La notte di San Giovanni – parte quattordicesima

dal web
dal web

Londra, ottobre 1943. La grande paura stava passando e lentamente la città riprendeva il solito volto abituale, anche se le ferite dei bombardamenti nazisti erano ben visibili. La guerra infuriava feroce ma adesso per fortuna era lontana da Londra. Le cicatrici erano il frutto della battaglia sui cieli inglesi di tre anni prima. Nel 1940 malgrado gli incessanti attacchi dell’aviazione tedesca, il morale della popolazione londinese non aveva subito quel collasso in cui aveva sperato il comando di Hitler. La vita, nel limite del possibile, aveva mantenuto il suo ritmo normale, mentre i bambini e in genere tutte le persone non indispensabili all’industria e alla difesa, venivano fatte sfollare nelle località di campagna. Un teatro londinese, Wenevgr closed – Noi non chiudiamo mai, non interruppe le rappresentazioni nemmeno sotto i più duri bombardamenti. Anche l’attività della celebre casa di aste, Sothbey’s, non cessò di battere collezioni e quadri, come faceva dal 11 marzo 1744, quando Baker e Leigh, i soci fondatori, misero all’asta molte migliaia di libri importanti e pregiati di sir John Stanley di Alderley. Le bombe non li avevano fermati. Si erano solo trasferiti nei locali sotterranei di Wellington Street, la loro sede dal 1917, per essere al riparo dai bombardamenti. Molti londinesi, provati dalle privazioni imposte dalla guerra, vendevano in quei locali i gioielli di famiglia per sopravvivere e comprare al mercato nero i generi che erano introvabili abitualmente. Chi gestiva questo commercio illegale, si arricchiva e si poteva permettere di recarsi alle aste di Sothbey’s, dove acquistava quadri, arredi e gioielli a buon mercato. Riciclava in questa maniera i cospicui guadagni, ottenuti illecitamente, in oggetti che diventavano legalmente di loro proprietà.

In quei giorni di ottobre, climaticamente instabile, il catalogo metteva in vendita un reperto maya con base d’asta di quattrocento sterline insieme ad altri pezzi che il figlio di un antiquario londinese, Sidney Burney, voleva alienare e trasformare in denaro liquido.

Nel catalogo, dedicato all’asta del 15 ottobre, era stato elencato al punto 54 un oggetto insolito. ‘Una superba scultura di un teschio umano a grandezza naturale di cristallo, di lunghezza 174 millimetri’, che era così descritta ‘la mascella inferiore è separata, i dettagli sono resi correttamente e secondo Carver ha le orbite, arcate zigomatiche e mastoide del tutto simili alle loro forme naturali glabellari-occipitale‘. Una notazione avvertiva i possibili acquirenti che l’oggetto era già stato il tema di un interessante articolo in Man nel luglio 1936, al quale rimandava per maggiori dettagli. Nonostante tutte queste informazioni era passato quasi inosservato. Non aveva suscitato grandi entusiasmi o grosse aspettative di rialzo. Alcuni analisti di Sothbey’s giuravano che sarebbe rimasto invenduto. Troppo particolare e troppo enigmatico era l’oggetto per accendere il desiderio di qualche facoltoso collezionista, determinato a conquistarlo con rilanci generosi. Qualcuno però sperava proprio che la freddezza, con la quale il reperto era stato accolto, fosse confermata il giorno dell’asta.

L’uomo, alto e magro, completamente calvo, con un pipa spenta in bocca si avviò nel pomeriggio del 15 ottobre verso l’ingresso della casa di aste. Depose un curioso copricapo e un cappotto ormai liso in una stanza spoglia e fredda, che pomposamente chiamavano guardaroba. Un’anziana signora gli consegnò uno scontrino numerato per poter ritirare all’uscita i due indumenti. Scese le scale malamente illuminate e si sedette in fondo alla sala. La battuta era già iniziata da oltre una mezz’ora ed erano arrivati a battere l’oggetto protocollato col numero trenta. L’uomo distrattamente osservava il catalogo, stampato senza troppe pretese, e lo rigirava inquieto tra le mani. Uno dopo l’altro i pezzi venivano battuti. Alcuni ottenevano un discreto successo, altri venivano ritirati, perché nessun acquirente si era fatto avanti.

Deborah entrò nella sala qualche istante prima che il reperto numero 54 venisse esposto. Rimase stupita riconoscendo, sia pure invecchiato di una quindicina di anni, quel Mike, che aveva seguito nella foresta pluviale del Belize e poi durante la traversata dell’oceano Atlantico qualche anno dopo. Cercò con lo sguardo anche la figlia Anna, senza trovarla. La sedia di fianco all’uomo era libera e si sedette lì. Si domandò, perché si trovava in una città devastata dalle bombe ad assistere a un’asta. ‘Perché Mike è qui? Cosa deve comprare per attirare la mia presenza?’ Era sorpresa perché era piombata in uno spazio temporale del passato, che lei conoscevo solo per aver letto qualcosa tempo addietro.

Era immersa in queste riflessioni, quando udì il banditore che chiamava il pezzo numerato come cinquantaquattro. L’uomo parve rianimarsi dall’abulia che lo aveva contraddistinto fino a quel momento.

Ecco una magnifica opera dei Maya, che potrebbe essere datato all’incirca nell’ottavo secolo dopo Cristo”. Il banditore magnificava l’oggetto, osservando con sguardo indagatore il pubblico. ‘Pare che non interessi proprio a nessuno’ ammise sconsolato.

Questo reperto parte da un prezzo base di quattrocento sterline ma la proprietà ha deciso all’ultimo istante di abbassarne il prezzo a trecento cinquanta per favorire la battaglia del rilancio a qualche estimatore”. Il banditore aveva conclusa la sua requisitoria tra l’indifferenza generale.

Il teschio, custodito in una teca di vetro trasparente, cominciò il suo giro fra il pubblico senza suscitare nessun interesse.

Quando passò davanti a Deborah, lei provò un brivido. Sembrava assomigliare come una goccia d’acqua a quello che aveva comprato per cinquanta euro.

Bene diamo inizio all’asta” e picchiò in modo energico col martelletto di legno sul tavolo con la speranza di risvegliare l’attenzione del pubblico.

Lo sguardo acuto dell’uomo notò una mano alzata.

Vedo una prima offerta. Trecento sessanta sterline. Nessuno offre di più per questo splendido oggetto?” urlò per far uscire dal torpore gli astanti.

Deborah sussultò per quella voce tonante. Senza sforzo apparente comprendeva quel che diceva il banditore. Si stupì, perché sapeva che il suo inglese era molto balbettante nonostante tutti gli sforzi per migliorarlo.

Mike di fianco a lei con flemma alzò la mano per rilanciare. Sperava che l’altro contendente non alzasse la mano dopo di lui.

Bene. Quel signore in fondo alla sala offre trecento settanta sterline. Nessun altro desidera entrare nella competizione?”

La ragazza si ricordò che quasi vent’anni prima Mike e sua figlia Anna avevano trovato un teschio che assomigliava moltissimo a quello esposto nella sala. ‘Che sia il loro? Chissà come è finito nelle mani di quel antiquario londinese, che ora se ne vuole disfare’.

Nessun altro alzò la mano per rilanciare e dopo diversi minuti di silenzio, il banditore fece udire la sua voce.

Possibile che nessuno di voi abbia il minimo interesse verso questo splendido oggetto. Suvvia non siate timidi! Farete un ottimo affare nell’acquisto”.

Nonostante le suppliche e il nuovo pellegrinaggio della teca l’uomo dovette pronunciare la fatidica frase. ‘Trecento settanta e uno’ e fece una nuova pausa nella speranza che qualcuno cambiasse idea. “Trecento settanta e due”. Una ulteriore interruzione più lunga della precedente scandì il tempo, prima del fatidico “Trecento settanta e tre. Aggiudicato” e un violento colpo di martello mise fine alla vendita.

Complimenti al quel coraggioso signore seduto in fondo alla sala! Ha fatto un ottimo affare”.

Dopo un piccolo intervallo il banditore, deluso per l’esito di questa vendita, riprese con l’oggetto successivo.

Deborah osservò Mike, che era rimasto impassibile fino a quel momento. Vide un signore in una uniforme piuttosto malmessa avvicinarsi a Mike per fargli firmare qualcosa. La sua attenzione era concentrata tutta su di lui. Lo vide alzarsi con flemma inglese e uscire dalla sala. Salite le scale, bussò a una porta, dove c’erano gli uffici amministrativi. Spiegò senza fronzoli il motivo che l’aveva condotto fin lì. Mostrò un documento di identità. Estrasse da un portafoglio logoro un fascio di banconote. Firmò una ricevuta e aspettò con calma che gli portassero il teschio di cristallo imballato per il trasporto.

Col prezioso oggetto ben stretto al corpo raggiunse Bolton Street, dove in un modesto appartamento la figlia Anna, febbricitante, lo aspettava con ansia.

Sei tu, Mike?” chiese sentendo aprire la porta d’ingresso.

Sì, Anna” rispose Mike, che si tolse il cappotto per appenderlo dietro l’uscio.

Ce l’hai?” domandò senza celare l’ansia per una risposta positiva.

Sì”.

Un respiro di sollievo uscì dalla bocca della donna, che si rilassò sul cuscino.

Qualche mese più tardi Mike scrisse al fratello per annunciargli che era rientrato in possesso del teschio di cristallo.

Londra 22 dicembre 1943

Caro James,

ti devo dare una grandiosa notizia ma forse l’avrai già letta sui giornali. Sono riuscito finalmente a tornare in possesso del teschio di cristallo, che apparteneva alla collezione di Sydney Burney. Lo sai come è finito lì.

L’ho riscattata per 400 sterline il 15 ottobre scorso. Ho temuto di non riuscire a raggiungere l’obiettivo ma Dio e il nostro Re Giorgio VI mi hanno aiutato nell’operazione.

Adesso fa bella mostra nel nostro modesto salotto.

La potrai ammirare alla prima venuta a Londra per salutarci.

Con devozione

Mike

Deborah aveva appena finito di leggere la missiva che Mike stava scrivendo al fratello, quando si ritrovò seduta accanto a Alex sulla panchina. Ormai non ci faceva più caso a dove si trovava. La sua confusione era totale e a nulla valevano gli sforzi per rimettere ordine nei suoi pensieri.

Ci aveva rinunciato per il momento.

0

La notte di San Giovanni – parte tredicesima

dak web
dak web

Allora ti è piaciuto lo zucchero filato?” chiese Mazapègul, attorcigliandole una ciocca di capelli, che penzolava sulla spalla.

Sì. Però i capelli lasciali stare o domani mattina dovrò faticare a districare i nodi” rispose Deborah che teneva uno stecco di legno pulito in mano.

Ah! Ah! Lo sai che so essere dispettoso?”

Certo! Ma ho i capelli che sono già ricci per natura!”

Sotto ogni riccio si annida un capriccio!” fa il folletto perfettamente a suo agio nella confusione. Una fragorosa risata gli uscì dalla bocca. La prese sottobraccio e la condusse dove la calca era maggiore.

La ragazza era frastornata e faticava a mettere insieme i frammenti degli eventi che stava vivendo. Le pareva essere su piani diversi sia spaziali sia temporali. Salti nel passato, salti nel futuro e un presente che pareva fatato. Si domandò se era realtà oppure una gran fantasia partorita dalla sua mente. Con questi pensieri seguì Mazapègul come un automa. Se l’avessero lasciata lì, non sarebbe stata in grado di chiedere informazioni a nessuno. ‘Cosa dovrei domandare, visto che non so nemmeno dove sono?’

Vedi, quello là è un gran bugiardo!” esclamo il folletto, mentre la folla sembrava crescere a dismisura in un tripudio di suoni.

Chi?” domandò Deborah, che non ci capiva nulla in quella confusione.

Quello là!” Mazapègul indicò una persona, confusa e annegata in mezzo a centinaia di persone che si accalcavano attorno a un chiosco.

La ragazza aguzzò la vista senza apprezzabili risultati. ‘Ma chi sarebbe la persona? Là ci saranno decine di uomini e donne, che non ho mai visto’.

Ma non vedo nessun bugiardo” ammise sottovoce Deborah.

Per forza! Non li sai riconoscere” disse come per burlarsi di lei.

Hai ragione. Però se mi insegni, forse ci riesco”.

Mazapègul rise sonoramente, perché la ragazza era sveglia. Le aveva teso un tranello ma lei l’aveva schivato.

Sarà per la prossima volta. Ora andiamoci a divertire” fa il folletto, strattonandola con delicatezza.

Sono impaziente! Perché fino a questo momento ci siamo annoiati?”

Mazapègul non rispose, guidandola là dove la calca delle persone era più fitta. Sgomitando senza timori, pestando i piedi a chi non voleva spostarsi, raggiunsero al limitare di una pedana. Qui ballerini giovani e vecchi volteggiavano al suono di un’orchestra non troppo numerosa. La musica sovrastava le parole della cantante, che tentava senza successo di far pervenire la sua voce.

Vieni” disse il folletto.

Dove?” chiese allarmata Deborah.

A ballare”.

Ma non so ballare questi balli”.

Mazapègul la guardò sorpreso ma senza ascoltare ragioni la trascinò al centro della pedana.

Seguimi nelle mosse. É facile”

La ragazza lo osservò basita. ‘Seguirlo?’ si disse, mentre il folletto cominciava a dimenarsi a tempo di musica. Rimase ferma, cercò di capire come muoversi. Provò a imitare le sue movenze ma tutto gli appariva incongruo. Secondo il suo istinto doveva ancheggiare verso destra ma lui lo faceva nel senso opposto. Doveva volteggiare ma rimaneva ferma, immobile, rischiando di cadere. Aveva in testa una gran confusione.

Come ballerina sei scarsa” la schernì Mazapegul.

Ma che razza di ballo è questo?” gli rispose Deborah.

Non conosci la mazurka?”

Roba esotica, immagino!”

No! Comune in tutta la Romagna! Ah! Ah!”

La ragazza rimase interdetta. ‘Mai sentito una danza con quel nome’ rifletté mentre il folletto la trascinava con sé.

Si girò e quasi morì dallo spavento, perché vide a pochi centimetri dal suo naso delle strane figura che camminavano su oggetti ancor più singolari. Sembravano volare, mentre si destreggiavano con abilità nella calca delle persone.

Chi sono?” domandò con la voce atterrita.

Ma dove hai vissuto fino a stasera?” rispose di rimando Mazapègul.

A Milano e in molti altri posti”.

E non hanno mai visto i trampoli?”

Trampoli? No! Cosa sono?”

Il folletto scosse la testa, come per compatire l’ignoranza della ragazza. Continuò a camminare con una frenesia tale da costringere Deborah a seguirlo con affanno perché non voleva correre il rischio di perdersi. Era talmente concentrata a inseguire Mazapègul, che non si accorse di essere arrivata in una piazzetta colma di gente, in parte seduta a terra, in parte il piedi o appoggiati ai muri che la contornavano. Quello che vide la lasciò di stucco e stupita. Sembrava che le novità e le sorprese non finissero mai. ‘Prima balli sconosciuti. Poi uomini issati su due bastoni di legno che volteggiavano leggeri come piume. Adesso persone che sputano fuochi spaventosi dalla bocca!’ si disse osservando quello spettacolo reso ancor più terrificante dal buio notturno. Era immersa nel suo meravigliato stupore, quando si trovò trasportata altrove.

Il cielo stava tingendosi di rosa con delle striature nerastre. La festa era finita ed era tornata la calma. Nella camera d’albergo Raul dormiva tranquillo. Solo un leggero sibilo si udiva ogni tanto. Gina rannicchiata osservava il chiarore che traspariva dalla finestra non ben sigillata. Sospirò, perché tra non molto avrebbe potuto riprendere la strada verso Cattolica. Era inutile ripensare alla serata, perché avrebbe dovuto comportarsi in maniera più accorta. Il caldo, il mare, il senso di trasgressione e l’astinenza sessuale era stata un mix micidiale e lei questo l’aveva compreso pienamente solo dopo essere stata soddisfatta dal ragazzo.

Tutto sommato non posso lamentarmi di Raul. Sempre attento e misurato non hai mai preteso di più di quel che gli offrivo ma lui se l’è preso tutto” diceva fra sé osservando che la stanza si andava schiarendo man mano che trascorreva il tempo.

Gina diresse gli occhi verso l’angolo tra l’armadio dozzinale e la modesta porta leggermente scrostata dal passaggio di molte persone. Deborah avvertì su di sé quello sguardo fisso e insistente, che pareva incidere col fuoco la sua carne. Si ritrasse, cercando di diventare più piccola per sottrarsi a quelle occhiate indagatrici. Rise, pensando alla sua corporatura che di sicuro non passava inosservata. “Mi vede oppure è solo una sensazione bruciante?” si disse sistemandosi all’ombra dell’armadio.

Gina scosse con delicatezza Raul. Lui grugnì addormentato, mentre l’abbracciava. Lei provò a sottrarsi ma alla fine lo lasciò fare. La notte insonne, la voglia di uscire all’aperto le avevano tolto la spinta passionale di molte ore prima ma non avevano estinto il suo desiderio di fare ancora una volta all’amore.

Deborah arrossì al pensiero di assistere alle manovre dei due amanti ma era lì e pareva condannata a vedere. Udì i gemiti di Gina, il respiro affannato di Raul, lo strepito gioioso conclusivo. Osservò i due amanti che si scioglievano dall’abbraccio e si sistemavano distesi sul letto.

Che ore sono?” chiese in un sussurro Gina.

Non lo so e non mi interessa” Raul rispose leggermente scocciato.

Ma c’è già luce fuori”.

E con questo?”

Nulla. Dicevo che…”.

E va bene. Ti accontento”. Lesse l’ora dal suo telefono. “Sono poco meno delle cinque. Soddisfatta?”

Grazie” rispose Gina, che si accoccolava nuovamente su di lui. Pensò che era davvero un amante discreto e che tutto sommato era anche gradevole. Fantasticò su amori impossibili e sulla freddezza del compagno lontano, a Milano. ‘Sì, credo che mi voglia mollare ma non ha il coraggio di dirmelo. Spera che sia io a prendere l’iniziativa. Ma a Giuseppe non ci pensa? Come reagirebbe alla nostra separazione?’ ragionava, mentre stuzzicava Raul, che raccolse la sfida.

Deborah era la spettatrice dei loro giochi e avvertì qualcosa in fondo all’addome. “Forse la cartomante ha ragione. Marcello sta diventando noioso. Domani guarderò il bacile”. Sorrise perché era già il domani e presto avrebbe potuto osservare la forma che la cera aveva formato.

Non possono essere già le cinque” si disse, ripensando che pochi istanti prima volteggiava maldestramente con un folletto dalle sembianze strane.

Ma sto sognando oppure viaggio nel tempo?” si chiese mentre lentamente evaporava l’immagine dei due amanti.

0

La notte di San Giovanni – parte dodicesima

da unita.it
da unita.it

15 gennaio 1936. Londra era coperta di neve e di ghiaccio. Un uomo, seduto sul sedile posteriore di un black cab, stava andando al British Museum. Aveva l’appuntamento con due esperti del museo per esaminare un curioso reperto che era entrato nelle sue disponibilità da qualche giorno. Gli era stato dato in pegno da Mitchell Hedges, per un debito che non era riuscito a saldare in tempo. Però prima accordarsi su questo scambio, voleva avere la certezza che non fosse un fake e che non si ritrovasse con un oggetto privo di valore commerciale.

Lui afferma che vale un migliaio di sterline ma io stento a crederlo. Ce ne è uno al British, che fu acquistato per meno di duecento sovrane. Perché qualche pazzo dovrebbe spenderne cinque volte per averne uno simile, ammesso che sia autentico?”

Era un ragionamento logico e ineccepibile e, secondo il suo punto di vista, era meglio avere l’avallo di chi ne capiva di più di lui di reperti dell’arte maya.

É vero che il debito è di trecento sterline e, se valesse veramente il doppio, non ci rimetterei nulla. Anzi ci farei un guadagno. Però se fosse un falso, ci perderei molte sovrane”. Fu l’ultimo pensiero quando venne scaricato di fronte al British Museum.

Chiese all’usciere dove si trovava l’ufficio di Mister Sugar. “Sono Sydney Burney, ho un appuntamento per le 10”.

L’uomo consultò un registro e poi, alzando gli occhi, gli rispose. “Tra un istante un commesso l’accompagnerà dal dottor Sugar”.

Dieci minuti più tardi l’antiquario fu ricevuto. Ad aspettarlo c’erano lui e il suo assistente.

Dovrei acquistare questo reperto ma non mi fido delle mie competenze. Quindi chiedo a lor signori, molto più competenti di me, una perizia sia sull’autenticità che sul valore presunto”. L’antiquario stava simulando un acquisto per non svelare la vera finalità del possesso.

I due uomini osservarono il teschio di cristallo con una curiosità mista ad apprensione. Avevano già avuto a che fare con un oggetto simile. Il museo londinese ne possedeva uno, custodito in una teca di vetro, e controvoglia erano stati costretti esaminarlo con attenzione. L’esperienza era stata forte. Questo reperto suscitava un’attrazione particolare sui visitatori e sugli esperti che lo studiavano. Molti erano spaventati dallo sguardo spettrale e in preda al panico raccontavano storie straordinarie al limite del credibile. Asserivano di essere stati perseguitati anche in seguito dalla “voce” del teschio. Più circolava questa diceria, più crescevano le file di persone, pronte a vederlo. Loro erano rimasti scioccati dal fatto che lo sguardo sembrava seguirli, mentre si aggiravano per la sala oppure mentre lo esaminavano. Avevano provato delle strane sensazioni, difficili da catalogare. Di questi aspetti inquietanti non ne avevano mai voluto discutere con altri, perché erano privi di riscontri scientifici e non volevano passare per donnicciole impaurite. Una volta era sembrato che delle misteriose e incomprensibili parole fossero state pronunciate. Questo era stato troppo forte per marchiare la cosa, come semplici sensazioni, e in preda al panico per alcuni giorni non si erano presentati al lavoro, adducendo come scusa un forte emicrania. Adesso avevano davanti a loro un reperto simile ma molto più perfetto. La mandibola mobile pareva muoversi. E ne furono scossi.

Hai visto anche tu?” disse Sugar all’assistente.

Sì” rispose laconico Campbell.

Burney guardò ora l’uno ora l’altro con sguardo preoccupato e interrogativo. Non comprendeva quello strano ma stringato dialogo.

Cosa avete visto?” domandò l’antiquario che si agitava sulla poltroncina di velluto.

Nulla” sia affrettò a dire l’esperto. “Volevo solo sottolineare come assomigli a quello che è custodito qui”.

Burney finse di accettare per buono quello che gli aveva detto l’uomo ma era certo che avessero parlato in maniera codificata per non farsi capire. Adesso aveva la necessità della loro perizia e non gli interessavano i discorsi enigmatici.

Sugar prese la parola per dare una prima sommaria stima. Non era sua intenzione di prolungare oltre misura questo incontro. Ogni volta che aveva avuto a che fare col teschio di cristallo erano successi eventi non proprio felici. L’ultima volta sua moglie era scivolata dalle scale, ferendosi gravemente. ‘Per fortuna’ pensò ‘non è morta o è rimasta zoppa’.

“É incredibile la precisione con cui il teschio è stato realizzato. É certamente vecchio di molti secoli, presumibilmente in epoca preistorica”.

Più o meno quanto vecchio?” domandò l’antiquario che già pregustava l’affare.

A spanne direi un manufatto maya dell’epoca d’oro. All’incirca l’ottavo secolo dopo Cristo” affermò Sugar, mentre Campbell annuiva a conferma. L’uomo incrociò le dita per scaramanzia.

Ma quanto può valere?”

Non esiste un mercato di questi oggetti. Se si trova l’amatore, si possono ricavare anche sei o settecento sovrane. Circa dieci anni fa c’erano molti estimatori dell’arte maya e sarebbe stato facile trovare un acquirente”.

L’antiquario pareva passato attraverso una sauna svedese, un momento di euforia alternato a docce fredde. Aveva per le mani un oggetto antico e di valore ma in questo momento non era appetibile sul mercato dei reperti antichi. Quindi è come se valesse zero.

Ma quando chiede il suo venditore?” domandò Sugar.

Non abbiamo parlato ancora di cifre” mentì Burney.

Lei cosa offrirebbe?” gli chiese l’antiquario.

Non saprei. Forse nulla. Questo genere non mi piace” tagliò corto Sugar.

Sperava che il colloquio finisse in fretta ma chi gli stava di fronte non era della stessa opinione.

Questo senz’altro è più rifinito rispetto a quello che ospitiamo nelle nostre sale. Ha la mandibola mobile. Un particolare importante per quantificare il suo valore” disse Campbell, toccando questo particolare, che si mosse con un movimento lento, spalancando la bocca come animato di vita propria.

Deborah, che era in un angolo della sala, cacciò un urlo terrificante. Spaventata pensò che l’avessero udita ma in realtà lo sentì solo lei. Gli presenti continuarono le loro schermaglie dialettiche.

L’assistente di Sugar proseguì. “E’ stato ricavato da un unico blocco di cristallo di quarzo con straordinarie doti di lucentezza. La sua superficie, trasparente alla luce, è del tutto levigata. Ha dimensioni perfettamente naturali: è alto poco più di 17 centimetri, è largo altrettanto, è profondo 21. Eccezion fatta per il peso, che è di 5 chili, rispecchia le misure di un cranio umano, dentatura compresa, con soltanto alcune lievi imprecisioni nella riproduzione delle ossa occipitali e degli zigomi”.

Sì, d’accordo” disse Burney spazientito da quei particolari più scientifici che commerciali. “Ma è autentico oppure un falso?”

Campbell non ascoltò le parole dell’antiquario e continuò a parlare del teschio da un punto di vista scientifico. “I suoi occhi sono dei prismi: la leggenda vuole che scrutandoli si possa conoscere il futuro”.

Sugar annuì, mettendosi in bocca un sigaro cubano, che cominciò a maciullare coi denti. Ascoltò il suo assistente che parlava. “Una ricostruzione somatica operata sul teschio indica che, probabilmente, il modello sia stato il volto di una donna”.

Burney scosse la testa in segno di disapprovazione. ‘Questi parlano, parlano ma non dicono nulla su quello che m’interessa. L’unica cosa che ho captato è che è sicuramente autentico’.

Vi ringrazio della vostra cortesia. La vostra competenza mi ha chiarito alcuni dubbi” fece l’uomo, riponendo il teschio nella capace borsa che aveva usato per il trasporto.

Buona giornata, mister Burney” dissero quasi all’unisono Sugar e Campbell.

L’antiquario si alzò e prese il capello e tabarro da un appendi abiti vicino all’uscio. Ne varcò la soglia, seguito da Deborah, per tornare nel suo studio a Waterloo Place. Era appena uscito dalla stanza, quando udì un grido disumano. Tornato sui suoi passi, vide Campbell disteso sul pavimento in una pozza di sangue. Pareva morto, mentre Sugar era attaccato a un campanello per chiedere aiuto.

Deborah rimase impressionata dallo spettacolo. Pensò immediatamente che era colpa del teschio che l’antiquario portava con sé e si disse che l’avrebbe regalato a Alex, che volesse oppure no.

Questi parevano solo apportare sventure e la riprova era sotto i suoi occhi atterriti.

0

La notte di San Giovanni – parte undicesima

dal web
dal web

La ragazza impallidì, mentre osservava il reperto che scintillava come se fosse dotato di luce propria. Lo trovava inquietante ma ormai l’aveva e doveva conoscere il resto della storia.

Alex riprese il racconto.

“Dagli esami compiuti risultò che il teschio era stato scolpito lungo l’asse principale del cristallo. Questa tecnica, molto avanzata, utilizza l’asse di simmetria per ridurre il rischio di frantumazione. Inoltre la precisione del taglio è spiegabile solo con l’utilizzo di un raggio laser, che nel 726 non era stato ancora inventato”.

Deborah lo interruppe. Qualcosa non tornava.

Come fai a conoscere la data esatta. 726 invece di 1826 o un altro anno?” domandò incerta.

Come faccio? Lo so e basta” tagliò corto Alex.

La ragazza non aggiunse nulla mentre il compagno riprendeva la narrazione.

C’è anche un’altra ipotesi che qualcuno ritiene ragionevole e altri poco pratica. Affermano che il teschio sia stato levigato a mano per almeno trecento anni da parte di generazioni di valenti artigiani. Questo, infatti, è il tempo stimato per riuscire a modellare con precisione stupefacente un blocco di quarzo di tale durezza: ha una durezza pari a sette, quindi praticamente impossibile da lavorare con comuni utensili metallici”.

Deborah spalancò gli occhi. Le pareva un lasso di tempo incredibilmente lungo per una lavorazione di un oggetto.

Trecento anni? Ma è un periodo temporalmente enorme! E poi se i teschi sono tredici, quanti artigiani hanno dovuto impiegare per levigarli tutti?”

Il ragazzo rise all’uscita stupita della compagna. In effetti non ci aveva mai pensato. Era sensato e lecito porsi la domanda. Ma senza rispondere, proseguì la narrazione.

Inoltre i Maya non conoscevano il ferro. Per contro ci sono tracce in quello del British Museum”.

Dunque quello a Londra è un falso?”

No. Non è detto. Nell’ottocento si usavano delle mole metalliche per asportare il sudiciume accumulato nel corso dei secoli. Quindi potrebbero essere coerenza tra le tracce e l’opera di pulizia” disse Alex.

Cosa ti fa supporre che siano stati artigiani Maya a lavorare i teschi?” Deborah gli pose l’ennesima domanda, interrompendo nuovamente narrazione e cambiando l’obiettivo della storia.

E chi avrebbe dovuto farlo? Sono stati trovati nel loro territorio” Alex rispose per nulla infastidito.

Ma dici che non vi è certezza, su come i teschi siano entrati in possesso delle varie persone” incalzò la ragazza.

Alex rimase sorpreso dalla logica e non rispose subito. Prese tempo per non farsi trascinare in una polemica sterile.

Perché i Maya si impegnarono in un’opera di tal genere, tenendo impegnati per circa tre secoli i loro migliori artigiani, per produrre un oggetto apparentemente inutile?” Deborah fece una riflessione ad alta voce per nulla convinta di questa seconda ipotesi.

Perché ritieni che quest’opera sia inutile?” le domandò il ragazzo.

Perché? Non ho capito la sua funzione. Parlate tutti una lingua criptica!”

Alex rimase in silenzio. Raccolse le idee per chiarire questo aspetto ma la ragazza lo incalzò con un’altra domanda.

Perché degli artigiani, che lavorano il cristallo, impiegando gran parte del loro tempo e della loro abilità, avrebbero dovuto tramandare alle generazioni successive l’oscuro ma importantissimo significato di ciò che stanno realizzando?”

La funzione dei tredici teschi è sicuramente divinatoria. Sono come le carte dei tarocchi, che contengono dell’informazione riguardanti lo sviluppo umano del passato, del presente e del futuro. Ognuno di loro possiede una conoscenza, una parte dell’intero processo cognitivo dell’uomo e hanno la capacità di vedere nel futuro”.

E ci dovrei credere?” fece la ragazza, mostrando stupore.

Alex alzò le spalle come se la questione non lo sfiorasse minimamente.

Tutto è depositato all’interno di questi teschi, tutta la conoscenza ancestrale. Dicono che ci sarà un giorno, in cui i saggi si riuniranno intorno a un lago con i tredici teschi riuniti. Qualcuno, leggendo alcuni testi maya, giunti fino a noi, ipotizza che questo dovrebbe avvenire prima del 21 dicembre del 2112”.

Bufale!” esclamò divertita Deborah.

Non ci credi?” domandò curioso il ragazzo.

E perché ci dovrei credere? Quello è un giorno come un altro!”

A questo punto è inutile proseguire” ammise Alex con amarezza.

Ma no! Continua. Sono curiosa di conoscere questa storia”.

Si spera che questo evento avvenga prima della fine del ciclo profetizzato per la data del 21 dicembre di quest’anno. Con loro giungeranno anche i guardiani e custodi dei teschi”. Alex pareva ispirato da una misteriosa voce che lo guidasse nel pronunciare le frasi.

Un uomo, che possiede immensi poteri, attraverserà il lago camminando su di esso ed estrarrà la testa maestra che si trova all’interno di una caverna, dietro una cascata. Quella è la tredicesima e più importante di tutte. A questo punto si celebreranno delle cerimonie. E si leggerà il futuro dell’umanità. I tredici teschi di cristallo contengono le informazioni circa l’origine e il destino della razza umana. E potrebbero essere la chiave di volta, il tassello perfetto che si incastrerà, quando l’uomo sarà pronto per aprire la porta del futuro.
A partire dal XIX secolo cominciano a riemergere, uno a uno, dai luoghi che per secoli li hanno nascosti. Quattro sono già usciti allo scoperto e altri usciranno dall’oblio nei prossimi mesi. Siamo in un momento di attesa”.

E io sarei un saggio?” Deborah, sorpresa e incredula, gli chiese con una punta di ironia.

Non lo so ma di certo sarai un guardiano e custode” esclamò con enfasi Alex.

Forse, se questo teschio che tengo in grembo sia autentico e non una copia!” Deborah pareva divertita per queste ultime affermazioni.

Sono certo che è uno dei tredici! Se ti ha scelta, vuol dire che sei saggia!”

La ragazza rise a quest’ultima esternazione di Alex. «Mi ha scelto? Ma non diciamo sciocchezze! L’ho toccato più che altro per curiosità!» pensò in un attimo prima di riprendere a parlare.

Beh! torniamo coi piedi per terra. Quando sarà il 21 dicembre, ne riparliamo! Ma non ho ancora capito la storia di questo teschio. Avevi promesso di raccontarmela ma finora hai divagato tra leggende e storie inverosimili”.

Allora ho parlato per nulla e del nulla?” disse offeso il ragazzo, guardandola fissa negli occhi.

Non saprei” fece guardinga la ragazza.

Eppure l’hai detto!”

Ma no! Abbiamo parlato di leggende, di ipotesi. Niente di concreto. Hai detto che conosci la storia di questo teschio. Io sono pronta ad ascoltarla. Tutto quello che hai detto è interessante senza dubbio ma ora vorrei conoscere la storia di questo e non di altri” disse con calma Deborah.

Solo chi te l’ha venduta conosce la sua storia. Io ho parlato dei teschi di cristallo” fece Alex.

Quello che ho ascoltato pare uscito dalla trama di quel film col bello di Hollywood! Sai Harrison Ford! Quello che impersonava Indiana Jones!”

Dunque pensi che ti abbia raccontato la trama di un film, adattandola alla nostra situazione?”

Sembra che non riusciamo a capirci!” affermò la ragazza.

Perché?” chiese con voce offesa il ragazzo.

Perché qualunque affermazione esterni, la prendi come un affronto personale. Ho chiesto solo di conoscere la storia di questo teschio e non divagazioni sulle leggende che avvolgono questi reperti”.

Perché non chiediamo a chi te l’ha venduta la vera e reale storia di questa testa?” domandò Alex sicuro nella voce.

E va bene! Ci alziamo e andiamo al banchetto di quella signora dai capelli bianchi”.

Deborah si girò verso il luogo dove stava il banco ma rimase a bocca aperta per la sorpresa.

0

La notte di San Giovanni – parte decima

dal web
dal web

Mazapègul prese sottobraccio Deborah per condurla nel vivo della festa.

La ragazza lo osservò con attenzione. Era sicura che fosse Alex.

Ma tu sei Alex?” gli domandò la ragazza.

Un’allegra risata fu la prima risposta.

No. Mi son qui dla bretta rossa” le rispose il folletto.

Sul viso di Deborah passò rapido lo sconcerto. Eppure era certa che sotto quelle spoglie si celasse Alex. Non rispose e continuò a camminare di fianco a lui.

Sei una bella ragazza e stasera ti faccio compagnia” disse Mazapègul con fare galante.

E se non accettassi?”

Te ne pentiresti. So essere perfido, se voglio, con le ragazze riottose” disse con tono minaccioso.

Deborah finse di non aver ascoltato la risposta intimidatoria e domandò preoccupata, non vedendo alle loro spalle i due compagni: “Ma gli altri due, dove sono?”

Mazapègul alzò le spalle. “Non lo so. E non me ne frega nulla. Mi basta la tua presenza”.

Deborah non si sentiva tranquilla. Ricordava quello che Alex aveva raccontato, mentre erano seduti sulla panchina.

Ad bëll òcc! ad bëll cavéll!” esclamò il folletto dal berretto rosso, passando una mano tra i capelli ambrati della ragazza.

Non rispose nulla, perché non aveva afferrato bene il senso dell’affermazione. La parola òcc l’aveva compresa ma l’altra no.

La folla era aumentata intorno a loro e il frastuono impediva di parlare a bassa voce. Si sentiva più distesa in mezzo a quelle persone che si muovevano da una bancarella a un’altra, da una cartomante a un’altra. Però quel senso di sicurezza svanì in fretta. Nessuno sembrava prestare attenzione a loro.

Perché non destiamo sorpresa? Una ragazza che gira con un essere che pare l’incrocio tra una scimmia e un gatto non è oggetto di curiosità?” si disse, osservandosi intorno.

Le pareva che fossero trasparenti come fantasmi. Si disse che non era possibile. Scosse la testa e seguì a fatica Mazapègul, che pareva il gatto delle sette leghe. Vide una coppia di ragazzi che litigavano. Si avvicinò per ascoltare, dimenticandosi del folletto.

Mi hai offesa” disse la ragazza rossa in viso per il caldo e la foga del litigio.

Non mi pare” replicò secco il ragazzo, strattonandola.

A te non pare mai nulla” fece, tentando di liberarsi dalla sua presa.

E quando ti avrei offesa?”

Non negare! Facevi gli occhi dolci a quella ragazza che camminava con quell’essere vestito in modo strambo!”

Deborah rimase in silenzio. “Dunque mi vedevano!”

Ma quale? Non vedo nessuna ragazza con i ricci biondi”.

Vedi che l’hai vista! E osi anche negare! Lo sai che sono gelosa!” disse, mentre una lacrima scendeva sulla guancia.

Ma non ho visto nessuno. Né il ragazzo strambo, né la ragazza! Ero con te e mi bastavi”.

Non mi freghi ancora! Non è la prima volta che lo fai!”

Lo giuro sulla tua testa…”

Lascia perdere la mia testa! Non voglio perderla per i tuoi spergiuri”.

Deborah avvertì una mano che si insinuava sotto il braccio.

Vieni. Lasciali litigare. Prima di domani avranno fatto la pace” disse Mazapègul.

Ma la causa del litigio ero io!”

E con questo? Li conosci?”

No!”

Appunto. Litigano per nulla!”

Ma gli altri due?” domandò la ragazza di nuovo.

Si sono appartati” rispose il folletto con un smorfia significativa.

Deborah avvertì smorzarsi suoni, luci e voci della festa e si ritrovò nella stanza d’albergo. Le sembrava di vivere un incubo, sballottata tra un mondo e l’altro. Le pareva essere una fragile navicella in balia dei marosi e pronta al naufragio da un momento all’altro.

Raul si era svegliato e nel buio parlava con voce alterata.

Perché te ne vuoi andare? Non è ancora l’alba”.

Appunto. Non è l’alba. Sono stanca di stare chiusa qui dentro” disse Gina, appoggiata alla testiera del letto.

Vuoi tornare alla festa?” fece il ragazzo, accarezzandole una spalla.

No. Voglio tornare a Cattolica” rispose stizzita, allontanandosi dal ragazzo.

Ma stavamo passando una nottata piacevole”.

Per te sarà piacevole ma per me è sgradevole!”

Raul si alzò di scatto e, presi i vestiti della donna, glieli getto, dicendo: “Vestiti. Tra cinque minuti siamo di partenza”.

Gina restò immobile. Cominciò a piangere sempre più forte.

Ora frigni anche?” fece con tono ironico, mentre infilava i jeans.

No. Mi stai trattando male. Perché?”

E come ti dovrei trattare?”

Con più dolcezza, cercando di capire le mie esigenze”.

Dimmi cosa vuoi fare?”

Il ragazzo si stava spazientando. I cambi di umore della compagna lo stavano infastidendo. Non andava bene mai nulla.

Non lo so. Mi sento confusa” disse la donna.

Alla luce di un abat jour Raul osservò Gina. Si domandò cosa cercava da lui. Rimase in silenzio. Si udiva solo il respiro di entrambi. A singhiozzo quello della donna, regolare quello del ragazzo. Prese una decisione. Si tolse i jeans e tornò nel letto, dopo aver spento la luce.

Non ho voglia di fare all’amore ma di parlare” disse con un soffio Gina.

Bene. Di cosa parliamo?” fece Raul rassegnato.

Non saprei. Di qualsiasi argomento”.

Il ragazzo sbuffò. “Uffa. Non vuoi fare sesso. E va bene. Vuoi parlare ma non conosci l’argomento della discussione. E va bene. Stiamo in silenzio?”

Gina non rispose ma riprese a piangere silenziosamente.

Sembrava avere il fuoco tra le gambe ma era un bluff” si disse Raul, sistemandosi per riprendere a dormire. “Mi hai fregato una volta. La prossima, se ci sarà, le tue voglie te le cavi da sola” e cercò di addormentarsi.

Deborah faticava a comprendere cosa volesse o cercasse Gina. “Raul, nonostante l’età, si è dimostrato più maturo di lei. Gina, un donna sposata con figlio, ha provato l’emozione dell’avventura per poi pentirsi. Vuole restare ma nello stesso tempo desidera andarsene! Vorrebbe fare sesso ma lo rifiuta”.

Con questi pensieri nella testa sentì Mazapègul che la chiamava.

Vieni. Ti offro lo zucchero filato”.

Cosa? Lo zucchero filato? E cosa sarebbe?” chiese Deborah con voce sorpresa.

Questo” e le porse un bastoncino sul quale era avvolto una soffice schiuma rosata.

Deborah lo prese con circospezione. Lo osservò con attenzione. Lo avvicinò al naso per sentire l’odore. Le pareva buono ma non si decise ad assaggiarlo.

Sei diffidente! Non contiene un veleno mortale! É dolce e sa di fragola” fece Mazapègul sorridente.

Ma no! Semplicemente non conosco questa specialità”.

Ma dove vivi?”

A Milano”.

E lì non conoscono lo zucchero filato?”

No. Almeno io non sapevo che esistesse!”

Assaggialo!”

Deborah ne strappò un piccolo pezzo con un morso deciso e lieve. Avvertì il gusto della fragola in bocca e quello dolciastro dello zucchero.

Ma come lo fanno?” domandò curiosa.

Con quella macchina. Un cucchiaio di zucchero, una polverina al gusto di fragola e il bastoncino si avvolge di questa soffice schiuma” le descrisse sommariamente il procedimento.

La ragazza si fece più ardita e strappò altri lembi dallo stecco con metodica precisione. Era intenta a gustare questo dolce morbido e appiccicoso, quando ebbe un sussulto. Stava di nuovo seduta sulla panchina accanto a Alex e discutevano del teschio che teneva sulle ginocchia. Le sembrava che tutti gli avvenimenti intercorsi tra la prima chiacchierata e questa non ci fossero stati.

Alcuni credono che i teschi siano in tutto tredici e dal momento in cui verranno riuniti insieme, inizierà un nuovo ciclo per il genere umano. Sembra che essi contengano delle informazioni sul destino dell’umanità e che in loro presenza accadano fatti inspiegabili” stava raccontando il ragazzo.

Visto che ne sei così affascinato te lo regalo! Tieni, così siamo contenti entrambi. É già impacchettato per bene!” diceva Deborah, sorpresa nel pronunciare queste parole.

“Ma va! Non crederai mica a tutte queste fandonie!”

La ragazza non reagì, rimanendo in silenzio, mentre Alex riprese a parlare.

Ah,ah,ah! Lo sanno tutti che sono delle leggende metropolitane e che i teschi sono dei falsi risalenti all’ottocento o al massimo ai primi del novecento”. “Fiuuu! Menomale, un po’ mi consoli”.

Il ragazzo continuò a raccontare, mentre lei ascoltava con interesse.

Dunque ci sono diversi teschi di cristallo in circolazione” domandò curiosa.

Direi di sì. Almeno tre. Quello del British, quello di Mitchell Hedges e un altro in un museo francese. Ora sono quattro col tuo” affermò Alex con fare misterioso. “A spanne direi che è un teschio genuino il tuo”.

La ragazza sorrise, scuotendo la testa. “Questo è una copia che vale cinquanta euro! Se fosse autentico, varrebbe una fortuna”.

Deborah lo osservò con attenzione. “Ma tu chi sei? Come mai conosci tutte queste storie sul teschio di cristallo?”

La ragazza, passato un primo momento di spaesamento, riprendeva il controllo della sua mente.

Pensi che sia… un ciarlatano, che racconta storie assurde, spacciandole per vere?”.

No. E’ che mi incuriosisce comprendere i mille misteri di questo oggetto. L’ho comprato da una donna che prima svanisce nel nulla e poi ricompare in maniera altrettanto misteriosa. Una chiromante mi legge i tarocchi e mi prediche che sarei caduta per terra. Anzi tra le tue braccia. Tu mi stai raccontando una storia fantastica di altri tre teschi. Credo che sia sufficiente per stimolare la curiosità!”

Tutto qui?”

E ti pare poco?” replicò Deborah basita.

Questo è nulla rispetto a quanto apprenderai dal resto della storia”.

0

Enigma – parte settima

dal web
dal web

Sono incredula. Non può essere. Faccio qualche passo dentro la stanza, affascinata da quella vista. Mi do un pizzicotto sulla guancia. Sento male. Vuol dire che non sto sognando.

“Si accomodi” dice una voce dal tipico accento siciliano. Personalmente non saprei distinguere un palermitano da un catanese nel parlare. Per me sono tutti uguali.

Mi siedo su una comoda sedia imbottita di velluto cremisi. Continuo a restare in silenzio. Mi sembra di vagheggiare mondi impossibili.

“Dunque è tornata”.

Non rispondo. Apro la bocca ma non esce nessun suono. “Che abbia perso la voce?” mi chiedo inquieta. Vorrei dire tante parole ma non riesco a emettere nemmeno un sibilo.

“É diventata muta?” fa ironicamente la persona seduta dietro la scrivania.

“No!” Finalmente qualcosa sono riuscita a dirla.

“Dunque parla!” dice in maniera sarcastica chi mi sta di fronte.

“Sì”. Non si può affermare che sia stata loquace! Ma la sorpresa era ancora troppo forte per riuscire a mettere insieme un discorso decente.

Ripete quanto detto prima con un sorriso cattivo. Ho qualche timore. Incrocio le dita non vista e comincio a parlare.

Uffi! Ancora qualcuno che interrompe sul più bello. Che vuole? Non lo sa? Allora taccia e ascolti! Non capisco questi zoticoni. Vengono, sbuffano e parlano a casaccio.

“Mi dica” comincio titubante. Non so da dove iniziare la risposta alla sua domanda.

“La sto ascoltando”.

“Mi dica. Alice dov’è?”

Una sonora risata risuona lugubre nella stanza.

“Non posso credere che lei sia tornata per Alice?” dice, spalancando gli occhi come sorpreso.

“Se le dicessi di sì, lei cosa direbbe?” faccio con tono spavaldo. L’udire la mia voce mi rincuora e assumo un atteggiamento più baldanzoso.

“Mi verrebbe da ridere” mi dice senza troppe perifrasi.

“Suscita tanta ilarità, quello che ho detto?”

“Alla sua esternazione non crede neppure lei”.

“Dunque per quale motivo sarei tornata?” domando con tono duro.

“Non saprei. Pensavo che ce lo spiegasse lei. Forse potrei capire” risponde calmo, senza tic particolari.

“Sono tornata a Palermo per due motivi”.

“Ecco. Vede che avevo ragione?” afferma interrompendo quello che avrei voluto dire.

“Sono tornata a Palermo” riprendo come se non fossi stata interrotta, calcando la voce sulla parola Palermo. “Perché volevo ritrovare Alice, la mia compagna di corso e la sua splendida casa”.

Annuisce con la stessa accondiscendenza del duca nei confronti del suo vassallo. Questo mi infastidisce molto. Non sono nelle sue disponibilità, quindi preferisco mantenere le distanze.

“La seconda motivazione è che un anno fa ho vissuto un’esperienza bella e brutta allo stesso tempo. Ora tutti implicitamente mi danno della sognatrice” affermo con tono di superiorità.

Sì! Pensate che sia tocca o che stia navigando nel mare della fantasia. Niente di più falso. Ho vissuto un’esperienza del tutto anormale. Quindi smettetela con quel sorrisino di compatimento.

Riprendo fiato dopo aver detto le ultime parole. Adesso tocca a lui mostrare le carte ma dubito che lo faccia. La situazione appare irreale ma non ho ancora compreso il punto focale della storia.

La persona. che mi fronteggia, si stringe nelle spalle.

“Non c’è posto per Alice nella storia” fa con tono bonario.

“Quale storia?” domando, stringendo gli occhi. Mi sto chiedendo a quale allude, perché tutto mi appare misterioso ed enigmatico.

Non risponde. Finge di non aver ascoltato la mia domanda. Questo mi fa innervosire. Forse fa parte della strategia. Buttare un’esca per vedere quale pesce abbocca.

“Allora perché scomparsa?” dico piuttosto arrabbiata.

“Ha sgarrato. Ha subito la giusta punizione”.

“Solo perché a tenuto tra le mani quel famoso libro?” domando inquieta.

“No. Quell’episodio non conta nulla”.

“Allora perché?” dico veemente.

Il viso diventa una maschera grottesca come se fosse un guitto siciliano.

“Qui le domande le facciamo noi” risponde con tono arrogante.

“Ma ho già risposto” faccio per nulla intimorita. “Quindi ora ho il diritto di domandare”.

“No. Lei non ha risposto con correttezza alla domanda. Perché è tornata?”

“Le ho già risposto. Per Alice e verificare che un anno fa non ho sognato”.

Sembra un dialogo tra sordi, perché nessuno dei due vuole dire la verità.

“Non sono esaurienti le risposte. Sono banali e non aggiungono nulla da parte sua. Un modo generico per eludere il nocciolo del problema” mi dice, guardandomi con decisione negli occhi.

Capisco che non si va da nessuna parte. Però non saprei cosa dire. Taccio.

“Dunque non vuol rispondermi?” continua insistente.

“No!” Mi rifugio nuovamente nei monosillabi.

“Cosa le fa supporre che conosca la sorte di Alice? Chi è questa Alice?”

“Lei la conosce. Ne sono certa. E poi mi ha detto che è stata punita”.

“Forse non parliamo della stessa persona”.

“Questo lo dice lei. Ha affermato che per lei non c’è posto nella storia” continuo implacabile.

Tuttavia non sembra che sia riuscita a scalfire la corazza. L’uomo non fiata ma pare un dobermann pronto ad azzannare.

“Eppure mi è bastato chiedere di Alice e mi hanno condotta da lei” dico con sicurezza. A quest’ultima affermazione non ribatte. Rimane rinchiuso nel suo mutismo. Il viso fa una smorfia, che cerco di interpretare. Credo di averlo in pugno. Sono rinfrancata, perché sono convinta di averlo messo nell’angolo.

Scuote la testa senza rispondermi. Continua a fissarmi malignamente ma reggo con disinvoltura lo sguardo. Devo battere il ferro finché è caldo.

“Lei conosce l’Istituto degli orfani e trovatelli a Palermo?” chiedo, cambiando argomento della disputa, perché la questione Alice è finita su un binario morto.

“E chi non lo conosce! Era un’istituzione benefica, che ha salvato molti bambini e bambini dal baratro della strada. Ora è sparito. Non esiste più da almeno settant’anni!”

Sono basita. Non è possibile! Cinquantuno anni prima ha accolto Maria Ablesi! Ricordo benissimo quella lettera con tanto di data e dati anagrafici.

“Perché mi guarda in modo strano? Pensa che le racconti una frottola? Era già sparito prima della guerra!”

“Ma non è possibile!” ribadisco convinta.

Un sorriso perfido si stampa sulle labbra dell’uomo, che fa un cenno a qualcuno alle mie spalle. Mi giro e vedo quell’ometto calvo e segaligno che mi ha condotto in questa stanza.

“Due tè!” e rivolgendosi a me mi chiede se voglio latte o limone.

“Non voglio il suo tè” replico memore di quanto avvenuto dodici mesi prima.

“Non può usarmi questo sgarbo” dice con voce cattiva.

“No, no!” faccio, cercando di alzarmi.

Non riesco. Qualcuno mi tiene inchiodata per le spalle. Sono nel panico. Comincio a urlare. Mi dibatto come una forsennata.

Mi sento scuotere forte.

“Angelica, Angelica! Svegliati!”

E’ una voce amica. Mi metto eretta. Apro gli occhi e vedo Alice. L’abbraccio e piango.

L’amica ricambia e mi guarda sorpresa.

“Stavi urlando” mi dice pacatamente. “E non riuscivo a farti smettere”.

Guardo il calendario e mi accorgo di aver viaggiato avanti nel tempo.

0

Enigma – parte sesta

Dal web
Dal web

La donna, che curiosamente si chiama Maria come la lontana trisavola, mi congeda con un sorriso. Sembra Mona Lisa. Lo so che mi ha raccontato solo uno spicchio di verità ma nemmeno io sono stata totalmente sincera.

Vedo un braccio alzato. Che vuoi? Domando scortese, perché queste interruzioni mi fanno perdere il filo del discorso e incavolare alquanto. Dici di sveltire il racconto? Se hai fretta, puoi andartene. Nessuno sentirà la tua mancanza. Sei curioso di conoscere come andrà a finire? Allora resta lì seduto. Quando ho finito, scriverò la parola FINE. Uffa! Che rompi… che sono!

Mi alzo. Non so dove andare. Yossuf se ne è andato. Anche lui ha un lavoro e non può perdere tempo con me. Penso di chiamare un taxi per farmi condurre in una biblioteca. Di sicuro ce ne sarà una ben rifornita. Ma cosa devo cercare? Non ho uno straccio di idee. Salgo in camera. Non è stata felice la decisione di rimanere a Palermo per scoprire il segreto che è nascosto nel ricordo di un anno prima.

Guardo fuori dalla finestra nella speranza di trovare un elemento che possa chiarificare le idee. No, niente da fare. Ricapitolare tutto non serve a nulla. Ogni tassello è ben chiaro nella testa e poi…

Lo so che state sbuffando, perché invece di sbrogliare la matassa, questa diventa sempre più ingarbugliata. Avessi uno straccio di filo da seguire! E voi non dite niente? Nessun indizio per dipanare il gomitolo? Bella compagnia mi fate!

Scuoto la testa. Vado verso la porta. Ritorno sui miei passi. Sì, insomma avete compreso bene. Nessun lampo squarcia le tenebri della mente. Eppure qualcosa mi sta sfuggendo.. Troppe Marie, troppe Alici. Troppi dubbi e nessuna certezza. Mi concentro e mi dico: “Non ha senso che io abbia vissuto degli eventi vecchi di un secolo e forse anche oltre. Devo dunque ammettere che sono passata dal sogno alla realtà?”

La logica in questo momento mi manca. Dovrei affidarmi all’istinto. Ma cosa mi suggerisce? Nulla, calma piatta. Sono prigioniera dei miei pensieri, quando sento bussare alla porta.

“Avanti” grido, non avendo l’intenzione di alzarmi per aprirla.

Da una fessura vedo spuntare la testa di Rosaria con la classica cuffietta bianca. Aspetto che dica qualcosa.

”Yossuf la sta aspettando davanti all’ingresso”.

Rimango senza parole. Avrei atteso tutti fuorché lui.

“Cosa devo dire?” domanda cortese la cameriera.

“Scendo tra un minuto” le rispondo, ritrovando il suono delle parole.

“Mi dica, Rosaria”.

“Cosa, signorina Angelica?”

“Lei conosce Alice?”

La donna rimane in silenzio, come se elaborasse una risposta plausibile. Attendo calma, diversamente da altre occasioni. Si avverte nell’aria una certa elettricità. Percepisco anche il senso della presenza di Yossuf.

“Non importa, Rosaria” le dico bonaria. “Non fa nulla. Il tempo di prendere la borsa e sono giù. Ringrazi la signora per avermi letto nei pensieri”.

Rosaria, sollevata dalla mancata risposta, annuisce e richiude con dolcezza la porta.

Afferro il telefono, una piccola agenda, anacronistica al tempo del web, la fida moleskine rossa e qualche altra cianfrusaglia. Ficco tutto nella borsa alla rinfusa.

Cinque minuti più tardi salgo sul taxi bianco.

“Dove mi conduce?” gli domando, perché so già che mi porterà da qualche parte.

“Dove vuole lei, signorina” dice Yossuf, scoprendo quei denti candidi che mi fanno morire d’invidia. Ogni volta che li vedo, mi pare di impazzire.

“Suvvia, Yossuf! Crede che non sappia che donna Maria le ha dato istruzioni precise”. Butto là queste parole, sperando di cogliere nel segno.

Il tassista innesta la prima e si avvia lentamente nel traffico di Palermo. Resto in silenzio. Vorrei che fosse lui a parlare ma non lo fa. “Che istruzioni ha avuto?” mi chiedo nella speranza di trovare uno spiraglio di sole tra le nuvole.

Dopo diverse giravolte si ferma davanti a un portone, contrassegnato dal numero otto. Se pensa di avermi depistato, si sbaglia. Mi ero già persa al primo incrocio! Figuriamoci al secondo. Quindi non so dove mi trovo. Un bel guaio se mi lascia lì.

“Siamo arrivati” dice laconico Yossuf.

“Arrivati dove?” esclamo sorpresa. La casa non mi dice molto, anzi direi niente.

“A destinazione. Dove mi ha chiesto di condurla” afferma serafico e sorridente il tassista.

“La devo aspettare?” aggiunge, spegnendo il motore.

“Certamente. Non so nemmeno se siamo a Palermo o a Trapani” dico ridendo. Ci mancherebbe solo che mi lasciasse qui. Ignoro in quale parte di Palermo mi ha condotta e dubito di impararlo. Per me tutte le strade sono uguali.

Scendo. Mi guardo intorno smarrita. Una via anonima. Un palazzo ancora più anonimo e grigio. Faccio qualche passo verso un portone marrone e scrostato, salendo un paio di gradini malmessi. “Se Maria gli ha detto di condurmi qui, vuol dire che forse sono arrivata alla fine dei misteri. Sarà vero oppure no?” rifletto per darmi coraggio.

Suono a un campanello, che gracchia in lontananza. Aspetto paziente. Passano i secondi di attesa che mi sembrano minuti od ore.

Scricchiolando il portone si apre lentamente e sporge la testa calva di un uomo.

“L’aspettavamo” mi dà il benvenuto e si scosta per farmi passare.

Che c’è? Dico a lei. Sì, proprio lei con barba e capelli candidi. Che vuol sapere? Perché mi aspettavano? Abbia pazienza e legga la settima e conclusiva parte.

Entro titubante in un androne buio. Mi fermo per abituare gli occhi alla non luce.

“Mi segua” fa l’uomo, di cui sento solo la voce.

“Non vedo nulla!”

“Non c’è nulla da vedere” ribatte, mentre ascolto il suo ciabattare piano che si allontana.

Mi faccio coraggio e, allungando le mani in avanti, comincio a camminare.

Non so quanti passi faccio ma a me sembrano un’infinità, prima che riesca a trovare un po’ di luce a guidarmi.

“Dove stiamo andando?” chiedo. Nessuna risposta. Capisco che è inutile porre domande. La consegna del silenzio è ferrea. D’altra parte secoli di storia malavitosa hanno lasciato il segno.

“Cammina e sta zitta!” mi dico, mentre adesso almeno lo vedo.

Si ferma davanti a una porta. Bussa con tre tocchi lunghi e uno veloce. A prima vista pare un segnale convenzionale. “Perché?” mi domando.

Il battente si apre per farmi passare.

E io rimango di sasso.

0

La notte di San Giovanni – parte nona

Iperico, il fiore di San Giovanni (foto personale)
Iperico, il fiore di San Giovanni (foto personale)

Gina parlava sottovoce. Borbottava, soddisfatta delle prestazioni sessuali. Raul era stato un amante eccellente ma adesso avrebbe desiderato starsene da sola nel letto. La presenza del ragazzo la infastidiva.

Che ore sono?” chiese la donna.

Il ragazzo rispose con un grugnito, mentre le voltava la schiena.

Sono stanca di stare a letto. Che ore sono?” ripeté tra il supplichevole e l’alterato.

Non lo so” le rispose con la voce impastata di sonno e stanchezza. “Dormi”.

Raul riprese sonno con un piccolo accenno di russare.

Gina tirò il lenzuolo fin sotto il mento per coprire le nudità. Fuori era ancora buio e le pareva di udire ancora i suoni della festa.

Ma dovrebbe ormai albeggiare” si disse, raccogliendo le gambe. Le era apparso che il tempo si fosse fermato, perché il rumore era ancora distinto.

Tentò di osservare il compagno ma non scorse nulla, salvo un’indistinta sagoma che pareva immobile. Scese dal letto ma, non appena avvertì il freddo del pavimento sotto i piedi nudi, risalì velocemente e si appoggiò al cuscino.

Il pensiero corse a Roberto, il compagno e padre di Giuseppe. E si pentì per un istante di averlo tradito.

Ma no! Ben gli sta! Mi ha messo tante volte le corna e io l’ho sempre perdonato. E poi ultimamente è freddo e scostante. Aveva promesso di raggiungerci in questi giorni ma ha preferito restarsene a Milano”.

Però il sonno non aveva nessuna intenzione di venire in soccorso. Provava invidia mista a insofferenza nel vedere Raul che dormiva senza problemi.

Deborah assisteva in silenzio ai pensieri di Gina. Era in un angolo della stanza non vista e non sentita. “Ma ci sono veramente oppure è solo immaginazione?” Vedeva la donna inquieta che sussurrava qualcosa e il compagno che ronfava come un contrabbasso. Le venne voglia di ridire. “Dopo il sesso lui dorme beato e lei si strugge e smania. Perché?” Con questo dubbio lasciò la stanza buia e ritornò al reale accanto alla venditrice del teschio.

Ecco, là Sajana. Ti aspetta” le disse la donna.

Chi è Sajana?” Deborah si girò e vide la cartomante che le aveva letto le carte e predetto il futuro.

Un raggio di luna illuminò il banchetto. Lei comprese chi era e si alzò per avvicinarsi. Era stupita. Le sorprese parevano non finire.

Siediti” le disse Sajana.

Aveva ragione, dicendomi che qualcuno mi avrebbe sorretta. Senza quel provvidenziale intervento sarei caduta a terra”.

Un sorriso apparve sul viso della cartomante, rischiarato dalla luna, che era comparsa per magia in cielo.

É il momento di preparare il bacile con l’acqua di San Giovanni” ed estrasse un piccolo contenitore di vetro che espose ai raggi lunari prima di riempirlo con l’acqua.

Deborah osservava curiosa e sorpresa questi riti che non conosceva. Fiori di iperico, spighe di lavanda e erbe odorose come per incanto comparvero tra le mani di Sajana che le gettò nel bacile.

Domani mattina lavati il viso con quest’acqua che rimarrà esposta alla ‘guaza ad san Zuan che la guaress ogni malan‘. Sarai sempre bella e giovane”.

La ragazza sorrise. “Magari!” disse ridendo.

Ma se vuoi conoscere la tua favola d’amore, prendi un altro contenitore. Riempilo d’acqua e fa colare qualche goccia di cera. Lascialo esposto alla guazza di San Giovanni tutta la notte. Domani mattina conoscerai chi ti sposerà” aggiunse con fare misterioso.

Ma so già chi sarà” protestò Deborah.

No. Quello non sarà il tuo uomo. Ne incontrerai un altro tra sei mesi. Dalle forme di cera che si formeranno nell’acqua di san Giovanni, vedrai le fattezze di colui che sarà il tuo vero amore. L’attuale lo lascerai al tuo ritorno”.

La ragazza rimase senza parole. E si domandò chi erano questa Sajana e la venditrice del teschio. Tutto le appariva irreale come l’atmosfera che si respirava nella festa.

Questo è Mazapègul e l’altro è il suo degno compare, Cheicatrop. Ti faranno compagnia durante la notte”.

Deborah si voltò e vide alla sua destra un folletto con un berretto rosso in testa, il cui viso assomigliava terribilmente a Alex. Alla sua sinistra un ragazzo con uno strano copricapo, una specie di fungo. Lo stupore aumentò nel riconoscere i lineamenti di Raul.

É impossibile l’ho lasciato dormiente accanto a Gina. Non può essere lui!” si disse la ragazza, osservandolo sbigottita. Ma le sorprese non erano finite. Notò accanto a quello che assomigliava come una goccia d’acqua a Raul una donna vestita in modo eccentrico che pareva la fotocopia di Gina.

Era lì a bocca aperta, basita e stralunata, quando Sajana completò la presentazione. “É Bartuleta, la strega più stravagante che conosciamo”.

Deborah guardava straniata ora l’uno ora l’altro. Non riusciva a comprendere se era un incubo, quello che stava sognando oppure era una realtà difficilmente immaginabile.

Puoi lasciare sul mio banco il teschio e il candelabro” disse la vecchia venditrice. “Li troverai al tuo ritorno”.

Era ancora frastornata dall’apparizione di questi tre personaggi, quando si ritrovò catapultata indietro nel tempo. Vide Anna col suo prezioso teschio che seguiva il padre e il direttore del British Museum attraverso sale e corridoi scarsamente illuminati.

Mike, sei sicuro di vederlo?” gli chiese James Powell.

Come è vero che sto camminando” rispose l’uomo.

Il direttore si fermò dinnanzi a una sala chiusa a chiave. Dalle tasche capienti della redingote nera estrasse un mazzo che usò per aprire la porta. Anche al buio qualcosa brillava nel centro della stanza.

Anna si fermò incerta se entrare o ritornare sui propri passi. Mike si avviò deciso verso la teca, mentre James accendeva le luci. Gli angoli erano in penombra e la teca era illuminata da una lampada che emanava un colore giallastro.

Ecco” disse il direttore, indicando un parallelepipedo trasparente.

Mike si avvicinò per osservare meglio il contenuto. Chiamò la figlia per farsi consegnare il teschio che teneva nella bisaccia. Anna ebbe l’impressione che i due teschi parlassero una lingua antica e sconosciuta. I suoi occhi si aprirono e si chiusero in veloce sequenza. Tutto le appariva irreale. James rimase immobile, affascinato dai due oggetti. Solo Mike sembrava refrattario a qualsiasi sensazione. Continuò a confrontare i due oggetti. Deborah, situata dietro la ragazza, osservava il terzetto che trasmettevano emozioni contrastanti. Percepiva che qualcosa di singolare sarebbe avvenuto. L’aria era carica di elettricità.

Davvero stupefacente!” esclamò Mike. “Sembrano due gocce d’acqua. Poi si rivolse all’amico per domandargli come era entrato in possesso del teschio. Era molto curioso. Se le sue sensazioni erano giuste, ne rimanevano ancora undici da scovare.

James dopo una lunga afasia riprese a parlare.

Di questo possiamo parlarne nel mio ufficio? Qui mi sento a disagio. C’è un’aura che non mi piace”.

D’accordo” disse Mike, restituendo l’oggetto alla figlia.

Una decina di minuti dopo erano nello studio del direttore. Una bella stanza in stile vittoriano con una grande libreria in mogano che occupava l’intera parete. La finestra offriva la vista degli alberi di Montague St..

Forza, Jim, raccontaci tutto” lo sollecitò Mike con l’immancabile pipa spenta in bocca.

É una storia lunga con qualche lato oscuro” cominciò il direttore.

Non ti preoccupare. Non sempre tutto è limpido e trasparente, specialmente nel mondo dei reperti archeologici”.

Un certo Eugène Boban, un cittadino francese che ha risieduto per vent’anni in Messico tra 1850 e 1870, è entrato in possesso di due teschi di cristallo”.

Un fischio uscì dalla bocca di Mike. “Caspita! Ben due!”

“Sono oggetti splendidi, di enorme fascino. Come siano entrati nelle sue disponibilità non è molto chiaro. C’è pure incertezza, dove siano stati trovati. Boban è un mercante d’arte e gira il Messico alla ricerca di reperti da vendere ai musei e ai collezionisti. Le attività illegali dei tombaroli non favoriscono la trasparenza del possesso”.

Mike annuì. In un certo senso lo era anche lui, anche se per tutti era un rispettabile archeologo con una discreta fama.

“Dunque riesce a vendere il primo teschio a un francese che poi lo donerà al Museo Trocadero di Parigi, dove si trova attualmente. Tenta di far acquistare il secondo alla Smithsonian Institution. Poi gioca la carta del Museo Nazionale di Antropologia e Storia. Entrambi si rifiutano di comprarlo. Credono che sia un falso. Alla fine lo piazza al gioielliere newyorkese Tiffany per 120 sterline nel 1890. Il consulente, che favorisce l’operazione, è George Frederick Kunz, un tedesco esperto di gemme”.

James si alzò dalla sua poltrona e, aperta la libreria, ne estrasse un libriccino ricoperto di polvere. Lo aprì e ne lesse un breve passo.

Si sa poco della storia dei teschi e quasi niente delle sue origini. Pare che siano stati portati dal Messico da un ufficiale spagnolo qualche anno prima dell’occupazione francese, all’incirca nel 1860. Questo misterioso ufficiale li vendette per circa 100 sterline d’oro a un collezionista inglese. Poi passarono nelle mani di Eugène Boban’.

Il direttore chiuse il volume e lo ripose nella libreria.

Come avete sentito le origini sono incerte e misteriose. Secondo Kunz, l’autore del brano che ho letto, il primo proprietario fu un ufficiale spagnolo, che rientrato in Europa li piazzò a un suddito di sua Maestà, la regina Vittoria”.

Però dubiti di questa versione” fece Mike.

Sì. Diciamo che non mi convince. Secondo me Boban li prelevò direttamente in Messico durante la sua permanenza. Come fa Kunz ad argomentare che siano arrivati in Europa di nascosto per il tramite di un ufficiale spagnolo?”

James fece una piccola sosta prima di aggiungere un’altra considerazione. “Mi sembrano giri complicati e costosi da realizzare. Inoltre tra i due momenti: l’arrivo in Europa e la vendita a New York passano trent’anni. Perché?”

Ma come è arrivato al British Museum?” chiese Mike, al quale poco importava quale strada avessero seguito per finire a Londra.

Nel 1898 Tiffany se ne volle disfare. Dopo essere stato esposto nelle sue vetrine per otto anni, nessun acquirente si era fatto avanti. Quindi l’investimento di 120 sterline non stava dando nessun frutto”.

Come mai nessun collezionista si era fatto avanti? Mi sembra un oggetto di notevole fattura”.

Non saprei. Di certo la sua fama aveva varcato l’oceano. Il mio predecessore, Sir Lionel Brady, era venuto a conoscenza della volontà del gioielliere di disfarsi dell’oggetto. Si recò a New York per trattare l’acquisto. La transazione si concluse positivamente per una cifra di circa 150 sterline. Così il reperto è finito al British Museum”.

James raccontò come in breve quel reperto divenne una star nel museo ma portò anche scompiglio tra visitatori e inservienti.

Deborah ascoltò con attenzione il lungo racconto del direttore. Le sue parole l’avevano messa in apprensione.

0

Enigma – parte quinta

dal web
dal web

“La storia è lunga, Angelica. Gradisce una granita al limone?” dice la donna.

Annuisco. Non voglio perdere la concentrazione su quello che mi vuol dire. Ho la sensazione che mi permetterà di conoscere l’enigma che da giorni mi assilla.

Fa un cenno a una persona che non avevo mai visto. “Da dove sbuca fuori?” mi domando un po’ turbata. L’albergo sembrava privo di personale ma mi ero sbagliata. Si avvicina in silenzio.

“Rosaria, portaci due granite al limone. E dì a Mimma di prendere quel libro in camera mia e di portarmelo. Lei sa a quale mi riferisco”.

Cosa dici? Che dovrei essere grassa come un maiale? E perché? Mangio in continuazione? Non si vive d’aria e poi sono così buone…

Non so il perché ma qualcosa mi dice che quel volume sarà familiare. Resto in silenzio. Sono in agitazione. Cerco di non dimostrarlo e di calmarmi. Però faccio fatica a rimanere tranquilla e impassibile.

Lei… Sì, proprio, lei. Perché storce il naso? Non crede a quello che sto raccontando? Ma mi faccia il piacere. Là c’è la porta, se se ne vuole andare. Che saccenti ho trovato questa sera.

Dicevo che faticavo a rimanere fredda e distaccata.

Mi dimeno sulla sedia e aspetto con impazienza la consegna del libro.

“Deve sapere che mia nonna si chiamava Alice. Strana coincidenza?” mi dice, osservandomi di sottecchi.

“Sembra che voglia giocare al gatto col topo. Solo che il topo sono io” rifletto, tentando di assumere un’aria rilassata.

“Davvero singolare!” rispondo.

“É nata agli albori del secolo passato. Mi parlava sempre della sua nonna. Nonna Maria e dell’infanzia di quella lontana trisavola”.

Non capisco cosa c’entrino questi ricordi della nonna con quello che stiamo trattando. Se nonna Alice è dei primi del novecento, nonna Maria sarà di metà ottocento. Ma che razza di collegamento può esserci con la mia storia? Scuoto il capo. Aspetto ma il libro non pare in arrivo. In compenso due sontuose granite sono poste sul tavolino attorno al quale sediamo.

“Nell’attesa gustiamoci queste granite”.

In effetti è strepitosa. Mai assaggiata una così buona.

Mentre con calma assaporo questa autentica delizia, arriva un’altra donna che porta con sé un qualcosa che assomiglia a un volume. Pare anziano e non in buono stato.

Mi sembra di riconoscerlo. Resto col cucchiaino pieno di granita sollevato a mezz’aria. La bocca è socchiusa per la sorpresa.

“Sì!” esclamo, passato il primo istante di sbigottimento.

La donna mi guarda. Non capisce il mio stupore. É incerta nel formulare la domanda.

“Sì! Mi sembra che sia quello che abbiamo comprato con Alice al mercatino delle pulci da quel vecchio, che nessuno degnava di uno sguardo!” affermo decisa.

“Quale? Il mercato del Papireto?”

“Non so. Era immenso. Da perdersi per le molte bancarelle”.

La proprietaria mi guarda, soppesando la risposta.

“Forse era una copia. Questo volume è un ricordo di famiglia. É il dono che mi fece nonna Alice prima di morire con l’impegno di consegnarlo a una erede femmina”.

“Quello che ho comprato un anno fa era polveroso e al suo interno c’era una chiave e una lettere incollata all’interno della copertina” dico con veemenza.

La donna apre il libro e osserva l’interno della copertina. Non apre bocca nulla ma il viso trasmette una sensazione di sorpresa. La guardo con curiosità. Eppure quel moto involontario dei muscoli facciali è eloquente. Credo di aver colto nel segno.

“Sarà stata una copia. Questo tomo è dei primi dell’ottocento. Era di proprietà di nonna Maria. Maria Ablesi” fa con calma, mentre lo sfoglia con attenzione.

Rimango a bocca aperta. Adesso sono io che mostro stupore. Quel nome mi è familiare. Era riportato in quella lettera incollata alla copertina. Ricordo con precisione anche la data della lettera 23 ottobre 1950. Maria Ablesi era nata cinque giorni prima. Qualcosa stona. Sono basita.

“Mi dica” faccio per riprendere il filo del discorso. “Questa nonna Maria… Ma forse è meglio parlare dell’istituto degli orfanelli, del quale mi aveva promesso di come ne aveva sentito parlare”.

“Ci sarei arrivata ma credo che debba parlare di nonna Maria”.

“Va bene. Ascolto il suo racconto senza interromperla” dico con la faccia seria.

“Nonna Maria è nata il 18 ottobre 1850. La madre viveva in contrada Terre Rosse, dove aveva la residenza il principe Lanza di Trabia e Branciforti, don Giuseppe. Non volle mai rivelare chi fosse il padre della piccola e dovette a malincuore affidarla all’Istituto degli orfanelli e delle orfanelle di via degli Scalini, quando aveva cinque giorni, il 23 dello stesso mese. Rimase lì per vent’anni, quando una misteriosa signora non le consegnò questo libro e la fece uscire, prima che per prassi dovesse prendere il velo”.

Sono a bocca aperta per lo stupore. Sono incredibili le analogie con la mia avventura di un anno prima. Le date, a parte il secolo, il nome, il libro assomigliavano come gocce d’acqua a quanto trovato all’interno del volume. Sono certa che esiste nella copertina un incavo che aveva contenuto una chiave. Questa, la ricordo bene, era piccola e sembrava vecchia.

Altrettanta sicurezza ho sui segni di una busta incollata sotto la chiave. Non oso chiederle se i miei dubbi sono certezze. Preferisco ascoltare in silenzio.

“Si sposò. Ebbe una figlia che la rese nonna con Alice. Nonna Alice aveva dieci anni, quando lei morì. Però prima di andarsene le raccontò la sua storia e le consegnò questo libro, che ora custodisco io. Ho un unico cruccio”.

“Quale se non sono indiscreta” faccio, fingendo curiosità. In realtà del suo cruccio non me ne importa molto.

Un lieve sorriso increspa la bocca della signora.

“Non ho eredi femmine alle quali possa trasferire questo volume”.

“Dunque è questo il suo tormento?” mi dico, storcendo le labbra.

Però percepisco che la proprietaria ha raccontato solo una parte della storia. Una mezza verità. Non può essere solo questo aggancio, vecchio di un secolo e mezzo, che collega l’Istituto degli orfani, scomparso da oltre settant’anni, con quella lontana parente. “No, non può essere solo quello. Sembra che conosca molto di più” ragiono, rimanendo in silenzio. Decido di non scoprire le mie carte. L’enigma è ancora coperto da un velo di mistero abbastanza spesso. Una cosa ho compreso che la soluzione si trova all’interno del volume. Ricordo bene cosa c’era scritto nella lettera.

Vi prego cercate mia figlia. Consegnatele questo messaggio, la chiave e il libro. Lei saprà trovare la pagina giusta per capire

Sento un bisogno impellente: alzarmi e uscire alla ricerca di altri indizi.

Devo andare in una biblioteca e fare qualche ricerca.

La granita nel frattempo è diventata acqua zuccherata.

0