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Angela Mary Fairbanks stava innanzi allo specchio nella camera d’angolo della casa vittoriana. Per tutti era solo familiarmente Angie e aveva trentasei anni portati con orgoglio. Non aveva conosciuto l’amore e si struggeva perché il tempo passava inesorabile. Ogni giorno era una giornata persa senza che lei riuscisse a metterci un  freno.
Aveva una figura minuta con una cascata di capelli rossi, che tradivano le origini irlandesi, e che facevano da contorno al viso spigoloso e risoluto come il carattere. Suo padre Don diceva che assomigliava tutto a nonno Connor, aspro e scorbutico, e a nonna Caitlin, dalla chioma riccioluta di rosso fiammante e dal viso latteo.
“Il nonno non lo ricordo, perché ero troppo piccola quando è morto, la nonna invece l’ho ben presente, seduta orgogliosamente sulla sedia a dondolo, quando andavamo a Baltimora per Natale a trovarla. Era una donna che non concedeva nulla: mai un sorriso o una carezza. Indossava sempre lo stesso vestito: un abito nero col corsetto di brocade e maniche a gigot bianche come un particolare della gonna rigida e rotonda. In testa portava una cuffietta di pizzo d’Irlanda a volte bianca, a volte nera. Quando arrivavo per andarla a salutarla, tremavo dal terrore per quel viso impassibile. Poi sono cresciuta e ho imparato che dietro quella maschera si celava una donna fragile che stava lentamente spegnendosi”.
Ricordava che guidava con mano ferma tutto il clan salvo suo padre, che faticava a non litigare durante quella visita natalizia che per fortuna durava pochi giorni. Per lei il viaggio a Baltimora via terra era un supplizio, perché la baia nella parte più settentrionale era generalmente gelata ed era quasi impossibile viaggiare per nave. Abituata ai silenzi di Holland Island rotti solo dal gracchiare dei pellicani e dei gabbiani, si sentiva persa nella rumorosa Baltimora dalle costruzioni in legno e dal traffico di calessi e cavalli.
Suo padre le aveva raccontato che i nonni erano arrivati da Dublino nel 1849 dopo una delle tante carestie che aveva colpito l’Irlanda, e si erano stabiliti nel Maryland a Baltimora con lui e zia Ethna. La nonna ben presto mutò il suo nome in Kate, mentre il nonno non rinunciò mai al proprio nome, orgogliosamente irlandese. Arrivati negli States aprirono un piccolo negozio di alimentari che ben presto prosperò, dando loro una certa agiatezza.
Suo padre aveva quindici anni al momento del loro arrivo in America, mentre la zia era più giovane di cinque anni. Però lo spirito inquieto lo rendeva irrequieto come il vento, perché qualsiasi posto gli andava stretto. A vent’anni salutò Baltimora, genitori e sorella e cominciò a girare lungo le frastagliate coste del Chesapeake Bay vivendo di mille mestieri, finché un giorno non s’innamorò di una indiana algonchina, Winona, e si stabilì su Holland Island nel 1874, dove era nata lei dalla loro unione.
Angie si chiedeva perché gli tornassero alla mente questi ricordi ormai sbiaditi, che aveva ascoltato tante volte, troppe volte, mentre si sistemava i capelli ribelli. Forse aveva visto riflesso nello specchio nonna Kate, che ormai è morta da una decina d’anni.
Dopo il funerale non era più andata a Baltimora a trovare i parenti, dai quali ogni tanto riceveva una lettera. Non le piaceva scrivere e faticava a rispondere per conto del padre che era invecchiato e con problemi di vista.
Winona, che chiamavano Wina, se era andata silenziosamente qualche anno prima, esattamente come era vissuta. Non c’era mai stato molto feeling tra loro tanto che il dialogo era ridotto all’osso. Durante le visite a Baltimora Wina restava a Holland Island, aspettando il loro rientro. Non aveva mai voluto conoscere nonna Kate e zia Ethna perché diceva che non era la sua famiglia.
“Non ho mai capito quella affermazione. Era o non era la moglie di mio padre e mia madre? A volte ho pensato che la sua condizione di algonchina la inducesse a una sorta di complesso di inferiorità nei confronti dei familiari di mio padre. Aveva i capelli scuri raccolti dietro la nuca e il viso molto diverso dai nostri. Chiaramente mostrava le sue origini. Non ricordo mai che abbia parlato dei suoi genitori o di fratelli o sorelle. Mi ha dato sempre l’impressione che fosse sola al mondo. Eppure so per certo che non corrisponde a verità. Quando lui ha fatto costruire questa grande casa, del tutto sproporzionata alle nostre esigenze, lei non ha mostrato il minimo entusiasmo. Vivere qui o altrove le era indifferente. Però devo ammettere che adorava mio padre che la ricambiava in misura uguale o superiore. Wina avrebbe attraversato una strada cosparsa di brace ardente per lui. Eppure con me non c’era il medesimo affetto. L’ho sempre percepita distante e fredda. Le motivazioni non le ho mai capite. Quando è morta, mio padre si è lasciato travolgere dall’oblio. Non è passato molto tempo che lui la raggiungesse. Ora riposano nel piccolo cimitero dietro la chiesa. Mi sento sola in questa immensa casa che sto prendendo in odio”.
Angie continuava a specchiarsi senza progredire nei preparativi. Stasera con le altre ragazze di Holland Island avrebbe attraversato quel breve braccio di mare che la separavano dalla terraferma, perché li attendeva la festa del raccolto secondo le tradizioni inglesi. Era la festa di Mabon, importata dai coloni inglesi che si erano stabiliti nel Maryland circa un secolo prima. Era un appuntamento fisso nella speranza di trovare un pretendente, che non si trovava. Erano rozzi contadini, che arrivavano già brilli e crollavano dopo poco a terra ubriachi. Però se non andava a queste feste difficilmente avrebbe potuto trovare un uomo da sposare.
Quel viaggio in barca quando ormai la luce se ne era andata non le piaceva molto, né molto di più il ritorno durante la notte stanca e assonnata.
Quest’anno avevano deciso di fermarsi durante la notte e tornare con la luce il mattino seguente.
“Mi devo sbrigare, perché tra non molto vengono a bussare al portone e devo essere pronta con la borsa da viaggio per la notte”.
Si pettinò velocemente, indossò il vestito di raso nero e con la borsa in mano aspettò l’arrivo chiassoso delle amiche, anche loro dolorosamente zitelle.
Si sistemò sulla prua dell’imbarcazione vicino alla lanterna che illuminava debolmente le acque scure del Chesapeak Bay. Udiva il lento sciabordio della prua che avanzava con lentezza in una notte fredda e umida, mentre leggeri vapori salivano verso l’alto.
Per fortuna il mare era calmo, solo un leggero moto ondoso faceva dondolare la punta e la lanterna. Il viaggio le sembrava interminabile e non ascoltava le parole concitate delle amiche che gioiosamente speravano in una festa piena d’imprevisti.
Angie, stretta nella mantella pesante, rifletteva e ricordava altri viaggi che non erano stati piacevoli come questo.
In lontananza vide i fuochi della festa e si rianimò appena un poco.

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16 risposte a “!910”

  1. Dai Orso! Mi piace! Ce la puoi fare! E devi farcela! E poi chissà che anch'io non mi decida a seguire il tuo esempio: da una vita sto cercando di scrivere un racconto così.. molto stile Via Col Vento! Resto in ansiosa attesa! Baci Baci

  2. Misia, è facile a dire "c'è la fai", il difficile è scrivere qualcosa di sensato in un ambiente che non conosco, se non sommariamente attraverso le ricerche, peraltro per nulla semplici.
    L'idea del prossimo c'è, sperando di trovare un po' di materiale per integrare la storia. Poi si vedrà.
    Un romanzo tipo Via col Vento? No, non è questa l'idea, ma qualcosa di diverso.
    Grazie per l'incoraggiamento.
    Un abbraccio

  3. Laguardiandelsegreto, hai ragione quando dici che per scrivere si deve conoscere.
    La conoscenza come deve essere? Diretta o indiretta.
    La prima è sicuramente la strada più semplice, non necessariamente la più facile.
    La seconda è più impervia e ricca di insidie, ma la conoscenza si può acquisire attraverso la ricerca, le letture, l'esame degli eventi.
    Questa volta ho scelto una strada piena di insidie col rischio di cadere in qualche trabocchetto.
    Grazie per l'incoraggiamento.
    Un caro saluto.

  4. Frutta, leggendo i vostri commenti mi sento in difficoltà e mi tremano le mani. Quando l'ho scritto, non riuscivo a trovare il capo del filo logico sul quale innestare il racconto, che in qualche modo ho presente nella mente, ma fatico ad esprimere in concreto.
    Un abbraccio

  5. Caro Newwhite,
    Anneheche ha ragione. Hai superato te stesso con questa tua nuova avventura. Hai una capacità descrittiva incantevole, che in questo caso si esprime al meglio proprio con una vicenda a noi lontana. Posso immaginarmi le ore che hai speso per recuperare le fonti. A mio avviso ne è valsa la pena.
    Un caro saluto e a presto, ciao!

  6. La citazione del commento numero 5 è di Stephen King. In linea di massima, sono d'accordo… però esistono anche le eccezioni. Salgari non si mosse mai da Verona 🙂

  7. Molto bello davvero questo capitolo, l'atmosfera di complicità che si crea con il lettore, fa mettere comodi in poltrona pronti ad  apprezzare anche il seguito…
    complimenti e un abbraccio

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