La parte esteriore cominciò a sbuffare, perché quella malinconica non prestava attenzione alla strada. Stava dicendo che, se non fosse stato per lui, ora sarebbero finiti in un bel pasticcio.
La via era ingombra di persone e detriti, come una discarica dove volteggiavano gabbiani grigi che stridevano felici per il lauto pasto che li aspettava.
Si era fermato appena in tempo per non finire nel caos.
Luca osservò distratto quel disastro, perché la mente continuava a volteggiare a cinquanta anni prima, quando aveva conosciuto Ersilia, ma si sentiva riarso dentro, perché la fiumara della memoria era un letto essiccato dal sole di agosto cosparso di sassi levigati dal tempo.
Udì dei clacson suonare impazienti, ma lui non aveva voglia di muoversi o meglio pensava di indugiare un po’ lì. Si mosse cautamente mentre un vigile nervoso gli faceva segno di andare più svelto agitando la mano destra con frenesia.
Trovò un riparo sotto gli alberi, mentre si domandava cosa stava facendo il quel posto che non conosceva, diverso da tutti quelli conosciuti finora.
“Non ha importanza” disse all’irrequieta personalità esteriore, che premeva per chiedere, per sapere, per decidere.
“Cosa devo decidere” ripeté stanco ed annoiato, mentre tentava di insinuarsi nella terra arida alla ricerca del suo fiume scomparso.
Guardò l’ora e ammise che era venuto il momento di fare una sosta, di vedere qualche faccia non più di sfuggita, ma fissa e parlante.
C’era all’ombra dei tigli un dehor, che sembrava ammiccare con l’occhio destro, mentre attraversava la strada deserta.
Si soffermò un attimo per capire dove era finito seguendo l’estro del momento, ma tutto sembrava congiurare per nascondere il luogo. Non c’erano persone, né cartelli, né indicazioni alcuna, la toponomastica della strada era parzialmente coperta dal glicine fiorito che si inerpicava sinuoso ed intrigante sull’angolo.
“C…. Ma…..i” era il poco che si leggeva, mentre immediatamente la parte nascosta cominciò a fantasticare sulle lettere celate.
“Ma non immaginare quello che non sai!” rimbeccò pronta l’alter ego manifesto, che rideva frustrato sulla fantasia della metà malinconica.
“Avete finito di beccarvi?” disse Luca, mentre si accomodava sulla sedia nel dehor, aspettando l’arrivo di qualcuno che tardava ad arrivare.
Erano sempre quei giorni di beata incoscienza che occupavano lo spazio e il tempo di Luca, perché era stato il primo e grande amore, che poi era diventato molti anni dopo realtà.
Prima c’era stata Gloria, una ragazzina magra come uno stecchino, che per anni era stata la compagna di giochi e di avventure, inseparabile fino a quando a tredici anni non aveva cambiato casa. I primi baci furtivi, le prime carezze audaci erano state strappati nella buia penombra dello stretto corridoio che dal cavedio interno portava nella corte.
I ricordi erano confusi, offuscati da una coltre di polvere, che rendevano incerti contorni. Eppure erano lì, pronti a balzare fuori, ma lui non riusciva a vederli, a rinfrescare la memoria. Stavano in un limbo di indeterminatezza, di non vuoto, di non pieno senza tempo e senza spazio.
Provò a concentrarsi, ma erano ricacciati indietro da qualcosa più forte della sua volontà.
“Signore! Signore!” sentiva in lontananza una voce gentile fuori campo “Desidera ordinare qualcosa?”.
La parte malinconica strizzò gli occhi per mettere a fuoco l’immagine di una ragazza giovane coi capelli raccolti sulla testa, mentre quella fasulla ghignava per la pessima figura.
“Solo io riesco a far squillare il dring, dring del campanello d’allarme” diceva beffarda e velenosa all’area sognante e romantica di Luca.
“Un panino al prosciutto crudo, una bottiglietta d’acqua naturale fresca e un calice di vino bianco” ordinava alla ragazza dopo avere ascoltato la lunga litania del mangiare disponibile.
L’osservò che ancheggiante tornava al riparo del bancone, mentre come per incanto lei aveva rotto le catene dell’oblio.
Adesso i ricordi tornavano gorgoglianti alla luce del sole, riemergendo nella pozza limpida e poco profonda della mente.
“Hai visto menagramo” diceva il malinconico al fasullo “I ricordi ci sono e sono limpidi”.
Ed erano lì, sul tavolo, evidenti e chiari, Era sufficiente chiudere gli occhi per osservare lo scorrere della pellicola in bianco e nero di molti anni fa.
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C’è un momento nella vita in cui il passato riaffiora misteriosamente… ogni cosa diventa un richiamo… è come se i ricordi rimasti ancorati per anni, finalmente liberi, tornino a galleggiare in superficie…
Proust docet…
con i tuoi racconti si ha sempre voglia di continuare a leggere…
un abbraccio