Dal diario di uno scrittore

Mercoledì 28 febbraio 1973

Mi diede la mano dandomi una pacca sulla spalla.

“Hello, Mr. Longo!” e cominciò a parlare velocemente in inglese.

Lo guardai sbigottito. Non riuscivo a tenergli dietro tra lo slang americano e la velocità con la quale sparava frasi a raffica. La mia scarsa tenuta linguistica mi aveva mandato in tilt. «Game over» diceva la mia mente in overdose anglofona.

“Can you speak slow? I don’t understand that you say” dissi nel mio inglese elementare e scolastico, che faceva uno strano effetto anche a me stesso.

“Of course!” rispose ridendo.

«Ridi, Ridi! Ma non ci capisco un acca!» riflettei, mentre passavamo sotto gli occhi inorriditi del maître, che storceva il naso vedendo i nostri abbigliamenti.

Io ero vestito come un montanaro con pantaloni di fustagno marrone, delle orribili pedule ai piedi e un montgomery verde pisello ma lui non era meno eccentrico.

A ripensarci bene adesso mi viene da ridere e da inorridire allo stesso tempo, pensando cosa indossavo per entrare in un tempio dell’eleganza e dei buongustai. Però ero da scusare, perché, quando ricevetti il telegramma dal mio agente letterario, mi trovavo in uno sperduto paesino del Vorarlberg austriaco tra il Bodensee e Bolgenach per una full immersion della lingua tedesca con altre dieci persone. A dire il vero eravamo in uno sperduto casolare sulle rive del lago artificiale, immerso nella foresta con cumuli di neve alti fino alla finestra del primo piano.

«Milano 20 febbraio 1973 – Presentati martedì 27 alle ore 12 a Vienna in Kärntner Straße 51 – Gerstner Beletage im Palais Todesco. Ho fissato un incontro con Robert Altman per discutere della sceneggiatura del tuo manoscritto Non passava giorno. Roberto» era il testo del telegramma che aveva rischiato di giungere in ritardo.

Il romanzo non era ancora uscito, ricordo bene, ma il mio agente lo aveva piazzato a Hollywood. Mi sono sempre domandato come fosse riuscito nell’impresa di passarlo sottobanco a Robert Altman, al quale era piaciuto e ne aveva acquistato i diritti cinematografici. In effetti era un quesito del tutto inutile, perché nessuno era in grado di darmi una risposta convincente.

L’aspetto buffo era che il dattiloscritto era in italiano, quando lo affidai al mio agente ma quel diavolo di Roberto l’aveva fatto tradurre a mia insaputa e l’aveva trasmesso in America. Un giorno mi dovrà spiegare quale artificio ha usato per farlo leggere a questo famoso regista e produttore.

Da una corrispondenza con Anna, la sua segretaria, sembra che l’assistente del regista, dalla quale passavano tutti i testi per eventuali film, fosse una vecchia fiamma giovanile dell’agente. Sarà vero, mi sono chiesto più volte. Mi dissero che era un’italiana trapiantata in America da molti anni, che lo lesse nella versione originale. Sembrerebbe che lei avesse insistito moltissimo per la sua traduzione. Ma tutto questo restava avvolto nel mistero a parte il fatto concreto che effettivamente era finito tra le mani di Altman.

Come i reali avvenimenti si fossero svolti e quando fosse avvenuto il passaggio del plico cartaceo, non lo seppi mai con precisione, perché nessuno ebbe la bontà di dirmelo. Ricordo solo che firmai un contratto, scritto fitto fitto in inglese, nelle crocette che lui aveva segnato, prima di partire per il Vorarlberg senza pormi troppe domande al riguardo. In realtà non ne avevo di tempo, perché dopo due ore avevo il treno per Innsbruck e questo non avrebbe aspettato che io gli chiedessi cosa stavo firmando.

Altman si vantò quel giorno a Vienna di avere acquistato i diritti per una manciata di lenticchie secche. E tuttora gli credo visto che non ho visto un centesimo di dollaro di royalties. Solo il mio nome, piccolo piccolo, nei titoli di coda alla voce screenplay sotto quello in grande di Robert Altman.

Mi sono sempre domandato perché si fosse scomodato facendo un lungo viaggio da Los Angeles per incontrarmi. Ma forse voleva vedermi di persona o chissà per qualche altro misterioso motivo. Comunque lo vidi e gli parlai per un’intera giornata.

Il telegramma non arrivò il 20 o il 21 come capita di norma nel mondo civilizzato ma solamente lunedì 26, perché le strade erano impraticabili per la neve. Finii nel panico. Dovevo organizzare un viaggio che sapeva dell’avventuroso visto che l’area era sepolta sotto una coltre nevosa, caduta incessantemente da diversi giorni. In questa zona austriaca o non nevicava per niente oppure ne veniva troppa. In quel anno si verificò proprio la seconda sfortunata evenienza. In qualche modo dovevo raggiungere Innsbruck e da lì arrivare fino a Vienna, se volevo incontrare il famoso regista.

L’aspetto più indisponente della questione fu che non avevo un abbigliamento adatto al ristorante più in e vecchio di Vienna, come scoprì a posteriori. Quando partì prima di Natale per questa località sperduta tra i monti e i boschi del lembo più occidentale dell’Austria, mi avevano consigliato di portare solo abbigliamento adatto a un montanaro, perché il mondo civilizzato non distava molto in termini chilometrici ma era lontanissimo come realtà. Era un posto isolato, immerso nel bosco, perché nessuno delle dieci persone potesse usare la lingua italiana. Contatti zero col mondo, a parte il telefono quando funzionava. La posta arrivava se le strade lo consentivano. I giornali solo alla domenica sempre che le condizioni climatiche lo permettessero. Una vita da reclusi, sopratutto nel periodo invernale. E noi eravamo lì proprio in inverno.

Se non nevicava, la casa era a una mezz’ora di strada in macchina o un paio d’ore a piedi dal paese più vicino. Ma se la neve fioccava, serviva una slitta trainata dai cavalli, se questa non era troppo alta, e qualche ora di viaggio al caldo di una comoda coperta di lana grezza. Una slitta a motore era un lusso ed ecologicamente inquinante.

Dunque avevo meno di ventiquattro ore per arrivare a Vienna in orario per l’incontro. Con cuore in gola riuscì nell’impresa e mi presentai vestito in quel modo all’appuntamento. Neppure Altman indossava qualcosa all’altezza del ristorante. Un capello bianco a larga tesa, un paio di pantaloni senza piega dal colore indefinito, un giubbotto di antilope chiaro e una camicia verde sbottonata. Era accompagnato dall’assistente Susie, un’italo-americana, che traduceva a mio uso e consumo in uno strano e buffo italiano annacquato da termini americani quello che Altman diceva. Era quella che secondo informazioni di seconda mano ricevute aveva letto per prima il mio romanzo e aveva caldeggiato la sua traduzione. Avrà avuto circa dieci anni più di me e non era certamente il tipo di donna dei miei sogni.

Il regista aveva quasi cinquant’anni ma li portava bene. Alto, brizzolato con una barbetta alla Buffalo Bill ingrigita. Senza gli occhiali l’avrei scambiato per il mitico Kit Carson, il pard dell’altrettanto famoso Tex Willer.

Aveva vent’anni più di me e francamente non sapevo nemmeno che esistesse, salvo un recondito ricordo di un film che aveva sbancato Cannes qualche anno prima. Si chiamava M*A*S*H, ma frequentavo poco le sale cinematografiche e quindi era solo un vaghissimo cenno sperso tra altri cumuli di informazioni. Non avevo avuto tempo di documentarmi su di lui, perché allora non esisteva Google e nemmeno il personal computer ma solo quegli enormi scatoloni immersi nel gelo che venivamo chiamati calcolatori del tutto inadatti per estrarre delle notizie. In realtà al termine di quei sei mesi da recluso avrei raggiunto Monaco di Baviera per programmare quegli enormi armadi pieni di schede e luci. Ma non è di questo che vorrei parlarvi ma di quel pranzo memorabile.

Dunque entrammo noi tre che assomigliavamo più a spaventapasseri che eleganti ospiti del ristorante. Ci avevano riservato un tavolo d’angolo da dove si poteva dominare l’imponente sala coi soffitti decorati a stucchi, il lampadario di Murano al centro del secondo salone e le imponenti finestre arabescate da candide tende. Consegnato il montgomery all’inserviente rimasi con un maglione grigio e rosso da dove spuntava un’orribile camicia di flanella pesante a quadri rossi e blu.

Mi guardai intorno e mi vergognai come un ladro, colto con le mani nel sacco. Signore eleganti con abiti firmati accompagnati da uomini in giacca e cravatta dal taglio sartoriale. Avrei voluto sotterrarmi ma non potevo.

Nel salone si udiva un sommesso brusio, solo noi tenevamo il tono della voce alto, tanto che qualcuno cominciò a guardarci male. Il pranzo cominciò con qualche prelibatezza e un calice di vino bianco, mentre i camerieri impeccabili nelle loro divise bianche si muovevano con discrezione e in silenzio.

Mangiammo e chiacchierammo a lungo con Susie che faceva da interprete tra noi. Dopo qualche approccio maldestro col mio inglese piuttosto rudimentale riposi le velleità linguistiche e ripiegai sulla donna.

Discutemmo a lungo su alcune parti del romanzo che io avrei voluto includere ma che lui fu categorico nell’escluderle. Avevamo punti di vista differenti ma era il normale gioco delle parti. Io, come autore, cercavo di spiegare il mio punto di vista espresso con le parole della protagonista, Laura, ma lui mi disse che quella parte sarebbe stata solo un preambolo fugace. Era più interessato alla storia di Marco con Agnese, che presentava aspetti più interessanti. Ero disarmato. Il sceneggiatore era lui, io solo l’umile autore.

Ci lasciammo con una vigorosa stretta di mano, dicendomi che questo incontro era stato proficui per le idee che erano sorte e i chiarimenti ricevuti.

“Goodbye, Mr. Longo”.

Non lo sentì più, forse si era pentito dell’acquisto dei diritti. Solo qualche anno dopo scoprì che il film era stato prodotto ma era stato un flop annunciato. Stravolto l’impianto del romanzo, ambientato in una cittadina del Midwest americano con personaggi del tutto dissimili da quelli che avevo ideato, non era decollato.

A dire il vero nemmeno il romanzo che rimase nel mio cassetto non pubblicato ebbe una gran vita. Roberto venne a batter cassa qualche mese dopo ma risposi picche. Lui aveva pescato un po’ di denaro nella vendita dei diritti, mentre io non avevo visto nulla.

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25 risposte a “Dal diario di uno scrittore”

  1. Anche secondo me Altman si sarebbe “scomodato”.
    Ho letto volentieri questo racconto, in realtà così amaro da sembrare davvero una pagina di diario. Eh sì, un seguito ci starebbe proprio bene!
    Baci

  2. Davvero bello, realistico e interessante!
    Potrebbe essere il prologo di un romanzo che contiene il romanzo in questione… finalmente edito.

      1. Sì, dicevo che sarebbe bello se questo post fosse il prologo di un romanzo, intitolato (se ho ben capito) “Non passava giorno”: nel prologo si raccontano le vicende grazie alle quali il romanzo stesso (che poi segue nei capitoli successivi) ha avuto una trasposizione cinematografica. Un gioco di matrioske.

  3. Penso che quando una persona scrive un racconto inserisca frammenti di situazioni vissute sulla propria pelle, magari in seguito rielaborate… Si sente l’amarezza per l’essersi fidati e l’orgoglio di chi sa di essere stato dalla parte della ragione (è orgoglio o consolazione?).
    Sempre piacevole leggerti, anche dopo molto tempo, complimenti, continua!
    Un abbraccio fortissimo,
    Rosalba (flash6155)

    1. Non sai che piacere leggere le tue parole dopo tanto tempo. Mi sono commosso, in tutta sincerità, quando ho letto il tuo nick! Certamente sono riaffiorati molti pensieri, molti piacevoli ricordi.
      Come va? Mi mancano molto le nostre conversazioni, gli scambi di opinioni, i tuoi post.
      Si quando si scrive, qualche frammento personale esce. In questo racconto ho descritto l’effettiva esperienza della full immersion della lingua. Il resto è pura fantasia.
      Un grandisismo abbraccio e a risentirci a presto
      Gian Paolo

  4. Caro Gian Paolo, ultimamente faccio davvero fatica a leggere post un po’ lunghi
    Allora, invece di commentare tanto per, preferisco essere sincera
    Un momento di svogliatezza mentale e …
    Ti abbraccio
    Mistral

  5. Molto interessante e realistico … chiedo quanto di questa storia ti somiglia come scrittore, forse ci sono strati della vostra anima in questo

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