di Mike, che narrava un’antica leggenda Maya.
“Secondo questa tesi, come mi ha raccontato uno sciamano messicano, nel mondo esistono tredici teschi di cristallo. Tredici è un numero magico per loro. I teschi misurano tutti tredici centimetri e sono stati foggiati da un unico blocco di quarzo. Sono a grandezza naturale e racchiudono misteriose formule sul cui significato se ne sono perse le tracce”.
“Se ne esistono tredici, allora ne dobbiamo scoprire altri dodici” disse Anna, mentre varcavano la soglia del museo.
Mike non rispose subito. Erano arrivati al British Museum. L’idea era quella di fare periziare il teschio, che la ragazza teneva stretto al petto dentro una bisaccia di tela grezza.
Mike, che conosceva il direttore, ottenne di farsi ricevere senza troppe formalità e senza dover perorare la propria causa.
“Ciao, Mike. Di ritorno dallo Yucatan?” gli domando James Powell, il direttore.
“Sì, Jim. Un posto meraviglioso e ricco di reperti maya straordinari. Lady Richardson-Brown ne ha delle casse piene”.
“Bene. Spero che ce ne faccia dono di qualcuno” disse il direttore poco convinto. Conosceva quanto la Lady fosse attaccata al denaro e quei reperti valevano svariate sterline d’oro sul mercato dell’antiquariato. Aveva saputo per vie indirette, che la spedizione era stata più costosa del previsto. Quindi dubitava che si mostrasse generosa nei confronti del museo.
“Non credo che siate venuti solo per farmi una visita di cortesia” aggiunse James, che aveva intuito che ci fosse ben altro oltre rivedere un vecchio amico.
Una secca risata di Mike anticipò la sua risposta.
“Sei un vecchio volpone! Non ti sfugge nulla. Sì, sono venuto per far periziare questo oggetto”.
Poi girandosi verso Anna, suggerì silenziosamente di mostrare il reperto.
Deborah ascoltava senza perdere una parola di quel dialogo. Lo comprendeva poco ma non le sfuggiva nessun dettaglio.
Con calma e una certa titubanza la figlia di Mitchell-Hedges tolse dalla bisaccia il teschio di cristallo e lo mostrò al direttore.
“E’ una copia?” domandò il direttore.
“Perché?” rispose sorpreso Mike. Era sicuro che il suo fosse autentico. Era a conoscenza che il museo ne possedeva uno, anche se non l’aveva mai visto di persona. Era intenzionato a confrontarlo col loro.
“L’originale è nella stanza dei reperti strani e inquietanti”
“Reperti strani e inquietanti? Non ero a conoscenza di questa sezione nascosta e misteriosa del tuo museo”.
“Sì, devi sapere che ci sono oggetti che sembrano dotati di luce o vita propria e non riescono a legare con gli altri. Così abbiamo creato una sezione del museo, dove vengono collocati e li mostriamo raramente al pubblico. Per alcuni sono visibili solo agli studiosi” spiegò con dovizia il direttore.
“Come mai lo escludete alla visione dei visitatori?”
Mike non era stupito che il reperto non fosse visibile a tutti, conoscendone la storia. Però finse meraviglia alle parole del direttore.
“Sono successe cose strane e inquietanti, quando era nella sezione dei reperti delle civiltà precolombiane. Aveva ottenuto uno straordinario successo. Sembrava essere la stella cometa dell’intera sezione. Poi sono cominciate eventi poco spiegabili e allarmanti. Qualcuno del pubblico è caduto in catalessi, altri si sono fatti dei tagli inspiegabili. Un visitatore è finito in clinica psichiatrica. Così per evitare guai e richieste di risarcimento, abbiamo preferito toglierlo dalla sala e confinarlo tra gli oggetti da non mostrare al pubblico ma solo agli studiosi”.
“Ma il teschio ha continuato a produrre problemi?” domandò Mike, che trovava conferma sulla pericolosità dell’oggetto.
“Problemi?” esclamò James, spalancando gli occhi.
“Sì, mi chiedevo se, una volta relegato in una sala chiusa a ricoprirsi di polvere, avesse continuato a creare grattacapi a chi la frequentava”.
“I guardiani sono terrorizzati, quando entrano per le pulizie. Uno di loro è caduto da una scala, mentre stava cambiando una lampada. Per poco non ci rimetteva l’osso del collo”.
“Ho capito che è meglio nasconderlo in una cassa” disse Mike per nulla scosso dalle informazioni ricevute.
“Io farei attenzione, perché non è detto che non possa costituire un pericolo per voi e per chi frequenta la vostra casa” replicò James.
“Possiamo vederlo?”
Il direttore ci pensò un attimo prima di rispondere.
“Perché siete così curiosi di vederlo?”
“Ci piacerebbe verificare se è uguale a questo, che un capo indio ci ha donato” rispose Mike.
“Bene. Quello che è esposto qui, al British, si muove all’interno della teca dove è custodito. I suoi occhi fanno una tale impressione che gli addetti alle pulizie hanno esplicitamente richiesto che venga coperto, mentre loro sono dentro” soggiunse il direttore nella speranza di far cambiare idea all’amico e a sua figlia.
“Suggestioni” affermò Mike, che si alzò per seguire l’amico.
Deborah si riscosse dalla visione ed era pentita di aver comprato quel teschio. Se erano autentiche le affermazioni che aveva ascoltato, doveva preoccuparsi e non poco.
L’anziana signora continuava la sua narrazione che aveva al centro i due San Giovanni.
“San Giovanni Battista è definito il Giovanni che piange, mentre l’Evangelista il Giovanni che ride. Nelle credenze popolari il primo è la misericordia di Dio che impersona il discendente, il secondo la lode di Dio, alla quale viene attribuito l’ascendente. Esattamente il significato del 24 giugno e 27 dicembre”.
Deborah annuì senza memorizzare quanto stava ascoltando.
La sua mente vide una stanza d’albergo.

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La notte di San Giovanni – parte settima

Dal web
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Deborah si riscosse. Qualcosa di straordinario stava avvenendo in lei. Spaziava tra il passato e il presente. Aveva la capacità di vedere nel buio come se fosse giorno. Poteva seguire le persone come se fosse un fantasma, senza essere notata. Tutto questo le metteva le vertigini.
“É tutto merito del teschio oppure è solo suggestione?” si disse, restando immobile sulla panchina.
“Non prendo la pillola” disse Gina, nuda sul letto. “Ho paura”.
“Nessun timore. Sarà un rapporto protetto” rispose Raul, ridendo delle preoccupazioni della compagna.
La donna era già pentita di essersi lasciata coinvolgere in questa avventura sessuale e tutto l’ardore che era cresciuto fino a quel momento sembrava essere svanito tutto d’un colpo.
“Rilassati” le suggerì il ragazzo, che l’accarezzava con molta maestria.
A queste parole la donna si irrigidì ancor di più. Voleva trovare un appiglio per chiudere la serata e tornare in albergo a Cattolica. Subito il suo pensiero corse al figlio.
“Ma Giuseppe” chiese Gina, simulando apprensione.
“Se ti fa piacere, telefoniamo a mia sorella per rassicurarti”.
Raul, senza aspettare risposta, prese il telefono dal comodino e la chiamò, mettendolo in viva voce, affinché potesse ascoltare.
“Monica. Giuseppe dov’è?”
“É già a letto che dorme beato” rispose la ragazza. “Perché?”
“Oh! Niente. Gina voleva dargli la buona notte”.
“Se volete, lo sveglio. É un bimbo dolcissimo. Abbiamo giocato fino a poco fa, finché non è caduto dalla sonno. Non ne ho trovato uno uguale a lui”.
“Che facciamo?” chiese rivolgendosi alla compagna.
“Lasciamolo dormire, quell’angioletto” rispose Gina. Le parole ascoltate le avevano tolto la scusa per tornare. Si rassegnò a passare la notte qui.
“Notte, Monica. A domani” e chiuse la conversazione.
Raul riprese a esplorare il corpo della donna, che lentamente si sciolse.
Una lunga notte li aspettava.
Deborah vide sfumare le immagini dei due amanti e rifletté sulla sua situazione. Si guardò intorno e vide il banco con la signora che le aveva venduto il teschio. Ebbe un brivido. “Vedo solo io quel banco?” Si alzò e si diresse verso di lei.
“Già pentita dell’acquisto?” le chiese la donna, di cui Deborah faceva fatica a vederne i lineamenti. Le sembrava che avesse i capelli bianchi ma nell’incerta luce della lampada a olio questi cambiavano in continuazione colore.
“No” rispose la ragazza che stringeva in una mano l’oggetto acquistato e nell’altra il candelabro del vecchio.
“Vedo che hai trovato anche il candelabro da usare nel rituale col teschio” soggiunse con tono interrogativo.
“Dice questo?” replicò Deborah mostrando quello che teneva nella sinistra.
“Sì. É proprio quello che mi hanno rubato lo scorso anno. Dove l’ha trovato?”
La ragazza d’istinto lo posò sul banco, che era semivuoto.
“Me l’ha dato un vecchio ubriacone ma io non lo volevo” disse per giustificare la presenza dell’oggetto tra le sue mani.
“Può riprenderlo tranquillamente. É suo” disse e glielo allungò.
“Ma mi manda segnali negativi. Non lo voglio. É suo ed è giusto che torni a lei” le rispose.
“No, no! Posso assicurarle che l’ha adottata e non riuscirà a distaccarsene” rispose, costringendola a prenderlo con lei.
“Ma di quale rituale parla?” chiese curiosa la ragazza.
“Non lo conosce?”
“No!”
La donna coprì il banchetto con un telo bianco, dopo avere spostato la lucerna a terra.
“Venga, qui accanto a me. Le racconterò qualcosa” le disse, invitandola nella sieda vicina alla sua.
Deborah girò intorno al banco e si sistemò sulla sieda. Si rassicurò, perché non era virtuale.
“Deve sapere…” e le parole sfumarono in immagini inquietanti.
Era tornata in quella foresta intricata e verde in compagnia di quella coppia che si chiamava Anna e Mike. Il campo era in fermento, senza che lei ne comprendesse i motivi.
“Quanto tempo è passato dall’ultima visita?” si domandò, cercando di captare qualche frase del gruppo.
“Vieni, Anna. Andiamo a rendere omaggio al capo indiano. Gli portiamo gli ultimi regali: vestiti e medicinali”.
I due si misero in cammino, seguiti come un’ombra da Deborah. Arrivati a San Pedro,senza esitazione si recarono dal capo di quella piccola comunità.
“Buona giornata, grande Balan Chac” esordì Mike, dando enfasi alle parole.
“Ho sentito dire che tra non molto lascerete Lubaantum e le sue rovine” replicò il capo indio.
“Sì. Ha udito fine, perché ha sentito bene. Dopodomani ci imbarchiamo per l’Inghilterra”.
“Perché?”
“Abbiamo nostalgia del fumo di Londra, delle sue nebbie e le sue piogge”.
Un’allegra risata uscì dalla bocca di Balan Chac.
“Qui trovate sempre sole e caldo” disse l’indio.
“Hai ragione ma dobbiamo rientrare. Il nostro tempo è scaduto. Come ricordo della nostra amicizia, le dono questi vestiti e questi medicinali. Forse non ci rivedremo più ma conserverò per sempre nella mente e nel cuore la vostra ospitalità” disse Mike, estraendoli dallo zaino.
Il capo maya si alzò senza proferire parola e uscì dalla stanza.
“Vedrai che ti donerà il teschio” disse il padre alla ragazza.
“Lo pensi?”
“Aspetta e potrai toccare con mano, quello che ho detto”.
Non aveva finito di pronunciare queste ultime parole, che Balan Chac rientrò nella stanza stringendo il teschio di cristallo.
“Questo è per lei, bellissima fanciulla! Ogni volta che lo osserverà, penserà a noi e potremo parlarci” e le consegnò l’oggetto che teneva in mano.
“Oh!” Fu l’unica parola uscita dalla bocca Anna, alla quale luccicavano gli occhi per la contentezza.
Deborah sentì la donna aggiungere “Questa è la storia del teschio di cristallo”.
Però lei non aveva ascoltato nulla, perché era immersa nel suo fantasticare.
“Le insegnerò a usare candelabro e teschio” disse la vecchia signora.

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Enigma – parte terza

Correte, correte. Annuncio vobis che la terza parte di Enigma è pronto per essere letto e commentato su Caffè Letterario.
Buona lettura

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La notte di San Giovanni – parte sesta

Dal web
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Deborah si trovò immersa in un ambiente che non conosceva ma che le appariva familiare. Stava dietro un uomo, alto allampanato e con la pipa spenta in bocca. Vestiva in maniera strana. Erano indumenti che le ricordavano certe fotografie ingiallite di inizio novecento. Poco distante stava una ragazza, molto giovane a giudicarla dal viso, con una gonna lunga dalla quale spuntavano degli stivali di cuoio.
“Non mi sembra l’abbigliamento adatto a quest’ambiente” si disse, osservando queste due figure.
“Questo era il mio regalo per il tuo compleanno, Anna” affermò l’uomo.
“Dunque la ragazza si chiama Anna” pensò, mentre si muoveva silenziosa alle spalle della coppia.
“Oh! Mike! É splendido!” esclamò entusiasta Anna.
“Ora conosco anche il nome dell’uomo” considerò Deborah.
“Però”.
“Ho capito. Lo dobbiamo dare a Milady, quell’arpia di donna, perché è la finanziatrice della spedizione”.
“Però possiamo evitarlo”.
“Come?” domandò Anna.
“Lo doniamo al capo degli indiani, perché lo custodisca per noi” rispose Mitchell Hedges.
“Ma poi se lo tengono” replicò amareggiata Anna.
“Vedrai che, quando ce ne andiamo, ce lo restituiranno”.
“Come fai a essere così sicuro?”
“Fidati di me, Anna” le disse con tono rassicurante.
“Mi fido” rispose la ragazza per nulla convinta.
Mike estrasse dalla giubba uno zaino ripiegato, dove infilò il teschio.
Deborah si interrogò per quali motivi gli indigeni avrebbero reso il teschio alla coppia. Si sforzò ma non riuscì a trovare un nesso tra il dono e la sua restituzione. Scosse il capo e continuò a seguirli senza essere notata. Era curiosa di conoscere come sarebbe finita.
Tornati all’accampamento, Mike disse che lui e Anna si sarebbero recati a San Pedro dal capo degli indiani per portare loro qualche vestito e dei medicinali, come avevano promesso qualche giorno prima.
Riempito lo zainetto con qualche indumento e alcuni medicinali, si incamminarono su un sentiero a malapena visibile, che in un paio d’ore li avrebbe condotti a San Pedro.
Arrivati nel misero villaggio, composto da poche case in pietra e molte di paglia e fango, andarono direttamente dal capo indiano per consegnargli il teschio.
“Salve, Balan Chac! Che gli dei siano con te” esordì Mike, salutandolo con deferenza. “Porto con me vestiario e medicine e questo dono”.
L’uomo estrasse dallo zaino qualche straccio colorato, un paio di scatole e il teschio di cristallo, che brillò sinistramente sotto il sole di mezzogiorno.
Intorno a Mitchell-Hedges e sua figlia si radunò in fretta tutto il villaggio. Non appena videro il teschio, si misero a pregarlo. Il capo maya disse che era il Dio a cui ricorrevano per essere guariti o per chiedere di morire e mostrò di gradire molto il regalo. Lo sollevò come un trofeo di guerra, mentre gli abitanti si prostravano per terra in segno di deferenza.
Balan Chac li invitò in casa a prendere una bevanda, come ringraziamento per i doni ricevuti.
“Ben volentieri ci sediamo accanto a te, grande e saggio capo” l’adulò Mike, trascinando dentro anche Anna.
“Dove l’avete trovato?” domandò il maya.
“Esattamente dove doveva essere. Come avevi detto tu” rispose calmo Mitchell-Hedges, mentre sorseggiava una bevanda forte e calda.
Balan Chac annuì col capo in segno di approvazione.
“Subito abbiamo pensato che doveva tornare tra le mani di chi ne era il legittimo padrone”.
“É molto generoso e giusto il grande capo bianco” disse l’indio.
Mike non replicò ma si limitò a un sorriso.
“Chi è questa graziosa fanciulla?” chiese Balan Chac.
“Questa è Anna, mia figlia, che compie proprio oggi il suo diciassettesimo anno. É stata lei a ritrovare il teschio e a decidere di donarlo a voi, anziché trattenerlo per sé”.
Il capo indiano sorrise, mostrando una bocca sdentata e nera, per gli effetti della masticazione delle foglie di coca.
Soddisfatti Mike e Anna fecero ritorno all’accampamento, senza dire nulla del dono fatto.
“Vedrai che alla nostra partenza Balan Chac ti omaggerà del teschio” le disse, mentre entravano nella loro tenda. Delle grida alterate si levarono all’improvviso.
Deborah si riscosse dal torpore nel quale era caduta. Erano state delle voci note a interrompere quello strano sogno a occhi aperti. Si voltò verso Alex ma lui era sparito senza dire una parola. La ragazza si sentiva frastornata. Troppi misteri inspiegabili si erano succeduti senza che lei avesse fatto qualcosa.
Si stava alzando, quando udì Gina, che diceva. “Non mi va di fare all’amore qui sul prato”.
“Dove?” domandò Raul, che le aveva sollevato il miniabito.
“Non c’è in questo buco di paese una pensione?” disse la donna, allontanando la mano che si stava insinuando tra le cosce.
“Sì. Non è molto distante da qui”.
“Bene. Andiamoci. La notte è ancora lunga”. Si alzò, sistemandosi l’abito, mentre passavano accanto a Deborah, senza notarla.
Lei avrebbe voluto seguirli ma come per uno strano incantesimo rimase immobile sulla panchina, mentre stringeva forte al petto il teschio, come se fosse un bambino. Li vide allontanarsi nel buio ma aveva l’esatta percezione, dove fossero diretti. Non ne avvertiva la necessità: era come se la sua vista si fosse acuita per effetto del contatto con l’oggetto che abbracciava.
“Avete una stanza libera per questa notte?” domandò Raul all’uomo alla reception.
“Sì. Quando partite?”
“Domani mattina presto” rispose pronto il ragazzo.
“Senza bagaglio?” domandò inutilmente, sollevando un sopracciglio per sottolineare di aver compreso la natura della notte.
Raul stava per ridere a questo quesito superfluo, mentre Gina in un sussulto di vergogna avrebbe voluto andarsene e tornarsene in albergo a Cattolica.
“No” replicò secco, mentre prendeva la chiave della stanza.
Abbracciò la donna e la condusse su per le scale. Tutti gli alberghi sono uguali.

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PULCHERRIMA

Vi invito a leggere questo breve racconto di Nunzia.
Non voglio anticipare nulla.
Per me è bellissimo.

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La notte di San Giovanni – parte quinta

Dal web - Mezapègul
Dal web – Mezapègul
Deborah rimase a bocca aperta per la sorpresa. Ricordava perfettamente sia la vecchia signora, che il contenuto del banco. Aveva toccato molti oggetti, osservandoli alla luce fioca di una lucerna a olio. Diversamente dagli altri, questo non era illuminato dalla luce elettrica. Era un dettaglio che non aveva notato prima ma adesso le sembrava singolare.
Alex vide l’espressione basita della ragazza e cominciò a cambiare opinione. “Forse mi sono fatto un’opinione frettolosa su di lei” rifletté, guardando lo spazio vuoto alle spalle di Deborah. Si domandò il perché lì ci fosse un buco non occupato da nessuno. Aveva assistito poco prima a un litigio violento per utilizzare una postazione più favorevole e quella lo era veramente.
Deborah si guardò intorno alla ricerca del tavolino della cartomante ma anche questo sembrava essersi volatilizzato. A questo punto avvertiva una gran confusione e un senso di smarrimento.
“Stavo girando tra le bancarelle, quando ho notato questo teschio. Sembrava che mi chiamasse. Poi un vecchio ubriacone ha voluto darmi a tutti i costi questo oggetto ai miei piedi, mentre una cartomante mi leggeva i tarocchi. Lo so, che ti sei fatto un’opinione non positiva di me ma questa è la verità”.
Alex le strinse le mani.
“Ti credo, ti credo” le disse, fissandola negli occhi. “In effetti è strano che questa postazione sia rimasta vuota. Però è ugualmente singolare che non l’abbia notato durante il mio giro. Ci sono passato due volte e non l’ho mai visto occupato da nessuno”.
Deborah controllò nel portafoglio e vide che mancavano proprio cinquanta euro.
“Dunque non ho solo pensato di aver pagato questa somma”.
Osservò nuovamente la borsa e rintracciò una ricevuta.
‘Ricevo per la vendita di un teschio di cristallo la somma di 50 euro. In fede’ e uno sgorbio come firma.
“Dunque non mi sono sognata!” esclamò, riacquistando la padronanza delle proprie azioni. Almeno questa era la prova che non aveva perso il senso della vita.
Alex stava per replicare, quando qualcuno reclamò la restituzione della sedia.
“Ecco. La può riprendere” disse in malo modo Deborah, alzandosi.
Il ragazzo si guardò intorno e scorse poco distante una panchina, che in quel momento era completamente libera.
“Ci mettiamo là. Possiamo chiacchierare senza essere disturbati, senza che qualcuno interrompa i nostri discorsi”.
Si sedettero ai margini della fiera di San Giovanni in una zona relativamente fuori dal flusso della folla. Una festa esoterica e pagana che coinvolgeva tutto il paese per diversi giorni. Un lampione semi coperto dalla folta vegetazione di un albero illuminava malamente il posto con una luce giallastra.
Alex le domandò se conosceva la storia della festa di San Giovanni.
“No” e scosse il capo per rafforzare la negazione.
“Devi sapere che in Romagna si racconta che esisteva un folletto, di nome Mazapègul. Non chiedermi cosa vuol dire. Ma aspetta la fine del racconto”.
Alex cominciò a raccontare come questo inafferrabile ometto, tutto rosso, facesse ogni sorta di scherzi alle ragazze, che li accettavano di buon grado oppure si ribellavano. “Quando non accettavano le attenzioni di Mazapègul, allora per loro cominciavano i guai” aggiunse ridendo. Poi narrò come si divertisse coi crini delle cavalle o bevesse il vino delle botti nelle cantine.
“Ma con la festa cosa centra?” domandò Deborah.
Alex si mise a ridire, quasi non si fermava, mentre la ragazza lo osservava indispettita.
“Hai finito?” gli chiese di malumore.
“Sì!”
“Perché la mia domanda ha suscitato tutta questa ilarità?”
“Non lo so ma forse pensando a quel che combina il Mazapègul alla belle ragazze, mi viene da ridire”.
“D’accordo. Sto Mezzapelato” cominciò Deborah, alterandosi nella voce.
“No. Si chiama Mezapègul. Ama le belle ragazze” cominciò Alex.
“E va bene! Quel coso con la berretta rossa” lo interruppe la ragazza.
“Nô sen qui dla bretta rossa” esclamò il ragazzo.
“Cosa?”
“Noi siamo quelli della berretta rossa! Questo era il nostro grido di guerra, quando eravamo bambini per imitare le gesta del nostro beniamino”.
“Possiamo tornare indietro e riprendere il discorso in modo serio?” domandò Deborah, fissandolo negli occhi.
“D’accordo. Parliamo del tuo teschio. Conosci la storia?” le chiese con fare serio.
“No” disse Deborah, scuotendo il capo.
“Veramente non ne hai mai sentito parlare?”
“No. Lo giuro. É la prima volta che ne vedo uno e mi ha attirato come una calamita”.
“Vedi, quando si parla di questi teschi, i misteri sembrano che nascano come funghi.” disse Alex con tono da cospiratore.
“Oh! mio dio, inizio a essere pentita di averlo acquistato. Quasi quasi sto pensando di disfarmene”.
“Ma no, che dici! Basta non farsi suggestionare troppo dai vari racconti. In fondo le storie sono molto intriganti”,
“Mah, forse hai ragione tu! Ormai che ci siamo, racconta” replicò Deborah, sistemandosi bene sulla panchina.
“Pare che il numero esatto di quelli ritrovati siano due o tre”.
“Come? Non c’è nemmeno la certezza di quanti ne esistono?” chiese la ragazza, stringendo al petto il teschio.
“No. Di sicuro ce ne sono due quello del British Museum e quello che custodisce Anna Mitchell-Hedges, la figlia di un esploratore inglese di inizio novecento”.
Sentendo quel nome, Deborah ebbe la percezione di avere già ascoltato quel nome, mentre la mente si spostò in un’altra dimensione.

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La notte di San Giovanni – parte quarta

Dal web
Dal web
1 gennaio 1924. Era il giorno del suo diciassettesimo compleanno e la giovane Anna, figlia adottiva di Mitchell Hedges, aveva raggiunto il padre nella foresta pluviale del Belize qualche giorno prima di Natale. La madre non avrebbe voluto che si recasse là ma il padre fu irremovibile.
“Sarà un compleanno splendido e intrigante per Anna, che ricorderà per tutta la vita” le disse sicuro per convincerla.
Lei era al settimo cielo per la gioia e per lo spirito di avventura che aleggiava intorno alla spedizione iniziata sei mesi prima. Era un modo inconsueto per festeggiare l’anno nuovo e i suoi diciassette anni. Adorava quei genitori adottivi che l’avevano strappata al grigiore di un orfanotrofio. Però era il padre per il quale stravedeva e che avrebbe seguito anche all’inferno.
Si aggirò con lui tra le rovine della città perduta di Lubaantun, parola Maya che significa ‘città delle pietre cadute’. Tutto quello che vedeva per lei era una novità e non riusciva ad apprezzare il valore di quegli edifici. Osservò con gli occhi curiosi di una fanciulla, che stava sbocciando, quello che il padre le indicava e le spiegava.
Mike aveva scoperto tra le rovine di un edificio ridotto a un ammasso di pietre un teschio di cristallo. Lo nascose e non comunicò nulla agli altri componenti della spedizione. Voleva che fosse Anna a ritrovarlo il giorno del suo compleanno.
Così il primo giorno del nuovo anno Mike e sua figlia si sfilarono dall’accampamento, ancora in preda alla festa della notte appena passata, per andare da soli nella foresta.
Anna aveva una figura minuta dagli occhi mobili e vivaci. Amava l’avventura e non si spaventava facilmente. Quella mattina seguì il padre, anche se avrebbe voluto dormire ancora.
“Oggi è il tuo diciassettesimo compleanno e lo dobbiamo festeggiare nel migliore dei modi” le disse Mike, mentre sicuro si dirigeva verso un cumulo di rovine, che un tempo era stata una postazione sacra, dove si compivano riti anche cruenti. Gli indigeni, lontani discendenti dei Maya, gli avevano raccontato che sull’altare, che era sopravvissuto allo sfacelo, la notte del plenilunio veniva sacrificata una giovane donna ancora vergine.
Mentre si avvicinavano al posto, il padre le raccontava queste storie crudeli e sanguinarie, accendendo la curiosità della ragazza, per nulla impressionata da questi racconti.
“Guarda” le disse Mike, indicando un punto non troppo distante da loro. “Mi sembra di notare qualcosa che brilla”.
Anna osservò con attenzione nella direzione dell’indicazione. Era un altare maya. Una lastra ricoperta di muschio verde, sostenuta da quattro massi. La vegetazione la nascondeva agli occhi dei meno esperti ma Mike sapeva cogliere cosa si celasse sotto quel rigoglioso fogliame.
“Non vedo nulla che luccica” disse la ragazza, avvicinandosi.
“Osserva meglio” insistette il padre, scostando alcune foglie di felci.
“É vero! C’è qualcosa” esclamò inginocchiandosi. “Sembra… sembra un blocco di cristallo”. Allungò le mani verso l’oggetto che mandava bagliori.
“Fa attenzione! Potrebbe esserci un serpente o uno scorpione velenoso là sotto” l’ammonì Mike. “Usa il bastone per allontanare eventuali sorprese sgradite”.
Anna con cautela, muovendo il bastone, scoprì tra le rovine dell’altare un Teschio di cristallo.
“É magnifico!” Disse dopo averlo ripulito dalla terra e dal verde della vegetazione. “Ha anche una mandibola mobile!”
Notò che brillava in modo sinistro.
“Cosa ne facciamo?”
“Le regole della spedizione sono semplici. Tutto quello che viene ritrovata va documentato e consegnato a Lady Richardson-Brown, che è la finanziatrice. Ma vogliamo rispettarle oppure?”
“No. Questo teschio è troppo bello perché finisca come bottino nelle borse capienti di Milady”.
“Allora cosa facciamo?” gli domandò Anna.
Su questa domanda Deborah riprese i sensi. Si sentiva girare la testa e aveva il respiro affannato. La vista era ancora annebbiata. Percepiva delle mani sconosciute che le cingevano le spalle. Le immagini che fino a quel momento erano nitide nella sua mente, adesso sfumavano e diventavano indistinte fino a scomparire nel nulla. La testa pareva svuotata come le energie che la sostenevano.
“Venga, si sieda un momento” disse l’uomo con tono gentile e premuroso.
Si appoggiò a lui come se fosse un sostegno al quale doveva aggrapparsi. Non riusciva a comprendere dove si trovasse. “Sono… oppure è solo un sogno?” si disse, senza trovare una risposta sicura.
Avvertì sotto di sé una sedia che era comparsa come per magia. Non comprendeva come fosse finita lì. Era un particolare che non le interessava. Adesso doveva avere chiara la nozione del tempo e dello spazio. Doveva conoscere in quale località si trovava. Pareva aver smarrito la memoria.
“Dove sono?” chiese titubante, cercando di calmare il respiro affannoso. Si guardò intorno senza riconoscere né luogo né persone. Le pareva vivere un incubo, mentre la risposta non arrivava.
“Va meglio?”
“Sì,” rispose stordita “credo di sì”.
Però la domanda continuava a pulsare nella mente. “Perché non mi ha risposto? Perché non mi dice dove siamo? É forse un luogo segreto oppure?”
Reputò inutile riformulare la domanda, anche se non riusciva a delimitare il sogno dalla realtà.
Da qualche parte era comparso un bicchiere d’acqua fresca che l’aiutò a riaversi del tutto. La sensazione di vuoto si andava riempendo di suoni e di voci, di volti e di immagini. Intorno a lei s’era formato un piccolo assembramento di persone, tra le quali scorse il viso di Gina. “Dunque anche loro hanno assistito alla mia perdita di coscienza. Chissà cosa hanno pensato”.
Trascorsi pochi istanti rimase sola con un uomo che non conosceva. Gli altri erano sciamati nuovamente verso le bancarelle. La festa continuava e quello svenimento era stato un diversivo nella serata. La memoria riacquistava la percezione dove era e con essa stava sparendo la sensazione di angoscia che le aveva offuscato la mente.
Il primo pensiero di Deborah fu per il teschio. Temendo si fosse rovinato nel trambusto, aprii il sacchetto e la confezione di fortuna: sembrava intatto. Tirò un sospiro di sollievo. Ai suoi piedi vide l’oggetto che il vecchio ubriacone a tutti i costi aveva voluto donarle. Non le importava se si fosse rotto o scheggiato, perché le mandava impulsi negativi. Anzi imputò la sua presenza come la causa della sua perdita di conoscenza.
“Oggetto singolare” valutò il salvatore, mentre sbirciava nella borsa. Tutti i pensieri della ragazza erano rivolti al teschio tanto che si era scordata di lui.
Lo fissò, tentando di mettere a fuoco l’immagine. Il buio non favoriva di certo la visione, che appariva sfocata. Per la prima volta l’osservò con attenzione con tutte le cautele del caso. Occhi scuri, pelle olivastra, non si notavano con nitidezza, mentre il fisico asciutto era facilmente riconoscibile. “Però! Niente male! Che ci fa una persona del genere in questo buco di paese?” si disse, mentre sorseggiava l’acqua.
“Sì, molto” rispose Deborah, mentre si asciugava le labbra con un fazzoletto. “La signora che me l’ha venduto sostiene sia di origini Maya”.
“Addirittura? E lei ci crede?”
“Per la verità, no!” rispose ridendo. Fece una piccola pausa prima di riprendere a parlare.
“Certo, se fosse vero, sarebbero i cinquanta euro meglio spesi della mia vita”.
Un sorriso le illuminò il volto. L’uomo la guardò tra lo stupito e l’incredulo. Un’aria di commiserazione si stampò sulle sue labbra. Si domandò chi venderebbe per così poco un oggetto prezioso e antico. Assunse l’atteggiamento di chi finge di credere alle panzane. Di nuovo si pose la domanda se la ragazza fosse sana di mente o un’abile commediante.
Deborah non si accorse dello sguardo di compatimento che lui aveva sul viso, rimasto nell’ombra.
“Che sciocca! Non l’ho nemmeno ringraziata per l’aiuto! Senza di lei sarei caduta per terra come un sacco di patate”.
Lui sorrise, mentre diceva “Si figuri! L’ho vista in difficoltà e senza pensarci troppo sono intervenuto. L’importante è che lei si sia ripresa”.
“Che ne direbbe di darci del tu? Deborah” e allungò la mano verso di lui, mentre con la sinistra continuava a reggere il pesante souvenir.
“Alex” rispose in modo sbrigativo, stringendola.
“Posso farti una domanda?”
“Dimmi”
“L’oggetto dove l’hai trovato? É un teschio, mi pare. Non ho visto niente del genere sulle bancarelle. Eppure le ho visitate tutte”.
“Proprio dietro di me c’è un banchetto con oggetti etnici”. Si voltò e si accorse che non c’era più.

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